segni che ne mostrino la col pevolezza o Pinnocenza. L'elemento
non conoscibile diret tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o
rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure
le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è
abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio
di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva
compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo
vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede
il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo
accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l,
18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse)
per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una
abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr.
it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata
dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così
Cornificio, con il suo ti pico procedimento diairetico, suddivide lo stato
congettura le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3):
probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro cedimento
indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio
(conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una terminologia in parte
familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la tina
di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i
contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM»
205 no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il
probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il
crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale
turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non rimane molto
deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla
caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu
satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato avaro,
se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito
con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua
ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA
LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da
un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per
gonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose di
veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è
stato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)
ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione
al rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che si
instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che
risale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca ad
Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le
reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di
consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della
terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)
che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a
esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia
arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, si
sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non
tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che non
controllabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,
in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di
colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe
rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensore
può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è
turbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;
d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal
genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da
presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento
"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabile
causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio
- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -
praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La
classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento
indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari
li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella
tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che
consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e
possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci
sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi
mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è
quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal
comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo
rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente
la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il
se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -
consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli
ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non
saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente
alla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signa
innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non
priva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in un
percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .
Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando propone
di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo
proposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezza
come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo
piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere
ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che
corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,
a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di
altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,
ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran
numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e
affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima
persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi,
il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse
tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e
di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato
tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De
inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con densa
l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi
naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera
210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in .
un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se
non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra
una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza
necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non
necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo
necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato diversamente da come
viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con
un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è
luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi
di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione
inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l.
86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini to:
"Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla
comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia
esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone
mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello
doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente
all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che
Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La
categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non
necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al
comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in
base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il
signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare:
"Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica
(significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può
essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e
tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ,
I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva:
"Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete
udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai
segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il
verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli
argomenti intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di
cau sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri
sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e
generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei
quali 214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte
degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De
div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con nessioni passate, si
crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare
così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato
sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo
di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II,
100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo
del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una
parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento
futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i
segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi
nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale,
mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia
veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come
se gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come
degli antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri
rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone
tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la
tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In
entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi;
ma, mentre le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia
che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di
uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è
motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del
regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica
divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per
questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita
Cicerone, era divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro
Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera
migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea mente registra il
processo di cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua
Institutio oratoria (ca. 93-95 d.C.) tratta un programma completo del ciclo
educativo del perfetto orato re, in cui la competenza semiotica ha una
posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di
Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio tica; ma nella
lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente dedicata ai segni,
come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso
di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di
retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è saldamente inquadrata
all'interno del l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni
in fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle 220 9.
RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far
assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro bationes
inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e
vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne
mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano
probstiones (prove) i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi)
rumores (voce pubblica) tormenta , quaesita ( inter rogatorio sotto tortura)
tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia
(testimonianze) a rt i f i c i s l e s formale Va pure detto che la
retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche
uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in
termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti liano non si
trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy 1969). Così tutti e tre i
tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un
reticolo di relazioni lo giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del
rappor to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento
signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum
(esempio) ed epistemologico 9.3 QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere
una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il
concludere dalPesse re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È
giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa
che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno");
(iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q)
(''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere
qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi
non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa
griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei
conse guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di
rendere esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla tradizione della
retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti
anche molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito,
si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i
trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento,
Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di
calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi bilità di
acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo
proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in qualche
modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva
distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni deboli. Gli
stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il
problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di un'udienza forense,
a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica,
ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua sivo' ". A
proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia no fa una precisazione
preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in
quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco
gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre,
se esi rimandano a un significato inequi- 222 9. RETORICA LATINA
vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in vece, essi sono
ambigui, non sono delle prove ma necessita no essi stessi di prove (lnst. or.,
V, 9, l). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut to in
necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono
quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt"
(lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera
necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria
della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero
legati inscindibilmente ai conseguen ti. L'informazione che se ne ricava è
sicura e incontroverti bile . La furia classificatoria, tipica del mondo
antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in
base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato
("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente
(''Se soffia un forte vento sul ma re, si formano su di esso le onde"),
nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V,
9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti po di
classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono
relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione
di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira,
allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità
non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori
to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà",
"Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito
dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia no sembra
sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che
per Aristotele (An. Pr. , 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè
dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa". 9. 3 QUINTllANO
9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette
in corri spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei
fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40),
potendo essere altrettanto convincen ti di un segno necessario, dipendono dai
codici e dalle sce neggiature che una certa comunità registra come
"buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al
l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con seguente:
firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se
sono genitori, amano i propri fi gli"; propensius (molto probabile), come
"Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno
successivo"; non re pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante
con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è
stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un
grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos
sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran
numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una
tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali
Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or., V, 9, 8) Quintiliano parla del
signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e
vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga
considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni
necessari e verisimiglianze), come del resto av veniva nella fonte
aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda
ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa
Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium
e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a
stabilire un paral- 224 9. RETORICA LATINA lelo con i vestigia facti
delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva lo stesso
esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi
materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili
sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si
comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei
principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la
conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone 1969:
95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia na da quella
stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una
lunga tradizione di origine so prattutto medica e mantica, consideravano
propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il
fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece,
per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni
non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc.,
ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale
segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le
parole", De Magistro, 4.9). 10. 1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227
In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e nunciato il punto di
congiunzione tra il significante (semaf non) e il significato (semain6menon),
elemento che comun que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve
ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum
(''parola"), l'elemento in cui significante e signifi cato si fondono, e
considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver
sufficientemente assoda to che le parole [verba] non sono nient'altro che
segni [si gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si
gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare
che cosa significhino le singole paro le", De Mag., 7.19). In terzo
luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due
caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna
sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria
del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si gnificati si
trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore)
(Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la
stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi della nozione
stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa
nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche.
Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere
in corrispondenza con i moderni con cetti di significato, significante e
referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus)
della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene
pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal
punto di vista della trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito
come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo
luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita
come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op
pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile
ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox
articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista
del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi cazione.
Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in
corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i)
può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente
(fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione
metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire
che la parola, intesa co me combinazione del significante e del significato,
abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso
denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È
precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ),
costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella
del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di
léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por tatore
di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici antichi.
10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis;
ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici, bensì quello
che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che
definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le
lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua
particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di
un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo
posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so
completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato
alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima
assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In
particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la
parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per
ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore".
E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in
quanto tale alla percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla
percezione intellet tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di
equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo l'accento sulla parola,
anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e
cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad
avere una concezione semiotica del linguag gio; per Platone, infatti, il nome
era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero
dell'es senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il
rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione
che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come
una rela zione di significazione: il nomt "significa" una cosa
(nozio- 230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno
di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della
parola come segno, si producono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti
allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche
precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le espressioni linguistiche e
i loro conte nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La
ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri guardava la
possibilità di lavorare direttamente sul linguag gio, in sostituzione degli
oggetti della realtà, dato che il lin guaggio veniva concepito come un sistema
di rappresenta zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario,
il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin via era stato concepito come una
relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso
fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha
suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e
quella linguistica possono essere illustra ti da uno schema in cui il livello
implicazionale si regge su quello equazionale: onIE=>c
__________________ m_E:! c dove E indica "espressione", C
"contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente
a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello
della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso
mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u
nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile
(significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello ii).
10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione
delle prospet tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me
sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro varsi a disagio
all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema
troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata
per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano,
a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti
l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero
continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del
resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere
peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di
essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun
que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema
della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e
sgg.). Fintanto ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce
pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente
responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce
un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole
sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di
cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione sernio- 232 10. AGOSTINO
tica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso,
senza ulteriori mediazioni, alla conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il
problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione
rispetto alla questione se il linguag gio fornisca o meno , di per se stesso ,
informazioni sulle co se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione
Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici
nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il
figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio:
(i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo rare), sia
propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative
e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa,
sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti,
che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro
possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però,
Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva.
Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme di segni,
egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo caso è quello in
cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al
destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di
fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino,
dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non
permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno 10.5
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di
un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino
conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo
che è necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter
dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa
sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza
chiaramente platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di
marca ugual mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata
maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per
un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De
Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni
che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso
delle cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime
Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza
deriva dalla rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga
ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche
con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al
linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del
segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di
riferi mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo
, ci spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione
del verbo inte riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia
per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove
problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema
dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella
profondità dell'ani mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli
uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10.
AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che
si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte
Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non
appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un
segno quan do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio ne dei
destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una
parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso;
dall'altra esso è determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli
oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a
Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si
trovano qui gli embrioni del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà
nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia
rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia na, che è
individuabile anche nello schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42):
oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore -
esteriore - esteriore pensato proferito sa pere 10.6 Le
classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2),
che se la semiologia agostiniana presenta un aspet to "teologico",
connesso al problema del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben
individuato e autonomo aspet to laico, che prende in considerazione i
caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto
le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto
nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C., l . 2. 3. 4. 5. secondo il
modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE CLASSffiCAZIONI 235 con
aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977:
43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino
sottopone la nozione di se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino
giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene
ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del
tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una
classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile
ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema arboriforme
(Ber nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91
e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu
sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser vare che se
venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda
volta, alcune categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è
Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge
nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la
stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle
parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES
SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res
sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale
(voce articolata) differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non
significanti nome in senso particolare non verbale (gesti.
insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex,
nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione
metalinguistìca) res intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle ..
AES" 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e
"signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per
quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia,
Agostino non concepisce tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale
e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as
sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella
dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente
semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res)
quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per
esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2).
Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi,
aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare
per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale
Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo
immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste
tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e
godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran
sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le
cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se
stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome
per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso
segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche
quest'ultime possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così
articolato i rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione
di segno nel De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il segno è una cosa (res)
che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa
venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO
10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso
di ricostrui re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la
dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei
testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un
passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di
un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti
quei se gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare
attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle
attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al
carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante
primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione
fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce
zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella
effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che
"tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò
che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito,
pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i
segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel li, fondamentalmente
estetici, emessi dagli strumenti musi cali, come il flauto e la cetra, o anche
quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente,
ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio ne dominante,
anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il
primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di
essi vuole ester nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni
percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i
movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegne militari, le
lettere. 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono
esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che
rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti ,
Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben
precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto
il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa
data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura
di que sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov
(1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto
semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni
intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione,
possono essere messi in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della
combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali,
ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici
che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei
punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla
ricerca dei modi in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale
indagine è condotta soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una
conce zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi
tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato
di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri
segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito
puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa
concezione del significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui
viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa
Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana
si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello
"istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un
esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso
virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.
, II, 3). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto
si cerca il significato. l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA 241 L'indagine comincia
da l si l , di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay (1974: tr. it. 220) risulta che alcuni
vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un
segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi
si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo
con segni") e l'ag gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime
l'idea di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si
opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la
divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il
modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla
medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi
citati sono utilizzate, nel corso del l'intero testo, traduzioni correnti,
talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo
(1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses
nor hides his thought, l but indica tes it through signs". s Infatti la
divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente
legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul tanea e non ha
bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo mini egli concede,
invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e
incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia
dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza
stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo gia di
mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista
dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili
procedi menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle
sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano
perdere il carattere di ca sualità ed essere sottoposti a un processo di
istituzionalizzazione, come av veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si
interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una
quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei
piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli
oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina
generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi basilari sono
Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo",
"vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti
par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni
da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b
32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono
note attraverso un cer to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti
principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell ( 1 956) e Fontenrose (
1 978) . 10 Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma,
come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo NOTE
245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia
la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo
senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi,
pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una
galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale
omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti va
(metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente
riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco ( 1 984). Pur
troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur
avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per
la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si gnificante
e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi stenti ecc.)
che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem brato
appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il
meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla
Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa cerdotessa di
Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se guendo l'ordine
sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo glie al vento, che
scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti
incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile
l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi
antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed
esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco,
quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome
suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è
sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue
frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli 1 975 : 1 8) .
1 1 Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità"
nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di
a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune
al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne
(1967, tr. it. 99). CAPITOLO 3. 1 D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus
Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa
sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione
almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a
un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione
filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo
studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo
svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati
in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici
della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire
convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi
ri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti
autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460
e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà
del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4
Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967:
78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca
non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni
ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi
delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita
una distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel
passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis,
cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami
(1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si
deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai
verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ",
anziché con un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate
avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr.
Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo (7 1 e) e a1la diminuzione dei turbamenti
nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di
vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco
(1975: 295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente". 16 Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e
Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18
Sull'abduzione si vedano Thagard (1978); Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni
(1983); Bonfantini (1985); Peirce (1984); Eco (1984). 19 Di Benedetto (1986) ha
messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi
di presentazione della malattia nella medi cina greca e quelli dei trattati
mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami (1983). 2° Cfr.
Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte ( 1
986) . CAPITOLO 4. 1 Cfr. Hjelmslev (1943). CAPITOLO 5. 1 Cfr. Arist., An. Pr.,
Il, 70 a-b; Rhet., 1, 1357 a-b. 2 Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3
Cfr.Arist.,Deint.,16a;An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare
(1981 : 161). s Cfr. Eco (1984: 6-7; 1987: 75). 6 Cfr. Heinimann (1945). 7 Cfr.
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco (1987). 8 Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet., I, 1357 b, 4). 1 1 Lo stesso punto di
vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della
Retorica (l, 1357 b, 16-18). 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo
tipo di segno, Aristote le così commenta l'esempio dato negli Analitici;
"D'altra parte il sillogi smo che si sviluppa attraverso la figura
intermedia risulterà sempre confu tabile (ljsimos), senza eccezione. In
realtà, quando i termini si comporta no come si è detto sopra, non si
costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se
inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che
questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1
"(Dei segni) quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un
nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni
da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la
prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione
enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie ne dimostrata
e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar ('prova') e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet. , l , 1357 b, 4-10). Si
deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di
stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di
questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le
Blond (1939, ried. 1973, 241, n.). 14 Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!.
Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. CAPITOLO 6. 1 È del resto sulla base
delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su
certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che
viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci
atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose
determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono
il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci
(1965 e 1966); Sandbach (1971 a, e 1971 b); il capitolo "The crite rion
of truth" di Rist (1969). 2 Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. , VII I ,
69-70. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long (1971 a: 83). 7 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9
Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che,
come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra
il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,
Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo propo sito Mates (1953: 11-26). 63. 1° Cfr.
Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle
parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di
intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier (1909:
114-125). 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di
verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo
nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate
sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità,
cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17
Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda,
a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone,
Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno"
(endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs
16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli
animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli stoici)
dicono che l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del discorso
interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze
pronunciano suoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62).
trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale
(1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la
dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa- 250 NOTE re, un
segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con
traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp.
Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione
verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo
relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del
carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando
"medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi di un
ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale
interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempi
di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico
del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248;
Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp.
Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi derazione solo i primi
tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola
megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math.,
VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo,
che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di
Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che
affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo rica. "2 Cfr.
Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi
ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " =
" ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.
Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli
(1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402)
osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le
médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de
prophète, un de vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe".
46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv.
Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde
anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è
considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il testo di
Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile
nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo
quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo
capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo
tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3
Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat.,
XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14)
sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche
nella Ep. Hdt. , 37-38. Cfr. Diog.
Laert., Vitae, X, 34. 6 Cfr. Epic., Ep. Pyth., 86-87. 7 Cfr. Epic., Ep. Hdt.,
82. 8 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 9 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 9.
1° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 32. 11 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 12 Cfr.
Epic., Ep. Hdt., 46. 13 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt. ,
38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da
esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro,
avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. ,
VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della
"non incompa tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella
teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog.
Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut.,
Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983)
che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli
in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di
Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica
epicurea un livello spe- 252 NOTE cifico del "significato" in
termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte
si discosta da quello di Arrighetti (1960: 66-67). 24 Come veniva evitato, nel
Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. 2Cfr. capitolo relativo
a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley
(1973: 20). CAPITOLO 8. 1 La data di composizione del trattato, che è
controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il
titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura
di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo
a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy ( 1978: 1 1-I4). 3
Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle
critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del
l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen za
empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia
degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione,
che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma,
con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand
1883; Deledalle 1984.
Cfr.Phil.,Designis,coll.VIII,32-IX,3=cap.13).Ilriferimentobi
bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima
la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero
del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy
(1978). 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta
il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII,
12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I,
12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del
resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla
possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale
sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella
stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni:
"Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa denota
semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello
stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che
non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona
non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12
Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. 13 Cfr. col.
II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8=cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap.
6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni
stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp.
23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18
Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=cap. 20. 40
Cfr.coli.XX,32-XXI,3=cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984:
130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 =
cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47.
XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di
"regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla
"sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8). 253 254 NOTE CAPITOLO
10. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio;
a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera
l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello
dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che corrisponde
alla nozione ampia di "parola", co me "segno di ciascuna cosa
che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap.
V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e
significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De
dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi
ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e
ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La
dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
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la semiotica di Cicerone. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Contri: l’implicatura
conversazionale del Napoleone di Hegel – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano
di Tramigna). Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at
Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto
sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But
Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting
thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on
‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni,
elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le
incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione
hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo
hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia
della storia che denomina “storiosofia”. Studia a Verona. Si laureò a
Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina
della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in
contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica
ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica
con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di
non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. Contrì definì la
posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”.
La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente
tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Desiré
Mercier e da Morice De Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le
dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna.
Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze
naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora
presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di
Contri. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista
quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto
con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con
relazioni a numerosi congressi di cui Contri diede resoconto sulla
rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i
primi Saggi del Contri sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera
definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa
attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il
Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La Crociata
Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per
promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di
Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi
hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della
gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del
Contri Dallo storicismo alla storiosofia.
Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Fu
discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la
situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non
teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che
cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il
divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono
molteplici fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger
poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di
un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni.
In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere:
la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo Contri, scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di
pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso
acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia
zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una
realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura
del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può
pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e
comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito
dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion
sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il
ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza
via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza
del sufficiente ad esistere, che è Dio." Secondo Peretti la
fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.
L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia
zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente,
come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di
ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva
dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di
Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in
altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia
i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione)
come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta
Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e
sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha
messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che
sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno
svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma
diviene eternamente in sé e per sé. Contri resa evidente questa impostazione,
anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto
metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo
dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre
non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro,
in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed
ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo
gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito,
che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che
l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale
trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la
trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca
relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono
in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo,
superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di
grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano
la sintesi equilibratrice. La storiosofia rappresenta uno sviluppo del
metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché
esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico,
non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia
europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Opere:
“Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia”
(Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il
pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop.
tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La
filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini);
“L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier,
Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane:
riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e
archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il
segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso
del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il
segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel,
Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista
rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico
nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario
dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione
speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità
di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le
concezioni moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e
religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo
tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il
sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”;
noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica
hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri
tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE
ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI, I QUALI CELEBRANO COTANTO
LA SINGOLARITÀ DI BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati
dalla Storia dei Secoli. ]N"on è del mio proposito il qui
premet- tere alle azioni di NAPOLEONE le cau- se che
rivoluzionarono la Francia, e i fatti che a danno proprio, o di
altrui operarono i Francesi, poiché questi sono noti a tutti, o se
qualcuno' vi è, che non li sappia, da quelli stessi, che io dirò,
operati da Lui, meglio si rileverà la gran- dezza degli altri
distinguendosi troppo bene riunite in un solo quelle grandi
ia qualità, con le quali si va a riordinare, e regolare
in pace il cittadino, come in guerra a vincere e superare
l'inimico. Nè vi voleva di meno: conobbe BONA- PARTE
opportunamente, che non si ha la pace, se non si fa la guerra, che non
può tornare all'ordine il Francese, se non è vittorioso, subito che
la gloria di aver vinto altrui richiama, per goder dei frut- to, al
dovere di vincere se stesso se non si dipende? Col dipendere dagl'ordini
di BONAPARTE nel campo di battaglia, si volò dal Francese alla
vittoria: che me- raviglia, se all'un fatto autorevole per- ciò
riesci agevole inculcare con altri i doveri di giustizia, nell'osservanza
de' quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò ad unire a quelli di
conquista i frutti preziosi della pace. Troppo è singolare
NAPOLEONE BONAPARTE nella storia dei secoli. Quegli uomini che
arrichirono di beni, che fornirono di gloria la Patria, ed i re-
gni, di cui erano signori, di cui erano Digitized
i5 cittadini, con le loro imprese in guerra, con
i loro consigli in pace, daranno a me tutto quel meglio che ciascuno di
essi possedeva parzialmente, per provarlo riunito in BONAPARTE a
riordinare la Francia, a pacificare V Europa. Non si vuol qui
osservare l'ordine dei fatti, nei quali BONAPARTE si mostrò da
prima grande Capitano, ma presa sib- bene l'epoca del Consolato tanto
glorioso per Lui, e dove Egli si mostrò grande politico, si faranno
servire i fatti nell 9 uno, e nell'altro stato operati all'espres-
sione di quella condotta, la quale prati- cata da Lui solo, celebra
veracemente la sua Singolarità. Dirò pertanto, con tutto che
io non ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo in Roma, il quale più
d'ogni altr'uomo del- le storie antiche può dare a me una qualche
simigliala di NAPOLEONE in Francia, pure i fatti che me lo
descrivo- no per grande, non sono quegli stessi che ora mi
dimostrano grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di Giulio Cesare dal Governo
della Spagna non è simile a quello di BONAPARTE dopo V occupazione
dell' Egitto; Cesare trovò la Repubblica Ro- mana divisa in due
fazioni, una di Gneo Pompeo, e l'altra di Marco Crasso. BONAPARTE trova
la Repubblica non divisa in fazioni, ma in tanto disor- dine e
confusione, che più non è divisi- bile, poiché l'eccesso dell'anarchia
pro- duce la serie indefinita delle divisioni sempre rinascenti e
rovinose; pure non altri vi fu, se non che Egli, tanto poten- te,
che la divise per trarla dalla sua con- fusione. Giulio
Cesare vien pregato da ognu- no dei due rivali a farsi del suo
partito, e Cesare si fa mediatore di pace. BONAPARTE non
pregato va da se a rimproverare d'ingiustizia, e di oppres- sione i
Governanti, e a nome del Popolo Francese ingiustamente oppresso
intima la loro destituzione. Digitized by Google
iS Giulio Cesare si fa pacificatore di chi
voleva la pace. BONAPARTE assicura la pace a fron- te di
coloro che volevan la guerra. Giulio Cesare dee vincere con la
per- suasione due nemici, che erano nel se- no della Patria a
promovere con la di- visione l'interna discordia. BONAPARTE
dee vincere con la for- za i nemici esterni della Francia, e dee
persuadere la Francia in disordine della necessità di un nuovo ordine di
cose per felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico
di mediatore non per servire, ma per regna- re; perchè coll'esser
così fra Crasso e Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti da Lui;
regna chi non dipende, non di- pende chi giudica, e quello che
giudica si fa arbitro dei due nemici: non voleva Cesare con la sua
dipendenza rendere più forte uno dei rivali, ma voleva col pretesto
della sua mediazione indeboli- re ambidue. Trattò la pace non per
unir- i6 li fra di loro, ma per unirli a se, non
per- chè fossero amici, ma perchè fossero di- sarmati.
BONAPARTE instruito dei disordi- ni della Francia e delle sue
perdite, con eroica risoluzione veste il carattere di guerriero, di
'pacificatore; si mostrò così al Consiglio dei Cinquecento, dove
era maggiore l'autorità, e dove erano tanti che volevano governare;
non si ritiene da dirli indegni di quest'ufficio, quando per due
anni avevano così male governa- ta la Francia. Il rimprovero di un
simile delitto, la fermezza di chi rimprovera, ed il coraggio,
avvilì e disperse i delin- . quenti, (molto più di Trasibulo che
cac- ciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi* se allora
BONAPARTE al voto del Popò* lo Francese, che lo acclamò Liberatore;
ed assicurato di lealtà, annunziò il Con- solato, e la sua
Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso per opera di
Cesare, tutti due concorse- ro a farlo Console, e in tutto il tempo
Digitized by Google n Consolato il
di Lui Collega non compar- ve mai a palazzo. Si vide
BONAPARTE Primo Conso- le, e gli altri due furono sempre con Lui
nel Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con
usurpazione. Se ha BONAPARTE nel comando la primazia, glie la
concede la costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi
di buon governo fossero attribuiti ad al- cun altro che a Lui: per tal
modo andava avvezzando Roma al governo di un solo, e disponeva gli
animi ad approvare nel Consolato la Monarchia. BONAPARTE
sebbene il primo nel Consolato, ed il maggiore nella autorità; è
però sempre insieme con gli altri a go- vernare; non sprezza l'opera
altrui, non sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tut- ti abbiano
parte al merito della sua bon- tà, della sua aggiustatezza; non vuol
cam- biar governo nei momenti che tanto si opera per stabilirlo;
tutto quello che si i8 fa, si fa per conoscere,
3e il Francese può essere buon repubblicano: il grido della libertà
democratica non è un voto vale- vole per la esclusione della
monarchia; quantunque siansi veduti i Francesi ele- trizzati andare
incontro alla morte per vendicare la libertà; si deve dar ciò alla
forza di quel barbaro terrore difuso per avvilimento universale con la
op- pressione dell'innocente; sostenuto con la franchigia ed
esaltazione del malva- gio per accrescere il numero dei terrori-
sti; non già ad un maturo consiglio, ad una risoluzione giudiziosa,
unanime, uni- versale, che però il procedere di BONA- PARTE fu
assai prudente per richiamare all'ordine i Francesi in rivoluzione,
e metterli veracemente in libertà, col co- stituire la forma di un
buon governo. Cesare ha finito il Consolato. BONAPARTE
viene dichiarato a Vita Primo Console. Cesare dopo il
Consolato si elesse il Governo delle Gallie dove andò con E-
Digitized '9 sercito, e fece guerra a
molte nazioni. Vide pesare che le fazioni lo potevano fare il primo
della Repubblica, ma non bastavano a farlo padrone, per cui era
necessario un esercito: come armarsi però senza scoprire il suo disegno?
Ecco l'arte di Cesare; si armò per servizio della Re- pubblica, la
servì valorosamente per po- terla signoreggiare, la esaltò per
poterla opprimere: nel regnare l'arte del segreto non è tacere, ma
consiste in rivelare una intenzione verisimile che nasconda la
vera, ma che non sia la principale: la più fina simulazione del mondo
consiste nel sapersi ben servire della verità. BONAPARTE fu
fatto Primo Console non dalle fazioni, ma dal voto libero di una
gran nazione: i meriti della guerra, e quelli maggiori della pace
precedettero la sua perpetuità nel Consolato; non ser- vì alla
Francia per signoreggiarla, non la esaltò per opprimerla, quando con
averla levata da suoi disordini, e fatta amica di tutte le nazioni
5 non cercò di escludere i 20 tanti dall'onore
di questa grand'opera, i quali ora sono con Lui nel governo vi-
gilantissimi per conservarla. Per dare però una maggior
rilevanza al paragone di BONAPARTE con Giulio Cesare, mi farò a
tracciar questi nè suoi principj per condurmi così a provar me-
glio la singolarità dell'altro; e giusta la diversità di tante sue
virtuose azioni, mi farò pure a dir di quelli, i quali nei bei
secoli della Grecia, e di Roma onorarono la loro patria, perchè i più
valorosi nell' arte della guerra, i più sapienti nel go- verno dei
popoli tra coloro tutti, che il precedettero, scorrendo la vita de'
me- desimi, dimostrerò, senza osservare l'or- dine dei tempi,
giacché non è ciò del mio soggetto, riunite in BONAPARTE le grandi
virtù di tutti quelli celebratis- simi nella storia delle nazioni.
CeSare nella sua più fresca età passò la prima volta a militare
sotto Marco Minucio GermOj allora Pretore in Asia., e mandato in
Bitinia all'assedio di Miti- Digitized by Google
21 iene, la sola città che ricusava sottomet-
tersi ai Romani, si distinse tanto nella sua presa, che meritò diverse
corone ci- viche, le quali davansi a chi aveva sal- vata la vita ad
alcun cittadino romano. BONAPARTE che nel principio della
Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi tutto intento a coltivare i
grandi suoi ta- lenti nella scuola militare, e nella vera
filosofia, fu mandato all'assedio di Tolo- ne Ufficiale in una compagnia
d'artiglie- ri,, allora di soli ventitre anni, ed ivi le prove del
suo valore furono tanto lumi- nose e così sollecite, che i
Rappresen- tanti del popolo ivi presenti, non tarda- rono a
promoverlo Generale di Brigata, nel qual posto più d'ogn'altro suo pari
si mostrò esperto nell'arte difficilissima di condur i soldati alla
vittoria; e singo- larmente intrepido si rendette in quei terribili
momenti di assalto, sotto l'im- peto del quale ebbe a tornar Tolone
in potere dei Repubblicani. 22 Giulio
Cesare fu accusato da L. Vezio cavalier romano complice nella
cospira- zione di Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto
ar- restare a Nizza dal Convenzionale Befroi come terrorista. Il
terrore allora era di- retto a dominare sugli uomini per disor-
dinarli, per perderli. La Congiura di Catilina si volgeva a
fare un dominatore di Roma per felici- tarla. Il Valore
mostrato nell'armi da BO- NAPARTE mosse l'invidia di tanti ad
accreditarne l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di
troppa parzialità per Lentulo, Gabinio, Cetego, Statilio capi dei
congiurati. Questi per salvar la vita ebbe bisogno di un Cicero-
ne; fuggì gli occhi di tutti; si rinserrò nella propria casa timoroso
d'incontrare nuovamente il risentimento dei Padri. BONAPARTE
va da se a Parigi per fa- re delle rimostranze al Comitato di
salute pubblica contro una simigliante ingiusti-
Digitized a3 zia, ha cuore di orare la
propria causa in faccia a quel Tribunale istesso eret- to per
distruggere gli innocenti; e non avendo più dove ricorrere per
denegata giustizia, chiede il permesso di ritirarsi a
Costantinopoli, perchè soverchiamen- te delicato, non vuol vivere a
fronte di un'accusa troppo ingiusta. Il patrocinio delle
Vestali, l'amor del Popolo tant'altre volte come in questa
capriccioso, perchè mosso dall'ingenita avversione al volere dei grandi,
richiama Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato BONAPARTE al
patrocinio più sicuro della sua giustizia, attende da filosofo il
momento propizio alla sua gloria, poiché il i3. Vendemiatore vide
BONAPARTE col comando di un corpo numeroso di linea tanto ben disposto,
e regolato, trarre dall'estremo periglio la Convenzione, e salvar
Parigi dal furore di un nuovo disordine, che urtando libe- ramente,
poteva nelle sue rovine aprire la tomba a tutti i Cittadini :
un'operazio- *4 ne tanto salutare, li procurò
dei potenti amici, li meritò la pubblica ammirazio- ne, la
riconoscenza nazionale; in questo giorno egli trionfò di tutti i cuori:
gli amici lo amavano teneramente, lo teme- vano grandemente
gl'inimici : il suo trion- fo fu molto dissimile a quello di Mario,
di Siila, di Cesare, e di Pompeo; questi volevano, trionfando,
signoreggiare, ed avvilire tutti i Romani: BONAPARTE riponeva nella
grandezza dei Francesi, e nella maggiore loro felicità il suo
trion- fo, la sua gloria era di vincere., lasciando alla nazione di
trionfare. La prima azione di questo Giovine Guerriero fu
quella di sostenere nella Patria i diritti delle supreme podestà
contro un forte partito dei suoi, il qual voleva nella morte dei
Governanti assi- curare al disordine la sua dominazione, che è
quanto dire, a Lui viene affidata la grande impresa di frenare, di avvilire
gl'inimici interni della Patria, che sono i più potenti, i più terribili,
perchè i più Digitized by Google a5
% sicuri di unire alla forza aperta i funesti progressi di una
domestica prodizione. Per tutto questo era mal sicuro dell'istes^
ssl sua vita, perchè Comandante di tanti altri armati troppo facili a
cedere alla se- duzione di alcuni di quelli, coi quali ol- tre ad
aver comune la patria, erano del medesimo sangue, divisi soltanto di
sen- timento per la formazione di questo, o dell'altro Governo*
pure BONAPARTE superiore ad ogni pericolo, va, come si disse,
condotto dal suo genio a farsi il terrore dei sediziosi, il salvatore dei
Go- vernanti: molto più grande questa im- presa di quella di Petrejo
contro Catili- na, poiché questi comandava all'aperto a piè
dell'Alpi i suoi Armati, dove la co- gnizione del luogo, e la sua
ampiezza dava al Capitano in caso di perdita il piano per una
gloriosa ritirata. Quando per BONAPARTE il campo di battaglia era
Parigi; aveva pertanto comune con gl'inimici gFistessi ostacoli, i
medesimi pericoli, che anzi si facevano maggiori
*6 per Lui; perchè doveva esser sempre nel sospetto,
che quella immensa popo- lazione rivoluzionata, inquieta per l'in-
certezza di un felice destino, potesse fornire ad ogni momento di un
maggior numero di soldati le legioni dei ribelli: con tutto questo
le sue disposizioni fu- rono così giudiziose, il suo coraggio tan-
to sorprendente, che con poco sangue sparso vinse interamente la fazion
nemi- ca, e levò ad essa ogni speranza di risor- gere, per tornare
contro di Lui a nuova pugna. Egli adunque, come Filopemene mandato
a guerreggiare contro gFistessi Greci suoi, non si disse per Lui
ventura il trionfar di loro, ma una soda virtù, mentre quelli, che
eguali han tutte le co- se, non possono che per virtù primeggia- re
sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace BON APARTE di
trionfa- re sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non per se, ma per il
solo bene dei vinti, ra- gion voleva, che i Governanti ad una prova
tanto singolare d'amore, sceglies- Digitized
a 7 scio Lui Comandante in Capo dell'Ar- mata d'Italia,
siccome gl'interpreti sicuri del voto universale dei Francesi, per
aprire cosi un nuovo campo di gloria ai suo valore, ed assicurare a loro
il bene della vittoria sugl'esterni nemici della Francia.
NAPOLEONE va senza ritardo al luogo, ^ove lo attende la grandezza
de' suoi destini; quivi essendo si mostra a tutti i suoi, come
Marc'Autonio mirabi- lissimo nella idea delle sue imprese, le
concepisce quali dovevano essere nel- la mente di un regnante; e più di
Marc" Antonio l'eseguisce con facilità, mentre questi mancava
di una pronta attività per una felice esecuzione. È dunque BO-
NAPARTE, dove nasce l'Appennino e mancan l'Alpi, fra strette gole ed
inacces- sibili dirupi, in quei luoghi istessi prati- cati altra
volta con bravura da un Fla- minio, da un Postumio celebratissimi
Capitani di Roma; quivi egli è a fronte di un inimico, che si avanza
vittorioso a8 da Voltri per battere Monteligino,
ulti- mo trinceramento repubblicano, di dove poi andar più oltre
con maggior spedi- tezza, perchè minori gli ostacoli del luo- go,
ed arrivare una volta a por piede sul terreno Francese, per risvegliare
così, ed animare il partito nemico delia liber- tà. Con tutto
questo che pareva tanto prossimo ad eseguirsi, BONAPARTE nel- le
concepite disposizioni guerresche, ve- de sicura l'occupazione
dell'Italia; e più oltre andando, non vede tanto incerto
l'approssimarsi alla Capitale dell'Alema- gna: le grandi distanze,
gl'infiniti perico- li, che si frappongono, non lo distraggo- no un
momento dal porsi sulle mosse per dar principio all'opera, e
giungere ad occupare la grandezza del suo fine: i modi sono presti
per vincere; in caso di mancanza, sono pronti gli altri per trarre
dalla sua difesa gli utili di una grande vittoria. Sagace nella
previdenza di tutte le cose, passa con risolutezza dallo stato di
difesa, a quello di offesa; e mentre si Digitized by
Google a 9 occupava rinimico a vincere le
resisten- ze del Capo di Brigata Rampon, BONA- PARTE, seguitato dai
prodi Generali Berthier, e Massena, dirige le truppe dei suo
centro, e della sua sinistra sul fian- co, e alle spalle degli Alemanni.
Questa manovra tanto difficile nel luogo., ed ese- guita sugl'occhi
di un inimico vigilantis- simo, preparò la memorabile vittoria di
Montenotte, e la decise; poiché simile ad Alessandro, e a Pirro nella
prestezza delle disposizioni, nell'impeto, e violen- za del
conflitto, divise il corpo di Beau- lieu dagli Austro-Sardi; e mentre
batteva un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi piombando su di
questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguen-
za di ciò fu l'essersi reso padrone del Cairo, di Dego, e della posizione
impor- tantissima di santa Margherita, per cui trovossi al di là
delle cime dell'Alpi, su i declivi, che guardano la bella Italia.
La impresa non fu strepitosa soltanto per essere stata eseguita nel breve
corso 3o di quattro giorni, ma perchè opera di
un Capitano di soli ventisette anni, come Pompeo nell'Affrica
contro Domizio della Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo aleato,
per cui questi ebbe da Siila, al- lora Dittatore in Roma, il titolo di
Gran- de. BONAPARTE però più grande di Pompeo per aver superatigli
ostacoli del- la natura in un con quelli opposti dall'ar- te
militare la più studiata, la più per- fetta. A che ricordarsi
più con meraviglia del passaggio dell'Alpi fatto da Anniba- le?
sebben'egli partito dal Rodano con la sua armata di Numidi, e di
Spagnuoli per passar le Gole transalpine, e le Alpi* per nove
giorni di cammino fino alle sue vet- te combatter dovesse ad ogni passo i
Gal- li che in imboscata e con prodizione at- traversavano,
estremamente molesti, la sua gita; e negli altri sei giorni
impiegati nella discesa, niuno essendovi più, che il molestasse,
pure le nevi altissime, i ghiacci, e le bufere rendessero tanto più
Digitized by LjOOQIc 3i malagevole,
e pericoloso il suo tragitto: ciò non pertanto più maraviglioso fu
il salire, e il discendere di BONAPARTE, quando in questo si deve
aggiugnere il dover vincere passo passo un inimico, che in un
momento era pronto alla di- fesa, e nell'altro prontissimo
all'Offesa; per cui gli avvenne di essere una qualche volta
respinto; lo che sembrava, e ciò a tutti, una volontaria ritirata,
tant'era presto a riprendere il combattimento con più veemenza, e
risoluzione; come chi, per accrescere il colpo contro le mura
nemiche, par si discosti per levar più alto l'ariete, e la mazza ferrata
a far maggiore la gravità del colpo, e più sol- lecita la sua
distruzione: ed è per questo che il General Augereau forza le Gole
di Millesimo; Menard, e Joubert discac- cian l'inimico da tutte le
posizioni di quei contorni; ma l'inimico è sulle altu- re a
riprenderne delle nuove, e più for- midabili per cui i Francesi in ogni
ora sono chiamati a nuovi disastrosissimi 3* '
conflitti essi vi vanno non un movimen- to pronto, ben regolato e
risoluto, in ogni luogo perciò sormontano il potere dell'inimico.
Dopo fatiche così ecceden- ti,, e sì luminosi vantaggi più non si
teme della vittoria; in fatti quando sugl'albo- ri del sesto dì
della battaglia Beaulieu gli attacca, supera il villaggio del Dego,
respinge il general Massena per tre vol- te assalitore, Victor, e Lannes
per ordine di BONAPARTE piombano sulla sini- stra dell'inimico; ma
l'inimico è più for- te; le truppe repubblicane vacillano per un
istante; indi ritornano all'assalto; raddoppiano il coraggio, e Dego è
nuova- mente in lor potere. Il piano delle ope- razioni dei diversi
corpi d'armata è trop- po concorde perchè il risultato non la- sci
mai d'essere utilissimo al loro avan- zamento: i suoi capi sono sempre
insie- me a combinare su d'un piano troppo attivo e giudizioso,
mosso e regolato dal capo supremo, che lo ideò, che lo com-
pose. Digitized by Google 33
La valle pertanto di Borimela, e quella del Tanaro sono aperte ai
repubblicani; le trincee di Montezimo, e di Ceva sono superate;
passano questi il Tanaro, e ri- nimico è in piena ritirata per la
strada del Mondovì: sul far del giorno i due e- serciti sono a
fronte l'uno dell'altro; co- mincia nel villaggio di Vico la zuffa,
Fio- rella, e Dammartin attaccano con impe- to il ridotto, che
cuopre il centro del ne- mico, questi abbandona il campo, passa la
Stura, e si pone fra Cuneo, e Chera- sco entro un recinto bastionato;
Masse- na si muove contro, e rovescia le gran guardie nemiche. Dopo
questa operazio- ne i Francesi si trovano vicino a Turi- no: il
General Colli propone una sospen- sion d'armi; BONAPARTE vi
acconsen- te con la condizione, che vengano a lui rimesse Cuneo, e
Tortona; il Re non sa non approvarlo, e BONAPARTE con ciò dà alla
sua armata in Italia una situazio- ne sicura ed imponente, e vede
aperta senz'altri ostacoli la sua libera comu- 3
34 nicazione con la Francia. Ogni giorno
pertanto crescono gli armati,, BONAPAR- TE gl'impiega al passo del Pò
nella gran- de battaglia di Lodi; con marce, e con- tromarce cuopre
air inimico i veri suoi movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il
Ticino per dirigere la sua marcia sopra Milano, mentre Beaulieu
ingannato, si affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e la Sesia.
Il resultato di queste felici ope- razioni non aveva in se tutto, che si
vo- leva, per andare senz'altro intoppo dritto dritto alla capitale
della Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per
apporne dei nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impe- dirono',
Beaulieu col suo corpo d'armata dall'opposta parte dell'Adda guarda
con numerosa artiglieria l'estremità del pon- te di Lodi, che lo
cavalca per l'estensione di cento tese; non volle tagliare il ponte,
lusingandosi cosi di meglio diri- gere il fuoco alla distruzione di tanti
ne- mici insieme strettamente riuniti al suo Digitized
by 35 passaggio. Il soldato francese, sotto
un tanto Duce, conosce il grande pericolo, ma troppo è animato a
superarlo; vede che il passo del ponte è angusto e mici- diale, ma
ad impadronirsene ve li spro- na l'onore, e gl'interessi della patria:
la morte di alcuni aprirà il varco a molti, si muoja, dicevan essi,
purché si vinca. Quanti mai sono che vogliono essere i primi,
contenti di assicurare ai supersti- ti col loro sangue gli utili d'una
gran- de vittoria: il secondo hattaglione de'ca- rahinieri precede
l'armata francese ser- rata in colonna: i prodi si presentano sul
ponte, il fuoco dell'inimico è tanto ter- ribile e continuato, che la
testa della colonna stette in forse per alcuni momen- ti a fronte di un
sì alto pericolo, e se un solo istante di più s'indugiava, tutto era
perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Du- prat si precipitarono alla testa
delle trup- pe, e fissarono la fortuna ancor vacillan- te:
l'inimico nell'istante è rovesciato, l'Adda è aperta alla cavalleria, la
vitto- ria è definitivamente decisa. 36
Più di Cesare glorioso BONAPARTE poiché quello sostenne il ponte
sul Aisne contro Galba, che con le sue forze nu- merosissime
tentava superarlo; quando l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro
gli Alemanni, che lo guardavano tanto for- ti: Noyon atterrita apre
le porte a Cesa- re. Milano festeggiante incontra BONA- PARTE; in
quello Noyon teme il suo ti- ranno; in questo Milano ama il suo
bene- fattore: Cesare vinceva per far schiavi i vinti: BONAPARTE
trionfa per farli li- beri. Dalle divisate azioni guerresche
chi non vede riunito in BONAPARTE il co- va ^gio, l'operativa
prontezza di Marcel- la; ìa circospezione, ed il provedimento Fabio
Massimo? Conobbe troppo be- > bON APARTE la importanza delle
<e imprese; e potè dire molto avanti to quello, che solo aveva pensato
di . Si valse opportunamente dei suoi .ta^i con non lasciarsi alle
spalle al- trui inimico: vinto uno dalle sue armi,
• uigiiizeo uy Google
3? gli altri maravigliati, ed atterriti dalle sue
vittorie fecero delle proposizioni di pace, che furono accordate con i
vantag- gi dovuti al vincitore; i quali però non portavano il vinto
ad un odioso avvili- mento. Riunì BONAPARTE in queste
opera- zioni la esecuzione dei pensieri di Mar- cello in Siracusa;
di Fabio Massimo nella capitale de' Tarentini, popolazioni da loro
debellate. Marcello per trattato leva molti bel- 1 issimi
simulacri, perchè servissero di ornamento alla sua patria; la quale
siuo allora non aveva, ne avuti, nè veduti ab- bigliamenti cosi gentili
ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e ric- chezze, lasciando
ai Tarentini i loro nu- mi sdegnati che eran di marmo. Marcello fu
applaudito dal popolo e condannato dagli uomini di probità. Fabio
Massimo fu celebrato da questi, e non curato dagli altri. Siro
Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri. Keywords: il Napoleone di
Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana, Mussolini, discorso,
duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e gli esseri, Hegel
contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici, paleo-scolastici, Aquino,
aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di Croce, percezione del
bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla storiosofia, storiosofia o
filosofia della storia, interpretazione dommatica di Aquino, la negazione di
hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come metodo in Hegel, nihilismo
e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma di Hegel, Gentile e il
bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Corbellini: l’implicatura
conversazionale del darwinismo politizzato – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Cadeo,
Cardeo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corbellini; of course he has to
defend science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy,
which he calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I
sui interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e
la bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I
suoi interessi di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della
biologia evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per
includere poi anche lo studio della storia della malaria e della malariologia
in Italia, delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni
dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione
trovato una sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e
malattia e delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la
ricerca delle spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata
anche verso l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea
non confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo
morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una
guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche
un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella
costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del
metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato
e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come
catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e
morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico. Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza.
Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie?
Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del
cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,;
Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano,
Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché
gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità
negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino,
Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari,
Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute
e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia
e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero
immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; 1. Dall’etica medica alla bioetica; 2. Il
senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e
consenso informato; 4. Scelte di fine vita; 5. Scelte di inizio vita; 6.
Medicina genetica; 7. Sperimentazione animale; 8. Medicina dei trapianti e
definizione di morte; 9. Etica della ricerca responsabile; 10. Medicina
rigenerativa e staminali; 11. Neuroetica; 12. Etica ambientale e OGM; 13. Etica
della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»;
Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota Gilberto
Corbellini nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo
di applicare l’approccio evoluzionistico alla (filosofia) politica spesso
rischia di venire frainteso. Il frain- tendimento più comune e pericoloso
deriva dalla mancata distinzione tra il “darwinismo politicizzato” e la
“politica darwiniana”: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del
socialdarwinismo di fine Ottocento, dall’«interpretazio- ne strumentale e priva
di coerenza logica o di basi scientifi- che delle idee darwiniane per difendere
qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso
delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le
origini delle preferenze politiche in- dividuali, la loro distribuzione sociale
e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale».58 Ridley
si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana
in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impe- disce di avanzare alcuni
suggerimenti di politica economica 54. Cfr. Skyrms, The Evolution of Social
Contract, pp. 108-109 e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali
e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto,
consenso, pp. 8-9). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli
ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e,
talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura
umana. Per esempio, Ridley (p. 322) osserva che «Karl Marx vagheggiava un
sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è
fallito perché siamo invece degli animali». 55. Peter Singer, Una sinistra
dawiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Torino, Edizioni di Comunità,
2000 (1999). 56. Larry Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint
Academic, 2005. 57. Rubin, La politica secondo Darwin. 58. Gilberto Corbellini,
“Politica darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La
politica secondo Darwin, p. 9. 31 Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini
della virtù – si vedano soprattutto gli ultimi tre capitoli del libro – che gli
sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappro- priato chiamare “anarco-liberalismo”.59 Tale
prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negli istinti coopera-
tivi e altruistici degli esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine
politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico
è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che
immaginava un mondo di liberi individui. [...] Non sono così ingenuo da pensare
che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo
non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato
che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una
gigantesca pulce alla schiena della nazione.60 D’altra parte, Ridley si rende
conto che, mentre le solu- zioni politico-economiche da lui favorite si
accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con al- tre.
Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella
società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le
tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto
dell’accumulazione di ricchezza.61 L’analisi dei conflitti tra le moderne
istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli
argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di
Pani e Corbellini Di Valeria Covato | 06/06/2016 - Mailing Le “Imperfezioni
umane” di Pani e Corbellini Fornire un punto di vista innovativo, cioè
evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni
comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché
nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente
migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane.
Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura”
(Rubbettino), scritto da Luca Pani e Gilberto Corbellini, che sarà presentato
domani, martedì 7 giugno, alle ore 16.30 a Roma presso il Centro studi americani
(Via Caetani, 32). Dopo i saluti di Paolo Messa, direttore Centro studi
americani, interverranno alla presentazione moderata da Micaela Palmieri (Tg1)
monsignor Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Alberto Mingardi,
direttore generale Istituto Bruno Leoni, Benedetto Ippolito, professore di
storia della Filosofia presso l’università Roma tre. IL VOLUME
“Negli ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito
medico sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch»
(dissonanza evoluzionistica) – raccontano gli autori -. Questa teoria assume,
in pratica, che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi
tratti adattativi sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché
predisposizioni o tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado
di adeguarsi, per selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste
dissonanze? “Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio
medico”. “Il libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini –
Si inizia con un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia
motivazionale, cioè dei meccanismi che sono alla base del piacere e delle
ricompense, e da cui deriva – in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove
conoscenze che consentono di affrontare le incertezze psicologiche che si
accompagnano a qualunque comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con
esemplificazioni di risposte comportamentali che in particolari (o mutate)
condizioni si manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo
specifico al comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di
dissonanza evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gli ultimi due capitoli
affrontano una serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che
scaturiscono da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel
contesto dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali
determinati dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori
fenomeni disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze
create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso
al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di
comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche
le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume
emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che
hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti
comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista
nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità
di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza
essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li
governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da
diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.
Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture
cerebrali che ci fanno appunto “credere” di essere liberi e poter decidere in
completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro
straordinario successo di animali sociali Negli ultimi decenni le
neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio,
con una quantità crescente di prove, la visione classica di “libero arbitrio”,
aprendo un dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il “libero
arbitrio”, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della
specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto “credere” di
essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione
abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il
libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.
L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di
autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel
tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno,
cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne
derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base
di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da
specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa
illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti
per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita
sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o
maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento
consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di ritenersi liberi è
una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per
inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?
Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del
cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che
controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che
alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con
le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione
di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio
in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone;
ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o
diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza
ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche
livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla
base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono
far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe
spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi
decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash.com Parliamo
del legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto
dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili
determinanti genetiche del comportamento aggressivo?
L’aggressività, come la cooperazione, è stata un fattore chiave per la
sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie. Come tutti i tratti,
l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono persone geneticamente più
predispostedi altre all’aggressività. È verosimile che la selezione
sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni della cooperazione in
alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo socio-culturale che
nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul pianeta, e
soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato lo stato di
diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta contro la
criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai stata così
poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale,
rispetto a oggi. Steven Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto libro, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente
aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza
maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle
differenze individuali nel controllo degli impulsi… Non ci sono
moltissimi dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel
cervello quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa
ritardata, ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la
svalutazione del ritardo quando si sta aspettando e anticipando una
ricompensapossibile che è stata desiderata e scelta. La
corteccia prefrontale ventromedialemanifesta uno schema caratteristico di
attività durante il periodo di ritardo nel ricevere la ricompensa, oltre a
esercitare un’attività modulatoria durante la scelta, che è coerente con la
codificazione del tempo durante il quale avviene una svalutazione del valore
soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta uno schema di attività
simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi. Un profilo contrastante
di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata osservata nella
corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone pazienti, cioè
non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e corteccia
prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire come –
influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato ventrale.
Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo
post-scelta. Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi
lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e
agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà,
è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è
tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del
nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono
autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne. Credits to
Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e
dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini
dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio?
Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari
riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della monoaminossidasi
A (MAOA), detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato
all’aggressività su basi osservazionali mirate. In sostanza le persone con la
variante che produce meno MAOA rispondono in modi più aggressivi e violenti,
rispetto a chi esprime livelli più alti. Il fatto interessante è che se
queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti
accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici
cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico
e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con
maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale,
soprattutto in soggetti con una bassa attività di MAOA (MAOA-L). Gli studi
sperimentali mostrano anche che il MAOA è meno associato con la comparsa
dell’aggressione in una condizione di bassa provocazione, ma predice più
significativamente il comportamento aggressivo in una situazione molto
provocatoria. Esiste ormai una letteratura sterminata anche sui casi di
persone con anomalie morfologiche e funzionali dell’amigdala che regolarmente
esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non provano emozioni negative
quando provocano sofferenze in altri individui. Si conoscono inoltre casi di
tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano la personalità
individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in quanto un tumore
cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La
memoria del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della
testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica? Il sistema
giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze,
ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è
falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a
false memorie. Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La
nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e
gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare,
perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano
sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a
ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false
memorie. Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi.
Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a
tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla
mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se
ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector,
macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un
problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare
impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale.
Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un
testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che
quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine
e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e
tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito
consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici
e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente
funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere,
un fondamento biologico? La morale ha un fondamento biologico. La morale
serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse
sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo
incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori
morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e
trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci
tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero
avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di
applicazione della pena? Su questo punto la penso come chi ha detto che
con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, “cambia tutto e non cambia
niente”[1]. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello
intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale)
sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali.
Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della
concezione della pena, più vicino al diritto positivo. Il concetto
di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione
(caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati,
perché privi di basi teorico-fattuali In Italia, come vengono accolte
dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello
internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso
di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste
2009 e Como 2011, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel
comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di
pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi
contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie
acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con
buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che
entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.
Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso
delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno
ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle
prove nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire
cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in
quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del
cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di
altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere
volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il
riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience
changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci, 359,
2004, pp. 1775 ss. Wikipedia Ricerca Storia del pensiero evoluzionista
aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua Segui Modifica Evoluzione
CollapsedtreeLabels-simplified.svg Meccanismi e processi Adattamento Deriva
genetica Equilibri punteggiati Flusso genico Mutazione Radiazione adattativa
Selezione artificiale Selezione ecologica Selezione naturale Selezione sessuale
Speciazione Storia dell'evoluzionismo Storia del pensiero evoluzionista
Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle specie Neodarwinismo Saltazionismo
Antievoluzionismo Campi della Biologia evolutiva Biologia evolutiva dello
sviluppo Cladistica Evoluzione della vita Evoluzione molecolare Evoluzione
degli insetti Evoluzione dei vertebrati Evoluzione dei dinosauri Evoluzione
degli uccelli Evoluzione dei mammiferi Evoluzione dei cetacei Evoluzione
dei primati Evoluzione umana Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica
ecologica Medicina evoluzionistica Genomica della conservazione Portale
Biologia · V · D · M La prima traccia dell'idea di un'evoluzione
biologicadegli esseri viventi è la teoria sull'origine della vitaattribuita[1][2]
ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero origine nell'acqua, dove erano
tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti sulla terraferma dove, liberati
dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale fu anche l'origine
dell'uomo.[3] Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno all'evo
moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico
essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa
della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non
si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di
riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto
create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche
concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento
a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si
trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa.
Nel XVIII secolo la storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad
investigare e catalogare le meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte
effettuate dimostrarono l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria
del catastrofismo di Georges Cuvier, secondo cui gli animali e le piante
venivano periodicamente annientati a causa di catastrofi naturali per poi
essere rimpiazzate da nuove specie create dal nulla. In contrapposizione ad
essa, la teoria dell'Uniformitarismo di James Hutton, del 1785, ipotizzava un
graduale sviluppo della Terra, il cui aspetto non era dovuto ad eventi
catastrofici ma a un lento processo perpetuatosi attraverso gli eoni. Dal
1796, Erasmus Darwin, nonno di Charles, avanzò delle ipotesi sulla discendenza
comune affermando che gli organismi acquisivano "nuove parti" in risposta
a degli stimoli e che questi cambiamenti venivano trasmessi alla loro
discendenza; nel 1802 suggerì la selezione naturale. Nel 1809, Jean-Baptiste
Lamarcksviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei caratteri
acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti "necessari"
venissero ereditati col passaggio da una generazione alla successiva. Queste
teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna dai Radicali come
Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Thomas Malthus, Saggio sul
principio della popolazione, influenzò il libero pensiero mostrando come
l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un eccesso nelle
risorse disponibili. Varie teorie furono proposte per riconciliare la
Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso l'attualismo di
Charles Lyellsecondo cui ogni specie aveva un suo "centro di
creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui cambiamento
portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage ritenne che Dio
avesse creato le leggi per un programma divino che operava per la produzione
delle specie e Richard Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la materia
vivente avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale
(Lebenskraft) che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di
vita degli individui e delle specie. AntichitàModifica GreciModifica
Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano, potesse
discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi greci
Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i primi animali vivessero in
acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e che i primi avi
viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua, e aver passato
solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che il primo umano
della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un altro tipo di
animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per
raggiungere l'autonomia. Empedocle (490 - 430 a.C.); intuì che quello che noi
chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il mischiarsi e il
separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù delle cose
mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante erano
simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna delle
quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi di
nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le
creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo corretto".
Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui Platone,
Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano che le
specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un
progetto divino. Epicuro (341-270 a.C.) ha anticipato l'idea della
selezione naturale. Il filosofo romano e atomistaLucrezio (99 -55 a.C.) espone
queste idee nel suo poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel
sistema Epicureo, si è ipotizzato che molte specie siano state generate
spontaneamente da Gea in passato, ma che solo le forme più funzionali siano
sopravvissute e abbiano avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver
anticipato l'intera teoria dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra
che abbiamo postulato una teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie,
piuttosto che postulare un singolo evento abiogenetico con la differenziazione
delle specie a partire da uno o più organismi progenitori originari.
CinesiModifica Antichi pensatori cinesi come Zhuang Zhou (369 -286 a.C.), un
filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come le specie biologiche si
siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo nega esplicitamente la
fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti ipotizzano che le specie
abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad ambienti differenti.[4] Il
Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il cielo sono in uno stato di
"trasformazione costante" noto come il Tao, una visione della natura
in contrasto con quella più statica tipica del pensiero occidentale.[5]
RomaniModifica Il poema di Lucrezio De rerum natura fornisce la migliore
spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei greci. Esso descrive
lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la società umana
attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun riferimento al
coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver influenzato le
speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati durante e dopo
il Rinascimento.[6] Il suo punto di vista è in forte contrasto con le opinioni
di filosofi romani della scuola stoica come Cicerone, Seneca (4 a.C. - 65
d.C.), e PLINIO il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del
mondo naturale che ha influenzato la teologia cristiana.[7] Cicerone riporta
che la visione peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il
produrre vita "capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa
data per scontata tra l'élite ellenistica.[8] Agostino d'Ippona Modifica
Sant'Agostino d'Ippona in un dipinto di Filippino Lippi In linea con il
precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo, Agostino di
Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della Genesi, non
doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad litteram
("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato che in
alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita.[9] Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità".[10]
L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate
"lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe
Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa
Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di
evoluzione.[11][12] Henry Fairfield Osborn scrisse in From the Greeks to
Darwin (1894): "Se l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una
dottrina della Chiesa, la scoperta dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima
di quanto non abbia fatto, certamente nel corso del XVIII invece del XIX secolo,
e la controversia su questa verità della Natura non sarebbe mai sorta…
Chiaramente la creazione diretta o istantanea di animali e piante sembrava
essere insegnata dalla Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di
causalità primaria e il graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da
Aristotele. Questo influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci
pareri strettamente conformi alle vedute progressiste di questi teologi del
nostro tempo che hanno accettato la teoria evoluzione."[13] In
Storia della lotta della scienza con la teologia nella cristianità (A History
of the Warfare of Science with Theology in Christendom, 1896), dove Andrew
Dickson White scrisse sui tentativi di Agostino di preservare l'antico
approccio evolutivo alla creazione: "Per secoli una dottrina
largamente accettata era che l'acqua, la sporcizia, e le carogne avevano
ricevuto il potere dal Creatore per generare vermi, insetti, e una moltitudine
di piccoli animali; e questa dottrina era stata accolta con particolare favore
da Sant'Agostino e molti dei padri fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente
dal creare, Adamo dal nominare, e Noè dal vivere nell'arca con queste
innumerevoli specie disprezzate."[14] In De Genesi contra Manichæos,
Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo dalla polvere con le mani è
molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani né soffiò su di lui con la
gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri lavori la sua teoria dello
sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione della vecchia teoria
dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto piccoli non possono
essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono essere stati
originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per quanto
riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), Andrew White
ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la
creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio
è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene
che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di
piante e animali."[14] MedioevoModifica Una pagina del Kitāb
al-Hayawān (libro degli animali) di Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta
per l'esistenzaModifica Anche se le idee evolutive di greci e romani si
estinsero in Europa dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, non furono
abbandonate dai filosofi e scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica,
dall'VIII al XIII secolo, i filosofi esplorarono nuove idee nel campo della
storia naturale, quali la trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal
minerale al vegetale, dalla pianta all'animale, e dall'animale
all'uomo."[15] Nel mondo islamico medievale, lo studioso
al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove descrive
la catena alimentare.[16] Nel 1377, Ibn Khaldun scrisse il Muqaddimah in
cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal "mondo delle
scimmie", in un processo attraverso il quale "le specie diventano più
numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni commentatori,
anticipano la teoria biologica dell'evoluzione.[17] Nel primo capitolo si
legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo ordine e la
sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti, combinazioni fra
alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di alcune cose esistenti
in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. "[18] Filosofia
cristiana e la grande catena dell'essereModifica Tommaso d'Aquino in un
dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca
decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i
manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a
un'ondata massiccia di traduzioni latine nel XII secolo, che re-introdussero in
Europa le opere greche, nonché quelle del pensiero islamico. La maggior
parte dei teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una
gerarchia immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che
influenzò il pensiero della civiltà occidentale per secoli.[19] Altri
teologi erano più aperti alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato
attraverso processi naturali. Tommaso d'Aquino si spinse oltre il pensiero di
Agostino d'Ippona nel sostenere che i testi sacri come la Genesi non dovessero
essere interpretati in modo letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con
quello che i filosofi naturali avevano imparato sul funzionamento del mondo
naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate
pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della bontà di Dio, e che
non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo divinamente creato, e
l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi
naturali.[20] Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che
sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo
di fondo.[21] Rinascimento e IlluminismoModifica Comparazione di
uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di Pierre Belon Nella
prima metà del XVII secolo, la filosofia meccanica di René Descartes incoraggiò
l'uso della metafora dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe
caratterizzato la rivoluzione scientifica. Tra il 1650 e il 1800, alcuni
naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero teorie che sostenevano che
l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati meccanicamente, senza una
guida divina. Nel 1751, Pierre Louis Maupertuis virò verso un'idea più materialista,
scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la riproduzione e si
accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e specie nuove; una
descrizione che ha anticipato il concetto di selezione naturale.[22] La
parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare, svolgere") è
stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo embrionale; il suo
primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è venuto nel 1762, quando
Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di "pre-formazione",
in cui le donne portavano una forma in miniatura di tutte le generazioni
future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il significato più generale
di crescita o sviluppo progressivo.[23] Più tardi nel XVIII secolo, il
filosofo francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno dei più
importanti naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in realtà
solo delle varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a fattori
ambientali, di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri,
leopardi e gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha
inoltre ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel
periodo potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee
evolutive del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle forme
originali fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse stata
modellata da "muffe interne" che limitavano la quantità di
cambiamenti possibili. Le opere di Buffon, Histoire Naturelle (1749-1789) e
Époques de la nature (1778), contengono teorie ben sviluppate sull'origine
materialista della Terra; la sua messa in discussione della fissità della
specie è stata estremamente influente.[24] Un altro filosofo francese,
Denis Diderot, scrive che le cose viventi possono essere sorte per generazione
spontanea, e che le specie sono in uno stato di costante evoluzione attraverso
un processo in cui nuove forme di vita sorgono continuamente, e possono
sopravvivere o meno in base al caso; un'idea che può essere considerata
un'anticipazione parziale della teoria della selezione naturale.[22] Tra il
1767 e il 1792, James Burnett, Lord di Monboddo, incluse nei suoi scritti, non
solo il concetto che l'uomo era disceso dai primati, ma anche che, in risposta
all'ambiente, le creature avevano trovato metodi di trasformare le loro
caratteristiche in lunghi intervalli di tempo.[25] Il nonno di Charles Darwin,
Erasmus Darwin, pubblicò Zoonomia (1794-1796), dove suggerì che "tutti gli
animali a sangue caldo sono sorti da un filamento vivente".[26] Nel suo
poema Tempio della Natura (1803), Erasmus ha descritto il progredire della vita
dai minuscoli organismi viventi nel fango fino a giungere alla biodiversità
moderna.[27] La nascita della teoria di DarwinModifica All'Università di
Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin fu coinvolto direttamente negli
sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert Edmund Grant, ispirata dalle
idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito, all'Università di Cambridge, i
suoi studi di teologia lo convinsero ad accettare le considerazioni di William
Paley sul "disegno" di un Creatore, mentre il suo interesse nella
storia naturale aumentò grazie al botanico John Stevens Henslow e al geologo
Adam Sedgwick, entrambi fermamente credenti in una creazione divina e
nell'antico uniformismo della terra. Durante il viaggio del Beagle, Darwin si
convinse della fondatezza dell'attualismo di Lyell e cercò di conciliare le
varie teorie creazionistiche con le prove che riuscì ad evidenziare. Al suo
ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che Darwin aveva trovato,
appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con delle specie viventi in
alcune località. John Gould rivelò con sorpresa che gli uccelli completamente
diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà, 13 specie diverse di
fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo, come i Fringuelli di
Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato da Darwin
negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of
Species(1837) Dagli inizi del 1837 Darwin meditò sulla trasmutazionein una
serie di appunti segreti. Si occupò inoltre della selezione artificiale delle
razze domestiche, consultando William Yarrell e leggendo un opuscolo scritto da
un amico, Sir John Sebright, il quale commentava come "con un severo
inverno, o una scarsità di cibo, attraverso l'uccisione degli individui deboli
e malaticci, si avessero tutti i migliori effetti della più abile
selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la prima volta una scimmia
antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo impressionò per la
somiglianza con quello di un "bambino dispettoso" e, dalla sua
esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare che non ci
fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto della
dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Nel tardo settembre del 1838 Darwin cominciò a leggere la sesta
edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale
ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana,
riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza.
In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie animali.
Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di Natura,
considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal dicembre
1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione artificiale e la
Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento, le varianti da
eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture acquisite fosse
pienamente pratica e perfetta. L'origine delle specieModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: L'origine delle specie. La
sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Neodarwinismo. NoteModifica ^ "Anassimandro di
Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate sarebbero nati dei pesci
o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i
feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono,
allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi."
(Censorino, De die natali) ^ "[Anassimandro] dice pure che da principio
l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco
Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, pag. 31 ^ Colin A. Ronan, The
Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement by Colin A. Ronan of
Joseph Needham's Original Text, vol. 1, Cambridge; New York, Cambridge
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Johnson, Erasmus Darwin, Tempio della Natura , ossia L'origine della Società:
Un poema con note filosofiche, Londra, Joseph Johnson, 1803. Voci correlateModifica
Evoluzione Creazionismo Dibattito fra creazionismo ed evoluzionismo Altri
progettiModifica Collegamenti esterniModifica ( EN ) Storia del pensiero
evoluzionista, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
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delle specie saggio di divulgazione scentifica di Charles Darwin
Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles Darwin
Evoluzionismo teista dottrina. In the few years of the pre- Christian
period that remained the teaching of Empedocles, and of Epicurus as the
mouthpiece of the y atomic theory, was revived by LUCREZIO in his “De Rerum
Natura.” Of that remarkable man but little is recorded, and the record is
untrustworthy. LUCREZIO died by his own hand, Jerome says, but of this
there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful poem, to
resist the temptation to make copious extracts from it, since, even
through the vehicle of Munro's annotations, it is probably little
known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days of
snippety philosophy. But the temptation must be resisted, save in
moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO
appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First,
by reason of the greatness of my argument, and because I set the
mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next
because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point
with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of
The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks
the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the
atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse
swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the
outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which
asserts that things came from nothing — "for if so, any
kind might be born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO
proceeds to expound the teaching of the atomists as to the constitution
of things by particles of matter ruled in their movements by unvarying
laws. This theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by
which the atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of
things, the variety of which is due to variety of form of the atoms and
to differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the
outward aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains
that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed
of very minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer essence, the
pro- portions of which determine the character of both men and
animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO
advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those who
through fear of death are all their lifetime sub- ject to
bondage." These themes fill the first three books. In
the fourth he grapples with the mental problems of sensation and
conception, and explains the origin of belief in immortality as due to
ghosts and appari- tions which appear in dreams. " When sleep
has prostrated the body, for no other reason does the mind's
intelligence wake, except because the very same images provoke our minds
which provoke them when we are awake, and to such a degree that we
seem without a doubt to perceive him whom life has left, and death and
earth gotten hold of. This Na- ture constrains to come to pass because
all the senses of the body are then hampered and at rest throughout the
limbs, and cannot refute the unreal by real things." In
the fifth book Lucretius deals with origins — of the sun, the moon, the
earth (which he held to be flat, denying the existence of the antipodes);
of life and its development; and of civilization. In all this he
excludes design, explaining everything as pro- duced and maintained by
natural agents, "the masses, suddenly brought together, became the
rudiments of earth, sea, and heaven, and the race of living
things." He believed in the successive appearance of plants
and animals, but in their arising separately and di- rectly out of the
earth, " under the influence of rain and the heat of the sun,"
thus repeating the old speculations of the emergence of life from
slime, " wherefore the earth with good title has gotten and
keeps the name of mother." He did not adopt Empedocles's theory of the
" four roots of all things," and he will have none of the
monsters — ^the hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a
part of the scheme of that philosopher. These, he says, ** have
never existed," thus showing himself far in advance of ages when
unicorns, dragons, and such-like fabled beasts were seriously believed to
exist. In one respect, more discerning than Aristotle, he accepts
the doctrine of the survival of the fittest as taught by the sage of GIRGENTI.
For he argues that since upon "the increase of some Nature set
a ban, so that they could not reach the coveted flower of age, nor
find food, nor be united in marriage," ..." many races of
living things have died out, and been unable to beget and continue their
breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI in terms scarcely less
exaggerated than those which he applied to Epi- curus. The latter is
" a god " who first found out that plan of life which is now
termed wisdom, and who by tried skill rescued life from such great
billows and such thick darkness and moored it in so perfect a calm and in
so brilliant a light, ... he cleared men's breasts with truth-telling
precepts, and fixed a limit to lust and fear, and explained what
was the chief good which we all strive to reach." As to GIRGENTI,"
that great country (Sicily) seems to have held within it nothing more
glorious than this man, nothing more holy, marvellous, and dear.
The verses, too, of this godlike genius cry with a loud voice, and make
known his great discoveries, so that he seems scarcely bom of a mortal
stock." Continuing his speculations on the development of
living things, Lucretius strikes out in bolder and l.^
original vein. The past history of man, he says, lies in no heroic
or golden age, but in one of struggle out of savagery. Only when "children,
by their coaxing ways, easily broke down the proud temper of their
fathers," did there arise the family ties out of which the wider
social bond has grown, and soft- ening and civilizing agencies begin
their fair offices. In his battle for food and shelter, " man's
first arms were hands, nails and teeth and stones and boughs broken
off from the forests, and flame and fire, as soon as they had become
known. Afterward the force of iron and copper was discovered, and the
use >^. ' of copper was known before that of iron, as its
nature is easier to work, and it is found in greater quantity. With
copper they would labour the soil of the earth and stir up the billows of
war. . . . Then by slow steps the sword of iron gained ground and the
make of the copper sickle became a byword, and with iron they began
to plough through the earth's [soil, and the struggles of wavering man
were rendered equal." As to language, " Nature impelled them to
utter the various sounds of the tongue, and use struck out the
names of things." Thus does Lucretius point the road along which
physical and mental evolution have since travelled, and make the whole
story subordi- nate to the high purpose of his poem in deliverance
of the beings whose career he thus traces from super- stition. Man "
seeing the system of heaven and the different seasons of the years could
not find out by what causes this was done, and sought refuge
in handing over all things to the gods and supposing all things to
be guided by their nod." Then, in the sixth and last book, the
completion of which would seem to have been arrested by his death, LUCREZIO
explains the law of winds and storms, of earth-quakes and volcanic outbursts,
which men " foolishly lay to the charge of the gods," who
thereby make known their anger. So, loath to suffer
mute, We, peopling the void air, Make Gods to whom to impute
The ills we ought to bear ; With God and Fate to rail at, suffering
easily. And what a motley crowd of gods they were on whose
caprice or indifference he pours his vials of anger and contempt! The tolerant
pantheon of Rome gavie welcome to any foreign deity with respectable
credentials; to Cybele, the Great Mother, imported in the' shape of a
rough-hewn stone with pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to
Isis, welcomed from Egypt; to Herakles, Demeter, As- klepios, and
many another god from Greece. But these are dismissed from a man's thought
when the prayer or sacrifice to them had been offered at the due
season. They had less influence on the Roman's life than the crowd of
native godlings who were thinly disguised fetiches, and who controlled
every action of the day. For the minor gods survive the changes in
the pantheon of every race. Of the Greek peasant of to-day Mr. Rennel
Rodd testifies, in his Custom and Lore of Modern Greece, that much
as he would sliudder at the accusation of any taint of paganism,
the ruling of the fates is more immediately real to him than divine
omnipotence. Mr. Tozer confirms this in his Highlands of Turkey. He
says: " It is rather the minor deities and those as- sociated with
man's ordinary life that have escaped the brunt of the storm, and
returned to live in a dim twilight of popular belief. In India, Lyall
tells us that, " even the supreme triad of Hindu allegory, which
represents the almighty powers of creation, preservation, and
destruction, have long ceased to preside actively over any such
correspond- ing distribution of functions. Like limited monarchs, they
reign, but do not govern. They are superseded by the ever-increasing
crowd of godlings whose influence is personal and special, as shown
by Mr. Crooke in his instructive Introduction to the Popular Religion
and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN CATALOGUE of spiritual
beings, abstractions as they were, who gfuarded life in minute
detail, is a long one. From the indigitamenta^ as such lists are called,
we learn that no less than forty- three were concerned with the actions
of a child. When the farmer asked Mother Earth for a good harvest,
the prayer would not avail unless he also invoked " the spirit of
breaking up the land and the spirit of ploughing it crosswise; the spirit
of furrow- ing and the spirit of ploughing in the seed; and the
spirit of harrowing; the spirit of weeding and the spirit of reaping; the
spirit of carrying com to the barn; and the spirit of bringing it out
again." The country, moreover, swarmed with Chaldaean astrolo-
gers and casters of nativities; with Etruscan harus- pices full of "
childish lightning-lore, who foretold eve'tits from the entrails of
sacrificed animals; while in competition with these there was the
State-sup- ported college of augurs to divine the will of the gods
by the cries and direction of the flight of birds. Well might the
satirist of such a time say that the place was so densely populated with
gods as to leave hardly room for the men." It will be
seen that the justification for including Lucretius among the Pioneers of
Evolution lies in his two signal and momentous contributions to the
science of man; namely, the primitive savagery of the human race, and the
origin of the belief in a soul and a. future life. Concerning the first,
an- thropological research, in its vast accumulation of materials
during the last sixty years, has done little more than fill in the
outline which the insight of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the
second, he anticipates, well-nigh in detail, the ghost-theory of
the origin of belief in spirits generally which Her- bert Spencer and Dr.
Tylor, following the lines laid down by Hume and Turgot (see p. 255),
have formulated and sustained by an enormous mass of evidence. The
credit thus due to Lucretius for the original ideas in his majestic poem
— Greek in con- ception and Roman in execution — has been obscured in the
general eclipse which that poem suf- fered for centuries through its
anti-theological spirit. Grinding at the same philosophical mill,
Aristotle, because of the theism assumed to be involved in his
" perfecting principle," was cited as " a pillar of the
faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre- tius, because of
his denial of design, was “anathema maranatha.” Only in these days, when
the far-reach- ing effects of the theory of evolution, supported by
observation in every branch of inquiry, are apparent, are the merits of
Lucretius as an original seer, more than as an expounder of the teachings
of GIRGENTI and L’ORTO, made clear. Standing well-nigh on the
threshold of the Chris- tian era, we may pause to ask what is the sum
of the speculation into the causes and nature of things which,
begun in Ionia (with impulse more or less slight from the East), by
Thales, ceased, for many centuries, in the poem of Lucretius, thus
covering an active period of about five hundred years. The caution not to
see in these speculations more than an approximate ap- proach to modern
theories must be kept in mind. There is a primary substance which
abides amidst the general flux of things. All modern research
tends to show that the various combinations of matter are formed of some
prima ma- teria. But its ultimate nature remains unknown. 2.
Out of nothing comes nothing. Modern science knows nothing of a
beginnings and, moreover, holds it to be unthinkable. In this it
stands in direct opposition to the theological dogma that God
created the universe out of nothing; a dogma still accepted by the
majority of Protestants and binding on Roman Catholics. For the doctrine
of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons of the
Vatican Council, is as follows: " If any one confesses not that the
world and all things which are contained in it, both spiritual and
mental, have been, in their whole substance, produced by God out of
nothing; or shall say that God created, not by His free will from
all necessity, but by a necessity equal to the necessity whereby He loves
Himself, or shall deny that the world was made for the glory of God: let
him be anathemaJ' The primary substance is indestructible. The
modern doctrine of the Conservation of Energy teaches that both matter
and motion can neither be ere- ated nor destroyed. The universe is
made up of indivisible particles called atoms, whose manifold
combinations, ruled by unalterable affinities, result in the variety
of things. With modifications based on chemical as well as
mechanical changes among the atoms, this theory of Leucippus and
Democritus is confirmed. (But recent experiments and discoveries show
that reconstruction of chemical theories as to the properties of the atom
may happen.) Change is the law of things, and is brought about
by the play of opposing forces. Modern science explains the changes
in phenomena as due to the antagonism of repelling and attracting
modes of motion; when the latter overcome the former, equilibrium will be
reached, and the present state of things will come to an end.
6. Water is a necessary condition of life. Therefore life had its
beginnings in water; a theory wholly indorsed by modern
biology, Life arose out of non-living matter. Although modern biology
leaves the origin of life as an insoluble problem, it supports the
theory of fundamental continuity between the inorganic and the
organic. Plants came before animals: the higher organ- isms are of
separate sex, and appeared subsequent to the lower. Generally
confirmed by modern biology, but with qualification as to the undefined
borderland between the lowest plants and the lowest animals. And,
of course, it recognises a continuity in the order and succession
of life which was not grasped by the Greeks. Aristotle and others before
him believed that some of the higher forms sprang from slimy matter
direct. 9. Adverse conditions cause the extinction of some
organisms, thus leaving room for those better fitted. Herein
lay the crude germ of the modern doctrine of the survival of the fittest.
Man was the last to appear, and his primi- tive state was one of
savagery. His first tools and weapons were of stone; then, after the
discovery of metals, of copper; and, following that, of iron. His
body and soul are alike compounded of atoms, and the soul is extinguished
at death. The science of Prehistoric Archceology confirms the theory
of man's slow passage from barbarism to civili- zation; and the science
of Comparative Psychology de- clares that the evidence of his immortality
is neither stronger nor weaker than the evidence of the immortality of the
lower animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug-
gestive theories bequeathed by the Ionian school and its successors,
theories which fell into the rear when Athens became a centre of
intellectual life in which discussion passed from the physical to those
ethical problems which lie outside the range of this survey.
Although Aristotle, by his prolonged and careful observations, forms a
conspicuous exception, the fact abides that insight, rather than
experiment, ruled Greek speculation, the fantastic guesses of parts
of which themselves evidence the survival of the crude and false
ideas about earth and sky long prevailing. The more wonderful is it,
therefore, that so much therein points the way along which inquiry
travelled after its subsequent long arrest; and the more apparent is it
that nothing in science or art, and but little in theological
speculations, at least among us Westerns, can be understood without reference
to Greece.Approxi-Namb. Place. mate Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae
Pri^ f Water.Substance Anaximender. the
Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the Ionian a
Cosmos built coast). up of geometrical figures/' or(Grote,
Plato, i, 12) "generated out of
number." Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia). Eleatic
school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum 450 Fire,
Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love and Strife. Anaxagoras. Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus
Democritus. Abdera. Formulators of the Atomic Thrace Theory Aristotle.
Stagira (Macedonia). 350 Naturalist. i
Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic Theory and
Ethical Philosopher. LUCREZIO. Roma Interpreter of Epicurus
and EMPEDOCLE DI GIRGENTI : the first Anthropologist. Gilberto
Corbellini. Keywords: darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read
selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia
filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita,
utilitarismo, darwinismo sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione,
progresso ed evoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cordeschi: l’implicatura
conversazionale della logica della guerra – filosofia italiana – Luigi Speranza
(L’Aquila). Filosofo italiano. Grice: “Cordeschi is fine if you
are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” --
Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona
subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. CVecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica. Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
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L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, 2. Manuscript. La psicologia tra scienze della
natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi N.
(1980), a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici
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critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia
e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica
aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia
Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura
robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo
quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente,
quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle
rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior
ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi
sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali
(la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come
le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le
restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli
stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati
interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di
rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i
modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo
prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o
mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni,
una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei
punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza
naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche
per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione.
La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un
pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una
rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di
diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita
(impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale
si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto
dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni
polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano
nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per
eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori
e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno
opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo
troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e il concetto piu generale di segno in IA
classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla
base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della
natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un
sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un
sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non considerati
tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo
che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e
la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua capacità
rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni al Si
veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel 1999). 12 Detto
in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la
capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la
sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa.
Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del
pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda (Di Francesco 2002). 13 Per
pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica,
biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi
computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento,
confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema
nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa
tesi provocò diverse reazioni (si vedano i volumi 17 e 18 di Cognitive
Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che
ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema che esterni ad esso (nel
mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto
biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal
punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre
sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio,
nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa
(subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da
un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla
codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione
dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che
“il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica
l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso
al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali
esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli
artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene
particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota
uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per
riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi
robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito
per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero
essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come
Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra
ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come
sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto
sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono
tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il
ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al
livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una
catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>).
Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente
sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria
diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un
comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere
considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il
semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli
presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno
luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la
definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e
poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli
ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale
captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di
determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo
comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che
l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e
dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che
non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi
simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che
evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern
che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della
denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen-
tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta
di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione
funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il
solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o
che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche)
hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non
sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione
certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma
di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un
sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o
una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern
venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante
del carrello del ro- bot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre
presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che
stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente,
e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo.
Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente
“intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali
relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente
mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice,
“La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un
pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto
per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale
dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione
interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base
di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri
casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento
di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa
o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In
molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite,
linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo
tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non
condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse
vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale.
A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo,
non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai
costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si
possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di
rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le
rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz-
zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo
comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni
nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento
di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne
faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica
della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a
feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica
regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista
S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli
artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel
contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse
come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le
regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La
memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali
regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria,
codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento,
quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state
memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo
tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che
fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti
dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi
robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con
l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella
presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di
rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di
Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a
sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli
faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole
di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è
“percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso
l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di
risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare
l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della
guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia,
frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza
dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella
terminologia di Gibson (1986) sono invarianti dell’ambiente che vengo- no
“colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con
l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la
mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i
movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne
la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho
parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in
filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire
sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di
Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per
tali sistemi (sul quale si veda Newell 1980). aspettative pertinenti.17
Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai
Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre-
concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non
è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative, generato dalla
formulazione del problema: tale informazione è generalmente incompleta, ma è
pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da parte dell’agente. La
proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di produzione di un’azione
del genere, e in generale di una affordance, è un simbolo che, via il sistema
percettivo di codifica, raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la
CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta
la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo
di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo punto di vista, le affordance
sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno, ma con una particolarità:
quella di essere codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio
di sopra, una volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come:
“se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”. Questa regola rappresenta la
situazione al livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che
entra in gioco è “minima”. Un termine del genere, a proposito delle
rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il
termine rimanda alla forma della regola indicata, che può essere rapidamente
applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o
soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del
problema e con l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che
comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di
regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento
(quando si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati
dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a
raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi- fica
percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una
carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante
possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare
luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare
riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione
possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in
tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica
e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto
di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle
procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’
nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e
strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza
dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti
degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra
condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa
estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non
centralizzate e le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di
creature insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di
problemi più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, [...] una
rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da
poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva
evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia
Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di
guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale Lingua Segui
Modifica 1leftarrow blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. Il 1º
settembre 1939, a seguito dell'attacco tedesco contro la Polonia, il capo del
governo Benito Mussolini, nonostante un patto di alleanza con la Germania,
dichiarò la non belligeranza italiana. L'entrata dell'Italia nella seconda
guerra mondiale avvenne con una serie di atti formali e diplomatici solo dopo
nove mesi, il 10 giugno 1940, e fu annunciata da Mussolini stesso con un
celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di
incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie
tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a
lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro,
oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne
la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il
desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago
della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Benito
Mussolini, il 10 giugno 1940, annuncia la dichiarazione di guerra dal balcone
di Palazzo Venezia a Roma AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e
l'avvicinamento alla GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia
André François-Poncet Il 28 ottobre 1938 il ministro degli esteri tedesco
Joachim von Ribbentrop incontrò a Roma Benito Mussolini e il ministro degli
esteri italiano Galeazzo Ciano.[1] Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di un
possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse nel
giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno
Unitosarebbe stato inevitabile.[2] Alle molte domande di Mussolini, il ministro
degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i
quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di
assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America
non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania
era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro
dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione
fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso
tempestivo».[3] Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma
Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle
intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio
italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia
verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare
dell'aiuto tedesco».[3]L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica
di avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei
potenziali nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento
dell'Italia a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al
vecchio schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che
aveva contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra
Ribbentrop, Mussolini e Ciano, però, si concluse con un momentaneo nulla di
fatto. Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era
riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di
André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di
buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della
particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti
nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un
arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica
ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale
Italiana.[4] Almeno fino alla primavera del 1940, infatti, gli obiettivi del
Duce non comprendevano la conquista di territori europei.[5] Il 23
novembre 1938 il primo ministro inglese Neville Chamberlain e il suo ministro
degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la
collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia
e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un
discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri
Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni
irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!,
Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna
diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André
François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione
simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un
centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni.[6] Nonostante la
parvenza di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e
da Achille Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di
Mussolini per poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via
negoziale,[7] avevano inscenato le manifestazioni per impressionare
François-Poncet, il quale infatti avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8]
Il governo francese gli ordinò allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla
conclusione che, se la situazione era quella, una futura guerra contro l'Italia
sarebbe stata inevitabile.[9] La sera stessa, durante una seduta del Gran
consiglio del fascismo, Mussolini prese però le distanze da quanto accaduto in
aula, dato che l'Italia aveva da poco ripreso buone relazioni con la Francia e
che la protesta era stata intrapresa a sua insaputa.[6] Il 2 dicembre
1938 François-Poncet chiese a Ciano se le grida dei deputati potevano
rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana e se l'Italia
riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano del 1935.[10] Ciano,
dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo
non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che
le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che
era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo del
1935.[4] Di fronte a risposte così poco rassicuranti, la Francia iniziò ad
aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo dei vertici militari
d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri Giraud affermò
infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe francesi, «una
semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri ufficiali parlavano di
un'azione militare «facile come infilare un coltello nel burro».[11] Il primo
ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione nei
confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa
straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre
richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin
dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia,
ampliandoli nel 1935, nel 1937 e nel 1938, ma il generale Alphonse Georges fece
notare che nessuna azione sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla
Francia, fosse pesata una minaccia tedesca.[11] Mussolini, il 2 gennaio
1939, decise di aderire al patto italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il
proprio impegno.[12] Secondo Ciano, il Duce si convinse ad accettare la
proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra Francia e Regno
Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei confronti dell'Italia
e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una
posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti
Londra e Parigi.[13] Il successivo 26 gennaio il maresciallo Pietro Badoglio,
ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato
Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni
prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle
rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza
e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo
piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di
cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare:
quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e
ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra (e ciò non è nelle sue
intenzioni)».[14] Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e
per il supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese
eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva
dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione
dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo,
il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo
conflitto prima del 1943.[15] La firma del Patto d'AcciaioModifica
La firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania il 22 maggio 1939 Il 22
maggio 1939 Italia e Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli
esteri Ciano e Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno
precedente e firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini
aveva inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più
prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le
due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e
diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i
propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano
militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano,
inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in
caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace
separatamente.[16] Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop
per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la
parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva
rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a
breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano,
dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che
dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni»[17] e che le divergenze con la
Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su
una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto
armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi,
coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere
militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la
firma dell'alleanza.[17] Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di
Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il
successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi
finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima
occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono».[18] Dal 27 al 30
maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler,
successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del
generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite
alcune interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico,
Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni
plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e
povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di
durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria
preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere
successo solo a partire dal 1943.[19] Il successivo 12 agosto Galeazzo Ciano si
recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler.
Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale
confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse
rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle
informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute.
Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con
l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla
firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere
azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi,
secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e
l'aggravarsi della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione
però che non provocherà un conflitto generale».[20] Il 25 agosto Hitler
chiese al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie prime
avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra. Nella
speranza che il Paese ne fosse esonerato, il 26 agosto il Duce rispose con una
lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente
esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro».[21]
L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate
richieste di questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e
numerosi altri materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate
di rifornimenti e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito,
l'Italia non avrebbe potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra.[22]
Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose
dicendo che comprendeva la precaria situazione italiana e che poteva inviare
una piccola parte del materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per intero
le richieste nostrane.[21] Il 30 agosto la Germania inviò alla Polonia un
ultimatum per la cessione del Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la
mobilitazione generale. La mattina del giorno successivo, nonostante la
situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì come mediatore presso Hitler
affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica alla Germania, ma il ministro
degli esteri inglese Halifax rispose che tale soluzione era inaccettabile.
Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso giorno il Duce propose allora a
Francia e Regno Unito una conferenza per il successivo 5 settembre, «con lo
scopo di rivedere quelle clausole del trattato di Versaglia che turbano la vita
europea».[23] Mussolini, precedentemente, aveva già tentato di instradare
la situazione nell'alveo di una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario,
in più momenti annotò che il Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le
altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare l'espansione germanica»;[24] «Il
Duce [...] sottolinea la necessità di una politica di pace»;[25] «[...] si
potrebbe parlare col Führer di lanciare una proposta di conferenza
internazionale»;[26] «Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi [...] che
lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in
mente l'idea di una conferenza internazionale»;[27] «Il Duce [...] raccomanda
ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con
la Polonia [...] il Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità
della pace»;[28]«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia
e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»;[29] «[...] facciamo cenno a
Berlino della possibilità di una conferenza».[30] Durante la sera del 31
agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le
comunicazioni con l'Italia.[29] Lo scoppio della guerra in EuropaModifica
La scelta della non belligeranzaModifica Truppe tedesche, il 1º settembre
1939, rimuovono una sbarra di confine tra Germania e Polonia All'alba del 1º
settembre le forze armate tedesche, utilizzando come casus belli l'incidente di
Gleiwitz, diedero inizio alla campagna di Polonia, varcandone il confine alla
volta di Varsavia. Mussolini, avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con
il Reich, fu messo di fronte alla scelta se scendere o meno in campo a fianco
di Hitler. Ricevuta notizia dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione
italiana, la mattina dello stesso giorno il Duce telefonò subito
all'ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler
gli mandasse un telegramma per sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da
non passare per traditore agli occhi dell'opinione pubblica.[31] Il
Führer rispose immediatamente, in modo molto cortese, accogliendo senza
problemi la posizione dell'Italia, dicendo che ringraziava Mussolini per
l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul fatto che non aspettava il
sostegno militare italiano.[31] Il telegramma, però, probabilmente per punire
la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne pubblicato da alcun
quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio, facendo successivamente
nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente ostilità nei confronti
degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori del Patto.[32] Galeazzo
Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa crescente avversione,
ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere «molto riconoscente al
Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato che non aveva bisogno
dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la Polonia», ma che sarebbe
stato meglio «se questo telegramma fosse stato pubblicato anche in
Germania».[33] Non potendo scegliere la neutralità per non tradire
l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle 15:00 del
1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non
belligeranza.[34]La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania
prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta».[30] Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così,
nelle prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese
forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca [...], naufragò la navicella
della mediazione italiana».[35] Il 3 settembre Regno Unito e Francia, in virtù
di un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania.
Il 10 settembre l'ambasciatore Bernardo Attolico, facendo riferimento
all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra
dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le
grandi masse popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una
crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con
frequenza».[36] Il successivo 24 settembre, a conferma
dell'impreparazione italiana, il Commissariato Generale per le Fabbricazioni di
Guerra sondò il grado di approntamento delle Forze Armate, ricevendo come
risposta dagli Stati Maggiori che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica
sarebbe riuscita a ripianare sufficientemente le proprie carenze entro la metà
del 1942, la Regia Marina alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del
1944.[37] Inoltre l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal
blocco navale alle esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e
Francia nell'autunno 1939,[38] e dall'applicazione del diritto di angheria, il
quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio
nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre
sotto sequestro merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una
nazione nemica o dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti,
gli inglesi fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi
mercantili e passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio
1940), rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar
Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i
rapporti fra Roma e Londra.[39] Durante l'inverno il Regno Unito fece
sapere di essere disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo
stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di
consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e
Francia.[40] Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato
il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di
Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica
mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale
anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di
portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo
l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da
Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il
blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del
Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì
parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai
tempi della guerra d'Etiopia.[41] Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa
Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la
conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse
dello Stato.[42] Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane risultavano
impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette»
millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati italiani non era
motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi
specifici come l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica
la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti.[43] Il
Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli
italiani,[32] aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si
era posto il problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer
avrebbe riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri
di alleata.[44] Il generale Emilio Faldella, infatti, testimoniò che «più si
profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la
vendetta di Hitler».[45] Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto
Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di
lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità
dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica
pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per
annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia
settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il 30 settembre
1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie
per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile
impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che,
almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle
alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei
tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il
successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo
Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra
Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona,
massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla
popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento
ironico alla Linea Sigfrido.[48] Il problema della non
belligeranzaModifica La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana
sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una
serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la
condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il
fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante
tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse
essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente,
secondario o codardo.[49] Il Duce era infatti convinto che, nonostante
l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla
guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N
1][50] infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza
dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di
una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non consisteva
nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto, «perché
l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di
sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile,
compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49]
Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare
il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo
però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia
cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il
Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno Unito.[49]
Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai flebile, di riuscire
ancora a riportare la situazione nell'alveo delle trattative diplomatiche,
credendo possibile una sorta di ripetizione della conferenza di Monaco del
1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso fra tre possibili
alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione per via negoziale
fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti qualche sorta di
ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco della Germania (ma
solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla vittoria finale),
oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della Germania, in piena
autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed esclusivamente italiani, che
gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei vincitori e di raccogliere
qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo costretto a centellinare le
poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la faccia.[53] Scartata la
prima ipotesi, dal momento che le richieste di trattative avanzate da Hitler
erano state respinte, Mussolini si orientò allora sulla seconda e sulla terza,
in realtà strettamente interconnesse fra loro, maturando questa convinzione
almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una lettera al Führer per
comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento
che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non troppo presto per evitare una
guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare ormai a cose fatte.[55] Nella
stessa lettera, però, nonostante l'impegno a entrare in guerra, Mussolini
dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo contraddittoriamente a
Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e Londra, in quanto «non
è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli alleati franco-inglesi senza
sacrifici sproporzionati agli obiettivi».[56] Il 10 marzo 1940, dopo un
incontro con il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò
questa linea, come risulta dal contenuto di una sua telefonata con Claretta
Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2]
Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra
come di un fatto ineludibile, senza però precisare come e quando.[57] I
dubbi sul da farsiModifica Mussolini e Hitler nel 1940 Il 18 marzo
Mussolini e Hitler si incontrarono per un colloquio al passo del Brennero.
Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce era dissuadere il Führer dal
proposito di iniziare un'offensiva terrestre contro l'Europa occidentale.[58]
L'incontro, invece, finì in un lunghissimo monologo del Cancelliere tedesco,
con il Duce che a stento riuscì ad aprire bocca. Fra marzo e aprile Hitler
intensificò la sua pressione psicologica su Mussolini, mentre il fronte antitedesco
sembrava crollare in una serrata sequenza di vittorie germaniche. Le Forze
Armate del Reich, mettendo in atto l'efficace tattica del Blitzkrieg,
travolsero infatti la Danimarca (9 aprile), la Norvegia (9 aprile-10 giugno), i
Paesi Bassi (10-17 maggio), il Lussemburgo (10 maggio), il Belgio (10-28
maggio) e iniziarono l'attacco alla Francia. I vertici militari italiani
prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la «liquidazione della Francia
entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le folgoranti vittorie tedesche,
unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e francesi,[59]fecero
rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno consapevoli che dal
conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa e dell'Italia, e causarono in
Mussolini una serie di reazioni contrastanti che, «con gli alti e bassi tipici
del suo carattere», continuarono ad accavallarsi, rendendolo incapace di
prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma alla quale cercava di
sottrarsi.[60] A chi gli chiedeva un parere sull'eventualità che l'Italia
restasse fuori dal conflitto, Mussolini, riferendosi all'attacco tedesco in
corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli inglesi e i francesi reggono il
colpo ci faranno pagare non una, ma venti volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci
faranno restituire tutto con gli interessi».[61] Il 28 aprile papa Pio
XII inviò un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto.
Galeazzo Ciano, riferendosi al messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza
di Mussolini è stata fredda, scettica, sarcastica».[62] Il 6 maggio il re
Vittorio Emanuele III, accennando alla «macchina militare ancora debolissima»,
sconsigliò l'entrata in guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella
posizione di non belligeranza il più a lungo possibile.[63]Contemporaneamente
la diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo
al fianco della Germania: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto
rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe
potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su
insistenza francese, il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano
Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da
gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra. Due giorni dopo anche il primo
ministro inglese Winston Churchill seguì l'esempio, ma con un messaggio più
intransigente, in cui avvertiva che il Regno Unito non si sarebbe sottratto
alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente. Il 26
maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt al Duce.[64] Tutte le
risposte di Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele all'alleanza con
la Germania e agli "obblighi d'onore" che essa comportava, ma
privatamente non aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi.[65] Pur
parlando continuamente di guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri suoi
collaboratori,[66] ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi,
almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa convocazione dei tre
sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non risulta che il numero dei
colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e
nulla faceva presagire un intervento a breve.[67] Mentre i francesi si
aspettavano un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al
massimo un improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea
Maginot, circa 2.500 carri armati tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato
in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata
da profonde vallate e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel
momento, del tutto inadatta a essere attraversata da carri armati. Alla
sorpresa di un'azione tatticamente così brillante seguì il rapido e totale
collasso delle Forze Armate francesi, che fece nascere la convinzione, nei
vertici militari italiani, che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di
fronteggiare da solo un attacco tedesco e che sarebbe stato costretto a
scendere a patti con Berlino e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto la
volontà né il tempo utile di impegnarsi direttamente nel conflitto, dato che
non lo avevano fatto neanche per salvare la Francia e per servirsi di essa come
una testa di ponte sul continente europeo.[68] Inoltre, la maggioranza
dell'opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Franklin Delano
Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali
del 1940, non poteva non tenerne conto.[69] Il direttore dell'OVRA, Guido
Leto, dispose la raccolta di indiscrezioni, informazioni riservate e
intercettazioni telefoniche per sondare i sentimenti degli italiani nei
confronti della guerra, allo scopo di creare uno spaccato il più aderente
possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che chiedeva un quadro completo
della situazione.[70] Secondo tali relazioni, «i nostri informatori
segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno
stato di timore - che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse
sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda
partita e che, di conseguenza, noi - se pure ideologicamente alleati - saremmo
rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre
aspirazioni nazionali. Che, a causa della nostra prudenza - di cui veniva
attribuita la responsabilità a Mussolini - saremmo stati, forse, anche puniti
dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo, bisognava bruciare le tappe ed
entrare subito in guerra».[71] Leto, inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e
non certo di politicanti delle due parti avverse e con debolissimi echi nel
paese, si levarono ad ammonire sulle tremende incognite che la situazione
presentava».[71] In questo clima, perciò, anche Mussolini si convinse che
l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto era opinione comune[72] che il
Regno Unito avesse i giorni contati e che la conclusione della guerra fosse
ormai prossima.[73] A nulla servirono le opposizioni del re e di Pietro
Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio
prudente sulle vittorie tedesche in Francia.[74] Il sovrano, inoltre, pose
l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale
intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di numerose
incognite.[75] Dello stesso avviso era anche il principe ereditario Umberto di
Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il Principe di Piemonte. È
molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali. Scettico,
impressionantemente scettico sulle possibilità effettive dell'esercito nelle
attuali condizioni, che giudica pietose, di armamento».[76] Secondo
Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche erano il presagio dell'imminente
fine della guerra, per cui l'insufficienza effettiva delle Forze Armate
italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile.[77]Accanto al suo timore
che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura conferenza di
pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento nostrano,[61]
nacque in Mussolini la convinzione che gli fosse necessario «solo un pugno di
morti»[78] per potersi sedere al tavolo dei vincitori e per avere diritto a
reclamare parte dei guadagni, senza la necessità di un esercito preparato e
adeguatamente equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione pubblica nella
tarda primavera del 1940,[59] sarebbe durata ancora solo poche settimane e il
cui destino era già scritto in favore della Germania.[75][79] L'entrata
in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di mediazioneModifica Il
presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in
cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e
il re del Belgio Leopoldo III firmava la resa del proprio paese, il Duce si
convinse che fosse arrivato il «momento più favorevole» che attendeva da
gennaio ed ebbe una decisiva virata verso l'intervento: il 26 ricevette una
lettera dal Führer che lo sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un
rapporto inviato a Roma dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che
era succeduto a Bernardo Attolico, su un suo colloquio con Hermann Göring.
Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia di entrare in guerra quando i tedeschi
avessero «liquidata la sacca anglo-franco-belga», situazione che si stava
verificando proprio in quei giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte
impressione, tanto che Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si
propone di scrivere una lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la
seconda decade di giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della
vittoria tedesca, poteva essere quella decisiva per la fine della guerra e
l'Italia, secondo Mussolini, non poteva farsi trovare non in armi.[80] Lo
stesso giorno, in un estremo tentativo di scongiurare la partecipazione
italiana al conflitto, il primo ministro inglese Winston Churchill aveva,
previo accordo con il suo omologo francese Paul Reynaud, inviato al presidente
degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt la bozza di un accordo, che
quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente trasmettere al Duce. Secondo tale
documento, conservato presso i National Archives di Londra con il nome
Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno Unito e Francia ipotizzavano la
vittoria finale della Germania e chiedevano a Mussolini di moderare le future
richieste di Hitler.[81] Nello specifico, secondo questa proposta di accordo,
Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo
non avesse ammesso il Duce, nonostante la mancata partecipazione italiana al
conflitto, alla futura conferenza di pace in posizione uguale a quella dei
belligeranti.[81] Inoltre, Churchill e Reynaud si impegnavano a non
ostacolare le pretese italiane alla fine della guerra (che principalmente
consistevano, in quel momento, nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella
partecipazione italiana al controllo del Canale di Sueze in acquisizioni
territoriali nell'Africa francese).[81]Mussolini, però, in cambio avrebbe
dovuto garantire di non aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe
dovuto salvaguardare Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore,
avrebbe dovuto revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana
e avrebbe dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto.
Roosevelt si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale
accordo.[82] Il 27 maggio l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, William
Phillips, recò a Galeazzo Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il
testo dell'accordo.[83] Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la
proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese
in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a
trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria».[81] Secondo lo
storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano.
Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più presidente?
L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni seguenti, delle
notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919, come ci si poteva
fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga scadenza, fatte per
di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva presentarsi alla
rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una Francia al collasso,
da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa avrebbe potuto fargli
subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai prima di qualsiasi
intervento americano - una Germania trionfante».[82] Secondo gli storici Emilio
Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai accettato di sedersi
al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un Hitler trionfante, solo
"per concessione" degli Alleati, senza aver combattuto, in quanto la
sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita debolissima e la sua
autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata del tutto
irrilevante.[81]Galeazzo Ciano, nel suo diario, alla data del 27 maggio riportò
infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto
reclama, rifiuterebbe».[84] La risposta a William Phillips, infatti, fu
negativa.[83] Gli atti formali e l'annuncio pubblicoModifica La
folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste al discorso sulla
dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna Il 28 maggio il
Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia
e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici
delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Rodolfo Graziani,
Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo.
Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione[85] e il 30 maggio annunciò
ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra mercoledì 5
giugno.[86] Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata in
guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la
conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo
l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine
del conflitto.[55] Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di
qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare
i piani in corso di attuazione in Francia.[87]Il Duce si mostrò d'accordo,
anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In
un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Hans Georg von
Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era
stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo.[88] Il
Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli
venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che, in base allo Statuto
Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe
opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una formula di
compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele
III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento
di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie
prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far
fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo
evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata
superstiziosamente considerata di cattivo auspicio,[90]si giunse a lunedì 10
giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi
l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica,
gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re
e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la
Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne
ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la
lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si
considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11
giugno».[91] Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di
Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore
francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo
di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già
da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che
comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli italiani
come nemici.[N 3][92]L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo Ciano
avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a
domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata
un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra.[93] Preceduto
dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò
alla folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini,
indossando l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia,
annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali
città italiane, che «l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo
al corrente il popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di
guerra.[94] Di seguito, l'incipit e explicit del discorso: «Combattenti
di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni.
Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora,
segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni
irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli
ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. [...] La parola d'ordine è una
sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori
dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un
lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo
italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore!».[95] Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La prima
pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con
entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del conflitto
come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo sull'intervento
italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata da Mussolini il
31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi possibile allo
scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il Paese. In ogni
caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non veri e propri
atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna palesò
pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del Capo
del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese:[96] «Corriere della Sera: Folgorante
annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo
d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce
Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e
Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le
catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La
Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia.
Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di
italiani.» L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali
clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì
sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici
italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un
commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica
dell'Italia».[96] Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della
reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come nell'agosto del
1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso
un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il
rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di
arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non
determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma
semplicemente la misurò».[71] Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio
pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento,
uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se,
privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe
preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni
strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta.[N
4][95] In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle,[97] in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Maxime Weygand, aveva già impartito ai
comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il
maggior numero possibile di unità.[98] Il giudizio di Churchillsull'ingresso
dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al
commento pronunciato a Radio Londra:[99] «Questa è la tragedia della storia
italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e
vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro
un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione
radiofonica:[100]«In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha
affondato nella schiena del suo vicino». Piani di guerraModifica
L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani
dell'11 giugno 1940 I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito nel febbraio 1940 e prevedevano una condotta
strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da
iniziare solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia
francese e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la
dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali
veniva lasciata al Duce piena libertà di improvvisazione.[101] I vertici militari
riconobbero l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso
tempo, non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale
fiducia in Mussolini.[102] L'approccio del Duce al conflitto appena iniziato
dall'Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli
indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei
teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti.
Venivano a mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio
respiro, obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra.[102]
Ciò fu evidente fin da subito, quando, il 7 giugno, lo Stato Maggiore Generale
notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato
Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente:
tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in
aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze
francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a
meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale,[103] e
altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva
intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di
Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia.[104] Come
preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco,[105] dall'11 giugno
le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in
vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono
bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden
e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne
affidato al generale Rodolfo Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali
contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il
comando su un fronte europeo[106] e che non aveva alcuna familiarità con la
frontiera occidentale.[107] I vertici militari italiani, costretti a centellinare
le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo in
concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia
avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi
ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca
nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la
pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro
Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva
per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata
quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e
godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori».[109]L'atteggiamento
dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove
attaccare,[110] e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non
aveva altri obiettivi»,[110] venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini
con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà».[111]
NoteModifica Note al testo ^ Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione,
stilata da Mussolini il 31 marzo 1940, con destinatari Vittorio Emanuele III,
Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari,
Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il
«promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Il Servizio
Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per
tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece,
la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete
aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in
voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo:
«Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci
ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo
delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena
Archiviato il 15 settembre 2016 in Internet Archive., in Il Tempo, 10 giugno
2009. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Di seguito i testi dei due
telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La
Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. URL consultato il 30
dicembre 2018. Berlino, 10/6/40, telegramma di Hitler al Re
La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi
propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in
combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i
nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno
d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma
convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la
vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno
quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, 10/6/40, telegramma
di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato
mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a
Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in
lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti
britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero
ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione
si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali
dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che
siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni
e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e
per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, 1948, pp. 373-378. ^ a
b Ciano, 1948, p. 375. ^ a b Ciano, 1948, p. 383. ^ Paoletti, p. 31. ^ a b
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^ Ciano, 1948, pp. 386-387. ^ a b Schiavon, op. cit. ^ Ciano, 1948, p. 392. ^
Ciano, 1948, pp. 393-394. ^ Corpo di Stato Maggiore, 1983, p. 2. ^ Candeloro,
pp. 50-52. ^ Paoletti, pp. 56-58. ^ a b Paoletti, pp. 53-54. ^ Ciano, 1990, p.
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settembre 1940. ^ a b Ciano, 1990, p. 340. ^ a b Paoletti, p. 80. ^ Ciano,
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nota del 27 maggio 1940. ^ De Felice, p. 834. ^ Carteggio Hitler Mussolini 1940
- Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 27 dicembre 2018. ^
L'Archivio "storia - history", su www.larchivio.com. URL consultato
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pugnale alla schiena, in Il Tempo, 10 giugno 2009. URL consultato il 28
dicembre 2018(archiviato dall' url originale il 15 settembre 2016). ^
Speroni, pp. 186-187. ^ De Felice, pp. 840-841. ^ a b La Dichiarazione di
Guerra di Mussolini, su www.storiaxxisecolo.it. URL consultato il 6 settembre
2016. ^ a b Luciano Di Pietrantonio, 10 giugno 1940: l'Italia dichiara guerra a
Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma.net, 9 giugno 2013. URL consultato il
19 dicembre 2018. ^ De Santis, p. 40. ^ Bocca, p. 144. ^ Simonetta Fiori,
Mussolini e il 10 giugno del 1940: il discorso che cambiò la storia d'Italia,
in Repubblica, 10 giugno 2014. URL consultato il 25 dicembre 2018. ^ Campagna
di Francia (1940), su storiaxxisecolo.it. URL consultato il 19 dicembre 2018. ^
Rochat, pp. 242-243. ^ a b Rochat, p. 244. ^ Faldella, pp. 165-166. ^ Rochat,
p. 243. ^ Enzo Cicchino, 10 giugno 1940. Il testo della dichiarazione di
guerra, su larchivio.com(archiviato dall' url originale il 3 settembre
2017). ^ Bocca, p. 149. ^ Faldella, p. 176. ^ Pier Paolo Battistelli, I
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Occidentali Lista del molibdeno Occupazione italiana della Francia meridionale
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il discorso di Mussolini, su patrimonio.archivioluce. Portale Guerra
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logica della guerra, la guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano,
mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia,
rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in Aristotele,
predicate, significato, communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Corleo – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Salemi). Filosofo italiano. Grice: “Corleo is a
genius -- His keyword is identity, the
Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my
favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian –
about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek
attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and
the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an
empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel
Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente
dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio
affermativo (S e P) o giudizio negativo (S non e P), giudizio condizionale (Si
p, q), giudizio tetico (S e P), giudizio ipotetico (Si p, q), giudizio disgiuntivo
(p o q), e via via; poichè,ogni proposizione o giudizio, semplice or complessa,
debbe congiungere un predicate ad un soggetto (S e P) o negare un predicato ad
un soggetto (S non e P), e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità
parziale o totale del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o
contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità
assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica, o in forma
disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a scoprire una
verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto
tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato sulla medesima
legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni
passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato
dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si
può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal
noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri
conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà
strano che la connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma
riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere
altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma
importa invece che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti
integranti del tutto S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o
signa altro, che il loro legame necessario per la formazione di quel tutto
complesso proposizionale (S e P); onde se essi non fossero con nessi a comporre
il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico
alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro
connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti
li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è identico con la somma
delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro,
perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla
verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion
d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà
del “triangolo” in genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha
una continua connessione tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non
sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La
ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che le parti necessarie di un
solo tutto, del concetto di “triangolo” e delle sue specie subalterne, e tutti
più o meno mediatamente in quel concetto complessivo sono compresi. Pertanto
non vi ha che un identico totale (talora nemmeno avvertito ), il quale, per
esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle sue parti sia quella che è, e
che tutte insieme concorrano con unità di nesso a costituirlo, come le parti si
debbon legare fra loro per unirsi nella identità di un sol tutto. Metto una
grande importanza in queste osservazioni sul raziocinio e sulla connessione
(consequenza logica) de' suoi membri; poichè l'unica che sembrerebbe scappare
dalla rigorosa legge della identità sarebbe la connessione tra i giudizi
diversi (premessa e conclusion), di cui consta un ragionamento. Eppure, quella
connessione non è altro che il frutto dell'identità totale di un giudizio
maggiore e più esteso, il quale abbraccia come sue parti necessarie ogni
giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto connessi, perchè tutti in
sieme formano un solo e identico giudizio di più larga estensione. Nè fa d'uopo
che nel ragionare si abbia presente quel giudizio maggiore, nel quale si congiungono
con identità totale i giudizi connessi. Esso opera senza che il ragionatore lo
sappia, poichè è virtù dell'identico totale riunire per necessità le parti fra
di lor, senza di cui egli non potrebbe esser quello che è. Ciò sapendo, chi
ragiona può benissimo salire dai veri connessi a quel vero più ampio che tutti
li abbraccia e nella sua unità totale li identifica. Sarà questo un sistema più
completo di ragionare, perocchè non ci contenteremo di scorgere il nesso tra
parecchi giudizi, di procedere per mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio
novella e di dire che uno essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser
veri; ma cercheremo ancora in qual giudizio plenario e più esteso essi tutti
vadano a connettersi per la identità di unico comune risultato. In ciò consiste
l'analiticita logica. Il raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei
teoremi singoli o la risoluzione dei singoli problemi nella proprietà, o nella
funzioni e simili, che sono appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali
tutti quei singoli s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte
logica la connessione non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti
subalterne, senza il cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il
ragionamento è dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e
verità. Dimostrare niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi,
e la connessione pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco
non si sappia, si raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che
tutti li abbraccia come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità
parziale di un predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro
predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi
tutti costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati
si compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno
non potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse
quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri
predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri
gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui
tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando,
dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal
caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge
d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta
prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità
o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile*
identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In
questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile*
identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La
conoscenza dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a
cercare la medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si
osserva in altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento
della identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra
una legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o
posizione; o non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente
insuperabili, di cui però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella
identità parziale, nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e
perchè manchi, per poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto
il raziocinio dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza
concetto; poichè la *testificazione* della identità parziale tra predicato e
soggetto di ogni giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data
dall’esperienza. Se è composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso
sperimentale; e la connessione dipende dalla loro parziale identità con un
giudizio sperimentale di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è
conosciuto, ma vi si deve giungere in forza di altre esperienze, come per lo
più accade nel raziocinio inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e
tale temporaneamente, cioè fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto
S sia solo testificata dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di
essa non sono conosciuti, nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe
trasformare in concettuale il giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali,
o anco misti, potranno divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati
sull'identità assoluta dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta
analisi e sintesi delle parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto
con la conoscenza degli elementi proporzionali che costituiscono l'identico
totale.Vi ha dunque passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti
empirici alle verità assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza
progredisce nel conoscimento delle parti integranti che costituiscono i
subbietti dei giudizi sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra
quei subbietti parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un
complesso solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione
concettuale e necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi
proporzionali che li costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più
complessi nei loro con cetti subalterni, che sono del pari i loro elementi
costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può essere collocata in una
forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel passaggio dalla identità
totale alle identità sparziali che la costituiscono, o dalle identità parziali
alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre identità parziali che sono
con loro connesse per compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi,
per mezzo dei concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere
ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene
per mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio.
Chi cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello
studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del
raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto
di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert,
che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i
subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono
necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La
prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al
particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La
seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e Boezio, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla
classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che
non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare,
che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o
spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gli errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gli errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed
accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne
studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è
d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse,
per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente,
sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare,
connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le
parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in
forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per
potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero
assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le
percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con
segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente
sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono
scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano
le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il
colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè
non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la
conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio
della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si
tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi
e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero
trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente,
e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire
questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e
sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi
spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la
parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da
quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei
giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i
due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i
suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè
sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha
una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B?
A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica
certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della
percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde?
с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali,
с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli
altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è
quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un
primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di
un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha
bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono
a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si
guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento,
non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo
vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo
sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non
si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal
fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento
men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza
mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo
un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per
poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare
communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia
una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico
e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto
del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve
essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del
genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine
necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione
comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada
conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento
communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di
proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che
se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è
divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è
il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio
mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di
un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per
imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto
o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso
genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono
tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo
spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto
che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della
utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente
nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità
tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un
segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne
ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per
distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol
fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver
conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse
insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che
communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la
domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali
communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una
risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo
atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di
analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre,
siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o
stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta
volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la
libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi
ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto
ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o
co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio
duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non
astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è
possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre,
riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa
ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea
generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come
conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e
di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o
quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita
una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno
articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la
capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato,
l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo
possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo
numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio
duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un
fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e
possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello
segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto.
Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio
muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi
delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le
proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere
fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e
diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il
medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante
in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone,
verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto
quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno
del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si
aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la
mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un
verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata
dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non
basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali
intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento
in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la
copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che
nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del
segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di
signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”,
al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula
e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni
segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione
che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale
che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --,
cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del
risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La
sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e
complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione,
sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si
analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un
composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo
nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò
è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica
l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come
essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non
meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e
nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione
che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine
addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita,
relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato,
la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè
sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su
cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque
suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro
che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione
è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi
è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli
avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono
riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del
segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo
sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han
continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione
non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo
la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la
relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione
medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di
questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e
principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono,
indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome
aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la
preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e,
adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che
relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di
azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione
(declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare,
duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una
sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una
continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e
necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè,
il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua
desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo
definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per
indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale
di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei
cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di
cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea
fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un
segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno
della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la
necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare
ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in
sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di
forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione
che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha
un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del
giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative --
in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per
mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e
compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello
periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione
della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”,
cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo
anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione,
indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui
non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione
di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri
cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della
riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della
sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la
volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo
signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel
complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma
di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni
emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese
d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme
variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico
subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una
forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso
aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè
il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di
una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del
segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o
quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro
del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la
ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione
indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente,
ed in quante maniere sa metterle in relazione
fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza
studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una
percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere
se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo
stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche
dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare
col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma
forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un
segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato
(equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato
solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico
(equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di
usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per
far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare.
Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno
proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o
concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa
svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare).
Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile
novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più
di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un
emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto
più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del
traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo
spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa
qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue
uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale
che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice
originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi
il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma
con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle
forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non
è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati
nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli
proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde
esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al
bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza
scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si
confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno
avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta
non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l'
impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero
all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato
segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una
metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By
uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy).
Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e
ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme
poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le
relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre
più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione:
soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a
queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di
figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per
come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta
più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che
ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che
al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di
esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel
calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa
costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità
dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio
alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno
di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla
varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari
confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale.
Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura
stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle
loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser
quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei
traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria.
L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in
un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua
dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca
della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal
caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον (ergon), (azione)[3]: il πάϑος (pathos), il
"patire", una delle dieci categorie che si possono predicare
dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono
dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa,
dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo. L'affezione
può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o
carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco
per l'uomo»[4] In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli
oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche
non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il
desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della
sfera etica[5] Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone[6], che
adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche
Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come
sinonimi di passiones[7]. La funzione delle affezioni. Nella storia del
pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi
modi: con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa
sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono
negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa
stessa linea di giudizio sono Cartesio[8], Spinoza, Leibniz, e soprattutto
Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la
moralità — nell'ambito della false o confuse idee.[9] Nella filosofia
aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito
conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono
sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle
sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal
punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il
problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo
stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo
conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non
devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge
l'apatia, l'indifferenza alle passioni. KantModifica Secondo Kant, per le
nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni.[10] Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili»[12]. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica
senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica ^
Dizionario Treccani di filosofia (2009) alla voce corrispondente ^ Enciclopedia
Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Γ 2, 426a
2 ^ Aristotele, Metaphisica, Δ 7, 1049a 29,30 (in Sapere.it alla voce
"Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Β 8, 1385b 34 ^ M.T. Cicerone,
Tusculanae IV, 6, 11-14 ^ Agostino, De civitate Dei, IX, 4 ^ La passioni sono
una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come
l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In
Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti Editore, 2003, p.318 ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica
della ragion pura, Estetica trascendentale (B 33) ^ Cfr. I. Kant, id.,
Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica, (§ 81) ^ I. Kant,
Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica
Modo (filosofia) «affezione»
Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e
concepire Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant
Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords:
filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione
filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio
ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale
ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare
communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius
non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di
forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative
– signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii.
Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie
agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome
sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il
vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” –
modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello
spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come
SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Corleo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cornelio: l’implicatura
conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Rovito).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his
treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he
calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud,
humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome,
the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less
Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the
Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare
rib, etc.!” Si forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio,
molto studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie
molte tesi galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui
fu erede il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio
e di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria
filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss.
marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad
Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex
inspectione er ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest tionibus ætheri permiftis con animalium ex
semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari
de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter
modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite
animalium & ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix
de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni
inutilis apoplecticorum & ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à
fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta
rarefcit, & in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris
per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad
ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque
contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua
triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis
quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea diſtractio nifi
æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris
ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia
omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor
confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis
distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem
inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint
citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia, quæ
interclufo fpiritu fiiffa 46 cantur dexterum cordis ventriculum, Ariſtotelis
principia diffentanea. pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina
de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros
prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores, “ ampliores Calor omnis
animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor
nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat
pulfu fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes
eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu
fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris
naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. 129 Cauernæ in
quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo
ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies
duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum
ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo
prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad
Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus
fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus.
&tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in
iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim
elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue
Bilis nutritiumfuccum diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores
diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi-
cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condenſatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem attrahere
Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat Ifferentis
inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à vita matris Dɔny
Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab utero excluditur
E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum quomodofeſtucasattrahat. corpora
ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum Alenus ab Ariſtotele maximis de
orbiculorum in aqua alternatim a rebus diſſentit frendentium, defcendentium Galenus
Platonis fententiam de circum secundum orbiculorum in tubo dque pulſione non
eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque recurrena Galeni experimentum de fistula
in arte. - tium ad nutum eius, qui tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab
im digito obturat pulſie fanguinis moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni
Secta cæpit deficere aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna
clades d chy paria tubi inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex
imo furfum galenice medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus
de atomis, inani aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac
Democritus & Epi Experimentum quo Verulamius probat curus aquam
comprimipole eſt fallax Galileus omnium primus physiologiam experimentum
Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus
aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus
improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt ctiones" Hobbes fententia de
ſubſtantia inter al Galilei Carteſi aliorumque iuniorum rem & aquam media.
doctrina phyſicapræftantior quam homo à teneris annisita potefl educari,
antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu Genituraquid,vnde prodeato tius
viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto gignitur fpatio Genitura in
procreatione animalium ef- Hominis genitura non est eiufdem ratio ficientis
tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura non eſt pars, feu
materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi conceptus: propoſita
commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte Humanusfætus recens
formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica magnitudinem vix fum
Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum fugit aciem Geniture vis
per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere. Ecinorisprecipuum
munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil eft. cis
diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que Glandulg cur
maiores & frequentiores nam fint. in tenellis, & pinguibusanimalibus,
Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus, &macilentis, in omni motu
fit reciproca corporum dla translatio Glandule
fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo
fanguine Priſci. 4 Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris
natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora
etiam à leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis
feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes
degeneratione lacervberibus virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius
in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in
iudicando Hippocratis de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens
Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis
abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas & fallaces
præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina
inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum
ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon
eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum
vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis
naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis
diſimilis elektrick: Mund for printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias
iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo
incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor
ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ
fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad
Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum
O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt
imperitorum plaaſum aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus.
Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri.
rum curationes inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper.
Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo
exiſtentis Medici rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum
alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis
familiare eft mutuainter fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare
conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in
viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum
gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $
Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei
mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus
vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut
politici. 36 Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio
defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus
obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione
cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi
ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, & experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore,
nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie
obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica
Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius
randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
& oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum & alui Etrina
caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine
propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
& Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius
opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e
l’aquila, III secolo d.C.(?) Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di
nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani
Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della
mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più
bello di tutti i mortali del suo tempo. «La vicenda mitologica di
Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un
amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la
vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti
artistici al desiderio omoerotico[1].» In una versione del mito viene
rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere
sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale
della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica,
istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina
del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite,[2] indicante un
giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo.
GenealogiaModifica Figlio di Troo[3][4][5] e di Calliroe[3] (o di
Acallaride[6]). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8],
per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu
Erittonio[10] oppure Assarco[11]. Non risulta aver avuto spose o
progenie. MitologiaModifica Bassorilievo di epoca romana
raffigurante l'aquila, Ganimede che indossa il suo berretto frigio e una terza
figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è
costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse
sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta
nelle varie versioni della stessa leggenda. Nell'Iliade di Omero, Diomede
racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà
rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia,
offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite
d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era ormai divenuto
immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione
che era considerata di gran distinzione. Zeus per sottrarre Ganimede alla
vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si
avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle
pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi
sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte
antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa,
o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la
coppa in mano. Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il
mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana
di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni
viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante
dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di
Frigia[14]. Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel
giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus
considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto
del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come
costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella
dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacaledell'Acquario. Busto
di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del
Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia
Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio
adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico
(vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame
sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi
amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente
un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi
rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo
appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale.[15] Zeus e Ganimede,
rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali
cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato
durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei
fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo
un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si
riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo
a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo
all'eterosessualità. [16] FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto
pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il
rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza
della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua
funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di
Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17]. Nel dialogo platonico
poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del
padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale:
Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo
corpo[18][19]. Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del
rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e
in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante
il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un
esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774. Damiano
Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati
disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un
motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche
Stazio[23]. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo
contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite
si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un
principiante. Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il
personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di
Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio
del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava
ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in
questo caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di
epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande
del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina
di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon
Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036
Ganymed. Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose
di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a
cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio
il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza
Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.»
Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche
in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa
anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche
un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato
nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande
scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della
coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella ceramica il tema di
Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari
grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o
simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in
immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi
eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un
lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un
grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente
nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte
pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede (circa
1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli
rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti,
Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno
dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay
ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514
circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato
contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti
catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di
Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è
più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter
Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo
Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che
un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e
si fa la pipì addosso per lo spavento. Ratto di Ganimede (1700), di
Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono
stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era
invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila,
mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati:
in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre,
l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento
italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla
condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per
i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Jean-Baptiste Marie Pierre,
Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien, Jean-Baptiste
Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede
nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo. La scultura che
ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi nel 1804,
ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli
scultori più importanti del suo tempo[26]. L'artista danese Bertel
Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito
nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.
Particolare di una scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un
modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del
IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.
AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare
un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.
Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un
gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse, ca.
500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre). Ganimede e Zeus, e Apollo
e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le
Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522) Illustrazione gli Emblemata
di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si
"rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo (1505-1566),
Giove bacia Ganimede (1550 ca.) (Ashmolean Museum, Oxford)
Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da
Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al
giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano. Il
Ganimede di Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José Álvarez
Cubero Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen
Albero genealogicoModifica AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro
DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe
EuridiceIloAssarcoIeromneneGanimede Laomedonte Strimo (o
"Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino
EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio Silvius Enea Silvio Bruto di
TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio
Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia
di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il
gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore
2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the
English Language", 2000), catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro,
Biblioteca III, 12.2, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN )
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Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ (
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Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con
l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli
dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p.
836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^ Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio,
8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^
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IT\ICCU\URB\0846664. Particolare di Zeus accanto a Ganimede (1878), di
Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di Etana Omoerotismo
Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia Altri
progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Ganimede Collegamenti esterniModifica (EN) The
Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN) Peter R.
Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e
italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive. Portale
LGBT Portale Mitologia greca Ultima modifica 5 giorni fa di
Ptolemaios Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di
Tindaro Estia dea greca del focolare, della casa e della famiglia. Figlia
di Crono e Rea Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di
Ilo Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent Cornelio as
representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never
had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: Giove,
Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium,
ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta,
atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica,
l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura
ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila
come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Cornello – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano. La sua opera più importante è la
Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e
musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di
Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo Tasso, letterato e cortigiano
nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe
di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso nella
monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di origini
toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. La primogenita
Cornelia era venuta alla luce nel 1537. Di Sorrento e della «dolce terra
natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo, rimpiangendo «...
le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la natura, e i colli che
vagheggia il Tirren fertili e molli.» (Gerusalemme liberata, I, 390-92)
Quando Torquato era ancora bambino, il principe di Salerno fu bandito dal regno
e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si recò in Sicilia e
dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore
privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti
appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale poi restò in
corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione cattolica e da giovane
frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava
la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e ricevette
il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i nov'anni», come
scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel frattempo si
era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di essere rapita
durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase impresso nella sua
memoria. Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci
anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande dolore la madre che fu
costretta a rimanere nella città partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano
di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu Bernardo a educare
privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma quando nel
febbraio 1556 vennero a sapere della morte di Porzia, probabilmente
avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse. La situazione politica a
Roma subì però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio
tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare
l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso e la Villa dei
Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II
Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo. A Urbino
Torquato studiò assieme a Francesco Maria II Della Rovere, figlio di Guidobaldo,
e aMonte, poi illustre matematico. In questo periodo ebbe maestri di assoluto
livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta locale Antonio Galli e il
matematico Federico Commandino. Torquato passava a Urbino solo l'estate, dal
momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro, dove Tasso entrò in
contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi Atanagi, e scrisse il
primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della
corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale
dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo
dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in
laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a
mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del
Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro
consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri
che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento
straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello
Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più
delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore
della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla
produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno
ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza
con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo
rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime
fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche
l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica aristotelica.
È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del ragazzo, già molto
sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella corte del cardinale
Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio a fare la
conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione Lucrezia
Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla
delusione. Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento
del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono
commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte,
furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano
gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a
Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del
cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il
nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto
lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca
d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per
permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso
proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella
città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo
che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e
professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto
a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione
Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di
formazione. Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le
lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata
istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che
miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità.
Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti,
tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha
per lungo tempo identificato in Laura Peperara. Secondo questa
versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a
Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga.
La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le
ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca
rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo,
rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto
rassegnarsi al secondo scacco. Ricerche recenti hanno tuttavia collocato
la nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei
la seconda musa del Tasso. I due canzonieri amorosi andarono in parte a
finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme
ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Si legò anche
all'Accademia degli Infiammati. A Ferrara Torquato Tasso all'eta di
22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo
matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al
servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e
alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci
anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il
poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e
per l'eleganza mondana. Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di
attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema
maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del
duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di
vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita mondana
e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da entrambe
e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con Leonora, la
critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti simpatie.
La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un importante
stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan Battista Pigna
e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il poema sulla
prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti erano già sei,
e aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle stampe le
Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione platonica e
stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però affatto peculiari,
che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello, e a definire
di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I concetti vennero
ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due anni più
tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in
particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a
Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al
seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel
lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da
Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile
1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in
miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale
di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola,
facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di
entrare al servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad
attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta,
celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche.
Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle
«delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia
d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una
tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi
mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e
la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il
quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera
era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto»,
ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando
in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque
Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora
per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al
fine il poema di Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre
il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non
gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio
di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge
l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la
proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero.
Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli
personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il
cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili. Cndivise in
parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di
stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive
quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non
trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo
nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul
da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a
questao condotto finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il
poema maggiore, si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di
aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una
fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici
anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno
questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve
n'è cosa alcuna di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque
autorevoli personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica
e la moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale
Scipione Gonzaga, il cardinale Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e
il grecista Flaminio de' Nobili. Torquato condivise in parte i consigli
degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo
moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi
quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non
trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo
nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul
da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare
istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho
avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro
che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei
stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia;
tanto dubito de la sua riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione di
Lucrezia d'Este cui leggeva il poema ogni giorno «molte ore in secretis»[27],
né l'essere venuto a conoscenza del grande piacere con cui da più parti l'opera
veniva letta, poterono placare le sue angosce. Scrive “Allegoria”, con cui
rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle
possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere
religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per
mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose
spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze
di assoluzione.[29] Barbara Sanseverino Disagi presso la corte
estense e fughe Due belle signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi
presso il duca fino all'anno dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse
l'ultimoin mezzo a tante preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara
Sanseverino e la contessa di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in
alcune rime amorose, che, com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este,
obbediscono alle conventions de genre e non rivelano altro che una sincera
amicizia. Ma il Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a
Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare
Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti
hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar
paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere
manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato», scrive a
Gonzaga. Le «condizioni del mio stato» possono avere una valenza
materiale: Tasso riceveva dal duca solo cinquantotto lire marchesane mensili,
che sommate alle centocinquanta percepite in qualità di lettore all'Università
(carica che ricopriva per i soli giorni festivi) danno una cifra sicuramente
bassa che a un poeta ormai affermato doveva parere stretta, anche solo per una
questione di dignità, senza voler pensare a motivazioni di pretta bramosia
L'espressione tassesca può assumere però anche una connotazione morale e
psicologica: si erano in effetti verificati alcuni episodi spiacevoli presso la
corte estense. Ha una lite con il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva
rifilato uno schiaffo al Fucci, che in risposta lo colpì più volte con un
bastone. Un servo aveva inoltre rivelato al Tasso che, durante una sua
assenza, un altro cortigiano, Ascanio Giraldini, aveva fatto forzare la porta
della sua camera, nel tentativo di appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso
sarebbe anche riuscito a rintracciare il magnano ottenendone una confessione,
come risulta da un'altra lettera al Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame
ordite alle sue spalle, anche se «io non me ne posso accertare».[33] A
far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli
religiosi del poeta. Si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo
l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima), attaccando
inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il
poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori
successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono afar
cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti
all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in particolare contro
Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva recarsi a deporre
presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che
una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti con la Santa
Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una missiva del 7
giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e il 17 giugno Tasso,
ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello. Il
Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio,
quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di
Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per
essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37] Il poeta
supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero
da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe,
e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto,
ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò
quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente
provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un
animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in
lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano
impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe
manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché
completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto pericoloso?
Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un accordo.
Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava che la fuga:
nella notte tra il 26 e il 27 luglio si travestì da contadino e fuggì nei
campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora sotto mentite
spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella, annunciandole la
propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera
identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata della
donna.[39] A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere parte
alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in data 4
dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un testo
che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior colpa
che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere nella
parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40] Così,
nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in fuga;
Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad Alfonso
una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che restano,
anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono partito.
per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia alcuna
professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà. Paura,
instabilità? Quello che è certo è che nello stesso mese le parole di
Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere credibilità
alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di sano
intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia». Anche
gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere paiono
rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv, adesso
più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È proprio
questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta canzone Al
Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una
rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi
delle proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato,
concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il
luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti
errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura
l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»
Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da
Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto
dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da
alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette
l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia[45], e
godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare
tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi
pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora
una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni
del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale
estense tra il 21 e il 22 febbraio, proprio mentre fervevano i preparativi per
le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di
Mantova Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui:
«Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di
Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda
all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è
probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla
vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze
autopunitive. Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna
Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche
razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto
spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto
mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque
ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di
liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito
Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che
sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni
di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle armonie,
simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di più, di
come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con
la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui
troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta:
«rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli:
la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per
un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si
mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non
l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu
semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi
di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi
squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la
tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un
periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve
essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione
veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la
prigionia, vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata
operazionea Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni
del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata
fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza
l'avallo dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le
stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era
ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile,
ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del
Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo
Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara,
restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie
editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in
modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le
pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata
Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né
dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il
Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino
stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene
esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele
ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa
della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che
si possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione
dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa
dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed
esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto.[61] Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o
strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur
nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si
valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di
esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono
affrontate anche questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in
due parti, la prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini.
Qui, nella descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche
come la clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser
filosofo, e soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si
possono confidare gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa
ancora fu la composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone,
ma paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con
dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco,
rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del
giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il
Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa
d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo
ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la moltitudine;
Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace (in risposta a
uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio. Il
Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli Idoli,
e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo non
aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee
piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo
Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe
apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a
ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle
stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà
molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da
semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del
Nostro. Prima della reclusione a
Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della
corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e
completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio
con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera
fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno
degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia.
L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume
dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed
episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che
confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando
in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla
mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde
nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel
giudizio di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia:
le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne
affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle
intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo
Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a
Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de'
Mori da Ceno, diventandone amico. A Mantova ritrova qualche barlume di
tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva
lasciato interrotta alla seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto
avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando
nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e
procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque
canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si
mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura
del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo
duca di Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i
fatti lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e
preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a
Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione
del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio
Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e
l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione
Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare,
rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo
riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato
dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci
fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane
comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della
presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del
settentrione. Il santuario di Loreto in un'incisione di Francisco de
Hollanda (prima meta del sec. XVI) Nel corso del tragitto Tasso passò da
Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone
«a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla
Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è
tanto più intessuta di travaglio e sofferenza: «Vedi, che fra' peccati
egro rimango, qual destrier, che si volve nell'alta polve, e nel tenace
fango.» Torquato fu a Roma. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le
lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria
condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla
possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera
del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia,
il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi,
scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza
ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene
delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie,
confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto del 1589, stampato a
Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò
trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana
fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti
per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare
su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i
Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso,
preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe
l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia
e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte. Il clima
amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di
una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore, riuscirono
a risollevare per un breve periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i
monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento
al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la
caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi).
L'operaun resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle
principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazioneè
fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita
sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa,
si interrompe alla centoduesima ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta
parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei
favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema,
mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite
per stroncare il Torrismondo (v. Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di
un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una
convenzionale vita di santo».[78] Come per la tragedia nordica, la rivalutazione
è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi più
recenti. In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò
problematico per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle
ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e
religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere
un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda un episodio curioso: mentre
sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse di vedere uno «Spirito, col
quale entrò in ragionamenti così grandi e meravigliosi per l'altissime cose in
essi contenute, e per un certo modo non usato di favellare, ch'io rimaso da
nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva interrompergli». Alla fine della visione,
Manso confessò di non aver visto nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo:
«Assai più veduto hai tu, di quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le
rare manifestazioni allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle
che erano state descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno
spirito amoroso che appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi
azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta
del Nostro assume una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che
avesse voluto mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe
considerato un "folle". A dicembre era di nuovo a Roma, dove
giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando
negli illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione
Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la
routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i
cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei
in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa,
avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più»,
scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più
disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con
Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana
Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che
prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però,
furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero
intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno
la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi
scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche
se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato
a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto
Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo
eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli rilevava
al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano la sua
età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate. Tuttavia, è
bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se «il povero
Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità della sua
fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due settimane dopo,
perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga non era
presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto del Tasso
vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo ospitarono a
Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli ultimi anni del Tasso, però,
non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono nuovamente,
certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non esaudite,
dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e il poeta fu
costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli, adiacente alla
chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi, la cui
costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro in una
lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto ormai
suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per la
scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria
infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere
accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito
di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati
Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla
tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche
relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi
encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III
di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il
motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento
più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia
coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi,
perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna
incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una
bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la
sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le
illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura
chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano
VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente
affidamento sugli aiuti pontifici. Tasso scese così a Roma, accolto dagli
Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici
giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta
le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi;
m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò,
sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni
giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca
in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona
disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle
fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai
cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto
che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi
giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente
manifestazione di un'anima senza pace.[94] Ritornato quindi sul Mincio
(marzo 1591), accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro
letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a
Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon
punto, e illustra le linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al
fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze
che si leggono nello stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio
accresciuto ed illustrato e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro,
datogli dalla pazzia de gli uomini più tosto che dal mio giudicio».[95] Sono
parole che possono parere sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi
sempre più pressanti. Non si era comunque concentrato solo sul poema:
aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano
Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la
Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva
intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con
dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave, per essere
pubblicato solo nel 1666, tra le Opere non più stampate dell'edizione romana
Dragondelli.[96] Il poemetto è sicuramente trascurabile, fatto di una
versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo
principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori delle
famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno prima, e
dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata la
tradizione orale legata alla battaglia del Taro.[97] La calma, tuttavia,
era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava insopportabile
dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con l'intenzione di
raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu travagliato e appesantito dal fatto
che Tasso si ammalò più volte durante il tragitto, costretto a sostare in varie
località, fra cui Firenze. Giunto nell'Urbe il 5 dicembre 1591, ricevette
l'ospitalità di Maurizio Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio,
diretto a Napoli A questo punto,
inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione.
Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza
ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con
grandi onori e affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative
alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria,
comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più
proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e,
sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera
significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi tre anni di vita
lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio pontificio di Clemente
VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un trattamento decisamente
migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo
dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in procinto di diventare
cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La
produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quasi
esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e
altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di
Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le
lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e
sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la
Gerusalemme conquistata. Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto
che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni
studiosi si siano osti negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta. È
veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser celebrato in questi medesimi
tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente degno della grandezza
dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli una statua laureata, con
mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo
in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie [...]», rivela Matteo
Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente all'agosto del Lo stesso
Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion coronar di lauro»,
scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o d'altra foglia».
Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta
per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo,
e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la
parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a
capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio,
per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità
materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a
versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui
che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595. A Napoli
rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di
san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla
letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini
che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno
ritornò a Roma. Cambiò città per l'ultima volta: la fine era dietro
l'angolo. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai
impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno,
tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo». Entra al
monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che
il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Tutto svaniva, di fronte all'importanza
di prepararsi al trapasso: «Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la
morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perch'io mi
sento al fine de la mia vita. Non è più tempo ch'io parli de la mia ostinata
fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo». Tutto perdeva importanza,
a fronte della dolcezza della «conversazione di questi divoti padri», che
cominciava «la mia conversazione in cielo. Monumento in Sant'Onofrio Il 25
aprile, all'«undecima ora». Tasso muore. E una morte serena, ricevuta con tutti
i conforti dei sacramenti.La morte del Tasso è stata accompagnata da
una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi ultimi giorni le
duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di
giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall'umor malinconico, e che
quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l'ampolle del suo cervello.
Venne sepolto nella Chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo. Presso il
monastero, accanto alla strada è ancora visibile la rampa della quercia, dove
si trova il tronco nero di una quercia secolare sostenuto da un sopporto
metallico. Secondo la tradizione locale si tratta della cosiddetta quercia del
Tasso, l'albero alla cui ombra il poeta spesso sedeva per riposarsi.
Albero genealogico Reinerius de Tassis SconosciutaOmedeo Tasso (1290)[110]
SconosciutaRuggero Tasso SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo de
Tassis Tonola de Magnasco, Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro Tasso.
SconosciutaGiovanni Tasso Catalina de
Tassi Gabriel Tasso Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere Un
ritratto a Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il
Gierusalemme rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il
genere epico nonché il suo primo impegno letterario di rilievo. Se ne
possiedono soltanto centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere con la
Liberata l'argomento (la prima Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra
il proemio di questo esordio poetico giovanile e quello del capolavoro della
maturità. Rinaldo All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del
romanzo cavalleresco e pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici
canti (circa 8000 versi) la giovinezza del paladino della tradizione carolingia
e le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara
di voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte
i "moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista,
secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera
tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni
temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato
culturalmente. Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie
liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col
titolo di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò
fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime
encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e
una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime
amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta
produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente,
però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano
l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso
frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale,
e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero
musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da
Venosa. Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche,
dedicate alle figure e alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita
del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre
Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro,
intessuta di elementi autobiografici. Le Rime religiose sono caratterizzate
dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni
di vita. Qui il poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia
esistenziale e il tormentoso senso del peccato attraverso la fede e
l'espiazione. Discorsi dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni
Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in
particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati
molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione
della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella
ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del
pubblico. Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su
un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del
poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e
non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della
favola. Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione
perfetta di queste due componenti nella religione cristiana. Intiera, l'opera
deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci
può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti
nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena
realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla
materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.
Aminta Magnifying glass icon mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di
Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e
neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto
lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le
tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in
fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che
dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il
Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due
protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si
accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a
monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla
narrazione … L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da
partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è
tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei
lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di
caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni,
sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di
grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è
nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di
naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale
a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa
semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.» (De Sanctis)
L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni
canto si conclude a lieto fine. Ha ispirato la composizione della favola
pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle
ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia,
Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo
atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione
dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo,
e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti
le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte
curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura
dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno. L'editio
princeps è quella bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di
Mantova, Ferrara, Venezia e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu
rappresentata per la prima volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza.
Trama Torrismondo è intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il
sovrano (d'una ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa
di un debito passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve
sposarsi con l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida
poiché Germondo stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida.
Germondo dunque non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di
quest'ultima lo odia. Germondo decide allora che Torrismondo per sdebitarsi
avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida e al momento delle nozze avrebbe
dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da Torrismondo la mano di Alvida i due
consumano l'amore. La storia prenderà un'altra china quando Torrismondo
scoprirà che la donna amata non è altri che la sorella, la situazione culminerà
nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è molto importante perché anticipa le
tragedie barocche, nelle quali si riprendono alcune caratteristiche
fondamentali delle tragedie senecane: la meditatio mortis (il Memento mori) e
il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò che compare fortemente e
caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che dilania l'animo dei
personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché impossibilitato
all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già predisposti.
Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in merito all'opera:
Angelo Solerti e Francesco D'Ovidio si sono mostrati ostili verso il
Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore, e severo
si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed esotici,
ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa presente che
superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche e
rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata Gerusalemme
liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata è
considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente
accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il
titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia. L'opera fu pubblicata
integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla
pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse
eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed epico
della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la
Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere
grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la
Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i
crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno
dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi
vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il
sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo
l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno
lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire
la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della
maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine
lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette
ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La stesura di
prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione del Forno
overo de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre relegata
al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo della
Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla peste
filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il poeta
compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si fa
riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata al 1996 ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva
edizione completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana
sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni
commentate della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è
occupato Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e
Arnaldo Di Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente,
Fonti culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato
Tasso; e Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore
e elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo
e del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei
"Dialoghi" di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di
Prandi/Ossola, ha offerto una puntuale lettura del Forno, premiata con il
premio Tasso (Le virtù del tiranno e le
passioni dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla
virtù eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de
la corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa
tassiana), preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento
(Il nuovo «Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di Tasso) e del
Costante («Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una
contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso).
L'edizione critica di Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi
tassiani, con un'appendice che ci permette di conoscere i manoscritti
superstiti e le stampe. Questo il titolo dei vari dialoghi: Il Forno
overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo de la cortesia; Il Forestiero Napoletano
overo de la gelosia; Il N. overo de la pietà; Il Nifo overo del piacere; Il
messaggiero; Il padre di famiglia; De la dignità; Il Gonzaga secondo overo del
giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la pace; Il Malpiglio overo de la corte;
Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine; La Cavalletta overo de la
poesia toscana; Il Gianluca overo de le maschere; Il Cataneo overo de gli
idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La Molza overo de l'amore; Il Costante
overo de la clemenza; Il Cataneo overo de le conclusioni amorose; Il Manso
overo de l'amicizia; Il Ficino overo de l'arte; Il Minturno overo de la
bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte overo de le imprese. Le sette
giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi sciolti, accanto ad altre
opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il
poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto biblico della creazione
ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette
giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione
della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido riflesso.
Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo Si tratta, come nel
caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti facenti parte delle
cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello specifico, sono due
poemetti in ottave che riprendono la tradizione della "poesia delle
lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento, appena qualche anno
prima della morte. Influenze culturali Statua di Tasso a Sorrento
La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne subito popolare. La
lucidità delle opere scritte durante il periodo di prigionia nell'Ospedale di
Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il poeta non era veramente
pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che voleva punirlo per aver
avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo (anche se, come si è
visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione consistesse
nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale dell'Inquisizione). Questa
leggenda si diffuse rapidamente e rese particolarmente popolare la figura del
Tasso, fino a ispirare a Goethe il dramma Torquato Tasso (1790)[129]. In
età romantica il poeta divenne il simbolo del conflitto individuo-società, del
genio incompreso e perseguitato da tutti coloro che non sono in grado di
comprendere il suo talento straordinario. In particolare Giacomo Leopardi, che
quando si recò a Roma il giorno venerdì 15 febbraio del 1823 pianse sul
sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in una lettera che quella
esperienza era stata per lui "il primo e l'unico piacere che ho provato in
Roma"), considerava Torquato Tasso come un fratello spirituale,
ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui quello citato) e nel
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una delle Operette morali).
Molta parte della poesia recanatese è impregnata di stile tassesco: i notturni
di alcuni canti, come La sera del dì di festa o Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia, richiamano quelli della Gerusalemme, mentre nella canzone Ad
Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia con il «misero Torquato, spirito
fraterno «concepito come un alter ego. I due nomi femminili più celebri
presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi dall'Aminta. In
generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della Liberata al dramma
esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le parole del Torquato
Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti e rappresentato per
la prima volta al Teatro Valle. Il "mito" conquistò anche Franz Liszt:
era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in musica l'opera byroniana Il
lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico Tasso. Lamento e
Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca ha dedicato al
Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato Tasso. Nei
primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro Moro si
concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di Torquato
Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per l'occasione
da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso, regia di Luigi
Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti cinematografici de
La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film sull'opera fu Enrico
Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata, di Enrico Guazzoni;
La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme liberata, di Carlo
Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe Orlandini con Franco e
Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus, Laurea poetica nastrino
per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma. Giovan Pietro
D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in «Giornale storico
della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, B.
Basile, Roma, Salerno Editrice, Pier Antonio Serassi, La vita di Torquato
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Nazionale di Napoli, C. Gigante, Alessandria, Edizioni dell'Orso,. Gerusalemme
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Tasso e sulla fortuna Arnaldo Di Benedetto, «La sua vita stessa è una poesia»:
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Torquato Tasso fra Italia e Francia, in «Il Segretario è come un angelo».
Trattati, raccolte epistolari, vite paradigmatiche, ovvero come essere un buon
segretario nel Rinascimento, Atti del XIV Convegno Internazionale di Studio
organizzato dal Gruppo di Studio sul Cinquecento francese, Verona, Rosanna
Gorris Camos, Fasano, Schena, Umberto Lorenzetti, Cristina Belli Montanari,
L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Tradizione e rinnovamento
all'alba del Terzo Millennio, Fano Sulle Rime Arnaldo Di Benedetto, Fra
petrarchismo e Barocco: le «Rime» di Torquato Tasso, «A me versato il mio dolor
sia tutto», Lo sguardo di Armida (Un'icona della «Gerusalemme liberata»), Per
un anonimo in meno: l'autore del dialogo «Il Tasso», in Tra Rinascimento e
Barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice
Fiorentina, Massimo Colella, «Parmi ne’ sogni di veder Diana». Emersioni
seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta»
Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla tragedia della «Liberata», in Studi
sulla letteratura del Rinascimento, cMaria Grazia Accorsi, «Aminta»: ritorno a
Saturno, Soveria Mannelli, Rubbettino, Arnaldo Di Benedetto, Il sorriso
dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura italiana», Arnaldo Di
Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani», Sui Dialoghi A.
Benedetto, Torquato Tasso, «Il padre di famiglia», in L'«incipit» e la
tradizione letteraria italiana. Dal Trecento al tardo Cinquecento, Pasquale
Guaragnella e Stefania De Toma, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia, Angelo
Chiarelli, «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una
contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in
«Filologia e Critica», Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti
per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana nella
dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura
italiana», Raimondi Ezio, Il Problema
Filologico e Letterario dei Dialoghi di T. Tasso, in Rinascimento Inquieto,
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Tecnica dei «Dialoghi» Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura
Italiana», Baldassarri Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi
Tassiani», Guido Armellini e Adriano
Colombo, Torquato TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal
Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La
scrittura e l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, Tasso, Torino); Lettere di
Torquato Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso,
Roma, G. Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano
invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a
quello bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, cit.20 L. Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, cit.60 E. Durante, A.
Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e
Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W.
Moretti, Torquato Tasso, Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo
alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia, L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato
ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia
popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22
L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli,
cit., 99-100 Lettere, cit., I49 Secondo Maria Luisa Doglio la data non è
casuale e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe
infatti visto per l'unica volta Laura, cfr. M. L. Doglio, Origini e icone del
mito di Torquato Tasso, Roma Lettere, c Lettere, Lettere, cit., I114 Si tratta di un'epistola al Gonzaga del
luglio 1575; Lettere, cit., L. Tonelli
S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano, Principato, L.
Tonelli, Lettere, Si trattava comunque
di uno stipendio oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe
garantito a stento la sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172 Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano,
Dall'Oglio, A. Solerti, cA. Solerti, cit., II,
120-121 A. Solerti, L. Tonelli,
cit. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di
un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA.
Solerti, L. Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero,
Letteratura Italiana, 2, SEI, Torino,
1987 Lettere, cit., I298 Lettere, cit., I299 A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi
un suo informatore L. Tonelli, Lettere, cit., II89 L. Tonelli, cit.187 A. Solerti,
Lettere, Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo548 L.
Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e ss. Opere di Torquato Tasso, Firenze, Tartini e
Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal
Salviati Tra parentesi sono indicate le
date di pubblicazione L. Tonelli, Opere,
cit., II276 Tra parentesi si indicano
due date, quella di composizione e quella di pubblicazione Lettere, cit., II56 La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più
tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188 L.Tonelli,
247-248 A. Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, cG. Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di Torquato Tasso, in Opere minori in versi di
Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, E.
Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, Battistelli,
G. B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di Torquato Tasso, Firenze;
Lettere, Così al Costantini; Lettere,
Lettere, L. Tonelli, cit.275 Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere
maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli
oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono
di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del
primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse
eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno
de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io
sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la
quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il
Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze nella primavera del 1590.
Soltanto nello stesso 1590, il Tasso dedicherà al marchese due composizioni
encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi
normando. Lettera a Scipione Gonzaga,
Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6 L. Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, cit., 278-279
C. Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in
Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,
I L. Tonelli, G. B. Manso,
L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, cit., II
Lettere, cit., V194 Lettere,
cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a
Ercole Tasso, 29 aprile 1595; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò
Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso10. (DE) de Karl
Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit,
de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge T. Tasso,
Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C.
Guasti), Firenze, Le Monnier, 1875
Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15
A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, U. Renda, Il
Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, E.
Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle
Opere minori in versi di Torquato Tasso, L. Tonelli, cit.253 Torquato Tasso, Risposta di Roma a Plutarco,
Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia | Edizioni di Storia e
Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli, Una «congregazione di
uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana
nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura
italiana»,, 121, n°1, 34-43.. 12 agosto. «Questa concordia è sempre
nelle cose vere». Note per una contestualizzazione de «Il Costante overo de la
clemenza» di Tasso, in «Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di
S. Onofrio, a Roma, una tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di
Goethe e l'ispirazione che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la
tomba del poeta custodita all'interno dell'edificio sacro Ad Angelo Mai, v. 124 G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria,
Dal testo alla storia dalla storia al testo, Milano, Paravia, S. E. Failla,
Ante Musicam Musica. Torquato Tasso nell'Ottocento musicale italiano,
Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche nelle Rime di Torquato Tasso |
Massimo Colella | Griselda Online, su griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia
goldoniana Tasso, dramma di Goethe, Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, dalle Operette morali di
Giacomo Leopardi Thurn und Taxis, ramo austriaco della famiglia Tasso di
Bergamo, fondatori delle prime poste europee Museo tassiano, museo dedicato a
Torquato Tasso Accademia dei Catenati Cella del Tasso, attuale ubicazione a
Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Torquato Tasso, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Torquato Tasso, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. To Tasso, su BeWeb, Conferenza Episcopale
Italiana. Opere di Torquato Tasso, su
Liber Liber. Opere di Torquato Tasso, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere Progetto
Gutenberg. LibriVox. Torquato Tasso, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music Score
Library Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database,
IMDb.com. Torquato Tasso Testi completi
e cronologia delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana
digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Torquato Tasso,
testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Due
segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo
di Torquato Tasso, su midesa. 2 luglio 2009 19 maggio ). Opere di Torquato
Tasso colle controversie sulla Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette
sull'edizione fiorentina, ed. illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa,
presso Niccolò Capurro, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di
tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5 voll., Firenze, Felice Le Monnier, I
dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso.
Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe Angelo Solerti, 4 voll.,
Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua, Opere di Torquato. DELL'ARTE DEL
DIALOGO. Voi mi pregate, pad* molto reverendo, nelle vostre lettere, eh' io
vo- glia darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete, se non
m'inganno, dello scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime nelle
quali m'av- visate d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e della
pace. E se propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè tanto
a me disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella di
sco- lare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come
Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non
conve- niente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e
ammaestramento chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa
debbo tenervi ce- lata, la qual possa giovar agli altri, oppure a me
stesso'; ed allora sti- merò buone le mie ragioni» che dal vostro
giudicjo saran confermate. E se -delle regola avviene quel che delie
leggi : siccome altre leggi hanno i Genovesi diverse da quelle oV
Veneziani o de/ Ragusei, oasi potreb- bero avere altri precetti
nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli voglio dar questo nome,
nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io l'ho raccolte in
un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori cortigiani, i
quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di corto. E a' in
questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli amid ' e da
parenti, non v' incresca di leggere.Nell'imitazione o s'imitano l' azioni degli
uomini o i ragionamenti: e quantunque poche operazioni si facciano alla mutola,
e pochi discorsi senza operazione, almeno dell' intelletto, nondimeno
assai diverse giu- dico quelle da questi : e degli speculativi è proprio
il discorrere, sicco- me degli attivi l'operare. Due sàran dunque i primi
generi dell'imi- tazione: l'un dell'azione, nel quale son rassomigliati
gli operanti: l' altro delle parole, nel quale sono introdotti i
ragionanti. E. 1 primo genere si divide in altri, che sono la tragedia e
la commedia, ciascuna delle quali patisce alcune divisioni: e '1 secondo
si può divider pari- mente. Ed Aristide un de' più famosi Greci, i quali
scrissero e non parlarono, così parve che gli dividesse, dicendo che
Platone avea comi- camente rappresentato Ippia, Prodico, Protagora,
Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro, Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli
medesimo chiama le sue leggi tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma
tra' moderni v*è chi gli divide altramente, facendone tre specie: l'una
delle quali può montare in palco, e si può nominare rappresentativa,
perciocché in essa vi siano persone introdotte a ragionare cioè in
alto, com' è usanza di farsi nelle commedie e nelle tragedie: e
simil maniera è tenuta da Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne'
suoi; ma un'altra ce n' è, che non può montare in palco, perciocché
conservando- 1' autore la" sua persona, come isterico narra quel che
disse il tale e '1 cotale: e questi due ragionamenti si possono domandare
istorici o narrativi, e tali sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è
ancora la terza maniera ed è di quelli, che son mescolati della prima e
della seconda maniera, conservando l'autore la sua prima persona, e
narrando come istorio): e poi introducendo a favellar tyafiarix&s
come s'usa <fi far nelle tra- gedie e nelle commedie: e può e non
montare in palco, cioè non può montarvi, in quanto l' autore conserva la
sua persona ed è come 1* isto- rico: e può montarvi in quanto
s'introducono le persone rappresenta- tivamente a favellare: e Cicerone
fece alcuni ragionamenti sì fatti. E quantunque questa- divisione sia
tolta dagli antichi e paia diversa dal- l' altra, nondimeno l'intenzione
forse è l'istessa; perchè la tragedia si divide in quella che si dice
tragedia propriamente, e nell'altra nella qual parla il poeta: e tragedia
sì fatta compose Omero. E questa divi- stone perchè è fatta in due
membri, è più perfetta; nondimeno i àia- Ioghi sono stati detti tragici e
comici per similitudine, perchè le trage- die e le commedie propriamente
sono l'imitazione dell'azione; però tragici si posson chiamar sopra tutti
gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de' quali Socrate condannato
alla morte, ricusa di f uggirsene con gli amici: nell'altro dopo lunga
deputazione dell' immortalità del- l'anima bee il veleno. E comico è il
convito nel quale Aristofane è impedito dal rutto nel favellare; ed
Alcibiade ubriaco si mescola fra i convitati. Ma il Menesseno par misto
di queste due specie: perciocché Socrate battuto dalla maestra Aspasia è
persona comica; ma lodando i morti ateniesi innalza il dialogo all'
altezza della tragedia. Pur questi medesimi dialoghi non son vere
tragedie, ovvero commedie; perchè nell' une e nelT altre le quistioai e i
ragionamenti son descritti per l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi
giunta de' ragionamenti : e 8' altri la rimovesse, il dialogo non
perderebbe la sua l'orma. Dunque in lui queste differenze sono
accidentali piuttosto che • altramente ; ma le proprie si terranno dal
ragionamento jslesso e da' problemi in lui contenuti, cioè dalle cose
ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per eh' i ragionamenti sono o
di cose che appartengono alla contempla- zione, oppur di quelle che son
convenevoli all' azione * e negli uni sono i problemi intenti all'
elezione e alla fuga, negli altri quelli che riguar- dano la scienza, e
là verità; laonde alcuni dialoghi debbono esser detti civili e
costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri; o
sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la
finita che debba far Socrate condannato alla morte. E perciocché gran
parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la
quistione è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo
alcuno, né meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d'
altissime spe- culazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun
dialogo, se non forse per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta
pare istrionica, sic- come disse il Falereo, awengachè nella scena si
rappresenti l'azione o atto dal quale son denominate le favole e le
rappresentazioni dramma-* tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita
il ^ragionamento il qual non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse
recitato qualche dia- logo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui
senza necessità. Perchè se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata
all'istrione, come nell'Eri- demo, può leggersi dallo scrittore medesimo,
ed aiutarsi colla pronuncia. Né egli conviene ancora il verso, come hanno
detto, mala prosa ; perciocché la prosa è parlar conveniente allo
speculativo e all' uomo civile, il qual ra- gioni degli uffici e delle
virtù. E i sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi e gli esempi non
potrebbono esser convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo alcun
dialogo in versi, come è l'amicizia bandita di Ciro predentissimo, non
stimeremo lodevole per questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che il
dialogo- sia imitazione di ragionamento scritto in prosa senza
rappresentazione per giovamento degli uomini civili e spe- culativi : e
ne porremo due specie, 1' una contemplativa, e Y altra co- stumata : e 1
soggetto nella prima specie sarà la quistione infinita o la finita : e
quale è la invola nel poema, tale è nel dialogo la qui- stione : e dico
la sua forma, e quasi Y anima. Però se una è la favola, uno dovrebbe
essere il soggetto, del quale si propongono i problemi. E nel dialogo
sono oltre di ciò T altre parti, cioè la sentenza^ e '1 costume ,* e Y
elocuzione ; ma trattiamo prima della prima. Dico adunque, che la
quistione si forma della dimanda e della risposta; e perchè 1 dimandare
s'appartiene particolarmente al dialettico, par, che lo scrivere il
dialogo sia impresa di lui : ma '1 dia- lettico non dee richieder più
cose d' uno, oppur una cosa di molti ; perchè se altri rispondesse non
sarebbe una V affermitene o la ne- gazione: e non chiamo una cosa quella,
ch'ha un nome solo se non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai
con dne piedi e mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma
del- l' esser bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice
Ari- stotile, non se ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche
cosa, non sarebbe, una affermazione ; ma una voce, e molte l'
affermazio- ni. Se dunque l'interrogazione dialettica ò una dimanda della
ri- sposta, ovvero della proposizione, ovvero dell'altra parto della
con- tradizione: e la proposizione è una parte della contradizione , a
que- ste cose non sarà una risposta, né una dimanda. Ma se al
dimostrativo non s' appartiene il dimandare, a lui non converrà di
scriver dialo- go. E par, che Aristotile assai chiaramente faccia questa
differenza nel primo delle prime risoluzioni fra la proposizkm
dimostrativa e la dialettica, dicendo, che la dimostrativa prende l'altra
parte della contradizione; perciocché 'colui, il qual dimostra, non
dimanda, ma piglia ; ma la dialettica è dimanda della contradlzione.
Nondimeno nel primo delle posteriori egli dice, che s' è il medesimo l'
interro- gazione sillogistica e la proposizione : e le proposizioni si
fanno in cia- scuna scienza, ancora si posson fare le dimando. Laonde io
raccolgo, che si posson fare i dialoghi nell'aritmetica, nella geometria,
nella musica e nell' astronomia e nella morale e nella naturale e
netta divina filosofia, e in tutte F arti e in tutte le scienze si posson
fu le richieste e conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in
looe dell'arte del dialogo 395 i dialoghi
scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura dubbio alcuno. Ma
leggendo quei di Platone, i quali son pieni di proposi- zioni
appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere lMstcsso;
nondimeno siccome il dimandare è 'proprio al dialettico, così a lui si
conviene il dialogo più; che a tutti gli altri. Laonde Aristotele nel-
capitolo seguente . pare, che faccia differenza fra le ma- tematiche e ì
dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar dal falso il vero,
'sarebbe facile il risolvere, perchè, si convertirebbono di necessità ;
ma si convertono più quelle, che son nelle matemati- che, perchè non
ricevono alcuno accidente, e in ciò son differenti da quelle, che son ne'
dialoghi : e dialoghi chiama i parlari dialetti- ci, i quali son composti
della dimanda e della risposta. Al dialet- tico dunque converrà
principalmente di scrivere il dialogo, o a co- lui, che vuol
rassomigliarsi. E '1 dialogo sarà imitazione d' una di- sputa dialettica.
Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale, il
dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si possono
imitare ne' dialoghi : e forse in quelli d' Aristotele erano tutte
quattro; ma in quelli di Platone si troverebbono simil- mente, perchè
Socrate per via d' ammaestramento e d' esortazione parla con Alcibiade,
con Fedro e con Fedone : e come dialettico disputa con Zenone, e con
Parmenide;. e come tale riprova Ippia, Gorgia, Trasimaco e gli altri
sofisti e talora gli tenta ; mq i sofisti son contenutosi, e vaghi di
gloria, come appare nell' Eutiemo, detto altramente il Litigioso.
Nondimeno questi quattro generi non sono così partitamente distinti dagli
interpreti di Platone i quali pongono tre mdftUre di dialoghi ; l' una,
nella quale Socrate esorta i giova- netti * nelP altra riprova i sofisti
; la terza è mescolata dell' una e dell' altra, la qua! senza dubbio è
più soave per la mescolanza. Ma chi volesse scriver dialoghi secondo la
dottrina ó? Aristotele e arric- chir di questo ornamento le scuole
peripatetiche, potrebbe scriverli in tutte quattro le maniere. Ma
principalmente son lodevoli le due prime, la dottrinale e la dialettica,
l'artificio della quale consiste principalmente nella dimanda usata con
mollo artificio di Socrate ne* libri di Platone, come appare nel primo
dialogo nel quale Socrate richiede ad Ipparco quel, che sia la cupidigia
del guadagno ; e in tutti gli altri simiglianlt, non eccettuando quelli,
ne' quali sotto la persona di forestiero ateniese dà le nuove leggi d’una
città: e 'n quelli di Senofonte ancora con arte molto simile Socrate
chiede a Critobulo 396 dell'arte del dialogo se
l'economia è nome di scienza, come la medicina e l'architettura. E nel
Tirreno Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la
privata: e dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'in- segnare.
Ma da questo artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle partizioni
oratorie pone la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna, ma di colui,
ch'impara: ed egli medesimo ci dimostra la diversità fra i Romani in
quelle parole di CICERONE: figlinolo, tuo) dunque eh' io ti dimandi
scambievolmente in lingua Latina di quelle cose medesime, delle quali tu
mi suoli addomandare nella Greca or- dinatamente ? Laonde pare, che la
dimanda, fatta dal discepolo, 6ia derivata da CICERONE, e l' artificio
sia proprio de’ ROMANI, il quale s' usò dal Possevino e da altri nella
dottrina peripatetica, perchè forse è più facile ; ma è non così
lodevole, né fu, eh' io mi ricordi, usata dagli antichi. E per questa
ragione M. Tullio nelle Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de' Greci
; perciocch' egli comandava, che alcun de' suoi famigliari ponesse
quello, che gli pareva, ed egli contraddiceva alla conclusione in questo
modo. Auditore. La morte mi pare esser male. M. A quelli che son morti o
a quelli eh' han da morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di
disputar cantra l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha
dello scolasti- co: e però dice d'aver poste ne' cinque libri le scuole
de' cinque gior- ni. Tanto potè l' amor della filosofia in un vecchio senator
romano, padre della patria, il qual quistionava secondo il costume de'
Greci forse per ingannar se stesso in questo modo e consolarsi nella
servi- tù. Ma non si dimenticò ne' libri dell' oratore di quel, eh' era
con- venevole a' romani Senatori ; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO in altra
maniera introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci,
lodevorrssimi sono que' di Platone ; perciocché superano gli altri
d'arte, di sottilità, d'acume, e d'eleganza e di varietà di concetti e
d'ornamento di parole. E pel secando- luogo son quei di Senofonte; e quei
di Luciano nel terso. Ma Cicerone è primo fra' Latini, il quale volle
forse assomigliarsi a Platone: nondi- meno nelle quistioni, e nelle
dispute alcuna volta è più simile agli ora- tori, che a' dialettici; ma
nel secondo luogo non so, che se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci.
E nella nostra lingua coloro, che hanno scritto dialoghi, per la maggior
parte hanno seguita la ma- niera meno artificiosa : nella quale dimanda
quegli, che vuole Impa- rare, non quel, che riprova. E se alcuno s'è
dipartito da questo modo di scrivere, merita lode maggiore: e tanto basti
della prima parie, dell'arte del dialogo 397 che
è la quistione. Ma perchè, come abbianv detto, il dialogo è imi- tazione
del ragionamento, e il dialogo dialettico imitazione della disputa, è
necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano qualche opinione
delle cose disputate, e qualche costume, il qual si manifesta alcuna
volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due parti nel dialogo, io
dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del dialogo deve imitarlo
non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è quasi mezzo fra il
poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imitò, e meglio l'espresse di
Platone, che, descrisse nella persona di Socrate il costu- me d'un uomo
dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli ingegni taidl e
raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova la falsità de' sofisti,
e confonde l'insolenza e la vanità, amator del giusto e del vero,
magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'in- giurie, intrepido nella
guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA DI LEONZIO, e
d'Eutidemo, e degli altri sì fatti si descrivono gli avari, e ambiziosi,
e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza d'alcuna cosa, ma
parlano per opinione. In quella di Menoue e di Grifone descrive il buon
padre e il buon amico: e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide i
costumi de' nobili giovani son de- scritti maravigliosamente. Oltra
queste parti del dialogo ci sono le di- gressioni, come nel poema gli
episodj : e tale è quella d' Eaco, e di Minos, e di Radamanto nel Gorgia
, e quella di Teut demone degli Egizi nel Fedro, d'Ero Panfilio ne'
dialoghi della Repubblica. Ma per- chè abbastanza s'è ragionato del
soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi di coloro, che sono
introdotti a favellare; resta, che parliamo dell'ultima parte, la quale è
l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone, che ricopiò l'epistole
d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo il dialogo e l'epìstola,
perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma Demetrio Falereo dice, che il
dialogo è imitazione "del ragionare all'improvviso; ma l'epistola si
scrive, e si manda in dono in qualche modo ; però dee esser fatta e
polita con maggiore studio. Tultavolta nò Platone, ne M. Tullio pare, che
sempre avessero que- sta considerazione; perchè ne' dialoghi l'elocuzione
dell'uno e del- l'altro non è meno ornata, che quella dell'epistole: e in
tutti gli altri ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò non par
fatto senza molta ragione ; conciossiacosaché i dialoghi di Platone e di
M. Tullio sono imi- tazione de' migliori: e nell'imitazioni sì fatte, le
persone e le cose imi- tate debbono piuttosto accrescere che diminuire,
come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle
cose, se il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli
parla od periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo
dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno
e dell'altro, non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma
dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del dialogico più
semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I
quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M.
Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in
tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli
altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini,
che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo,
dove è peri- colo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo
molto ar- dire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto
di lai, ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo
par- lare non era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla
prosa : e ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la
podestà: e insomma niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn
lume d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte
del dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è
in quella, nella qual si disputa , perchè in lei si conviene la purità, e
la simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che impedisca
gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la sottilità.
Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza : e dovendo
lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione, e nel per
le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa quasi
vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era arrossito,
essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde il color
pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai La- tini,
nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che Ippo- crate
era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo con maraviglioso
diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli erano venuti a
noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al com- pagno : e
appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace il passeggiar
di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto or- dine
ascoltavano il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel trono, e
Prodico giacere avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo simil-
mente che due giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero ccr-3!i, e
altre inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito, di-
mandasse, di chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone in- nanzi
agli occhi Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli estremi, che
sedevano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro es- ser
costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di compassione e di
maraviglia il venir di Garmide alla prigione innanzi al giorno, e
l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla morte: e poi, che il
medesimo raccolga la gamba, la quale era stata legata, e grattandosi discorra
del dolore e del piacere, l'estremità de' quali son con- giunte insieme :
e distendendosi, e postosi a sedere sovra la lettiera dia principio a
maggiore e più alta contemplazione. E nel medesimo dialogo tempera il
dolore, quando scherza colle belle chiome di Fedone, le quali dovevano il
giorno tagliarsi : e nella descrizione parimente è maravi- glioso. E se
leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto il platano, e quelli del
forestiero ateniese all'ombra degli alberi frondosi, mentre col La-
cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di Giove, ci par di vedere, e
ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le perfezioni di Platone,
veramente maravigliose: le quali, sebben saranno considerate, non ci
rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo non sia imitatore, o
quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam dunque, che IL DIALOGO sia
imitazione di ragionamento , fatto in prosa per giovamento de- gli uomini
civili e speculativi, per la qual cagione egli non ha bisogno di scena o
di palco : e che due sian le specie, l' una nel soggetto della quale sono
i problemi, che risguardano l'elezione e la fuga: l'altra speculativa, la
qual prende per subietto quistione, jche appartiene alla verità e alla
scienza; e nell'una e nell'altra non imita splamente la disputa, ma il
costume di coloro, che disputano, con elocuzioni in alcune parti piene di
ornamento, in altre di purità, come par, che si convenga alla materia. Tasso.
Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Tasso”, “Grice e Cornello” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cornificio: Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Cornificio Lungo e autore di un’opera etimologica in tre
libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des Cornificius
Longus de etymis deorum. a) Prise. GLK 2, 257, 6 Cornificius in 1 de etymis deorum. Macr. 1,9,
11 Cornificius etymorum libro tertio. 1, 17, 62 Cornificius in etymis: vgl.
noch 1, 17, 9; 33; 23, 2, wo Anschlufs an die stoische Philosophie (vgl. W. A.
Baehrens, Hermes 52 (1917), 51; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, München
1926, 353); Arnob. 3, 38. P) Festus p. 123 M. bemerkt bezüglich der Etymologie
von Minerva: Cornificius vero, quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem
dictam putat. 166 (nare); 170 (nuptiae); 194 (oscillare); 282 (Rediculus; s.
Ed. Meyer, Herm. 50 (1915), 151); 359
(lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne Glosse erscheint p. 182; 217. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis
deorum" geflossen sind, vermuten R. Merkel. Ovids Fasten, Berlin 1841, XCVIII; Th. Bergk,
Kl. phil. Schr. 1, 548; H. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete
disput. crit., Halle 1898, 29. Cornificius hat dann auch andere als
Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und
Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen
Schriftsteller finden auch in dem Cornificius Longus bei Serv. Aen. 3, 332, wo
es sich ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud Cornificium
Longum lapydem et Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem
ad Italiam, Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos
cognominasse et in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos
Crisaeos vel Cretaeos appellasse et aras constituisse. Dieser kann dann aber nicht identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn
Cornificius (Bergk 546), der nie den Beinamen Longus trug, den außerdem die
Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser der etymo'ogischen
Schrift zitiert nach Macr. 1, 9, 11 das Werk Ciceros de natura deorum, das im J.
44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark
beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat
dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, Cornificius Longus
und Cornificius Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. 1847, 1060; Wissowa,
Realenz. 4, 1630; Funaioli 473. A stoic wrote a book on etymology.
Grice
e Cornuto: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Lucio
Anneo Cornuto. A slave in Rome, he became one of the city’s leading
intellectuals. A member of the porch. The name Anneo points to a connection of
some kind with the family of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his
pupils including Agathino, Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his
will, Persio left Cornuto his books, which he accepted, and his money, which he
rejected. He was sent into exile by Nerone. He wrote an influential commentary
on Aristotle’s Categories. He argues that the categories reflect divisions
within language, rather than within reality. In a different essay, the
Epidrome, he surveys the myths and by means of linguistic analysis and
allegorical interpretation he seeks to extract what he considers to be their
true meaning.
Grice e Corrado – la dieta di
Crotone e la semiotica magica– filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria).
Filosofo italiano. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the
English do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone
and produced a philosophical cookbook for the noblemen!” -- Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande
gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800
nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà
partenopea. Fu il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina
mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale
italiana. Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta
cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca,
e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte. Preparava
elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali
Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava
un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i
pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con
tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine
di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di
Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne
paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla
Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due
Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena
maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel
convento di Oria. Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore
Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si
specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato,
anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale
divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli
ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni,
insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della
città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo
e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria,
anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua
famiglia e dalla sua città natale. Il Principe di Francavilla gli
attribuì la mansione di "Capo dei Servizi di Bocca" (antica mansione
con cui veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina,
alla preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchetti) di Palazzo
Cellamare, sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e
della famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo
livello e rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la
fama di questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che
era in uso al tempo. Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si
esprimeva: «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la
splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini
d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio
da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina
ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di
dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi,
rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria
specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango):
vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il
bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di
sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per
esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta
questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina
consegnava le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a
seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare
assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari
accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia
sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con
pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli
elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava
gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori
variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di
dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti
scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli
uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano
pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una
cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante,
disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con
ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un
artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace
di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno
spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di
gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era
inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria Corrado
lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto
dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di
una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di
conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti
incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri,
probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato
gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui. Le opere “Il cuoco
galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui
che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe.
Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto
nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon
gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di
gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente
opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e
dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare
l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola. Invece grande
successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì
rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe
eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa
opera e ne preparò una terza edizione. La fama del libro superò i confini
del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da
tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla
corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla
quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore
erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre
opere Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore
a pubblicare nel 1778 un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del
dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrisse e
pubblicò inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del
cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia
ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna
della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia
i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta
ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze
sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e
potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non
addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle
stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto
trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai
alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” --
l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come
frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla
memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria
e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue,
per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e
proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di
100 persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte Termini culinari "Il Cuoco
Galante", proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione,
spiega alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle
varie pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire
in acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione,
cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa,
che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere
e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna
cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui
fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di
far i brodi, i coli e le buri neceJTarj
pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia
filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare
procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi
una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE:
Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape Ravanelli
CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli Sparaci
Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi Tartufi Erba
per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria Crefcione Origano
Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta Sambuco Rosmarino
Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano o Ramolaccio
Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite chapter from ‘Il
cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I vitto pitagorico
consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il seme, e tutto cid
che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto pittagorico poiche
Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso.
Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini de’ nostri di li
vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con distinzione
dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con escludere le carni,
e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il ſugo di carne, il
lasase, le uova, l’olio, ed il burirro per compiacere qualche particolar
palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali. Molte fonti
filosofica suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la semiotica e
la filosofia: entrambe le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e
sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio
(197a): "In verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina
e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che
le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano
avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto collegamento
esse lo trovano nella figura antichissima dello iatromantis, il
filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la
capacità di curare le malattie. L'appellativo del filosofo come iatromantis è
riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di
filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e
della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento
fondamentale che caratterizza la figura dell filosofo iatromantis è la sua
capacità di usare una procedura diagnostica: trattandosi di un veggente, egli
è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il
segnante), causa che è da attribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale.
In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità divina o demonica. Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967);
Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul
movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde
(1890-94: tr. it. 1982). Per questa ragione, c'è bisogno di un
filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono
accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è imputato
il presente stato di contaminazione; in seguito alla sua diagnosi, il
filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles, black cloud means
rain] può indicare gli strumenti magici atti a purificare il miasma. Questa
concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola
pitagorica a Crotona, Alessandro Poliistore, che cita le "Memorie
pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi
le considerano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uomini
i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini,
ma anche alle greggi e agli altri animali da pascolo. E a questi demoni ed
eroi sono dirette le cerimonie catartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e
i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va
notato, di sfuggita, che il carattere italico molto arcaico della concezione
espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle
stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità
agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne
(1963: 32). Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia
SACRA e magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni
sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente,
sono anche la fonte dell'informazione che concerne il mondo in-visibile o
in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel
particolare tipo di segno che sono i sogni) dai quali si rende riconoscibile
l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude
attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti
catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tropaiche sono
costituite dalla recita di epoidai, cioè di formule verbali incantatorie, ritenute
idonee a scongiurare il male. Si tratta di segni linguistici che da una parte
chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra sono
efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice:
“Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e
s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e
sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo
pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Corsini: l’implicatura
conversazionale della filosofia in roma antica -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Fellicarolo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corsini; if we at
Oxford had a sublime history as they do in Italy, we surely would be
philosophising about it! Corsini taught philosophy at Pisa and spent most of
his efforts in deciphering what the Romans felt interesting about Greek
philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of Roman philosophy from
the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians put it!” Studia nel
Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e si trasferì nel Noviziato di Firenze. Le
sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso
la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore
Generale e dovette trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai
quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia
e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di
idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre
opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de
Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola
ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento
istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in
aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari
aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze);
A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di Corsini (con lettere di Fananese a
Rondelli). Fanani nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae
AteftinorumFri, III. Non. natus eft Eduardus Corsinius (Silvestro Corsini)
optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae jamdiu civitate
Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem hominum Scholarum
Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus est. Multa
diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice, Lit. Hum.],
philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud suos; & cum
omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in deliciis habebatur.
Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari; & cum plurimuin
faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in officiis omnibus
religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix ferre
poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque oratione &
moribus, quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi
sapientiae magistros de veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue
certantes, philosophiam artem fecisse subtiliter & laboriose infaniendi.
Relictis igitur disputandi spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio
inquirendi verum libero folutoque judicio, & fine ulla contentio ne &
pertinacia non poterat non magnope re probari homini natura leniſſimo. Nec
forum in philosophorum libris corum dogmata, quae disputationibus huc &
illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet, inveſtigavit Corsii, sed etiam
philosophiae adminicula & an ſas, qualem Xenocrates geometriam appellabat,
in Euclide, Apollonio & Archimede quae sivit. Quo in itinere felicem adeo
habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere potuerit
libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit in eo
Grandius eximium & admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus
est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris & studiis & artibus
antecede ret, & in quo ipse futurus effet excellens. At Corsini praeſertim
trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat,
quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent,
legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam
tradendi publice Florentiae philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui
non essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit
Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur
non eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata
poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe
profitentur. Poftremo · ad ſcholae fuae utilitatem & ornamentum maxime
pertinere exiſtimavit, fi e multis, quae ſunt in philoſophia & gravia &
utilia a recentioribus praefertiin philoſophis tracta ta, quantum quoque modo
videretur deli geret, in quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat,
quod ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium
procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti
bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi
in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer
carus, quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua, & cor nicum oculos
configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli (tantum in
vidia, aut inſcitia potuit ) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid
er roris in religionem moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum
tradere, in exponendis praeſertim Gaffendi & Cartefii ſententiis, a recta
religione abhorrentia. Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque
obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis
publi ce convinceret, utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in
lucem profer re, quae in ſchola & domi iiſdem expoſue rat. Quod cum
praeftitiffet, id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di
diciſſe gauderent. Inſcripfit opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum Scholarum
Piarum, & illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet hiſtoriam
philoſophiae & lo gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin cipiis, &
tanquam feminibus unde corpora funt orta & concreta, horumque proprieta
tibus & qualitatibus; agit tertium de cor poribus inanimatis, quae caelo,
aere, ri & terra continentur; examinat quartum animata corpora,
multipliceſque eorum fpe cies, & elementa metaphyſicae tradit; quia tum
denique morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res
no vas inveſtigavit Corfinius, fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae,
quarum co gnitionem eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre
judicamus, cum pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione
Corſinius, illi, fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das effe
diſciplinas, ut ex omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim
cum doceamur a ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque
philoſopho rum quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec
modo quid fibi probaretur, fed aliorum etiam fententias, & quid cui propo quid
in quamque ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia
praeſtitit, ut: non vincere maluiſſe, quam vinci oſtende-. rid. Hanc opinionum
varietatem ex fuis fone tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin
animos influeret, non modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate &
nitore, Latini ſermonis illuſtravit. Praeclare enjin, Cicero: mandare quemquam
litteris cogitationes fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re,
nec delectationé. aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter
abitentis otio & like cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus
dum pleniflimo ore laudant ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque
elegantiam, quibus ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque
tractationem earum rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr.
ſunt Trotus., Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam
ut ſe ipſum, qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur,
convinceret. Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:Corfiniusi, hribuſque
temporibus ſcripferit. Quoniam ve Tom. VIII to plurima ſunt in phyfica, quae
fine 'gea metriae ope tractari non poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri
oportere diſci pulis ſuis putavit. Itaque Philoſophicis Ma thematicas
Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem excipias (initium enim facit a pro
portionibus, quas nemo ignorat difficillimam effe geometriae partem ) cetera
ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus, in quo eo
elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi
mathematicas diſciplinas in Ly ceo Florentino. Acceptum illud cum plauſu fuit
propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam, licet in eo acutiores
peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito teprehenderint.
Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat Corſinius in rebus geometricis, yoluit ad
hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea facultate ſcris
ptis mandaverant poft Galilaeum Torricellius, Michelinius, Guglielminius,
Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non dubitavie fuftinens perſonam
non modo conſiliarii & arbitri de dirigendis avertendiſque aquis, ſed etiam
ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit liber, qui infcriptus eft:
Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e dell' acque della Valdinievole,
quique editus fuit fum ptibus. Marchionis Ferronii, cujus cauffam praeſertim
defendebat. Spe dejectus Eduar dus perveniendi in Lycei Florentini docto rum
numerum, qui praeter modum iis tem-. poribus. creverat, animum ad Academiam
Piſanam convertit, petiitque dari ſibi va cuum eo tempore logicae interpretis
locum. Celeriter quod optabat impetravit, propte rea quod Joannes Gaſto Magnus
Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in omni re philo ſophica cognoverat.. Vir
non tam doctrina praeſtans, quam docendo prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt
docendi ) magno erat emolumento ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata
frequentia fcholam illius celebrabant. Cum vero de fchola in otium folitudinem
que ſe conferret, tempus potiffimum conſu mebat in augendis. perficiendiſque
ſuis Phi lofophicis Institutionibus, abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de
Practica Geometria. Ins ter haec magna fuit amnis Arni inundatio, F 2 84 EDUARD
US ut fi inundationes excipias, quae annis acciderunt, nul lam unquam majorem
fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per animos Florentinorum huic luctuofae
calamitati cauſſam praefertim dediffe Clanis aquas in Arnum deductas, &
quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue rant opera. Hunc errorem ut eriperet
Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera fuiſſe utiliffima ac faluberrima,
libro expoſuit qua lis fuiſſet, & quis eſſet ſtatus Claniae val lis,
quidque conſultum & actum ab anno MDXXV. ad fua uſque tempora, ut peſti
lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa nari poſſeti, utque
controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis
tollerentur. Piſis erat Corfinio con tubernium cum Alexandro Polito, qui hum
maniores litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus. Hominis
Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum & vo. ces,
ſelectiſſimorumque librorum copia, qua is abundabat, Corſinium per fe jam
flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas ar tes, quibus ab ineunte aetate
deditus fuer GO RS IN I UŚ. 85 rat, celebrandas. Sciebat Graece, cujus ſermonis
elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco Maria Baleſtrio,
fed non luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte grammatica primum ſe
exer euit, poftea Graeca multa convertit in La tinum, Graecorumque libros &
eos pracſer tim, qui res geſtas & orationes ſcripſe runt, utilitatem
aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat. Cum vero ei eſſet
perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi, qui eloquentiae
ceterife que humanioribus litteris vacare cupit, acom mico hac de re aliquando
ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem, co gnoſcendam
hiſtoriam, omnium bonarum artium ſcriptores & doctores & legendos &
pervolu tandos, & exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos,
corrigendos, refellendos; diſputan dumque de omni re in contrarias partes,
& quid quid erit in quaque re, quod probabile videre poffit, eliciendum
atque dicendum. Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius
in veritatis lucem tandem proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos
illustrandos fuſcepiſſet; magnum ſane opus & prae clarum, quod omnem fere
Athenienfium hi ftoriam complecti debebat, cum qua philo fophiae, omniumque
laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus
in partes duas, quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in
illa fuſe lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis Faftis, ad quos ta men
pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu
tione, numero, varietate, muneribus & re rie, de Archontico anno, atque
ordine men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum,
ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum Athe nienfium fingulae
aequali temporis, annique parte Prytaniae munere fungerentur, de ie pſarum
Tribuum ac Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque Atticae populis, ex
quibus illae conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab his ſeparandam putavit
tractatio nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis, dcque Proedrorum, ac
Epiſtatum numero, diſtinctione & officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum
ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam diſtinctio nem licet nonnulli
agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui Pſeudeponymorum Archontum feriem
illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit. Agit de
mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque
periodo, cum antea declaraſſet tempus, verumque di em, quo varia Athenienſium
feſta peragi & redire confueverant. Id facere neceſſe fuit propterea quod
eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum
memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur. Haec quidem in priori operis
par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade, qua Coroebus
palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Cauffa fuit juſta Corſinio
praetereundi antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis occultata tenebris,
& circumfuſa fabulis. Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice.
re videretur (nam Athenis initio Reges, inde perpetui Archontes, mox decennales,
tandemque annui imperarunt) qui Reges & Archontes perpetui, & qua
aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit
Corfinius, ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum, Olympioni čarum &
Pythionicarum, nulla lex, neque pax, neque bellum, neque caſus neque res
illuſtris & memoranda populi Athenien fis, quae in iis ſuo tempore non fit
notata. Interdum etiam attigit Spartanorum, Phoceli fium, Thebañoruin,
aliorumque Graecorum gefta, conſilia, pugnas, diſcrimina, quod ca maxime ſint
Atticae hiſtoriae conjuncta. Grae Cos vero philoſophos, poetas, oratores, cete
roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita commemoravit, ut
quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi, vitam que '
finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt dicta. Etenim
nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere, quae in his Faftis
continentur. Nihil poſuit in iis Corſinius fine locuplete auctori täte &
teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura; quodque difficillimum fuit,
fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut mutilata'ſic
reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur plus ne jis
reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit. Neque minori perſpicientia Athe
nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca quidem in rein ſuam hauſit; ſed
multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo dirimens controverſiam,
quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio, & Gudio, nummis ne, an
inſcriptionibus princeps locus dandus effet in explicandis ri tibus, feſtis,
Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque geſtis Athenienfium. Inter
nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, & miro prorſus acumine
atque eru ditione explicat, & interdum etiam fupplet, eft Florentina
quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime idonea. Sed
haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam collocatio. Etenim cum ex
tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic illa in pariete
diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera vero omnium
poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2 tutiſſime
indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium ſe non
adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium
Scholiis, & ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt quare is
debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe multumque
ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius, Scaliger,
Petavius, Petitus, Spo nius, & vel ipfi Meurfius, & Dodwellus, quorum
errorés dum faepe corrigit Corfini, us, & dum minime ab iis animadverſa pro
fert, fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude
coro nam. Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum,
Corfinium in emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe
fibi fegetem & mate riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii
emendationes fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I.
Meurſii operum volumine, quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam
pagi nam, in qua emendatior inſcriptio legebatur; CORSINIUS: 1 bancque
mutationem, omnibus occultari pof ſe putaverat, quod Meurſii liber nondum efe
ſet in vulgus editus. Non latuit certe Core finium, in cujus manus pervenit
etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam.
Id ut audivit Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit
ad Angelum Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut
ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad Ric cardianum marmor explanandum, aliquando
proferret; re autem ipſa ut quae a Corſinio didicerat, perpaucis additis aut
mutatis, le ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis. Atque id
utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft. Quare mirari ſa tis non poffum
hominis frontem, qui furti Corfinium infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re
aliena, atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an. MDCCXLv. ſunt
geſta, cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed tamen res
defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum, quo Meurſii
opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa. Tum enini primum
jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII. Lamius in l. operum
volumen intulerat, lecta eft pag. 258.: ad calcem vero ejus voluminis ſecundae
Aucto ris curae in eum lapidem, & quaſi retra Statio quaedam ante dictorum
edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire tuentia,
alterum quod nihil hoc in loco proponatur, ' quod non ille in Faſtorum libro
occupaverit; alterum quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis
characteribus forma et figura longe abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos
multos quam liber fuerat impreſſus, diſtractis jam aut obſoletis formis illis
prioribus, additam eſſe appendicem, de qua meminimus. Sed jam fatis multa de
homine meo quidem judicio paucis comparando, niſi regnum in litteris, quod
Florentiae perdiu tenuit, malis inter dum artibus & clarorum virorum vexatione
confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam
verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile,
quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis
elaborare Corfinio maxime glorio fum fuerit, non minorem tamen laudem rea
portavit ex Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius,
intelligens ſane. judex, dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen
Auctori comparare. His Diſſertationibus oftendere voluit Eduardus, quo tempore
Graeci celebrare conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, &
Iſthmiacos, quod tempus eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In
hoc autem non mediocrem utilitatem chronolo giae & hiſtoriae ſe allaturum
putavit, quod iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum
geſtarum tempora. Ab Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore &
frequentia ſuperabant, breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti
tutos Trojano bello deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos
fuiffe fcriptores narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade
illa quaereret, qua Coroe bus palmam accepit, & quae prima dicitur, omnes
Exiflimayit ele, fit exiſtimet Reſponſum, 11011 d.ctum effe, qu'a lacris prior,
6 94 EDUARD V $ quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat.
Hanc celebratam fuiſſe putat an. periodi Julianae MMMDCCCCXXXVIII. circiter folftitium
aeſtivum, plenilunii tempo re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus,
quibus civiles Graecorum anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus
ſolares anni a Romanis ad Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in
quem incidiffent Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur,
inter quae curſus, quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque XVIII, primas
tenebat. Neque. in Aelide folum, fed & in aliis Graeciae ur bibus fumma cum
populi frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v.
ineunte reparatae falutis faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos
primum inftituit Apollo, eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi
bello, Olympiade. XXXXVIH. Amphictyones revocarunt. Ii-. dem Olympicorum inſtar
pentaéterici erant; neque ſecundis annis, aut quartis, ut Peta vius &
Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque exeuntibus circa Elaphebalionis
menfis finem, tum Delphis, tum in aliis Grae-: ciae urbibus peragi confueverunt,
Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum
origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli
Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę agones CCCCLXXV. annis ante
Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt. At Nemeadem illam, ex qua
veluti cardine ceterae infe quentes numerari coeperunt, in annum IV. Olympiadis
LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat.
Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae, omnes vero trietericae fuerunt;
eaeque alternis annis ita peragebantur, ut hibernae quidem in medios ſecundos,
aeſtivae vero in quartos ineuntes Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis
ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo, ut ferțur, conſtitutis fia militudo.
Funebres erant ambo, ambo trie terici, & qui utrolibet in certamine
viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen
alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur illi primis
Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te fere tertio
Olympico anno. Sic definivit Corſinius tempora quatuor illuſtrium Graea ciae
ludorum, patefaciens obſcura & ignota vel ipſis chronologiae luminibus
Scaligero Petavio, & Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo
Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat.
Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit
feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, &
Dodwelliana longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum
vitores recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in
quo Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin
ctoris nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet,
hauriebatur. Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir
modeftiffimus in eo quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico
fcripfit Cicero, fua cuique Sponfa,fuus quiqua 2007. Quoniam autein tumuin his Agoniſticis
Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt Corſinius ſubſidio
marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa
cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit
Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed
etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque
explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum
admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis
l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque
enodantur.. Cum Eduardus ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata
haec fuit in IV. vo lumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua
ſummas tribuit Maffejo laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim
tractandam füfceperit,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, &
acre: prudenſ que judicium.. Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi
ſumpſerat, ille deſeruit, quia, ut ait Auſonius, is crat campus, in quo alius
alio plura invenire poteft, nemo om. nia. Et plura certe Corſinius invenit, cum
mille fere notas, aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po
tuerit & explicare illo ſuo acutiffimo inge nio, cui inquirenti &
contemplanti omnia occurrere ſe ſeque oftendere videbantur. Ut vero
delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes, quibus inſuavis fortaſſe &
aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio, poftquam multa eruditiſſime
praefatus effet de notarum origine, vi, utilitateque, opportune ſparſit in toto
libro non pauca ad hiftoriam, geos graphiam, chronologiam, ac mythologiam
ſpectantia. Ex quibus aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret
Diſſertatio nes ſex, quas, abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent
operis corollarium. Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae
antiquitatis inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum
qui non comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo &
ſubtili non fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari
& perite non poſſe. Inſcriptit Corfinius hoc ſuum opus: Norse Graecorum
five vocum & numerorum compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum,
tabulis obſer vantur, dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud
ipſum evulgandum dono accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat,
quae vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros
emendos. Praepoſitus an MDCCXXXV. dialecticae ſcholae, nihil aliud annui
ſtipendii obtinuit nifi octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur
nobiliilimae. quidein diſcipli nae, ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat
ac funditur, ut qui illam profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel
ipſi Grae. ci, quamvis ellent aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe
voluerunt inerce dem Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res Corſinii eſſe
coeperunt cum traductus fuit (id accidit an. MDCCXLVI.) ad metaphyſi cam atque
ethicam docendam.. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum & am
plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos quinquaginta
uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent. Satis ſuperque
id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque libi ſuperare
Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a moris
vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod mortuo
Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius locum
fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis invitaretur.
Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I. Cae faris
nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei gratias agendas
cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed & Cae aris voluntate
pollicitus eſt. Id non potuit Corfinio non fumme eſſe jucundum; utque viro de
fe & de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit
illi Plutarchi opus de Placitis Philoſopho. tum a ſe Latinum factum, vitaque
Scripto ris, fcholiis, & diſſertationibus ornatum. Cauſſam ſuſcipiendae
novae interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei,
Xylandri, & Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes;
ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam
attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis
diligentia perſpicuitati officeret, & ne res ipfa omni Latinae orationis
dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex
illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, & feriem
philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua
vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria,
quae aut mutilos & hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos
emendant, aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo
phorum ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit
Corſi nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum,
ſed & quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias
coarctavit & peranguſte re ferſit Plutarchus, Exotélv8 cognomen me reatur,
hujuſmodi illuſtrationes ad finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam
recenfere illuſtriores ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum
philoſophorum, cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro,
quod profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt
attractionis leges, vireſque, ut di cuntur, centripeta & centrifuga,
Charteſia ni vortices, lunae phaſes, maculae, quod que haec fit terra multarum
urbium & mone tium, converfio folis, planetarum, fiderum que certa quadam
celeritate ac periodo cir ca axes ſuos, natura, coſtans motus, rever lioque
cometarum, telluris motus, quodque ex eo cauſſa ' maris aelus repetenda fit
jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum, tum ad animi na
turam pertinentia. Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam per abdita
remotioris antiqui• tatis permeare, & inde nova & inexpecta ta deferre,
quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet. Nam, ut Ari ſtoteles
inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius delectatur. Cum igi
tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo graphidem eximii
cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis, non magnopere
hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc ſuperiori in parte
Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati que poſt exantlatos
labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini ſacrum, Ar givae
Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, & Herculem demum ipſum ſe ſe
expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc & illinc
anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum
decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco
octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores & certamina
declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem
ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe
mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero
tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane divinationis
cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias
feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere
ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe
affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius
priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii
ſentiunt (1) qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore
Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae
impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri
ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis
Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi
inediti Trel. Prelim. p. LXXIX. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum
fuiſſe Corfinium arbitratur p. 39. (2 ) Sic interpretatur Corfinius mire
involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54.
Eupatoriftts Gymnaſii (hoc eft civibus Eupatoriae, qui in Gymnafio certarunt )
ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori
con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba
exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda
patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis, qua
occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly
fiae, Dionis, & Socratis aetates & tempora perſequitur. Explicat tertia
adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus
ex luto fin gens, & Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam,
inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit Corfinius, ut perſuaderet
hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex
miris hujus volucris affectionibus & natura, non ex ipſa animi
immortalitate, circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque
fapientiae fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum
imperitia profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem & ani
nium deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non
putavit hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei,
quacum is commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in 106 EDUARDUS eo
verſatur, ut oftendat mentitam & falfam effe Latinam quamdam inſcriptionem,
quae Piſis vilitur in Scortianis aedibus. Summi labores, quos Corſinius
impendit in conficien dis, quos retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt
gloria, ut unus e multis, qui illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe
dederunt, excellere judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere
doctrina tan ta etiam judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus
teſtimonii auctoritas ma xima reputari debet non folum quod ab hox mine
prudentiſſimo proficifcitur, fed etiam quia figulus invidens figulo, faber
fabro, ut eſt Heſiodi dictum, alterius laudi & gloriae | minime favere
ſoleat. Ex mutua opinione doctrinae, fimilitudineque ftudiorum orta eft inter
cos jucundiffima amicitia, cujus tanta vis fuit, ut Corſinius aeſtate an.
MDCCLI. quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot menſes commoraturus
apud amicum. Quo tempore inter eos fuit familiariſſima focietas, &
communicatio ftudiorum. Dono accepit Corſinius a Maffejo tercentum fere Graecas
inſcriptiones (has Edmundus Chici1 shullius collegerat, & fecundae Afiaticarum
antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne, ut eas Latine redderet atque
illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo, cum anno inſequenti
edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum
cum commentariis edidit quam driennio poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum
volumini. Nono menſe poftquam in Etruriam rediit Eduardus, moritur Ale- '
xander Politus, quocum ille ita vixit, uit. quem pauci ferre poterant propter
difficilli mam naturam, hujus fine offenfione ad fum. mam fenectutem retinuerit
benevolentiam. Mortuo autem Polito neque inquirendum neque conſultandum fuit
quis illi ſucceſſor in Academia Piſana daretur, cum omnium oculi ftatim in
Corſinium conjecti fuiſſent. Ita hic exeuntė anno MDCCLII. poftquam octodecim
fere annos philoſophiam tradidif ſet, munus docendi humaniores litteras li
bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio propoſuit fibi (nam muneris ratio, &
adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis Latina conjungeret )
explanare Plutarchi parallelas Graecorum, Romanorumque vitas, ut inde occaſionem
ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi. Memoriter dicebat e
ſuperiori loco, quod ad praeceptoris & ſcholae dignitatem plurimum tum
conferre putabatur; & quae tradebat inſignita e rant luminibus ingenii,
& conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di erat quiétum
& lene, purum & elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant, & non
folum delectaret, fed etiam fine fatieta te delectaret. Nulli diſcipulorum
aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat, quin immo eos bis in hebdomada
domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret Grae carum, Romanarumque
antiquitatum. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae
Moderatoribus illum libe rare niſi anno MDCCLIV. quo quidem tem pore Venetiis
evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his adornandis illud unum pro
pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas de animae immortalitate,
arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque naturalis theologiae dogmatibus
notiones infereret, quibus in gravioribus aliis diſciplinis veluti praeſidiis
uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam hominum non tam religioni, quam
reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo ubique venenatas opiniones
diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi lubet, Corſinium, quod nimis,
parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in ca, in qua nunc ſumus,
luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno ore fateri debent
tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae nullibi poffint refrigerari
ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum fuit, quae Corfinius Phi
loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime videretur tum maxime
ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus Latinae orationes ad
Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis, faluberri ma praecepta,
quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat, doctiflimoruin Phi
loſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, & ars illa diſtinguendi
vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi, diligenter
examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi fine evi
denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum inter
omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta
inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de
Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem
in lucem extulit an. MDCCLIV. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari
num mum, quem praecipue illuſtrandum Corſi nius ſuſceperat, ad illum fpectare
Maniſarum Armeniae & Meſopotamiae. Regem, de quo Dio Caffius in libro
Romanae hiftoriae LXVIII. mentionem fecit, & Arſacidarum epocham uon in
Parthiae. folum, fed etiam in: Arme niae regum nummis inſcriptam fuiffe, eam.
que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe. Antea quidem doctiſſimorum
viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii, Spanhemii, Vaillantii, & Froelichij
fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum imperium incepiſſe, adver ſus quam
ſententiam Eduardus ita pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit.
Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res inter fe ita nexae & jugatae
funt, ut, inventa una, aliae, quae prius latebant, ſe ſe contemplandas
offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia
ſcriptorum loca corri gere & ſupplere, verum Darii genus expo nere,
Tiridatem alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos
proferre potuit. Res in hac Differ tatione contentae, non fine laude oppugnatae
fuerunt a Jeſuitis Froelichio & Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta
fuerunt, ſine iracundia Corfinius. Eteniin veritatis unice amans alios a fe
diffentire haud ini quo ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis
ſententiis quaſi addicti & con. fecrati etiam ea, quae plane probare non
poſſent, conſtantiae, non veritatis cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque
Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus convictor & fodalis (*) Huic titulus eſt.
Lettere critiche di un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi
ſciola gono le difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre
Corſini nel Tom. IX. della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa 1957. in Carolus
Antoniolius, qui quidem non me. diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum
valeret in omni genere ftudiorum quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae
fuit Antoniolii opera in Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo
Corfi nius, coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum, bona
Principis cum ve nia, & fine ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic
Romam venit menſe. Aprili an. MDCCLIV, ardens. defiderio indicia veteris
memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque enim quis
ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed raro ei
poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae dolori bus
ſaepiſſime vexaretur, & munus ſuum diligentiſſime exequi vellet. Quanta
vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta
aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam
legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in
con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non
poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, &
facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli
materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun
arbitrium res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Eduardus
Sodalitati, to tamque fic rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus
proſpexerit. Non eſt credi bile quanto animi dolore angeretur, fi ali quis
ſuorum in crimen vocabatur. Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca
ti ſuſpicionem. Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis
atque manſuetudine, quam animadverſione & ca ftigatione ad frugem revocare
ſtudebat. Cum vero feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt,
adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet Cicero, legum erat, quae ad
puniendum non iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris
ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem
đuarum Graecarum inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti
Senatoris.quam feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum
priſcarum, quibus illae con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt
ii, qui ſunt harum deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za
nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe Eduardus cum
Anconae effet ineunte anno MDCCLVI. eoque prae ſente cum multis aliis detecta
fuiſſent atque agnita corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni & Liberii,
quos ſingulari obfequio ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid
laboris impertiret illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque
praeſer tim tempori, quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc
jacent, lo cum, & quo Anconae coli coeperunt. Haec Corfinius, edito
commentariolo, accidiffe - ftendit exeunte faeculo XI., & ex ipfis an
tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam confirmavit, quatuor Anconitanorum
Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç uſque ad id tempus fuerant incognita,
Per pauca in hoc commentariolo attigit de S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam
tenebris & fabulis exiſtimabat, Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet,
& monumentorum ope, & mirabili illa ſua conjiciendi arte pa tefacere
potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S. Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui
circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo litariam vitam acturus in ſuburbano mona
ſterio Portus Novi. Harum rerum inventio multis laudibus. celebrata fuit a
Scriptoribus annalium Camaldulenſium (*): pergrata quo que fuit. Benedicto XIV.
pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad
congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum, quod ejus ſummum in genium,
fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem & nofſet & diligeret,
ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man dare litteris, quae abdita
Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt juftae ca uffae quare.
Corſinius amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit; & quid
quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime
concede-. (* Vid. Tom. III., bat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo in
Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua plura
de Gotarzis eximio nummo, ejuſque, Bar danis, & Artabani Parthiae Regum
hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam,
ut in otio, quod raro da batur, & peroptato illi dabatur, ceffaret a libris
& a ftilo. Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret,
di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed relaxare animum. Et
relaxatione certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo erat, quod multi
appetunt, ceteros regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur.
Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum, inas
ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio, quo ad Sodalitatis gum.
bernaculum ſedit, viginti domus, five cole legia conſtituta ſunt. Interim
advenit tem pus, quo magiſtratu fe abdicare, & extre mos auctoritatis fuae
fructus capere debe bat in provehendo digno viro, qui fibi fuc cederet. Verum
minime illi: contigit, ut funt ancipites variique caſus comitiorum, quem
optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam &
ad il lamºquietam in rerum contemplatione & co gnitione maxime poſitam
degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad
beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in manibus; Graecas in
fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a Scipione Maffejo dono
accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis
explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in Academiam, afferebat
res multum & diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita,
com pta & mitis oratio. Idem efflagitatu & coae tu amicorum inftituta.
hoc tempore opera abrupit, ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens
in Auſtria reperti, in quo erat nomen & imago Sulpiciae Dryan tillae
Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a
Sul picio quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam; nupfiffe demum Carinó
fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla
dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma,
feminaeque ornatu, illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali &
Diocle tiani imperium, proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum, qui
illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit
etiam excutere hiſtoricorum & rei nummariae interpretum mire inter fe dif
ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate, ac
poftremo ſuam ſententiam proferre. Fuit haec, Aurelianum exeunte Julio, vel
ineunte Auguſto anno CCLXX. imperium ſuſcepiſſe, eaque multis & gravibus
confirmatur argumentis. Ad ex vero diluenda, quae contra dici poterant ex
illorum ſententia, qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a Claudio
VII. Kal. Novembris Antiochiano & Orfito Con ſulibus, ut ſerius Aurelianum
inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a ſuffectis.
Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae maxime apta erat non fo lum ad id,
quod requirebat, ſed etiam ad expediendos alios, quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles
in Chronologia exiſtimaverat now dos, concludit eamdem legem editam fuiffe anno
cclxix. vel CCLXVIII. quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules
erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis. Nec minor
difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad vil. Imperii
annum perveniffe dicatur, & explicare locum Euſebii, qui tradit in ejuſdem
tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc Sya nodum
anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit Corſi
nius, cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus poft
mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus
Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit
Corſinius haec ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro,
ejuf demque nomine ab anno ccLXXVI. uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni
ce intentus vixit, Orientis imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae
hoc tem pore cuſa funt Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum
illum nominent. Poftquam vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret,
huic quidem conjun octus in nummis repraefentari voluit, minime vero
paludamento, radiata corona, fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im
peratoris contentus. Praetereo alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione
conten ta, ne, cum nimis longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar
oblitus con ſuetudinis & inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus
Corfinius totus in eo fuit, ut ab Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe
con dita ad annum afque MCCCLIII. five a Chri fto nato DC. Etenim poſteriora
tempora mi nime inquirenda putavit, quibus, penitus fere exſtincto Urbanae
Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi tenue nomen, ac leviſſima
priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat, ut nihil inde lucis facra
& profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra uberrimam fplendidiffimamque
utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie, horumque aetate rite
conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam jucunditate lecto res
invitaret Corſinius, operi varia opportu ne admifcuit, quae marmora &
ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt & illuſtrant,
interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non ego ſum neſcius
multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento; ex qui bus
omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam
tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt, fi unum excipias
Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum ſeriem ad annum
uſque MDCXXXI. traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem de re
aliquid politius, copiofius, perfectiuſque proferri a Corſinio potuerit. Et
protuliffe certe ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab
intelligentibus viris reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is
in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod
hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet
abundantius & copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque
poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui
nullo in pre tio ob pauca quaedam a Corſinio praetermif ſa hujus opus habendum
inflatis buccis clamitarunt. Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis
vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui
librum Bononiae an. MDCCLXXII. edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis,
verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in
lucem protulit. Sed ad Corſinium revertor, qui dum fine intermiſſione
obſequebatur ftudiis ſuis & adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe
jam fenem factum (quando enim typis mandavit librum de Praefectis Urbanis
ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) & infirma aegraque valetudine
effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio: Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma
del Ch. P. Corfini contro la cenſura farie. le nelle offervazioni ſul Giornale
Piſano, in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e le emenda.
In Bon logna e S. Tommaſo d'Aquino in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs vol. VIII.
p. 179 eidit miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga nem ſpem non folum
litteris, ſed etiam na: turae vivendi praecidit. Erat haec conſuetu. do
Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur, Kalendis
Novembris, quo tempore inftaurari ftudia folebant, Latinam om rationem haberent
ad vehementius inflamman dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo
die Eduardus (vertebat tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de
viris, qui & ſcriptis editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue
runt, eaque erat oratio, ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo
pervenirſet, ut exultaret in immenſo Galilaei laudum campo, repente apoplexis
ipſum perculit, ac ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum
ille Academiae eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte
conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac
praeter ſpem paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare
vires, efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non
poſſe munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere
ante opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum
perduceret. Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia
vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia
do ctor, quae quidem ampla & bella materies effe poterant ad novum
aedificandum opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad
rem accinxit. Et primo qui dem illuftrium Italicorum Gymnafiorum ori ginem
ſubtexuit, diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima Gymnaſii Piſani
in-: ſtitutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi
ſcripſerunt, fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe
exiſtimavit. Ex hoc tempore ad annum uſque MCCCXXXIX., quo anno Fa bruccius
contendit coepiſſe Academiam Piſa nam, hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain
certe fuiſſe oportet. Conſecutae des inceps yices multae, ut ipſa modo langues
ſcere, modo ad interitum properare, vires vitamque modo recuperare, ac faepe
etiam veluti extorris ſedem mutare viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus
capitibus perſecutus eft Eduardus. Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non
solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent,
quibus ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata
legibus consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in
quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta
videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet
alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam
videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac
preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus Corsinii scriptis luxuries quaedam,
quae, ut in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni
oratione, maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura & illu fțris brevitas
expetitur. Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne
plane superioris aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami
cum & collegam fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi
consulatu egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius &
Pagius, computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad
Proculum, in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum CXVIII. an nos enumeravit,
conciliari posse, cum Varroniana epocha, ideoque, novam excogitarunt epocham
XIII. annis Varroniana pofte riorem, qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium
usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut
corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed & Bur
digalenſem geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum
fastos conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit oftendere
eumdem Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis
faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est
ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus
majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu
locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom.
bellium Canonicum Regularem, in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia
Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis,
ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis
comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae
fparfit Corfinius in hac epiſtola, ut jucunda lectoribus, ita iif dem plena
moeroris fore arbitror, quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius
adnotavit. Scribit enim ille: Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus,
monemur, eodem fere tempore, quo Brixiae egregius Maza zuchellius, inclytum
Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum. Eheu litterae aflicłae ! o
amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies, quo
illum apople xis iterum invafit, fuit v. ante Kal. De cemb. anno MDCCLXV. poft
quem caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S.
Euphraſiae totius Acade miae luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit,
doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae
eaeque interiores, divinum ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis
celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi
tae decorabat dignitas & integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in
yultu & moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat
ex ore ! quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino
tantus erat in ipso ordo, conſtantia, & moderatio dictorum omnium atque
factorum, ut probitatem & religio nem prae se ferret, & ad omne
virtutis de cits natus videretur. Quidquid come loquens, & omnia dulcia
dicens mirabiliter ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in
familiari sermo ne a quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat,
quod non tam na turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando
sentiebat, sed hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque
occultabat. Secum ipſe vivens animi triftitiam frequenter patiebatur,
praeſertim si contemplaretur misera, in quae incidimus, tempora, quibus
corrumpere, & corrumpi saeculum vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo
abuterentur philofophia, ac prae ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne
avocarent, tanto illum perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non
nunquam videretur industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum
philoſo phorum dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi
videtur; omnium artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat
mala Eduardus, accidif ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac
termini ab omnium rerum modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae
ille devius in praecipitem locum ruat necese est. Sed ad Corfinium revertor, de
cujus laudibus non eft tacendum ſummae illum bonitati ingenuitatique ſummam
dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse. Liberalis minimeque cupidus pecuniae
hanc facile a se extorqueri patiebatur. Virorum litteris illus ftrium amicitias
ftudiofillime coluit, amavitque in primis Trombellium & Paciaudium, quo rum
mentionem fupra fecimus, quorumque conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae
sertim tempore, quo Romae fuit. Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis
accipere solebat, epistolas, quia ſciebam in iis erudita multa contineri: eae
quidem mihi non me diocri subsidio futurae fuiſſent huic explican dae vitae. De
qua fatis erit dictum, fi hoc unum addam, eumdem ineditas reliquiffe bi nas
Dissertationes de S. Petro Igneo, & B. Joanne delle Celle; librum de
civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis, ſex que Latinas orationes
habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus fine nervis cognoſci potest.
Opere: “Instıutiones philosophicae, ac Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum:
Tomus I. Florentiae typis Bernardi Paperini, continens physicam generalem, continens
libros de coelo Es mundo, continens tractarum de anima, E metaphysicam continens ethicam vel moralem continens
institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae institutiones in V. mos diſtributae
Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum hoc titulo Cl. Reg: Scholarum
Piarum, & in Pisana Academia Philosophiae Professoris Institutiones
Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio altera auctior &
emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell acque della
Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi di
Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare le
più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch.
Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini,
e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1
netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt,
emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit
propoíitionem XXXV. Libri XI. Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem
Auctoris liber della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la
Valdichiana, in cui si descrive la antica e presente suo stato” (Firenze nella
Stamperia di Franceſco Moucke in 4); “Faſii Anici in quibus Archonium
Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium Virorum deras arque
praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos disposita describuntur,
novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana
Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex typographia. Jo. Pauli
Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. Tom.II. prodiic. ex eadem
typo graphia. Tom. III. prodiit anno 1751. ex eadem typographia. Tom. IV.
prodiit ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana
Philosophiae Profeſoris Differtationes. Agonisticae, quibus Olympiorum,
Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco
redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex
typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries
menfium Macedonicorum, Atticorum, & Romanorum ad de mondirandun veruna
corum ficum ac connexionem; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus, quia
rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a Corfinio
contexta differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius,
Petavius, Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous
Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus
Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion
Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion
Scirrhophorion Julius Augustus September October November December Januarius
Februarius Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno all' opera del Marchese
Scipione Maffei intitolata: Graecorum Siglae lapidariae. Extat in tom. 4. par.
3. del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum, five vocum
Ex numerorum compen dia, quae in aereis atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur.
Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia
Eduardus Corſinus Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina Philoſophiae
Profesor. Accedunt Differtationes ſex, quibus marmora quaedam rum facra cum
profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol.
Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir,
adnotationibus, variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit Eduardus
Corfinius Cl. Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo.
seniige ex Imp. Typographio, Disertationes IV quibus antiqua quaedam insignia
moc sumente illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci
Gorii. Herculis quies & expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa: in
fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae
latina interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul.
Schole sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio
ex typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in
usum ſtudiosae Juvent. sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8.
Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0
Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana. Philoſophiae
Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 Eduardi Corſini Cl. Reg.
Scholarum Piarum in Acco demia Piſana humaniorum litterarum Profeſſoris de
Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis, & Arſacidarum Epocha
Differtario Liburni typis Antonii Santini & Sociorum in 4. Spiegazione di
due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton
Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo
pienza Romana, ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle
Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel in 4. Relazione dello scuoprimento
e ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia
berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di
queſte Sanci. In Roma, nellu Stampe ria di Giovanni Zempel in 4. Eduardi Corfini
Cler. Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum
Profeffuris Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, &
novam Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur.
Romae ex typographio Palla dis in 4. Eduardi Corſini Cler. Regul. Scholarum
Piarum & in Academia Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles
riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae
Regis nummus hactenus ineditos expli Catur, & plura Parthicae hiſtoriae capita
illustrantur. Romae, in Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus & Marcus
Palearini ir 4.Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum
litterarum Profeſoris Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani
ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur. Liburni apud
Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum Urbis ab
Urbe condira ad annum uſque MCCCLIII. sive a Chriſto naro DC. collegit, rem
cenſuit, illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia
Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane
nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno
a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all'
Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are cona nella
Sramperia Bellelli in 4. Cl. Reg.
Scholarum Piarum, in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola
de Burdigalenfi Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius
Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum
Pia rum Ex- generalis, & in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed
Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S.
Salvatoris Ex-generalem & S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola,
Bunoniae, ex typographia Longhi in 4;
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(voli. I-III)Odoardo Corsini. Edoardo Corsini. Silvestro Corsini. Corsini. Keywords:
Romolo e Remo, segni naturali, segni artificiale, i segni, il segno di Romolo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Corsini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cortese: l’implicatura
conversazionale del segno naturale -- del principio del significato – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. e alpinista.
Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on ‘aber’ are very
much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’ alla Socrates –
as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a scouncrel --,
and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the ‘principle of
meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely speak of the
principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of
‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a
principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are
certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for
trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist,
and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational
constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational
cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation
as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the
existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some
sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo
Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a
Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere:
“Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia
e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di
creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola,
Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale
della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova);
“Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia,
Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il
sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” –
“Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il
concetto”; “Liberalismo” -- Wikipedia Ricerca
Meteorologia branca delle scienze dell'atmosfera Lingua Segui Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce o sezione sull'argomento meteorologia non cita le
fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La meteorologia[1] (dal
greco μετεωρολογία, letteralmente "studio dei fenomeni celesti"[2]) è
il ramo delle scienze dell'atmosfera e della Terra che studia i fenomeni fisici
che avvengono nell'atmosfera terrestre (troposfera) e responsabili del tempo
atmosferico. Cumulonembo calvus, nube convettiva in atmosfera
StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Storia della meteorologia. Rappresentazione di venti e meteorologia in
una tavola degli Acta Eruditorum del 1716 Il termine deriva dal greco
μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος metéōros, "elevato" e λέγω
légō, "parlo", quindi "discorso razionale intorno agli oggetti
alti": la parola μετέωρος ha un'etimologiaincerta, forse derivato dal
termine metá in italiano ‘’oltre’’ e ourea ovvero il termine arcaico greco per
‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti [3], o forse da μετά metá "con,
dopo" e αἴρω áirō "alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci
si è dovuto attendere fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo
dei calcolatori elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un
tempo ragionevole le tante operazioni di calcolo che caratterizzano
l'elaborazione a mezzo di un modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal
cielo più frequentemente sul nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire
particelle costituite da acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve,
cristalli di ghiaccio, grandine o neve tonda). DescrizioneModifica
Circolazione generale dell'atmosfera Ciclone extratropicale Fronte
caldo Fronte freddo Fronte occluso In particolare lo studio
dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali
(temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione
solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e
indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti
meteorologici equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico,
facente cioè uso dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica
per la quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica
dell'atmosfera) che intercorrono tra essi. I due approcci confluiscono
nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione
di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve
scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento,
precipitazionitramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato territorio
(previsione del tempo). Tempo meteorologico e climaModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tempo meteorologico, Clima
e Variabilità meteorologica. Obiettivo della meteorologia è quello di misurare
direttamente i parametri fisici atmosferici istantanei e cercare di fornire
previsioni su determinati eventi atmosferici futuri, studiando dunque i
fenomeni di breve durata che caratterizzano il tempo meteorologico; la raccolta
di dati sul lungo periodo è utile invece a livello climatologico studiando
l'andamento medio del tempo atmosferico di una regione in un certo lasso
temporale: mentre il tempo atmosferico è definito come l'insieme delle
condizioni atmosferiche in un certo istante temporale su un dato territorio, il
clima invece è l'insieme delle condizioni meteorologiche medie di un territorio
su di un arco temporale di almeno 30 anni, come stabilito dall'Organizzazione
Meteorologica Mondiale (OMM): talune analisi che si riferiscono in primis
all'ambito meteorologico non possono dunque essere estese all'ambito
climatologico essendo questo una media statistica sul lungo periodo, oggetto di
studio di quella scienza affine che è appunto la climatologia; quindi mentre la
meteorologia ha come finalità ultime la comprensione dei fenomeni atmosferici a
breve scadenza con relativa previsione, la climatologia studia invece i
processi dinamici che modificano le condizioni atmosferiche medie a lunga
scadenza, come ad es. i cambiamenti climatici. Principali fenomeni
meteorologiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è un gigantesco sistema
termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico, la biosfera e la
criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto forma di radiazioni
che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica o turbolenta
dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale dell'atmosfera e
una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che quotidianamente osserviamo.
Gran parte di questi fenomeni possono essere inclusi in tre grandi categorie di
processi: i processi di redistribuzione del calore, sia in verticale
attraverso il trasferimento radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a
piccola, media e larga scala) attraverso i venti e la circolazione generale
dell'atmosfera. i processi atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua,
innescati a loro volta dai processi radiativi, quali evaporazione,
condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni perturbativi ad essi associati
(a piccola, media e larga scala) quali fronti meteorologici, cicloni
extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci, tornado ecc. i processi
legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le prime due categorie di
processi sono intimamente connesse giacché evaporazione, condensazione e
formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto dell'energia nel
sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso tempo da essi
innescati. I vari fenomeni meteorologici sono classificati all'interno
della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle dimensioni del
territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo temporale di
interesse in cui essi insistono. StrumentazioniModifica
Strumentazione di una stazione meteorologica Satellite
meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi strumenti
per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati approvati
dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi vengono
utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale: radiometri e
scatterometri localizzati su satelliti meteorologici misurano l'energia
elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio esterno, fornendo
quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della presenza di nuvole
termometri (es. a minima e massima), per la misurazione della temperatura;
igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per la misurazione
dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della temperatura e
dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle quantità di
pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al suolo;
anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti;
trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per
radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili
verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la
principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi
meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare
aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano
informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa
riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne
l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni
casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a
terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano
attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le
mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita
polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web.
Previsioni meteorologicheModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Previsione meteorologica. Manica a vento, uno dei
simboli della Meteorologia Immagine del NOAA Carta meteorologica di
previsione a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla
seguente procedura: osservazione e misurazione delle variabili
atmosferiche (es. velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria,
umidità, pressione); trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su
carte sinottiche o assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano
su calcolatori numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la
situazione meteorologica di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi
futura a partire dalle carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione
iniziale tramite uso dei modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti
di studioModifica All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di
studio: la meteorologia sinottica che studia in maniera qualitativa e
quantitativa l'evoluzione delle condizioni atmosferiche di vaste porzioni
dell'atmosfera stessa (superiori ai 1000 km) tramite l'uso di carte meteo,
nozioni empiriche, metodo delle analogie ecc. la meteorologia dinamica che,
partendo dalle equazioni di base della fluidodinamica, cerca di spiegare
formazione e sviluppo dei fenomeni osservati (detta anche meteorologia fisica o
teorica). la meteorologia numerica, si occupa di definire e affinare i modelli
numerici di previsione meteorologica la meteorologia satellitare, che si avvale
delle analisi di telerilevamento atmosferico e quindi dei relativi dati
trasmessi a terra dai satelliti meteorologicicome ad esempio i satelliti
Meteosat. la radarmeteorologia che si avvale dei dati raccolti dai radar
meteorologici dislocati sul territorio per affrontare la previsione meteo a brevissima
scadenza (nowcasting). la meteorologia aeronautica, che si occupa
principalmente dei fenomeni rilevanti per la navigazione aerea; la meteorologia
spaziale che si occupa del cosiddetto tempo meteorologico spaziale in alta
atmosfera; la meteorologia ambientale che studia pollini e dinamica degli
inquinanti in atmosfera; l'agrometeorologia che studia le relazioni tra tempo
atmosferico e agricoltura[5]; Meteorologi famosiModifica Edmondo Bernacca
Andrea Baroni Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo
Sottocorona Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci Daniele Izzo
NoteModifica ^ Anche se spesso viene usata, la grafia metereologia non è
corretta, come dimostra l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^
meteorologìa in Vocabolario, su Treccani Con la stessa etimologia delle antiche
divinità della cosmogonia greca Ouranos (Cieli) e Ourea (Montagne) ^ Franco
Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino, Loescher, 1995, p. 1276. ^
Luigi Mariani Clima e agricoltura Rivista I tempi della terra su
itempidellaterra.org. URL consultato il 17 gennaio 2019 (archiviato dall' url
originale il 19 gennaio 2019). BibliografiaModifica Antonio Navarra, Le
previsioni del tempo, Il Saggiatore,
Agrometeorologia Atmosfera Anticiclone Avvezione Barometro Carta
meteorologica Circolazione atmosferica Formula ipsometrica Fisica
dell'atmosfera Igrometro Isobara (meteorologia) Isoterma (meteorologia)
Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge della persistenza Legge della
compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione atmosferica Precipitazione
(meteorologia) Promontorio di alta pressione Riscaldamento stratosferico Storia
della meteorologia Stazione meteorologica Saccatura Satellite meteorologico
Strato limite Teoria del caos Temperatura Termometro Tempo (meteorologia)
Umidità Variabilità meteorologica Vortice polare Altri progettiModifica
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dell'Aeronautica Militare (IT) AMPRO Associazione Meteo Professionisti
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Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts
Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet
Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat
Organizzazione europea per i satelliti meteorologici European Meteological
Society Portale Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
meteorologia Ultima modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia
Meteorologo Previsione meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a
sign have a different meaning for utterer and recipient? – If so, why do we
keep calling communication – signare seems to be still good enough! --
Alessandro Cortese. Cortese. Keywords: del principio del significato, Kierkegaard,
soap, sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Corvaglia – il pessimismo e
l’implicatura di Tantalo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he
called himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history
of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on
philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo
professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente,
attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente
malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso
celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da
altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la
perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta
l'animo umano fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente
alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce
obliterate sorgive e percorrendo il
movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento
risale fino al Medio Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia
verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede
politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana,
cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei
Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico
retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la
conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione
della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del
tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si
trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli
studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso,
in assoluta libertà. Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di
"speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano,
è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di
approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto
collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce,
l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di
Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia",
al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua
opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca
specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che
coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando
opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e
la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese
in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia. La casa di
Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia
Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero
innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua
in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra,
Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa
Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo
Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di
Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano);
“Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi,
Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella
sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia
Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino
(Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino
(Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica
di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano,
Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il
21 gennaio 1945. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel
Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del
Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista
e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo
sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy
Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Wikipedia
Ricerca Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al
famoso supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se
stai cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by
J.Heintz the Elder, 1535.jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di
nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (in greco antico: Τάνταλος,
Tàntalos) è un personaggio della mitologia greca. Re di Lidia (o della
Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel
Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una
persona che desidera qualcosa che non può raggiungere. EtimologiaModifica
Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω
(che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da
talànatos(infelicissimo)[1]. GenealogiaModifica Figlio di Zeus[2][3] o di
Tmolo[4] e della ninfa Pluto[2][3]sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o
Eurinassa[5](figlia di Pattolo) o Euritemiste[6] (figlia di Xanto) o Clizia[6]
(figlia di Anfidamante) e fu padre di Pelope[2][5][6], Brotea[4][7], Niobe[8][9]
e Dascilo[10]. MitologiaModifica Tantalo visse presso il monte Sipylos in
Anatolia, dove fondò la città di Tantalis[11]. Il banchetto di Tantalo I
misfattiModifica Tantalo, che grazie alle sue origini era ben voluto dagli
dei[12], si rese responsabile di diverse offese nei loro confronti e violò le
regole della xenia cercando di rapire Ganimede, rubando dell'ambrosia che in
seguito distribuì ai suoi sudditi ed organizzando il furto di un cane d'oro
creato da Efesto e posto a guardia di un tempio di Zeus a Creta (di tale furto
l'artefice materiale fu Pandareo ma Tantalo giurò il falso ad Hermes, inviato
dagli dei proprio per recuperare l'animale[13][14]; secondo un'altra versione
il cane era in realtà Rea trasformata in quel modo da Efesto[15]). Il re
infine organizzò un banchetto a cui invitò gli dei stessi e, per mettere alla
prova la loro onniscienza, uccise suo figlio Pelope e lo fece servire come
pasto: Demetra, disperata per la perdita della figlia Persefone, non si accorse
di nulla e consumò parte di una spalla del ragazzo, ma gli altri dei notarono
immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di Pelope in un
calderone[13]. Il supplizioModifica Il supplizio di Tantalo Gli dei
punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad avere per sempre
una fame e una sete impossibili da placare[13] schiacciato dal peso di un
masso, legato ad un albero da frutto e immerso fino al collo in un lago d'acqua
dolce: appena prova ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena prova a
prendere un frutto i rami si allontanano o un colpo di vento li fa volare
lontano[16]. Il sepolcro di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos[3] ma gli
onori gli furono pagati ad Argo, la cui tradizione locale sosteneva anche di
possedere le sue ossa[3]. Miti successiviModifica I mitografi successivi
cercarono in tutti i modi di discolpare gli dei da un possibile atto di
cannibalismo stravolgendo in tutto la storia di Tantalo: secondo tale versione,
infatti, egli era un sacerdote che rivelò ogni segreto ai non iniziati, al che colpirono
suo figlio con una malattia orrenda. I chirurghi di allora, con varie
operazioni, riuscirono a ricostruire il corpo originale anche se di lì in poi
esso portò innumerevoli cicatrici[17]. FilosofiaModifica Il mito di
Tantalo venne successivamente ripreso dal filosofo Arthur Schopenhauer nella
sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, come esempio
della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui "contro un desiderio che
viene appagato ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; la brama dura a lungo,
le esigenze vanno all'infinito mentre l'appagamento è breve e misurato con
spilorceria". CuriositàModifica Ulteriori informazioni Questa
sezione contiene «curiosità» da riorganizzare. Il furto dell'ambrosia a
vantaggio degli esseri umani lo accomuna a Prometeo[18], ma in questa veste il
suo mito si trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo, alla stregua di
Licaone, era uno dei re originali a cui era concesso, con il favore degli dei,
di condividerne la mensa: il suo gesto viene visto come un atto di separazione
fra divinità e umanità, che verrà poi ripreso da molti altri miti come nel caso
di Achille. Il supplizio di Tantalo viene citato anche da Primo Levi in Se
questo è un uomo nella frase: "Si sentono i dormienti respirare e russare,
qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle.
Sognano di mangiare (...). È un sogno spietato, chi ha creato il mito di
Tantalo doveva conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se il sole muore, cita il
mito di Tantalo dal momento che nella missione Apollo 11l'astronauta Michael
Collins sarà costretto ad avvicinarsi alla Luna senza avere la risposta a:
"Com'è la Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella? Più brutta? Che
effetto fa camminarci?". La tortura di Tantalo viene ripresa anche da Thomas
Mann in La montagna incantata. Un personaggio dell'opera, la signora Stohr,
riferendosi al prolungarsi indefinito delle prescrizioni per le cure, afferma:
«[omissis] Dio buono si è sempre allo stesso punto, lo sa anche lei. Si fanno
due passi avanti e tre indietro... Quando uno ha fatto cinque mesi, arriva il
vecchio e gliene rifila altri sei. Ah, è la tortura di Tantalo. Si spinge, si
spinge e quando si crede d'essere in cima...». È evidente la confusione che la
signora, avvezza alle gaffes, fa tra Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il
sarcastico e dotto umanista Settembrini, risponde sul punto: «Oh, brava e
generosa! Finalmente concede al povero Tantalo un diversivo. Per variare gli fa
spingere il famoso pietrone! È un atto di vera bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden
John Steinbeck fa dire a Kate: "Chi era quello che non riusciva a bere da
un setaccio? Tantalo?" (cap. 46). Tantalo appare come sostituto di Chirone
nel secondo libro della Saga di Percy Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio,
elemento chimico di numero atomico 73, prende il nome da Tantalo, e si trova
sotto il niobio, il cui nome deriva proprio da sua figlia Niobe. NoteModifica ^
Platone, Cratilo, 28. ^ a b c d Igino, Fabulae 82 ^ a b c d ( EN ) Pausania il
Periegeta, Periegesi della Grecia, II, 22.2 e 3, su theoi.com. URL consultato
il 13 agosto 2019. ^ a b Scholia ad Euripide, Oreste 5 ^ a b Giovanni Tzetzes a
Licofrone, 52 ^ a b c Scholia ad Euripide, Oreste, 11 ^ ( EN ) Pausania il
Periegeta, Periegesi della Grecia, III, 22.4, su theoi.com. URL consultato il
13 agosto 2019. ^ Igino, Fabulae, 9 ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6,
su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Scolio ad Apollonio Rodio, Le
Argonautiche, II, v. 752 ^ Plinio il Vecchio Naturalis historia 2,93; 5,31 ^ a
b ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, IV, 74.1 e 2, su theoi.com. URL
consultato il 13 agosto 2019. ^ a b c ( EN ) Pindaro, Olimpiche, 1.60 ff, su
perseus.tufts.edu. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Euripide, Oreste, 10 ^
Antonio Liberale, Metamorfosi, 11 e 36. ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca,
Epitome II, 1, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Tzetze, a
Licofrone, 152 ^ Pindaro, Olimpiche, 1, 59-63. BibliografiaModifica Fonti
primarie Esiodo, Teogonia 355 Pausania, Libro II, 22,4 Pindaro, Olimpica III,
41 Igino, Fabulae 82,83 e 124 Fonti secondarie Robert Graves, I miti greci,
Milano, Longanesi, 1979, ISBN 88-304-0923-5. Angela Cerinotti, Miti greci e di
roma antica, Prato, Giunti, 2005, ISBN 88-09-04194-1. Anna Ferrari, Dizionario
di mitologia, Litopres, UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X. Anna Maria Carassiti,
Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton, Prometeo Issione Tizio Sisifo
Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Tantalo Collegamenti esterniModifica Tantalo, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Carlo Gallavotti, TANTALO, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1937. Modifica su Wikidata ( EN ) Tantalo,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo,
su haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti PAGINE
CORRELATE Enomao re di Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares
Clitennestra personaggio della mitologia greca, moglie di Agamennone e amante
di Egisto Minia re e fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia
greca Wikipedia Il contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also
aus Mangel, also aus Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen
einen Wunsch, der erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das
Begehren dauert lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist
kurz und kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur
scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein
erkannter, dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende
Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht
immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um
seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von
unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem
steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens
sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder
fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei:
die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt,
erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein
wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem drehenden
Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig schmachtende
Tantalus.Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo, Schopenhauer, Sisifo,
assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica, Mazzini, Pomponazzi, Cardano
--. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Corvino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Marco Valerio Messalla Corvino. Imbevuto di
discorsi socratici, insigne per le sue attività politiche e militari, scrittore
e protettore di poeti. Corvino studiò in Atene con Orazio e poi coltivò
l’eloquenza, la grammatica, la poesia. Corvino e incluso nelle liste di
proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la vita. Corvino
combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad Marc'Antonio.In seguito,
Corvino strinse rapporti con Ottaviano. Corvino e console, combattè ad
Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria sugl'Aquitani, Corvino
consegue il trionfo.Corvino rimase però sempre fedele alle antiche convinzioni
politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio di
praefectus urbis. Corvino e curator aquarum. A nome del Senato,
Corvino salutò Augusto "pater patriae."Corvino fu capo di un circolo
filosofico al quale appartennero Tibullo e Ligsdamo.Corvino scrive carmi
bucolici e orazioni. Come oratore, Corvino e molto lodato da Tacito e
Quintiliano.Corvino compose un’opera storica, probabilmente di memorie.Alcuni
hanno rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo
frammento che ci rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica")
composto da Grattio, vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo
scarsi per determinare le direttive del suo pensiero. Del poeta
Linceo (probabilmente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale
in amore, dice che attingeva la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe
potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escatologici
e naturali.
Grice e Cosi: l’implicatura
conversazionale del cuore -- accordo – cuori -- l’accordo – filosofia italiana
– Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love Cosi; my
favourite of his philosophical essays on justice is the one on ‘l’accordo,’ for
this is what my principle of conversational helpfulness or co-operation is all
about!” Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze.
Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale:
l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità
e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni"
(Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia”
(FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in
forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la
Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile";
"Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina);
“La obbedienza civile, la disobbedienza
civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la
democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e
identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli,
Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della
mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di
giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto della diada
conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia”
(Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto
filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione
artificiale: l'uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio
sulla disobbedienza civile: storia e critica del dissenso in democrazia,
Giuffrè, Milano; Il giurista perduto: avvocati e identità professionale,
Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica,
Franco Angeli, Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La
responsabilità del giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino;
Società, diritto, culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di
Sociologia del Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e
prevenzione: materiali di etica professionale, dispense di Sociologia del
Diritto, Firenze; Per una politica del diritto del fenomeno droga: problemi e
prospettive", Archivio Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per
una comprensione culturale dell'uso di droghe", Testimonianze;
"Religiosità e Teoria Critica: la teologia negativa di Max
Horkheimer", Rivista di Filosofia
Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le
sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi
Vallauri - G. Dilcher (eds.), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto
moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden); "Sulla
'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il
'nuovo politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e
dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale", Jus;
"Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja",
Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della pace come
ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;
"L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e
morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e
personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società",
Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e
sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della
cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Il diritto del mondo
I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill del 1689 e la sua
eredità", Sociologia del Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di
identità degli avvocati", in Storia del diritto e teoria politica, Annali
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Macerata;
"Verso il paese di Inanna", Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione
al VI Convegno nazionale di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani,
Firenze, Iustitia, "Tutela del mondo e normatività naturale", in L.
Lombardi Vallauri (ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano);
"Tutela del mondo e strumenti giuridici", Testimonianze; "La
professione legale tra etica e deontologia", Etica degli Affari e delle
professione; "Diritto e realizzazione: un'introduzione alla
fenomenologia del logos giuridico", Rivista Internazionale di Filosofia
del Diritto; "La legge e le origini della coscienza", Per la
filosofia; "Naturalità del diritto e universali giuridici", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto,"Naturalità del diritto e
universali giuridici", in F. D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e
universalità dei diritti, Giappichelli, Torino); "Etica secondo il
ruolo", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e
olocausto: un'interpretazione psicologico-culturale", Per la
Filosofia; "Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI
VALLAURI (ed.), Logos dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari);
“Giustizia senza giudizio. Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F.
MOLINARI e A. AMOROSO (ed.), Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli,
Milano); “Le forme dell’informale”, comunicazione al XXI Congresso
Nazionale della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in
Giustizia e procedure, Atti del suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di
professione”, Dirigenti Scuola, “Controllare la professione”, Dirigenti Scuola,
“Professione, patologia e prevenzione”, Dirigenti Scuola. Wikipedia Ricerca Cuore organo muscolare, centro
motore dell'apparato circolatorio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Cuore (disambigua).
Il cuore è un organo muscolare, che costituisce il centro motore dell'apparato
circolatorio e propulsore del sangue e della linfa in diversi organismi
animali, compresi gli esseri umani, nei quali è formato da un particolare
tessuto, il miocardio ed è rivestito da una membrana, il pericardio.
Anatomia del cuore umano EmbriologiaModifica Può originare da un abbozzo
mesodermico ventrale, come negli anfibi, nella parte rostrale del celoma,
oppure da due abbozzi pari, come nei mammiferi, che poi si uniscono medialmente.
In entrambi i casi il primo abbozzo cardiaco è compreso nel mesentere ventrale
che in seguito si dividerà in mesocardio dorsale e ventrale; successivamente
entrambi spariranno per far spazio al tubo cardiaco che permane nella cavità
pericardica, separatasi dalla cavità addominale per lo sviluppo di un setto
trasverso. In questa fase il cuore, che si trova lungo il decorso del
vaso sanguifero mediano nella regione subfaringea, non ha ancora né valvole né
altre suddivisioni: è rappresentato da un tubo con due pareti, una muscolare
più esterna, miocardio, e una endoteliale più interna, endocardio.
Anatomia comparataModifica Nei vertebrati l'apparato circolatorio presenta una
complessità crescente dai pesci ai mammiferi, le modifiche che ha subito nel
corso dell'evoluzione sono in relazione allo sviluppo di un apparato
respiratorio[1]sempre più efficiente. Nei pesci il cuore è costituito da
un solo atrio, che raccoglie il sangue povero di ossigeno proveniente da tutto
il corpo, e un solo ventricolo, che raccoglie il sangue proveniente dall'atrio:
esistono però un seno venoso nel punto di arrivo delle vene e un bulbo
arterioso all'inizio delle arterie, quindi le camere sono in realtà
quattro.[1] Le camere nel cuore dei pesci La circolazione in questi
animali è definita semplice perché il sangue compie un intero ciclo passando
una sola volta per il cuore, da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato
così da arrivare ai tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle
cellule l'ossigeno e aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di
rifiuto, il sangue torna verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto
torna nel ventricolo e da qui alle branchie: a questo punto il ciclo
ricomincia.[2][1] Nei vertebrati terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una
circolazione doppia (polmonare e sistemica), nella quale il sangue, nel corso
di un ciclo completo, passa due volte per il cuore. Negli anfibi e nella
maggior parte dei rettili il cuore ha due atri, ma un solo ventricolo così che
i due tipi di sangue finiscono nell'unico ventricolo, qui si rimescolano
parzialmente e riducono la quantità di ossigeno destinata ai tessuti; insieme
all'aorta, alle arterie e vene polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che
porta il sangue alla pelle, dove il sangue circolante si ossigena.[1]
Cuore dei varani Anatomia: RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK=
circolazione sistemica; LK= circolazione polmonare; SAK= valvole del setto
atrioventricolare; CP= cavità polmonare. Sistole: Frecce blu=
sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso Diastole: Frecce blu=
sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso Solo nei coccodrilli i
ventricoli sono separati, mentre l'aorta e l'arteria polmonare sono collegate
dal forame di Panizza. Per ricapitolare i diversi tipi di circolazione,
potremmo così riassumere[2]: Nei pesci la circolazione è semplice, è
unidirezionale e ha un solo ventricolo; Negli anfibi e nei rettili è doppia e
incompleta; Nei mammiferi e uccelli è doppia e completa, vi sono due ventricoli
completamente separati Anatomia umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Cuore umano. La posizione del cuore
all'interno del torace umano Negli esseri umani è posto al centro della cavità
toracica, precisamente nel mediastino in posizione anteroinferiore fra le due
regioni pleuropolmonari, dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo
proteggono come uno scudo, davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato
dall'esofago e dall'aorta, e appoggiato sul diaframma, che lo separa dai
visceri sottostanti.[3].Il cuore ha la forma di un tronco di conoad asse
obliquo rispetto al piano sagittale: la sua base maggiore guarda in alto,
indietro e a destra, mentre l'apice è rivolto in basso, in avanti e a
sinistra;[4] pesa nell'adulto all'incirca 250-300 g, misurando 12-13 cm in
lunghezza, 9-10 cm in larghezza e circa 6 cm di spessore (si sottolinea che
questi dati variano con età, sesso e costituzione fisica).[3] Battito del
cuore di un uomo a 61 bpm FisiologiaModifica Il cuore si contrae e si rilascia
secondo il ciclo cardiaco. Il cuore è costituito dalle cellule del
miocardio, tipicamente striate, che si occupano della contrazione e dalle
cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina lo stimolo di
contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di auto
depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che spostano
il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo l'apertura dei
canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è prolungato e porta il
potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche millisecondo,
generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei canali del
potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi e consentono
ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del miocardio inizia
grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la fuoriuscita di
altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la contrazione. Il
cuore nelle culture umaneModifica Nell'antichità classica (anche per il
filosofo e scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede della memoria. Il
verbo ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e questo dal
sostantivo cŏr (genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col
suffissore- di movimento all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel
cuore (= nella memoria).[5] Ancora oggi l'espressione "a memoria" si
traduce par coeur in francese, by heart in inglese e de cor in portoghese
("coeur", "heart" e "cor" significano
"cuore"). Particolarmente cruento era il sacrificio del cuore
nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore, estratto ancora palpitante
dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli dei. Note Modifica
^ a b c d Apparato respiratorio nei vertebrati, su sapere La circolazione dei
vertebrati ( PDF ), su hischool.weebly.com. URL consultato il 22 agosto 2014. ^
a b Fiocca, Testut e Latarjet, Dizionario etimologico della lingua italiana, di
Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed. Zanichelli. Léo Testut e André Latarjet,
Miologia-Angiologia, in Trattato di anatomia umana. Anatomia descrittiva e
microscopica – Organogenesi, vol. 2, 5ª ed., Torino, UTET, Silvio Fiocca et
al., Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed., Napoli, Sorbona, Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
Wikiquote contiene citazioni di o su cuore Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su cuore Collegamenti
esterniModifica cuore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Cuore, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Cuore, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Cuore, in Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale
Anatomia Portale Biologia Portale Medicina Ultima
modifica 18 giorni fa di Lorenzo Longo Arteria vasi sanguigni che trasportano
il sangue dalla periferia del cuore al corpo Cuore umano organo muscolare
cavo Apparato circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di
fluidi diversi – come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che
hanno il compito di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro
sostentamento Wikipedia Il contenutoGrice: “Italians are afraid of
the ‘sacro’ because since the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope!
– unless otherwise stated by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should
have spent more time analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does --
to realise how wrong his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at
Oxford, should have examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible
philosopher’ before opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does
not quite include that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in
the conflict in the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided
to use ‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!”
-- Giovanni Cosi. Keywords: l’accordo, il secolare/il sacro; profane/sacro –
secolare; archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il
disobbediente, il consensus, il disensus, to obey, conflitto, mediazione,
diritto (right), giure, giurato – legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia,
vendetta conversazionale, natura, naturalita, non-naturale, legge naturale gius
naturale, giusnaturalismo, fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cosi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cosmacini: l’implicatura
conversazionale del consenso e la compassione – sinestesia e simpatia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice:
“I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my concern: ‘cuore’, as
when we say that two conversationalists reach an ‘accord’! – on ‘empatia’ – a
Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is at the root of my
principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini (Milano), filosofo.
Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o INAM(Istituto nazionale
per l'assicurazione contro le malattie) e apre un ambulatorio mutualistico Fare
bene il mestiere di “medico della mutua” non significa gestire un certo numero
di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura di una comunità di persone,
ciascuna delle quali con esigenze proprie. raggiungendo in quel periodo circa
trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti erano circa millecinquecento, decise
di realizzare un suo sogno: la libera docenza. è autore di numerose opere
d'argomento filosofico-medico. Altre opere: la mutua, medico della mutua,
mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza medica e giacobinismo in
Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana La società, Milano,
Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo dell'invisibile", lo
scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Gemelli.
Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Storia della
medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. Gius.
Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia nel Ventesimo secolo. Dalla
'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma-Bari, Laterza); “La medicina e la sua
storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano, Milano, Rizzoli);
“Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi, Collana Saggi italiani,
Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità nell'Italia contemporanea,
Roma-Bari, Laterza, G. Cosmacini-Cristina Cenedella, I vecchi e la cura. Storia
del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La qualità del tuo medico. Per
una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza); “Medici nella storia
d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della medicina
dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano. Vita
inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e medicina. Cure,
maschere, ciarle, Milano, Raffaello Cortina, La Ca' Granda dei milanesi. Storia
dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di medico. Storia di
una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Introduzione
alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca' Granda. Uomini e idee
dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e mondo ebraico. Dalla
Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Il
male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari, Laterza); “La stagione
di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e i tempi di Giovanni
Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica,
Torino, Einaudi, G. Cosmacini-Roberto Satolli, Lettera a un medico sulla cura
degli uomini, Roma-Bari, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia,
Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre
edizioni, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione
Don Gnocchi, Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La
peste bianca. Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte
lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il
romanzo di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo.
Un «tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC
Edizioni, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a
oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età
dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La
medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana
Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e
avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento,
istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina,
Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il
cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze
per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano,
Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa
del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo
De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie.
Vita e avventure di Augustus Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari,
Laterza); “Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e
stetoscopio. Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica",
AlboVersorio,. Medicina e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e
il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un
triennio cruciale. Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea.
Medici socialisti e compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco, Per una scienza medica non neutrale. Tre
maestri della medicina tra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco, Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il
galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica
della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per
una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici,
medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della
medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,.
Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna,
NodoLibri, Salute e medicina a Milano.
Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo”
(Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia
cordis, Ass. Gianmario Beretta,. Curatele Dizionario di storia della salute, G.
Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino,
Einaudi. “mutua gratia” - Practicis
nostris, Muri LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non liquet,
“don mutual” – mutual gift -- Charta ann. 1326. in Chartul. Hygenum de
Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con thesaur. S. Germ.
Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl.
Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii
1. Reg. Sicil. ann. 1129. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras
mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col. 623 Nulla angaria, par I
mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et prædictum defunctum
angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris. dum vivebat, et
constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis,
Truncus, stirps. Pactum inter nio inter ipsos. ann. 1996. apud eumdem tom. 9.
col. 834: Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu
exactionem ec impositum fuit per commune Parma 1343. in Reg: 134. Chartoph.
reg. ch. 34: nomine mutui impositam solvere. Vide unum mutuum octo millium
librarum impe recte tendendo ad pedem cujusdam margassii mutuum. rialium per
episcopatum, et quinque millium seu claperii in quo margassio seu cleppe.
Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per civitatem. Et mutuum clericis fuit im
rio sunt duæ mutes arborum. dii Archiep. Bisonticensis cap. 5: Bene- positum
duo millium librarum, etc. Chron. Åwwvíz, in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo
dono mutuatim dato, etc. Mutin. ibid. tom. II. col. 122: Tria Mu [Mirac. S.
Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro mutatio, in Consuet. tua
extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque quippiam petere volente,
MSS. Auscior. art. 3: Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici cruciabant Paduanos
verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio consulum annuatim in festo S.
Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual* imposuit et est; qui a plerisque tentatus,
an videlicet Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1: V'exabantur Muluis astu
Muritatem simularet, et tandem certa ex Ital. Mutola, Muta. Oc- et daliis.
Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi impotentia comprobatur. Occurrit
currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9. Reb. gest. Italic. pag. 86: Communes
da præterea toin. 2.Sanctorum Apr. pag. 429.], Idem quod Expeditatus, riæ,
exactionesque et Mutua publica el priMuronagium. Vide in Charta Forestæ cap. 9.
forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis Monasterii Ka Mullo. latus. Locum
vide in Mastinus. roffensis in Pictonib. ann. 1308. ex (Ovis, Massiliensibus
Mous, Nudus, glaber. Regesto Philippi Pulcri Regis Franc. Tabu tonfede. Charta
ann. 1390: Quilibet Mu- Gloss. Lat. Græc. MSS. Sangerman. larii Regii n. 11:
Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi. denarios. * Castigat. in utrumque
Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare voluerint habitan Lugdunensibus, Feye.
Vide supra Menlulosus, ead'ns, ex Vulc. tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in
Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania ann. 1298. in alio Regesto ejusdem xudovicv,
Malum colo- autem ibidem infra terminationem aliqua in- Regis ann. 1299. n. 16.
Vide Credentia, neum. Supplem. Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte, vel
butinæ,aut Lat. Græc. Sangerm. Aliud itidem Gloss.: extiterint, ad sacramentum
non admittatur, *mutuum coactum* exactio, quæ a Mutonium, Tepábeuo, Additio.
etc. Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis
ac ne 1., quos Motes nostri vocant: aut forte cessitatibus fiebat super
subditos, vassallos, equilatus, quod sic describit Jovius Hist. lapides ii
quosMuros vocant Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib.
14: Mutpharachæ admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po-
pollicitatione: a qua quidem exactione præstantes, toto orbe conquisiti, ea
condi- siti. Vide Bonna 2. exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione
militant, ut quos velint Deos, impune KF Errat Cangius, si fides Eccardo,
libertates, leguntur. Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori
ope- in Notis ad Legem citatam, quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes
ram navent. Hæc post Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim
sunt habitatores loci illius sint liberi et immunes in Lex. milit.
machinaliones clandestinæ, vel seditiones ab omnibus questis, talliis, et
toltis, et clam excitatæ, a veteri German.Meulen, tuo coucto, et omni ademptu
coacto. Con capitis tegumentum, quod monachi cap. | clandestine agere, unde Meutmacher,
Fla- suetudines Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall. Christ. tom.
4. bellum seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum
coactum, col uti. Mutrellis 782: Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus
eruditus; quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;.
Vide Mitræ. necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall.
Mouton. in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta
ann. 1307. exArchivis Massil.: naculæ, totas inquistas, ni prest forsat, o
Terrear.villæ de Busseul ex Cod. reg. 6017. Item super co quod petebantdicti
parerii alcuna action destrecha, etc. Libertates fol. 47. vº.: Item unum
Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum, astorium et concessæ oppidis
Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2. pere nolim. 75 594 etc.
lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu, De S. 6: L.
FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ
Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L.
Burdegalensis fol. 55. 140: Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio,
ialari L. OLYMPUSA PECIT. in ibi Muruum,
nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide
Inscript. ccxcix. 3. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales
Rio. Mozzetta. hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia,
miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita
Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium
púxw, Mugio, reboo. Vide Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta, in I Piscis
genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo
quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi
viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere
emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden.
pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum
hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et
intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv.
copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero
penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis
Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol.
(* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus, Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3.
Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum
Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene, hodie Graviter, com super
subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil.
posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342.
Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1: l'episc. tom. 10. Collect. Histor.
Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates,
monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann.
1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus,
quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii
prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30. Cantharus po- cum
buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine
muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et
barbæ, quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani,
tur D. de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat.
Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero
Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd.
| bum compositum mure et barbo, quod | , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15.
non3. Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps.
Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut
sit tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis
exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat Lil. Gyraldus Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine
xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo
*mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag. 78. gunt. pag.
255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia.
Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [** Leg. Violentum ut, supra.)
ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc
Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis
oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ
tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa Aldebrandum
cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa.
rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici genus
arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum, stipendium datum in ante-, ut
placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum. Lit. ann. 1408. tom.
9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1. nomen omne regnum Regis Adefonsi æra
1113. (Chr. reg. Franc. pag. 363, art. 1: Ordinamus adepti. Melius Scaliger, a
forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios,... hoc est,
angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus,
cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati
fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. 1427. 1728. col. 2: Indutus
est (Gratilianus ) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator.
tom. 31. Script. Ital.col.stimentis a. Wikipedia Ricerca Sinestesia
(psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le
informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere
accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il
parere medico: leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno
sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi
nella percezione.[1] Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza
quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a
delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale
o cognitivo.[2] Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di
una persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a
quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva
è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella
sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che
i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto
distaccata dagli altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di
sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono)
provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista).
Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta
automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è
involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con
maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e
sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni
sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier Messiaen,
così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di poter
sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega
bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore
e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo
Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti
psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori
contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto
con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per
l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita
ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente,
autismo. Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica: ad
esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo quel
colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche
della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo
Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]
Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale,
mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD,
esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di
malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è
detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono
quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono
scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.
L'esperienza sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore
(inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un
sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un
colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un
concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere
produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della
sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è
possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo
fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. [6] Sinestesia: grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro.[7] Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza
magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del
colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro
fusiforme. L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro
fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si
attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla
presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una
attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei
grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche
senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni
tra le due aree, non presente in tutte le persone. Le connessioni che si
hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un
cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo
definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi
di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi,
che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei
sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il
processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza
permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area
del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un
certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme
non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile
essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree
superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta
alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero
presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno
percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune
connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più
"utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo
spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di
esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta
esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro
effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato
quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano
create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe;
piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade"
neurali solitamente "disattive". Influenza dell'attenzione
sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della
figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di
fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece
dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde.
Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il
manifestarsi del fenomeno sinestesico. Sinestesici projectorModifica Nel
caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il
numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare
un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello
del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli
evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.
Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore
appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator
riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente
con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La
percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più
intensa del fotismo, per un sinestesico associator. I sinestesici
projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100,
tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori). Tra i maggiori
studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E.
Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina. Rapporto con i canali
del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto
nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello
della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni
quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere
analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del
calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio
di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità
elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi
antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene
controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila
sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3
partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza
di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non
prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano
piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione,
l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo
doloroso sia di natura tattile.[8] NoteModifica ^ a b Emozioni colorate |
Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford:
Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar
Publishing, 2015. http://www.lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26
luglio 2018 in Internet Archive. ^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran &
Hubbard, 2001 ^ "Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M.
Hubbard1 and V.S. Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su
cell.com, November 3, 2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la
sinestesia | PsycHomer, su psychomer.it (archiviato dall' url originale
il 20 novembre 2010). ^ Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e
ascolto le note BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D.,
Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29
Abril, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional
Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada. Córdoba
M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y
científicos, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada. Cytowic,
R.E., Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge,
Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts,
Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities, Academic
Press, New York, 1978. Riccò D., Sinestesie per il design. Le interazioni
sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il
design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma, 2Tornitore T.,
Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova, 1986.
Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico
Torinese, Torino, 1988. Voci correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia
tattile-speculare. «sinestesia» Udire i colori, gustare le forme, su
lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. URL consultato il 20 maggio 2015.
TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di psicologia Ultima modifica 2 mesi fa di Mess Qualia
aspetti qualitativi delle esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia
tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia Il
contenutoGrice: “The grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated.
But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an
analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange
*information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’
-- A and B are friends – implicated:
mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of
his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from
Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords:
compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina,
Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo,
fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la
medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita,
bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and
compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale, imperative
della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale – imperative of
conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of mutuality –
Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and using it in
scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been
proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it
elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmacini” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Cosmi: l’implicatura conversazionale
dei discorsi: corsi e ricorsi -- metodo dei principi generali del discorso –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteltermini). Filosofo italiano.
Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase I do, ‘the general
principles of discourse,’ and he also finds them to have a rational
(‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful communication,
a co-operative principle – concerning most constraints I refer to: the
necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity
(chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a
more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract,
“Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated
on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where
he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and
perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu
un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not considered
part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei Chierici di
Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando l'incarico
di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un rilevante
contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo, il primo e
il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali del
Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Principi generali del discorso, e della ortografia
italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by Giovanni Agostino De
Cosmi(Book ) 1 edition published in Italian and held by 2 WorldCat member
libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo
libretto dei "Principi generali del discorso" – i. e. un principio
comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione direttrice,
non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa farragine
di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie, con cui si
sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto.
Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma
verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è
un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo
conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di
filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al
ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia
prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita,
uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil conversare
-- è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature
conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e
un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza
(approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un
principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci
(un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter
necessitatem --, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo
conversazionale, fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un
principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare
linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al
giovane si da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale
della conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con
chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza
communicative -- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la
violazione involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio
stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il corpo di ogni parte
della filosofia. Ebbe un giorno a scrivere di Marco
Tullio Cicerone, che questo ingegno eminente prende a gradi la sua maturità e
si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio dei grandi affair.
Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me medesimo, i cui
Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma osservazioni su l'uso dei
Principj del Discorso, e qualche riflessione su i primi pensieri, da cui era
partito nell'immaginar il mio metodo, gli somministrarono la materia di un
secondo, e anche di un terzo volume di preziose nozioni di metodica prammatica.
Il secondo volume e come il primo, è
diviso in due parti. La prima parte ha per titolo, “Principj generali del
Discorso applicati alla lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene
nelle parti già pubblicate dei “Principj generalie del discorso” siesi detto
ciò che basta per l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto
conoscere, che, volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per
la piena intelligenza, 1 G. A. De Cosmi, Elem. di filol. ecc., Elem. di filol, ital. e latina, tomo II,
Palermo; pag. III ed imitazione dei classici principalmente
italiani, era necessario ad entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non
per multiplicare l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza
di cui inutili sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno.
Dietro di che, in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del
Pronome in generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo
che ne dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione
irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei
Principj Generali del Discorso già stampati a riprese. Egli fece riunire in
separato volumetto per uso degli scolari 3 Io non mi stancherei, dirò col
Mollica Di Blasi, di riportare varie altre sentenze, che oggi pajono roba
fresca, e pure da presso a un secolo il nostro l'aveva annunziato con tanta
chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è per tanto che riferisco
qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e nella coscienza ognuno,
che si dà all'educazione specialmente elementare: Invece di sorprendere,
cosi il De Cosmi, l'età fanciullesca coll' apparenza dottrinale di parole
incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò che s'insegna di
nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto avrebbe potuto
agevolmente sapere con un poco di riflessione 5. Anzi che ad un giuoco di
memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo dell'intendimento;
inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle regole predette, e
indi tornava a ribadire che: Per mantenere sempre desta l'attività nella
mente degli allievi, è di somma importanza il non sgomentarli giammai
coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che loro si propongono;
anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare, che avrebbero da se
sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose sa pute 6. E
poi seguiva cosi: Che se alle volte occorrerà di dovere insegnare delle
cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare la difficoltà colla
curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta l'incoraggisca al
tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è infiammata, il fanciullo
non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se ributta 7. Poi
chiedeva a se stesso: É necessario il rappresentare al naturale lo stato
presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con coraggio. Si è
caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e senza originalità
l'intelletto. La nostra filosofia, in vece 1 G. A. De Cosmi, Metodo
dei principj generali del Discorso, Palermo, Metodo cit., GAETANO MOLLIGA DE
BLABI, Note storiche di G. A. De Cosmi; Palermo, Cosmi, Metodo ecc., d'essere
l'arte di pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la
nostra rettɔrica, l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30.
Gran servigio, gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza
per la strada regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro
ragione e il loro cuore. Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada
alla coltura delle scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le
cognizioni realmente utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj
regni e nel suo vero prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata
utilità fossero rico 103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle
cognizioni; che la Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella
sua Morale, mi senza il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si
cerchi il gusto, ma senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci
servano di guida nelle cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si
cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per
influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti
dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero
termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi,
senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo '. [ocr errors]
IV. A questa stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima
parte dei Principj Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin.
dal 1790; cui fece seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei
verbi, dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune
regole primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte;
e terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri
necessari allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i
libri del Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il
Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli
antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il
Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5. A sintesi di
tutto il libretto il De Cosmi conchiude così: Ciò che i maestri debbono
inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità
delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni
lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",
Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di
essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una
bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena-agosto 1792
“. 1 G. A. De Cosmi, Op. cit., p. 17-18. . Vedi sopra pag.
166. • G. A. De Cosat, Metodo ecc., p. 56-57." • Lo stesso,
Op. cit., p. 60-61. * Pag. 55 e seg. L'articolo dell' O. G.
R. P. venne riprodotto da Giov. D'Angelo nelle 840 Memorie per servire alla
Storia letteraria di Sicilia; Ms. della Biblioteca Comunale Cosmi. Discorso
concetto filosofico Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce
sull'argomento linguistica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla
secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
Un discorso è una modalità di comunicazionelinguistica mediante cui si parla o
scrive. La definizione del termine varia a seconda dei campi di applicazione
(antropologia, etnografia, cultura, letteratura, filosofia, ecc.). In semantica e analisi del discorso è una
generalizzazione del concetto di comunicazione all'interno di tutti i contesti.
Nel campo dei codici è la totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in
un determinato settore di pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso
giuridico, discorso religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha
definito il discorso come "un ensemble de séquences de signes" (un
insieme di sequenze di segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze
sociali e delle scienze umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un
pensiero che si può esprimere mediante il linguaggio. Il discorso si differenzia dall'enunciato e
dalla dichiarazione. Il discorso, infatti, può rappresentare la manifestazione
di un pensiero individuale relativamente o meno a un determinato argomento; la
dichiarazione invece consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e
coinvolto in documentazioni. Con il
termine discorso si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico
relativamente a un argomento o materia (discorso inaugurale, discorso
commemorativo, ecc.). Foucault,
L'archéologie du savoir, Parigi, Gallimard, 1969, p. 141. Voci
correlateModifica Parti del discorso Parresia Discorso diretto Discorso
indiretto Frase Autore Dialettica Retorica Monologo Dialogo «discorso» Portale Antropologia Portale Filosofia Portale Linguistica Portale Sociologia Pregiudizio
Strutturalismo (filosofia) movimento filosofico
Le parole e le cose Libro di Michel Foucault del 1966 Wikipedia Il contenutoV. Cosmi. Giovanni
Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi. R Cosmi.
Keywords: metodo dei principi generali del discorso, discorso, discursus --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cosottini: l’implicatura
conversazionale di MELOPEA – filosofia italiana –Luigi Speranza (Figline
Valdarno). Filosofo italiano. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in
terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if
she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a
tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la
Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research
dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale.
Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco
Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma
lineare, sintagma soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’
expression of pain – the higher the volume, the higher the pine --. Grice on
stress, intonation and implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to
tell me). SMITH paid the bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente
per le loro vie, variando direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con
dialoghi liberi e mai serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di
suoni del tutto libera e interamente legata all'istante, tale da produrre
mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il
concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation
– improvised. Musica e Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre
esecutori, che consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici
codificati (la mappa e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la
grafia genera molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi
studi si concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione
musicale, scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica
Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De
Musica. Inoltre pubblica un saggio sul
silenzio e sulle sue potenzialità performative. Metodologia
dell'Improvvisazione Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di
metodologia dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia
tra Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione
musicale. Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia
della Musica. Non-linearità. Metodi non
lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di
un’improvvisazione musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra
Linearità e Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra
suono e silenzio in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia.
Do You Need A Sign. Wikipedia Ricerca Palazzo Bardi edificio a Firenze
Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo
busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia
RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate43°46′02.99″N
11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo
Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o Busini-Bardi-Serzelli
si trova in via de' Benci 5 a Firenze. Palazzo Bardi, il cortile
attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu costruito su preesistenze negli
anni Trenta del XV secolo per conto della famiglia di banchieri Busini, su
disegno forse di Filippo Brunelleschi: è quindi evidente la sua grande
importanza nel testimoniare, circa quindici anni prima della costruzione di
palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo, il definirsi della tipologia
del palazzo rinascimentale, con cortile centrale, in un momento di
significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del tempo.
Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di Piero, esiliata
nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel secolo precedente
aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de' Bardi, nipote di
Giovanni, fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo, forse con il
concorso di Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato l'assetto generale.
Furono chiuse le grandi aperture sul fronte che davano accesso a vari locali
adibiti a botteghe (una successione di fornici è ancora apprezzabile su via
Malenchini e due permangono su via de' Vagellai). Da sottolineare come i
lavori, databili tra il 1488 e il 1498, pur giungendo ad esiti formalmente diversi,
si sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi,
ugualmente volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo
adeguato alla nuova concezione rinascimentale. Preesistenze sul
lato sud in via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una
lapide sulla facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati,
artisti e musicisti, conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa
Bardi, istituita dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che
più tardi si occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la
prima volta il canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo
Galilei e si eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la
Camerata divenne Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni
in via Tornabuoni. Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione
del ramo familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli,
che l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto.
Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto
negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Nel 1983 ha
subito il rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire
dal 1990 circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una
società immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato
al recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi
ambienti interni, conclusosi nel 2007. Il palazzo appare nell'elenco
redatto nel 1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale
edificio monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è
sottoposto a vincolo architettonico dal 1913. DescrizioneModifica
Esterno La semplice facciata, sviluppata sui canonici tre piani e graffita con
una finta muratura a conci rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di
Ferdinando Bardi, comunque da considerare sostanzialmente fedele alle preesistenze),
quindi restaurata e integrata nell'ambito del recente intervento, presenta ai
lati due scudi con le armi, oramai consunte ma ancora ben leggibili, della
famiglia Busini (d'azzurro, a tre fasce increspate d'oro, e alla banda
attraversante di rosso, caricata di tre rosed'argento). Da segnalare sul fronte
anche la lapide che ricorda come, in questo palazzo, Giovanni Bardi conte di
Vernio avesse riunito verso il 1580 la Camerata fiorentina di casa Bardi, in
seno alla quale nacque il melodramma. IN QUESTA CASA DEI BARDI VISSE
GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E
DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA
POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE
INTESA A RIPORTARE L'ARTE MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA
SUBLIMITÀ DELLA GRECA MELOPEA DI CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ
APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA
RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA DELL'ARTE MODERNA N. MDXXXII - M. MDCXII
Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi.JPG Stemma Bardi sul
cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da una elegante
cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla rosta l'arme dei
Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso) accostata da due
aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute di fiori, primo
esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici finestre centinate si
allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche un piccolo
tabernacolo con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in gloria
adorata da una monaca. L'elemento più interessante è il bel cortile
centrale porticato sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi,
probabilmente il primo cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili
pubblici del Palazzo del Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata,
presenta arcate a tutto sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono
lo spazio. I volumi sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato
spesso successivamente del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle
colonne è doppia rispetto all'intercolumnio (a differenza per esempio del
loggiato dello Spedale degli Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche,
presenta un maggior slancio. Tipicamente brunelleschiana è anche la
disposizione delle porte che si aprono sul cortile. "Si osservi
anche il sonoro androne d'ingresso, con volte a crociera su capitelli pensili
strettamente analoghi a quelli del palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido
episodio dei capitelli delle colonne del cortile stesso, che presentano un
singolare episodio di protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso
rispondono i capitelli del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via
del Corso 13, egualmente attribuita all'esordio professionale di Filippo: per
la qual cosa piacerebbe datare pure il prezioso testo architettonico
protobrunelleschiano di palazzo Bardi anche a prima del 1420" (Gabriele
Morolli). All'interno molte stanze presentano dei soffitti in legno
risalenti all'epoca di Agnolo de' Bardi, che li fece uniformare.
BibliografiaModifica Tabernacolo Emilio Burci, Guida artistica della
città di Firenze, riveduta e annotata da Pietro Fanfani, Firenze, Tipografia
Cenniniana, 1875, p. 108; Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione
Generale delle Antichità e Belle Arti), Elenco degli Edifizi Monumentali in
Italia, Roma, Tipografia ditta Ludovico Cecchini, 1902, p. 252; Janet Ross,
Florentine Palace and their stories, with many illustrations by Adelaide
Marchi, London, Dent, 1905, p. 42; Attilio Schiaparelli, La casa fiorentina e i
suoi arredi nei secoli XIV e XV, volume primo, Firenze, Sansoni, 1908, pp.
29–30, fig. 27; Walther Limburger, Die Gebäude von Florenz: Architekten,
Strassen und Plätze in alphabetischen Verzeichnissen, Lipsia, F.A. Brockhaus,
1910, n. 74; Luigi Vittorio Bertarelli, Italia Centrale, II, Firenze, Siena,
Perugia, Assisi, Milano, Touring Club Italiano, 1922, p. 84; Augusto Garneri,
Firenze e dintorni: in giro con un artista. Guida ricordo pratica storica
critica, Torino et alt., Paravia & C., s.d. ma 1924, p. 146, n. XXVI; Luigi
Vittorio Bertarelli, Firenze e dintorni, Milano, Touring Club Italiano, 1937, p.
168; Ettore Allodoli, Arturo Jahn Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto
Poligrafico e Libreria dello Stato, Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la
collina, i pellegrini stranieri, Firenze, Vallecchi, 1958, p. 132; Gunter
Thiem, Christel Thiem, Toskanische Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko:
14. bis 17. Jahrhundert, München, Bruckmann, 1964, pp. 58–59, n. 11, tav. 20;
Walther Limburger, Le costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti
bibliografici e storici a cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai
Monumenti di Firenze, 1968 (dattiloscritto presso la Biblioteca della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le province di
Firenze Pistoia e Prato, 4/166), n. 74; Mario Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie
di Raffaello Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, 1971-1973 (I, Quartiere di
Santa Croce, 1971; II, Quartiere della SS. Annunziata, 1973; III, Quartiere di
S. Maria Novella, 1973; IV, Quartiere di Santo Spirirto, 1973), I, 1971, pp.
113–118; Leonardo Ginori Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte,
Firenze, Giunti & Barbèra, 1972, II, pp. 609–615, p. 670; Giovanni Fanelli,
Firenze architettura e città, 2 voll. (I, Testo; II, Atlante), Firenze,
Vallecchi, 1973, I, pp. 141–142, 203, 239, 240; II, p. 52, fig. 280; Touring
Club Italiano, Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore, 1974, p. 178; Gigi
Salvagnini, La guerra degli sporti, in "Granducato", 1976, pp. 3–12.
Piero Bargellini, Ennio Guarnieri, Le strade di Firenze, 4 voll., Firenze, Bonechi,
Il Monumento e il suo doppio: Firenze, a cura di Marco Dezzi Bardeschi,
Firenze, Fratelli Alinari Editrice, 1981, pp. 73–75; Firenze. Guida di
Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di Architettura
dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico Cardini,
progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino, Umberto
Allemandi & C., 1992, Gabriele mOROLLI, p. 72, n. 44; Marcello Vannucci,
Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di Janet Ross e Antonio Fredianelli,
Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 39–41; Guido Zucconi, Firenze. Guida
all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale Editrice,
1995, p. 64, n. 71; Franco Cesati, Le strade di Firenze. Storia, aneddoti,
arte, segreti e curiosità della città più affascinante del mondo attraverso
2400 vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton & Compton editori, 2005, I,
p. 68; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano, Touring, Pecchioli,
‘Florentia Picta’. Le facciate dipinte e graffite dal XV al XX secolo,
fotografie di Antonio Quattrone, Firenze, Centro Di, 2005, pp. 150–153; Claudio
Paolini, Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze,
Paideia, 2008, pp. 64–66, n. 74; Claudio Paolini, Lungo le mura del secondo cerchio.
Case e palazzi di via de’ Benci, Quaderni del Servizio Educativo della
Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze Pistoia e Prato n. 25,
Firenze, Polistampa, 2008, pp. 42–45, n. 4; Claudio Paolini, Architetture
fiorentine. Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia,
Palazzo Bardi Collegamenti esterniModifica Claudio Paolini, scheda nel
Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo Spinelli(testi
concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo, su limen.org.
Portale Architettura Portale Firenze Ultima modifica 2 anni
fa di Omega Bot Palazzo Malenchini Alberti Palazzo Bardi-Tempi Palazzo de'
Benci Edificio a Firenze, Italia Wikipedia Il contenutoMirio Cosottini.
Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds
to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill,
and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her
AND that he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev, Hockett,
fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the
cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I
knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Costa: l’implicatura
conversazionale dell’interno e l’esterno –
l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo
italiano. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays
of his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se:
l’esternalissazione’ and above all, his sublime, “l’estetica della
communicazione,’ which is what my philosophy is all about!” -- Mario Costa (Torre del Greco), filosofo. È
conosciuto, in particolare, per aver studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica,
delle nuove tecnologie, introducendo nel dibattito filosofico una nuova
prospettiva teorica, attraverso concetti come "estetica della comunicazione",
"sublime tecnologico", "blocco comunicante", "estetica
del flusso". È stato Professore
di Estetica all'Salerno e, come professore incaricato di Metodologia e storia
della critica letteraria e di Etica ed estetica della comunicazione, ha
contemporaneamente insegnato per molti anni nelle Università degli Studi di
Napoli "L'Orientale" e di Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha
fondato e diretto, daArtmedia, Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra
tecno-scienza, filosofia ed estetica, organizzando su queste tematiche decine
di iniziative di studio, mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media
ha ottenuto il Premio Nazionale "Diego Fabbri". Pubblicato una
trentina di libri; alcuni di essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e
pubblicati in Europa e in America. Il suo lavoro teorico si è svolto in
due momenti successivi ed ha seguito due fondamentali direzioni di ricerca:
l'interpretazione socio-politica e filosofica delle avanguardie artistiche, e
l'elaborazione di una filosofia della tecnica costruita soprattutto attraverso
l'analisi dei cambiamenti che la nuova situazione tecno-antropologica ha
indotto nell'arte e nell'estetico. Per quanto riguarda la prima delle due
direzioni indicate, ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed
estetiche di numerosi movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria.
Momenti di particolare rilievo in questo ambito di ricerca possono essere
considerati i suoi lavori su Duchamp e sulle funzioni della moderna critica
d'arte, nonché i suoi studi sul "lettrismo" e sullo
"schematismo", movimenti artistici di grande importanza, anche estetologica,
ma, all'epoca, pressoché ignoti in Italia. Per quanto riguarda la seconda delle
direzioni indicate, il suo pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due
assi fondamentali: uno riguardante le conseguenze sociali ed etiche della
comunicazione tecnologica, riassunte soprattutto nel libro La televisione e le
passioni che analizza gli effetti disgreganti e distruttivi della televisione,
e poi nel più recente La disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante
rispetto al primo, consistente in un ripensamento del senso che
l'"estetico" e l'"artistico" vanno assumendo nella fase
attuale delle nuove tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura,
dell'immagine, della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha
condotto ad una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il
campo investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la
tecnica) la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando
luogo ad una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale.
Alcune opere rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i
contenuti trattati e per la inedita metodologia di indagine instaurata e
seguita, un libro che apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato
ed inesplorato dalle discipline estetologiche, quello appunto della "estetica
dei media", da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia
o con quella del cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti
lavori. Il libro in questione segue ai diversi contributi teorici relativi
all'estetica della comunicazione le cui identificazione, nominazione e
formulazione teorica risalgono al 1983, e che è ora rappresentata, nella sola
Italia, da numerose Cattedre e indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è
considerato il lavoro più noto e più innovativo di tutta la sua produzione
teorica; è in esso che, considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte
e dell'estetico dalla nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento
della dimensione dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione
di una nuova forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con
tutto quello che questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime
tecnologico è stata diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale
della teoria estetica ed ha sollecitato un incalcolabile numero di
sperimentazioni da parte di artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed
estetica del flusso traccia le linee di una nuova estetica e della
sperimentazione artistica che da essa può scaturire. Si tratta da una parte di
un violento e argomentato pamphlet contro l'arte contemporanea, ritenuta “una
congerie più o meno sgradevole di nullità mercantili”, e dall'altra della
tematizzazione ed elaborazione del concetto di “flusso estetico tecnologico”,
considerato come ultima e residua possibilità di sperimentazione per gli
artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti dell'ontologia
contemporanea. Dopo la tecnica () ripercorre la storia delle varie epoche della
tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire configurando,
ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di chi da esse è
abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la tecnica, una volta
connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo incondizionatamente
autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad appartenerle e a favorire
il suo sviluppo. Altre opere: “Arte come soprastruttura”, Napoli, CIDED, Teoria
e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle funzioni della critica
d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, M.Ricciardi
Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia
artistica parigina posteriore, Roma, Carucci Editore, Le immagini, la folla e
il resto. Il dominio dell'immagine nella società contemporanea, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei
media. Tecnologie e produzione artistica, Lecce, Capone Editore, Il
‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Napoli, Morra, La televisione e
le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo ‘schematismo'. Avanguardia e psicologia,
Napoli, Morra, Lo ‘schématisme parisien'.Tra post-informale ed estetica della
comunicazione, Fondazione G.E.Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento
del sublime e strategie del simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza
soggetto. Per una teoria dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Costa &
Nolan, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia,
Roma, Castelvecchi, Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica
dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione.
Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della
simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla
computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli,
Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte.
Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano,
Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La
disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove
tecnologie, Milano, Costa & Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una
teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, Costa & Nolan, Arte
contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio Edizioni, Ontologia dei media, Milano, Post media books, Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli,
Liguori Editore. Il lavoro teorico di Costa teso, tra l'altro, a definire la
nuova epoca dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e
digitali, e a fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo,
si è, per ciò stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione
estetico-culturale: agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col
supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per
sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle
tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il
Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla
Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista francese Fred Forest, il
movimento internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari
contesti (Electra di Frank Popper, al
Centre Pompidou a La Revue parlée di Blaise Gautier, ialla Sorbonne, al
Séminaire de Philosophie de l'art di Olivier Revault D'Allonnes); nei mesi di
marzo-aprile del 1984 dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della
comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); a partire
dal 1985 concepisce e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno
Internazionale di Estetica dei Media e della Comunicazione; organizza presso
l'Salerno un Convegno Internazionale su estetica e tecnologia; nel febbraio
1989 organizza presso la stessa Università il Convegno "Il suono da
lontano". Eventi sonori e tecnologie della comunicazione"; realizza,
per la RAI-TV (Dipartimento Scuola e Educazione) la trasmissione televisiva in
tre puntate: Un'estetica per i media; fa svolgere, presso la settecentesca
Villa Bruno (S.GiorgioNapoli) Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media
e della Comunicazione; presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno
due videoplays di Samuel Beckett; nel 1995 fonda e dirige, la Rivista
Internazionale Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda e
dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di
Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche connesse ai nuovi
media (testi di Francesco Piselli, Anne Cauquelin, Theodor W. Adorno, Costa,
Marie-Claude Vettraino-Solulard, Dorfles);
co-organizza a Parigi la VIII Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2003
co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale Tecnologie e forme
nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del Sannio di Benevento la
Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini, Fred Forest, Richard
Kriesche, Mit Mitropoulos); norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di
Artmedia; nco-organizza a Parigi la X Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2009
organizza presso l'Salerno un seminario conclusivo di Artmedia dal titolo
"L'oggetto estetico dell'avvenire". Sulle funzioni della critica
d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, Ricciardi, Costa,
L'oggetto estetico e la critica, Edisud, Salerno. Mario Costa, Il 'lettrismo'
di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina,
Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Morra,
Napoli, Si veda anche Signe, forme, schéma, ornement, in "Schéma et
schématisation", 57, Parigi 2002, L'estetica
dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, Mario Costa, Il
sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi,
Roma, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre:
Technology, Artistic Production and the "Aesthetics of
communication", in "Leonardo", Tecnologie e costruzione del
testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla diffusione e
la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Philippe Bootz, The
thesis of Walter Benjamin and Mario Costa, in Philippe Bootz, Sandy Baldwin,
Regards Croisés, West Virginia University Press, Alberto Abruzzese, Il
compiersi della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi elettronici
del presente: pretesti, testi e questioni, in
(Riccardo Lattuada), Nuove tendenze ed esperienze nella comunicazione e
nell'estetico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Derrick de Kerckhove,
L'estetica dei media e la sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di
Mario Costa, in "Mass Media",Frank Popper, L'art à l'âge
électronique, Paris, Hazan, Mario Costa, professore di estetica, in
MCmicrocomputer, n. 208, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo.
– La nozione di esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella
di internalismo (internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai
dibattiti sulla filosofia della mente e sull’epistemologia nella seconda metà
del 20° sec. ed è attualmente al centro del dibattito filosofico sulla
giustificazione epistemica, sull’epistemologia sociale, sul ruolo dell’ambiente
e dell’esterno negli stati mentali, nei processi cognitivi e nei processi
linguistici e comunicativi; si parla di e./i. anche in filosofia morale.
Nell’e. una conoscenza si considera giustificata se è causata da processi
affidabili derivati dall’esperienza esterna; diversamente, nella prospettiva
internalista, una credenza viene considerata vera se fondata su esperienze
interne al soggetto (per es. il cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza,
anche sensibile, del mondo esterno all’appercezione di stati di coscienza
(Kornblith, Epistemology: internalism and externalism, 2001; L. Bonjour, E.
Sosa, Epistemic justification: internalism vs. externalism, foundations vs
virtues, 2003). Nella filosofia della mente, gli stati mentali vengono
ricondotti, in prospettiva esternalista, a connessioni causali con l’ambiente
esterno; in chiave internalista, a processi e fattori interni alla mente. Nella
teoria della motivazione morale si parla di i. allorché si ritiene che vi sia
una connessione necessaria fra considerazioni morali e motivazione, costitutiva
della considerazione morale stessa; si parla invece di e. quando si ritiene che
tale connessione si fondi su fattori concomitanti contingenti. Con l’argomento
della ‘Terra gemella’ (twin Earth), il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che
una differenza di estensione, ossia dell’insieme degli individui cui si applica
un concetto o un predicato, è anche una differenza di significato; questo per
dimostrare che i significati non sono enti mentali, ossia che la medesima
parola applicata a due enti diversi (anche se non apparentemente tali) cambia
di significato, benché averne o meno cognizione dipenda dalla competenza
semantica dei parlanti in merito all’oggetto designato (The meaning of
‘meaning’, in K. Gunderson, ed.,Language, mind and knowledge). A partire dalle
tesi dell’e. semantico (in filosofia del linguaggio si privilegia la coppia di termini
esternismo/internismo) il dibattito si è esteso alle filosofie della mente e
alle scienze cognitive, indagando se il soggetto cognitivo sia circoscrivibile
al cervello e al sistema nervoso (i.), o se la mente e il mentale includano
anche fattori ambientali, sia fisici sia sociali, ricalibrando i confini fra
mente, corpo, ambiente (e.). Nel dibattito filosofico ha avuto rilievo anche la
tesi della ‘mente estesa’ di A. Clark e D. Chalmers (Chalmers, The extended
mind, in Analysis; Clark, Supersizing the mind: embodiment, action, and
cognitive extension, 2008), che riconosce il ruolo dei fattori extracorporei e
ambientali nel costituirsi della mente, ma riguardo agli aspetti cognitivi non
fenomenici (non coscienti). Superando contrapposizioni troppo rigide fra le due
posizioni, nelle tesi esternaliste più recenti si tende a riconoscere non
unicamente la dipendenza causale dall’esterno del mentale, ma a vedere
l’origine del mentale nell’interazione causale ambiente-corpo-cervello,
ciascuno influente nei processi cognitivi e mentali. In ambito sia semantico
sia fenomenico si è differenziato l’e. dall’i. in base alla possibilità di
‘individuare’ uno stato mentale ritenendo di poter ricorrere, o meno, a fattori
esterni (R.A. Wilson, Boundaries of the mind. The individual in the fragile
sciences: cognition, 2004). Più recentemente si è teso invece a privilegiare
l’aspetto della realizzazione fisica. Si parla, in tal senso, di e. del veicolo
o anche procedurali, spostando il punto di messa a fuoco dall’identificazione
del contenuto dello stato mentale (intenzionale o fenomenico) alla natura del
sistema di realizzazione fisica di tale stato (Amoretti, La mente fuori dal
corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale, 2011). Entro
l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica sono state
elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla possibilità di
comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati cognitivi
coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford: a
sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: – uomini fuori di sé, blocco
comunicante, communicazione sine contenuto, communicazione fatica, semiotica,
estetica della comunicazione, significante sine significato – segno sine
segnato – autoreferenzialita – asemanticita – sintassi – retorica – codice –
intenzione communicative, medio, messaggio, recursivita, self-reference,
meta-linguaggio – linguaggio come metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Costa: l’implicatura
conversazionale della sinestesia conversazionale -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Ravenna). Filosofo. Grice: “My favourite keyword for Costa is
‘contrassegnare’!” – Grice: ““I love Costa; for one, he improves on Locke; on
the composition of ideas and how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli
precisi’ – I explored that a little in my ‘Prejudices and Predilections,’ when
I attack minimalism and extensionalism, and provide a way which is meant to
resemble Locke’s way of words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or
‘composite’ (Costa’s ‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out
‘bachelor’ unmarried male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.”
In this respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’
and ‘sintesi’ versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia
a Ravenna e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto
a riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può
rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di
esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben
ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” Costa segna che fa freddo. Il
trattato filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte
poetica, un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario
della lingua italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni. Letterato neo-classico e dunque tipicamente
italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore
del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli
di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni
filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle
scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo
che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos)
(la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non
sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima
non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il
S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una
sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S
e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una
reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative –
il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che
l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il
fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una
idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono
un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico
all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano
origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a
priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non
fuerit in sensu. Ogni idea ha un stesso
origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo
nascere sue proposizioni. Una
proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra
proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è
l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento.
Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in
me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione.
Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo
pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso).
Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di
questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della
mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la
rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico,
ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè
che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra
differenza, se non che nella che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è nella nostra
persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in
me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il
reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori?
Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in
che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che
il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un
sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione,
una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse,
nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni
fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo
che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la
sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in
relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi
vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la
modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella
nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono
che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo
che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe.
Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio
non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano
il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”.
Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo
del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza
accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero
ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la
qualità della sensazione di natura
diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del
colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro,
nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori
di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella
dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre
la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa
cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla
più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può
rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione
condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo,
perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue.
Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi
elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle
nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato per
beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista.
Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno
materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo
percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa
esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in
Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle
di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche
si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo
trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha
tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire
corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del
irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia
dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e
dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della
elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e
dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina
commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna
de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento
artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del
giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS (sulla formazione padovana del Costa, e sulla
sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una
delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella
[fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo
si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a
fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono
con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del
bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual
cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore
onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla
dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e
pacifica; per questa sono animati i
guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più
degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si
mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o
giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo
nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica
l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il
venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè,
essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e
si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione
alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale
desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque
volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al
fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed
ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada
conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero
e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE,
sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice:
“imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione
sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che
poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima:
dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione –
cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione,
L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea,
fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè
appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra
appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna
considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da
altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire
distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un
esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a
ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee
delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto
la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf.
Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un
errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere
molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano
i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto
sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa,
che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero,
pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza
d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria,
mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf.
Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè
della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con
esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono
dinanzi agli occhi ci somministrano
esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di
quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che
dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come
l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa,
che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un
ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a
denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi
Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che
dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di
dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione
“moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE
SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid
ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto
maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali
e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero
dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che
dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli,
cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de'
ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella
sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di
un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di
Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che
sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of
conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad
acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono.
Prima, il saper bene dividere le idee
fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia
dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi
famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci
pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto
di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una
breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una
medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee
principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i
seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili.
Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e
rendetli; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran
numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di
qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro,
rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna
differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la
particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a
mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità
dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci
unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua
donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra
è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra
alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono
per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile,
o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di
quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a
cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento presente’,
ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si vede che
sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure trae in
sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É dunque da
por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci rappresentano
stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali dall'apparenza,
alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da avvertire per ultimo,
che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso universale de’
filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci proprie. Si uilmente
sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari, e l’espressione
forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto la cile
tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia; e
perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo polere
schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa, che si
richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il
trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio
all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione
esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso
formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta
sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole
avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le
quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella
eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però
offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi)
delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di
quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel
ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che
viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le
allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del
Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro
comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu
travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta.
L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa)
principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa
minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in
un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è
che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero
troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro
officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa
le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura
di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione
loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin
guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte
le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi
implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo
o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti.
L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la
patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si
appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si
dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La
proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio,
che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che
non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA
(splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di
nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la
proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè
quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del
solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio
qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e
noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far
conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve”
trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’).
Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o
espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo
intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da'
participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto
parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa
mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a
modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo.
Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel
seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo
nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato
falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo
libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata
chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi,
ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un
uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel
pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in
Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge
resla alcun poco sospesa. Molte traspposizioni, che si bia simano nella lingua
italiana, sono spesso con venevoli nella lingua latina, perchè nella lingua
romana gli aggettivi, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei
casi si accordano coi sustantivi, rade volte lasciano dubbio a cui vogliano
appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque
nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di
Crasso, riportato da Cicerone. Haec tibi est excidenda lingua, qua vel evulsa
spiritu ipso libidinem tuam libertas mea refutabit. Tenendo l'ordine di queste
parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza: sconvolgendolo
si perde tutta l'efficacia. Se diremo. Questa lingua li è d'uopo recidere:
recisa questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà,
apparirà che la sfrenatezza reprima la libertà. Se per lo contrario tradurremo.
La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo alla sentenza molto
della sua forza. Vedremo a suo luogo la ragione, per cui la diversa
collocazione di una espressione semplice rafforza o snerva l'espressione
complessa. Ora ci basti osservare, poichè cade in acconcio, che le varie lingue
(parlando ora della sola facoltà, che hanno di permutare il luogo alle parole),
luttochè sieno alle a qua. Junque specie di componimento, nol sono ad esprimere
uno stesso concetto nella stessa forma; perciò è che quando si trasportano le
scritture da una favella ad un'altra non dovrà l'espositore darsi briga di
ritrarre espressione per espressione, ma, avendo rispetto al genio della sua
lingua, cercherà di produrre per altro conve pevol modo negli animi di nostro
compagno conversazionale gli effetti, che l’espressione in lui operarono. Per
fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] gioverà ancora badare ne'
verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo, la quale è simile alla
terza, dicendosi io amava, colui amava; perciò a distinguerle è sovente bisogno
di pre ineltere all’espressione ‘amava’ il nome o il pronome. Giova spesso alla
chiarezza, e segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere
le persone e le cose, delle quali si parla (il topico); e perciò sta bene
talvolta il *ripetere* il nome per non confondere l’una coll'altra;
imperciocchè i prononi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco
– confusione – cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of
conversational clarity; e questo interviene specialmente, quando nella
proposizione antecedente sono più sustantivi di un medesimo genere e numero,
che si possono accordare coi relativi delle susseguenti; perciò conviene tal
volta o giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un
femminino, o inulare il numero del più in quello del meno, o viceversa. Può ancora
geverarsi perplessità nell'usare il possessivo “suo” e “suoi” invece de
relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per
quello, come nel caso seguente. Mai da sè partir nol potè, infino a lanto che
egli (Cimone) non l'ebbe fino alla casa di lei accompagnata. Se Boccaccio
avesse detto, fino alla casa sua accompagnata, si sarebbe potuto credere essere
quella di Cimone. Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione
de'ragionamenti sono assai opportune le particelle copulative (“e”(,
avversative (“ma”), illative (“se”) e somiglianti – disgiuntiva (“o”). Molli
fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere
a piccoli membri senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da
biasimare, iaperciocchè costringono la mente di nostro compagno conversazionale
a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli occasione di
scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf. Grice, category
of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. Affinchè si vegga
manifestamente quanto la mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso,
leverò dal seguente luogo del Passavanti le particelle che ne conneltono le
parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all affezione
sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si, non a. spetti che al sogno suo
debba altro segui. tare. Quel sogno non è cagione, alla quale debba altro
effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare,
cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione.
Facciamo congiunti questi membri colla particella “e”, la
particella”imperciocchè, la particella “ma” e vedremo il discorso apparire più
chiaro (“She was poor and she was honest”) Qualunque persona sogna, pensi se il
suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. E se vede
che si, non aspetti che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel
sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto
del l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde
proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione. Quesli
pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori,
che desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose, che i
filosofi hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual
volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore)
dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la
virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di
*molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono collocare
nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a parlare dell'
ornamento. La perſezione dell'arte del conversare, secondo Cicerone, consiste
nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico,
che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro,
che dalla invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona in altre due
parti della rettorica. Accade qui di parlare delle suddette tre qualità solamente
rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto ritrovati.
Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che fanno il
discorso – la mozione conversazionale -- accetto a nostro compagno
conversazionale. Prima di tullo si vuole osservare che la proprietà delle voci
e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte
della bellezza del discorso; imperciocchè fanno sì, che esso sia inleso senza
fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma questo non basta;
chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè si fa intendere
dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s ' ei ſa
altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gli uomini e tragga a sua
voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale?
Colui, che nel conversare è distinto, copioso, splendido, armonioso, e che
queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro. Que' che
conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno
conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento
disgiunto dal decoro diviene sconcezza e deformità. Di questo decoro diremo più
particolarmente a suo luogo; ora veniamo a discorrere le parti dell'ornamento.
Molto leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono
hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche
particolare qualità. E espressiona, che ricorda il significato per somiglianza
di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”;
“rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono chiamate termini
figure, a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col
significato, furono delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi
annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat, quelle che o provengono
da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol
esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e
‘communicare’), o ricordano l'origine o gli usi del significato. L’espressione
“spirito” è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè
l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil
materia, che spiri. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione
“pecunia”. la prima delle quali, venen do da “moneo”, significa che il metallo
ed il conio ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda,
venendo da pecus, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed
alle pecore, antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due
esempi ancora perchè si vegga ' quanto giovi alcuna volta l'investigare
l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini figure a far bella la
mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno convenevolmente
adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che comunemente accade degli
uomini nel civil conversare. Questi acquistano ripulazione o vilipendio dalla
qualità delle persone colle quali usano farnigliarmente; e le parole dalla
qualità delle persone da cui sono sovente proſerite; e ciò interviene perchè
tutti hanno per fermo, che i personaggi illustri e gli uomini letterati sieno
esperti a conversare con legge, e che la plebe allo incontro parli e cianci barbaramente.
Avviene da ciò che alcune voci, che significano cose vili o laide, sono
tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre ve a'ba, che, nobili cose
significando, in grave componimento non sarebbero lodate. Della prima spezie
sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”; “tube”; “piaga”, ed altre, che
nelle più nobili conversazione sogliono essere usate. Dall'altro canto
l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale Pallavicini, la quale
nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta in grave componimento
poetico. In tre schiere vengono separate dal Pallavicini le parole rispetto la
maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano quelle, che dal
conversatiore in nobile conversazione e usata a significare un concetto grande
ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potran no senza affettazione
adoperare in tenue argomento o in famigliare discorso. Che se alcuno
famigliarmente usasse l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in
vece di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che move rebbe
a riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione,
che vanno egualmente per le bocche degli uomini ragguardevoli e del popolo, e
che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di
quelle, che furono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione
“pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in
una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mozione
conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle abbiano
convenevole forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare
sensi piu di la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione; ma si richiede
somma cautela in co lui che a vila le richiama, poichè, siccome ė detto di
sopra, una espressione antiquata, ollrechè spesso portano seco oscurità [cf.
Grice, ‘avoid obscurity of expression, procrastinate obfuscation], più spesso
fanno l'orazione ricercata e deforme. E chi oggi p trebbe, senza indurre a riso
il compagno conversazionale, l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”;
“piota”, “spingare” ed altre simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You
are the cream in my coffee), la quale usata opportunamente è lume e vaghezza
della orazione. Prima è a sapere che gli uomini selvaggi per essere scarsi di
cognizioni mancarono dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna
cosa non ancora significata, fecero uso naturalmente di quella espressione gia
usata, la quale e stata inventate a contras-segnare *altra* cosa somigliante in
qualche parte all'idea novella (“You are LIKE the cream in my coffee”).
Occorrendo loro, per esempio, di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre”
per la somiglianza dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele.
Cosi dissero assetate le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a
fox” – he is a fox), “capo del monte” la cima, e “piè” del monte la falda di
quello. Per gli addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole,
transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad
un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una
similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream –
simplifcata a “You are the cream”); impercioc chè la seguente similitudine
spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe (per
brevita) in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la
metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando
una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da
Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora fu da
principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero
delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga
pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè,
sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra
le selvagge e rozze, pure la metafora è e sarà sempre luce e vaghezza della
conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità, che ora verrewo
particolarmente esponendo. La metafora presenta spesso all'animo più chiaramente
ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di forma *sensibile* una idea non-sensibile,
o intelleltuale (nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le
pone davanli agli cinque sensi. Voleva Alighieri significare che non è
meraviglia se per la le nuità della nostra fantasia non possiamo per venire ad
imaginare le cose, che Alighieri desiderava narrare del Cielo; e questo con una
metafora dicendo. E se le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è
maraviglia. Per tal modo il concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale,
divenne sensibile e per conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous
[sic] – the imperative of conversational clarity] e più popolare. E se taluno
volendo dire che gli uomini bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gli
atti e le parole a modo di parer verilieri, dicesse che la menzogna prende talvolta
il manto della verità, non significherebbe egli il suo concetto assai
vivamente. (He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re
the cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream
in the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella
metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si
mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza
della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi,
più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri
sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della
qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte
le altre appartenenti a quello pur si risvegliano, e vivamente ed intero lo ci
pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore
– parola dolce. che si cá vano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato
(secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto
senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore
di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento
ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si
presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinqe sensi, sono
le seguenti. Splende la gloriu (visum). Folgoreggiano gli scudi; ridono i prali
(udito); si rasserena la fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad
Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum,
rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora
attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di
Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche Virgilio,
parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, disse. Harsit
virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa
vivamente quasi innanzi agli organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita
(no morte) loro ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele,
partorisce dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non
osservata. Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la no billà della
prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. Opoca
nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non
s'appon di die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco
manto adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni
uomini quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi
nobillà: ma, se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in
giorno scemando. Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova
similitudine, e ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere
con maggior forza l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie
astretti a recare alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una
dopo l'altra, la metafora, rappre sentandole tutte ad un tempo, assale l’animo
con veemenza. Basti un solo esempio del Petrarca, il quale rivolto alla morte
così le dice: con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce
ed amoroso e piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli
pensieri si destano nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione
frasale “lume degli ocehi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si
vuole por menle che ella non mostra il
lavoro e la fatica dell’intelletto, perocchè non è verisimile che colui, che ha
l'animo perturbato, si perda a far cerca d'ingegnosi concetti e figure
retoriche. È ancora pregio della metafora di coprire con velo di modestia e di
gentilezza il segnato, che espressa con un termino proprio (e non un termino
figura como e la metafora) sarebbero odioso o turpo. Ecco un bell’esempio del
Passavanti. La innata concupiscenza, che nella s vecchia carne e nell'ossa
aride era addor meniata, si cominciò a svegliare: la favilla, quasi spenta si
raccese in fiamma; e le frigide membra, che come morte si giacevano in prima,
si risentirono con oltraggioso orgoglio. E Virgilio disse. O luce magis dilecta
sorori, Sola ne perpetua moerens curpere juventa? Nec dulces natos, Veneris nec
praemia noris? Questo e i principale vantaggio della metaſora, onde sovente
viene preferita al termino proprio. Diremo ora dei vizii che talvolta elle
possono avere. Se bella e la metafora che fa scorgere una maniſesta somiglianza
tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my coffee’), da che si toglie il vocabolo
e l'altra, a cui si reca, chiaro è che deformi saravno quelle, che tengono ji
paragone di rose o polla e poco somiglianti, e che sono male acconcie al pro
posto dne (“a woman without a man is a fish without a bycicle”). Nessuna
somiglianza si vede fra le cose paragonale nella seguente metafora del Marini,
Folendo egli lodare un maestro, che formara bellissimi esempi da scrivere,
esalta la penna di lui, dicendo ch'ella deve essere divina: Perchè una penna
sela, Benchè s'alzi per sè pronto e sicura, Se divina non è tanto non rola. E
qual somiglianza è mai tra il relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza
quella metafora che volendo segnare una cosa piccola prende da una cosa grande
l'imagine, e al contrario. Mariai assomiglia le lacrime della sua douna
a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il diluvio universale al bucato. Erro
similmente colui che disse a suo amante. Son gli occhi resiri archiòugiati a
ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È bellissina la metafora che
Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar come fa il mare. Sarebbe
difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le biade. Viziose come le
sopraddeile erano la più parte delle metafore usate dagli scrittori del secolo
XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i monti per estrarne i
metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio colp inchiostro.
Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè il nostro secolo,
sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra nemico. Della
metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo essere
mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir cosi e
che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la se. guente:
Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il
nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga
alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa
rimprovera Dante per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome quando
disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal vivanda fosse
gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi, se avessi
avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine plebea e
sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo Pallavicini,
comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale, quando disse,
che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora coll' inchiostro,
e quando per accennare la qualità, ond'è costituita l'eleganza della elocuzione,
disse: saputi distintamente quali ingredienti compongono quesla salsa, cioè
l'eleganza; i quali modi sono da biasimare, essendochè nel primo esempio li
vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce
l'abbietta voce che sa di cucina. Similmente non paiono degni di lode coloro,
che sogliono usare per vezzo della conversazione un idiotismo, e segnatamente
quello, che ha origine da certa anticha costumanze dimenticata oggidi. Non
merita lode Davanzali quando volendo dire: o nulla o lullo: disse: o asso o
sette. Questo proverbio, oltre chè si è di vilissima condizione, è tolto da un
giuoco, che potrebbe essere sconosciuto a molli. E proverbio, del quale non si
sa l'origine, il seguente; e perciò freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece
di cercar la cosa dove ella non e. Bastino questi pochi pro verbi per
moltissimi, che qui si po ebbero recare, e de' quali vanno in traccia alcuni
mal accorti conversatori, onde parere versali nella lingua antica. Aucora è biasimevole
alcune volte la metaſora, che si deriva dalle materie filosofiche;
imperciocchè, se il fine, pel quale il conversatore usa di quella, si è di
rendere più chiaro e più vivo i concetto, questo non si potrà ottenere traendo
la similitudine da cose poco nole o malagevoli ad intendere, come a la
metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno bisogno delle similitudini
tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano imagini, che vagliano a
cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi tempi sono alcuni
conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta metafora, avvisando d'illustrarne
la sua mozzione conversazionale, e di mo strarsi intendente e sottile; ma va
grandemente errato, perciocchè non solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid
obscurity of expression, be clear) alla sentenza, ma danno segno di
affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si è dello di sopra che la
metafora diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi agli oc ebi in forma
quasi sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci porge ammaestramento
col farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima non osservata; dal che
si deduce che il conversatore, i quali vogliono recar maraviglia, de guardarsi
dall' usare una metafora troppo comunale, come quelle, che, a somiglianza della
monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora
poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni conversazione. Poichè
tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri, converrà avvertire che il
grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità del componimenlo. Similmente
nel formare la metafora si vuole avere riguardo al pensare della gente nella
cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de' climi fa che gli uomini
abbiano diversi i costumi e le usanze, e perciò diverse ancora le idee e le
significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente le similitudini
dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra che alcun
popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima,
tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o
la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più
vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime
nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o
meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno
buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più
amore del verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva,
ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro,
che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di
venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle
tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro
inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di
bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul
brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i
torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono
in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe
anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se
non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto
contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere
produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga
manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli,
recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla
lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit
habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla.
Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem
corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse.
lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo
dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum
Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime
altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua
latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità
di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora
la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per
clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di
parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso
della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele
parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule
volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da
avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra
metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga
opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di
guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai
eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del
fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle
idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai
contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori
eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire
metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio
lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente
a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel
Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso
ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si
diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa
allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di natura
diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una
similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo
talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime
sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di
nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal
esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa
opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella
diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va.
glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco
al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi
soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi
mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora
divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla
mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali
riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di
quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi
a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra
loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi
estremi e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri
conoscere nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi
palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione,
principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, ' concorrer deve
a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo sviluppamento di
questa Costa. Vol. Un. 3 50 ec. (1 ) Oh quanta confusione ed oscurità in tanta
pompa di parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi conobbero
che la natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e
che da questo procede l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e
costituzione, che sono segni d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire”
ha composto un enigma; perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo
innesto. Più strana poi diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla
espressione “principio” si fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla
inopportunamente persona per trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa
a guisa di una malassa. In questa forma la metafora, che e vaghezza e luce
della favella, diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus vocis) agli
orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia solamente di
render chiaro il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e maraviglioso,
interviene che alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si fango a
derivare dalla metafora certe loro conseguenze, come se in quella non già una
simililudine si contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome novello,
veramente si trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di questa
specie di concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo decimo
settimo, forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà, ed in
fastidirono tutti i sani intellelli. Basti di ques 1 (1 ) Atti dell' Costitulo
pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare che non a
dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di un
epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de morte queri, namque ignea
tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta
a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine
in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non
dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il
derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose
diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare
dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici
quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome
di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde
ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e de'vizi
delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati di
parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè queste cose sono state
definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il
ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto
vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la
metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta
il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del
tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è
composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural
– We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo
traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da
cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono
svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le
altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo
esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele, di
quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele
gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui,
che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa
all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa
o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno
con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela
dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per
l’effetto, o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per
la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso:
il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”,
giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza
alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono
in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già
dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”,
dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi
saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere
mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per
rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura, ricorderò
che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che nascono
dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi”
(contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far
uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella,
abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole
a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come
detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal,
riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici.
Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre
scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto
egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che
ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in
che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e
quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione
conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de'
traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine del Palavicini,
degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic
maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione
“eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza
e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad
essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da
tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella
si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid
unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole
morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà
(non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be
perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione
conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e
più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono
essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto
fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro
empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò
è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da
una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più
da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo
inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione,
che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le
seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi,
gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra
lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e
questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi,
che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta
qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle
cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando
tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui
do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene
questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione,
Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi
di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose
particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza;
ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben
ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il
concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in
falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè
quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che
vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non
induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo
che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un
solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando
negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine
eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon
desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i
lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane
forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori
plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo,
siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni
scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così
pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante,
e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi
quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che
precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”,
si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può
mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di
essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non
usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in
chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il
giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila
recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa
cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola.
Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come
una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene
non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e
per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere
parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato;
e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La
negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che
falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno
credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e
fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere
eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua,
compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla
boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per
bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per
verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare
occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi?
Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno
dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si
fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma
nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non
la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione
vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe
la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed
arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil
conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo
di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò
alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre
sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle
quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua
(come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da
questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere
autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana;
ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione
intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee
proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e
diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e
nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare
d'Italia, poichè, come dice il Bembo, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano
e e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano.
Tutte le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con
chiarezza i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o
moderne; chè le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie
no necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli
antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono
prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee
si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito
a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova
espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta
dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo –
libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua
italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli
illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando
si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non
si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero
vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la
potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo.
Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire,
cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali
hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i
quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi
forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”, e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi
e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque
sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per
derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co
storo petulanza coll'autorità di Cicerone ri spondano arditamente che colui, il
quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è
poela, ma non è uomo (Cic. de orat. I. 3.). Quarta e ultima, se le parole
fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o
legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può
ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare
brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente
la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti
del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci
sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi,
non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale
sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero
intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare
l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà
che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente
essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo
della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come,
a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire
era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare
della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe'
suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e
inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo
peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger,
che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un
esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel
rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al
cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la
congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata.
Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle
cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece
delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come
chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la
fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il
quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o
passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da
Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o
questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria
d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o
positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative
seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione
splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non
isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in
my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo
in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda
praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con
termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da
cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora
le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal
quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o
assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth
protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”)
si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto
sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem
virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna
ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è
il temere. La buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più
accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno
possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere
famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate
con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie
più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa
parere affettato. In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i
quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò
del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche
l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma
che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone
rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo
predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane
infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente
nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata,
ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori
invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di
Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon
uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle
sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per
recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia
o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa
proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui
diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di
due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio
nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e
differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da
cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente
che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso
comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la
congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un
esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un
vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e
di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione
d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa
figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave
con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena,
che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed
accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in
pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque
manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che
è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto
diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè
disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di
tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora
cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un
uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò
ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato,
o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol
dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si
dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi
sono pres sochè infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro
dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone
distingue primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da
quelle che stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli
dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le
parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni
verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di
queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella
imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella
che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole
con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene
la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue,
distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si
naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che
consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente
si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la
grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano
in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua
impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia
gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse.
Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza
tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che
metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora
stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini
ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà
covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è
spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi
tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose
tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della
facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide
e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che
sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti
molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a
sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo
le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola
slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato
mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed
insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo
di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe
ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è
in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la
quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo in cui si favella di un'amazzone dormiente,
recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena
era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai.
Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece
lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era
trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusavasi di
sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè,
o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo
gli uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si
DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio
Claudio disse a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei,
ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè
io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si,
che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava
sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè
col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta
conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun
insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano,
perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in
essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno
grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della
persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto
inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto parlavano
tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse: Ponsate
di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via la sete
lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che procedono
da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due seguenti
terzine del Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a Virgilio
Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per compassione, ch'egli
ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla disperazione. si può
similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di nuov, che esprimono al
cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono queste usate dal Boccaccio:
picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia santi. Si falte maniere,
che direi quasi deſormità della lingua, poichè dall'uso si allonta pano,
essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e perciò inducono a ridere e
han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso divengono proprie, perdono, a
somiglianza delle vecchie metafore, alquanto della grazia primiera. Osserva Demetrio
Falereo che la grazia del detto proviene alcuna volla dall'ordine solamente, quando
una cosa posta nel fine produce un effetto, che posta nel mezzo o nel principio
nol produrrebbe, o il produrrebbe minore. Egli reca l'esempio seguente di
Senofoole, che, parlando dei doni dali da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli
donò un cavallo, una vesle, una collana, e che i suoi campi non fossero guasti.
L'ullimo dono è quello dove sta la grazia, parendo cosa nuova, che si donasse a
siennesi ciò che egli possedeva: se quel dono fosse stalo collocato prima degli
altri non avrebbe avuto grazia alcuna. Bello pel medesimo artificio ci pare un
detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi da lui due personaggi di religione luterana,
egli avvisa di benedirli e di ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare
che egli no ricevessero con grato animo quell'atto di amore paterno: ma il
venerabile vecchio ollenne il buon effetto parlando così. Figliuoli, la
benedizio ne de vecchi è acceita a tutte le genti; il Signore v'illumini.
Ingegnosissimo si è que sto detto per l'ordine suo maraviglioso. Colla prima
affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa procacciasi la benevolenza del compagno
conversazionale. Nella sentenza, la benedizione de’vecchi è accetta a tulle le
genti, chiude la prova della con venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel
l'io io vi benedico, trae la conseguenza delle promesse. Nella precazione poi
ripiglia la dignità di pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da
principio e solto cortesi pa role nasconde il documento, che a lui si ad dice
di porgere a chi è fuori della chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato
pei delli graziosi e piacevol, chè il voler parlare di tulle le maniere loro o
semplici o miste sarebbe officio di chi volesse trattare solamente di questa
materia: e diciamo con maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato
sublime qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina
qui si vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni
reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si
dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o
forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia.
Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di
vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli
inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne
il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di
Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato:
perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe
che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno
conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora
quel luogo di T. Livio nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal
pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la
fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria
fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla
nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e
tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec:
Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del
nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso
e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”.
Il poeta latino col nome di Medea destò nel compagno conversazionale la memoria
della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così
la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al
cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo
delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de'
concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria
alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le
grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto
che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta
dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene
d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle
e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la
cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla
materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità
conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le
cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare
acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che
abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di
riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime
arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi
seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla
fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è
costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è
necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha maggior
forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci rallegra e
ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla dolcezza di
lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac crescere
efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely
(armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di
musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel
medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica,
presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono
quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa
significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste
nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel
salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia
sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si
succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano
dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative.
L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la
dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose
inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni
inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La
dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo
analogo, come è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le
voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole.
L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli
o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo
alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice
e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si
compongono di vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le
lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le
vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che
si succedono, producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe
consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro
delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto
armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma
si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva
al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che
ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con
bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene,
circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro
infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non
sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde
l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le
lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due
ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o
disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per
aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima
delle attenenze di tempo. Pie chiamamo i Latini quella certa quantità di
sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta
del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si
pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole)
in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano
la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che
occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due sillabe e
si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò coelum è un
piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi
sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due
sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga, o una lunga
e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle brevi
e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento specie
dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici.
Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura
dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non
si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi,
i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono
composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti
specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il
suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che
sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i
versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella
loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di
molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di
esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione
di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi
upili nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala
mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome
avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia
della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle
sillabe, come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi
hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali
il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma
quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere
rispondesse l'effett, apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali,
se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere
soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe
carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi
coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le
sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da
una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte
specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa
questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le
parole sono di una o più sillabe: se di una soltanto, l'accento è su quella,
come in tu, me, no, si: se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella
pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa,
come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la
pronuncia: dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli
acuto e il grave alzando ed abbassando
il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi
il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la
quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o
ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi
nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando
della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo
upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si
piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo
specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere
per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso
ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù
imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle
lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione
delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra
lingua troverà, secondo che osserva il Bembo, voci sciolle, languide, dense,
aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e
strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno
ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi.
tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina
Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che Dante udi
nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza
stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole
di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano
un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come
l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del
Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il
bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor
l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la
gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin
sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il
guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers.
Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose.
Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che
questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi
movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro.
Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il
furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che
d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu
rallento, E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va
superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il
tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et
terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque,
Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu
clus. Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che
esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo
morto cade; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur
praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare
dell'acqua precipitosa: ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il
Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di
quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente
il romor dell'acqua che l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo
stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del carro
di Net tuno: Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente,
ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole
di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue; Procumbit humi bos.
Dell’armonia che imita gli affetti col suono, Onde conoscere per qual modo gli
affelli vengano imitati dall'armonia, uopo è d'inve sligare quali altenenze
essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle altenenze si ponga
mente che ad ogni sorta di affetli (1) risponde un particolar molo del l'organo
vocale, per cui si formano voci di verse secondo la diversità de' medesimi
affetli; all'allegrezza risponde il riso, alla mestizia il pianto; ed il riso
ed il pianto si manifestano con suono al tutto diverso: così presso tutte le
geoli la subita maraviglia è significata dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il
lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura dall'uh. Que ste voci, che da
principio sono elfelti naturali delle aſſezioni dell'animo, diventano poi,
merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual cosa interviene che i
vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo sentire il suono di quelle
leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano, avranno virtù
d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in, nalzano per la a o
per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad esprimere
l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che declinano per la é e per
l'i, che sono lettere di molle suono, saranno convenienti alla malinconia ed
agli umili e miti affetti. (1) Omnis enim motus animi suum quemdam a natura
habet vullum, et sonum et gesium (Cic. de Orat. ). 84 quelle, che si abbassano
nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che
ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle
attenenze, che le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle
varie passioni, si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso,
frettoloso nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo nell' amore,
immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova
delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a
risvegliare ogni sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte maravigliosa,
anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando, innalza o abbassa
gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura
degli affetti, che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto
scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della
materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di questo avremo
altrove occasione di favellare. Ora in confer. mazione di quanto abbiamo detto
intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il
verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del Petrarca: Voi
ch* ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse:
O voi, che udite in dolci rime il suono; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come
Dante seppe significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che
rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d'
Arimino dolente dicono all’Alighieri di esser presti a rispon dere alla sua
domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile: Parlare e lagrimar
vedrai insieme; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono: Farò come colui
che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno: E
disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità
de' pensieri, che procedono dal l'aſſello, apparisce in questo esempio dello
stesso poeta: Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core
allelte? Perchè ardire e franchezza non bai? Un verso, che esprime luogo
pauroso e cupo, si è questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede
che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo
nell'animo quel sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento, basso
ed oscuro, rende sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e di
notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol
tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que'
maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene
ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè
io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè
anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra
vaghezza poetica ed oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare,
perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l '
intelletto a dirittamente giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso
si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi
alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli
orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale
diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od
affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo
oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare
l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con
quello, che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci
rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della
collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione
conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le
proposizioni si possono, senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o
anteporre l'una all'altra in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte
possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che
spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle
volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto,
e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso,
segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun
affetto; ma certo egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti
che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome
freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella
già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le
propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace
l'espressione degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla
mente associate in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione
delle cose ester 88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza
particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che maggiormente
si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre; e questo
mostrandoci, ella ne insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre nelle menli
altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che sentiamo, ci è
duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle nostre idee, per
quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità verremo ora con alcuni
esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente esem pio, tolto
dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono in moto, sieno
poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima farebbero impressione
ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a mano le altre secondo
loro qualità e silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una devola e venerabil
chiesa, Che su colonne alabastrine e rare Con bella architellura era sospesa.
Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea d'innanzi una lampada accesa, E
quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran lume all'uno e all'altro loco.
La prima impressione, che riceverebbero gli occhi di chi mirasse un somigliante
luogo, sa rebbe certamente la forma e l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe
alla ' mente la cosa alla quale somiglia, cioè la devota e venerabil chiesa:
indi l'allenzione del riguardante si indirizzerebbe alle parti del luogo più
appari scenti, le colonne alabastrine e rare: queste chiamano il pensiere a
fermarsi alcun poco sulle qualità dell'architellura, indi alle parli. più
minute, cioè all'altare, alla lampada, alla luce, che si spande d'intorno.
Quanto giovi disporre le parole nell'ordine, in che le idee sono naturalmente
impresse nei sensi dalle successive modificazioni delle ester ne cose, si può
conoscere da questo esempio di Virgilio, il quale, volendo rappresentare
all'imaginazione nostra il greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si
esprime cosi: Namque ut conspectu in medio turbatus, inermis Constitit, atque
oculis Phrygia agmina circumspexit. La collocazione di queste parole è secondo
l' ordine, nel quale avrebbero proceduto le sensazioni di colui, che avesse
veduto cogli occhi propri sinone, e che l'imagine di quella vista si riducesse
a memoria. La prima cosa, che gli verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era
condotto Sipone, conspectu in medio; indi la persona di lui colle sue più
distinte qualità, turbatus, inermis; poi l'azione, constitit; poi la parte del'
vollo, che subito chiama a sè l'altenzione del riguardante, co Die quella, che
è indizio dello stato dell'ani ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli
occhi si volsero, Phrygia agmina; infine l'ultima e lenla azione degli occhi
dipinta colla tarda parola circumspesil. go Un altro esempio dello stesso
Virgilio dimo. slrerà come sieno poste nel proprio luogo pro posizioni e
parole. Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alla (Horresco referens )
immensis orbibus (angues Incumbunt pelago, pariterque ad litora tendunt:
Pectora quorum inter fluctus arrecta, jubacque Sanguineae exsuperant undas:
pars cae lera pontum Pone legit, sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus,
spumante salo, jamque arva tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et
igni, Sibila lambebant linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al
descritto caso, osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir
del luogo che gli fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le
quali nuotassero, tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due
indistinte cose, egli comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco
che le due cose, che da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due
serpenti, angues, i quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni
l'azione loro; prima del gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt
pelago, pariterque ad litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi
le qualità de' serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le
creste sangui. gne, e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora
quorum ec. Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume.
Pervenuti al lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni,
ne ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per
l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la
catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso
avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che
all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri.
Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo
di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del
particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e
nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente
particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose
hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a
concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che
esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi
della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle
parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e
passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da
quello delle idee. Nel libro IX dell'Eneide veggendo Niso l'amico Eurialo già presso
ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver:
tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit:
coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza
della passione di Niso, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle
altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'ani. mo del
giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per
l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della
legge. Similipente il Petrarca: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero,
Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu,
padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero,
l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si
presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle
prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli.
Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria
sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che
all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee
vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu
se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi,
morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay
verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti
nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io
ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa
seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il
Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo
alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non
solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle
volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale
associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o
disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe
il trattare qui minutamente questa ma teria e il prescrivere le regole
applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre
dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94
basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il
verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boc caccio,
rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione
vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il
fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma
quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello:
non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe
par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in T. Livio, sdegnato che il
padre suo gli abbia in. pedito di uccidere Annibale, si volge alla pa tria
dicendo: o Patria, ferrurn, quo pro te armatus hanc arcem defendere colebam,
hodie minime parcens, quando pater extor. que, accipe. Ne'due cilati luoghi son
poste innanzi le idee, che prima si presentano ale l'animo passionato di colui
che favella, e in ullimo è il verbo, che apporta luce alla mente sospesa
dell'ascollatore. Se T. Livio avesse detto: 0 Patrin, accipe ferrum ec.,
oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo naturale di colui che ha l'animo
commosso, avrebbe an cora mancato di quell'arte, che l'altenzione altrui si
procaccia: imperciocchè qualvolta egli ci porge innanzi il ferro, col quale il
giovane voleva difendere ostinatamente la rocca, subito la niente nostra sta
attendendo impaziente menle che cosa esser debba di quel ferro; e, poiché ode
la risoluzione di esso giovane, re sla preso da subita maraviglia e ne riceve
dilelto. Nel collocare le parole secondo la catena delle idee, si vuol porre '
grande cura di con ciliare quest' ordine con quello che è richiesto
dall'orecchio e dal genio della lingua, al quale non si può contrariare.
Qualvolta 10 scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le sue parole siensi
di per sé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto dire la stessa cosa
l'avrebbe detta a quel modo. Que sta si è quella facilità, che molti avvisano
di poter conseguire, ma spesso invano a ciò si affaticano e sudano. Parliamo
del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gli elemenli, onde si
compongono le prose e le poesie, ac cade ora di ragionare più parlicolarmente
delle leggi della convenevolezza, o sia del decoro, di che abbiamo di sopra
falto cenno alcuna volta. Come dalla mescolanza de'selle colori fatta con legge
si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal pittore
imitate, cosi dalla mescolanza degli elementi predetti, similmente falta con
legge, nasce la varietà e la venustà delle prose e delle poesie. Colui che si
facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani,
mela fore, traslali, igure, sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di
buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e
i modi e l'ar monia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e
lulle insieme, secondo i fini che lo scrillore si propone, secondo la maleria
della quale ſavella, secondo la condi. zione sua e di coloro che l'odono,
secondo i luoghi in cui parla; chè in queste tulle cose consiste il decoro. Dal
decoro nasce la leggia dria, che risplende nelle più belle opere del. l'arle, e
senza di esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono i
fini speciali, che lo scrittore si propone, varii i subbielli, di che può
ragionare, varie le uma ne condizioni e le circostanze, conseguita che varii
pur sieno i generi e le specie de' con ponimenti per loro proprio carattere
distinti. Il qual carallere, per le cose delle di sopra, definiremo nel modo
seguente: Il carattere del discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da '
quali risultano la chiarezza e l'or. namenlo, ſalta secondo le leggi del
decoro. E perciocchè la principal legge del decoro si è quella, che riguarda il
fine, che ci pro poniano, quando altrui manifestiamo i nostri concelli, a
questo volgeremo tosto la nostra considerazione, Chi scrive inlende o a
convincere o ä pero suadere o dilellare altrui. Secondo questi tre fini nasceno
tre generi di scrivere o tre caralleri si diversi, che vogliono essere di
stigli e particolarmente considerati; cioè il fi losofico, il persuasivo, il
poelico. Di questi di reno prima alcuna cosa in generale, indi ne accenneremo
le specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi
si è il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare
che il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella
sentenza a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che
è quanto dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire
quella virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci
saranno subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue
dagli altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de'
sensi percepiamo l'attenenza ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser
convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni
insie me collegate ' e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le
quali si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere
convinti con evidenza di ragione. A costringere gli animi con questa evidenza
in. lendono i filosofi, ed a tal fine son loro neces sarii i vocaboli di
singolare significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle
proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso
significalo, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportanle
alcuna idea, si mulerebbero le at tenenze delle dette proposizioni, dal che
proce derebbe l'errore, come accade nelle operazioni arilmeliche, qualvolta, no
solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio
volesse) di ordinare la lin gua a modo che dalle percezioni delle qualità
semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non fosse
vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il ragionare
dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella matemalica;
inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al conoscimento
delle allenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro principii; e
per tal forma ciascuno potreb be sempre rendersi certo della enunciata verità.
Da tutto ciò si raccoglie che nella precisio ne delle parole e dei modi sta la
virtù di con vincere; e che perciò essa precisione esser dee la prerogativa
dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle figure può
divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che l'animo umano
ingannato dalle similitudini, di che si formano le meta fore, e commosso dagli
artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni, non secondo la
natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa indole della
fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se. guaci e disputatori
(per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si dovrà dunque
nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura, e renderlo
secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente alcune malerie (e
tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un linguaggio
pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è perciò che
le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera scienza
delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia
filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza
degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che
il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a
quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare,
trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala.
Perciò il filo soro collo schivare le parole barbare, rance, oscure e
disarmoniche toglierà ogni ruvidezza al suo discorso, e gli darà grazia e
leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore
scelte a maggiore schiari. mento di quanto per le parole ben determi nate fu
espresso; colla brevilà e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure,
quale sa rebbe l'interrogazione, e specialmente coll’ar. monia facile e piana,
e con tutti gli allri modi naturali alla tempérala favella. Questo carallere
filosofico fu si ben divisato da Cicerone, che io stimo convenevole cosa di
recare le sue parole Temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è
composta» di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre
liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente
di astulo. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento
che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso di carattere persuasive o protrettico. Poichè
abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo a fare il medesimo della
mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” segna propriamente far credere
altrui alcuna cosa; dal che manifeslo apparisce essere grande la differenza tra
il “convincimento” e la “persuasion”. Perchè siamo convinti è forza che
conosciamo ogni proposizione che compone un ragionamento fino alla prima
percezione, dalle quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè
siamo “persuasi” basta che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o
l'apparenza o l'autorità (non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a
cagion d' esempio, di essere “persuasi” che il sole si giri intorno la terra,
ed altri che la terra si volga intorno al proprio asse. Gli uni prestano fede
all'apparenza, gli allri al detto degli uomini sapienti. Ma di quello che
credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione. Da questo esempio, e da
infiniti altri, si può vedere che la persuasione non è sempre generata dal
conoscimento di ogni proposizioe che si richieg
gono nella dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a
tenere le menti del più degli uomini, non importa semipre il dimostrare
sollilmente alla maniera del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia
verisimile principio: di comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di
adoperare figure che, perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale,
conformino i pensieri di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli
sia per venire nella nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte
queste cose si vogliono ado perare a modo, che il discorso abbia sempre
apparenza di vera dimostrazione; perciocchè gli uditori di qualsivoglia condizione
sempre domandano a conversatore che sia loro mostra la verità. Converrà quindi
dedurre il discorso, per natural guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni
proposizione ed ogni artificio, nel quale apparisca alcuna ombra di falsità.
Primo ufficio del conversatore si è il provare la sua proposizione nella
divisata maniera. Secondo, il dilellare. Terzo, il commovere; accorgimento si
richiede nelle prove; sobriela degli ornamenti che intendono al diletto;
veemenza nel concitare gli affetli. Con queste arti si perviene a trionfare ed
a governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si
conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di
quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa,
che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una
delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa
(reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte
della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola
nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte
di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra
indicato inodo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva,
de abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione
falsissima; perciocchè non si ſa inganno agli uomini adoperando a bene
quell'arte, che sola si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono
coloro, che pos sono essere falli capaci della verità per via di sollile ed
esatto ragionamento; anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti
falsissimo il vero e piacesse a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare
l'opinione foro, venire ad alcuna utile verità per le strade del verisimile; e
questo non è certo ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei
conversatori si è l ' usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gli
uomini a fuggire il vizio, a seguitare la virtù e la verità; per metter fine
alle conlese, per sedare i tumulli, per sollevare l'autorità della legge contro
il volere di coloro, che il privato bene antepongono a quello della repubblica:
che se alcuni malvagi intellelli abusano di tutte le arli civili, dovremo per
questo sbandirle dal Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente
e la mozzion conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia
fou dai romani inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila
civile ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo
ricreamen to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle
favole, delle imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con
locuzione accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle
menli volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose.
Per lo che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione
conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli
uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina
Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti
a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha
vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se
dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini,
e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e
quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E
primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale
struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che
l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà
generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica
sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato
l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza,
perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto
si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la
mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e
tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti,
ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci
recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione
nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò
affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e
i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni
dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto
delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della
mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione,
e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi
sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci
verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più
frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose,
siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà
corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente
quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso
di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si
perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro
compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma
le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa,
che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad
esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti
i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio
Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo,
sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome
quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola;
sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano
secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli
nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’
palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che
la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E
guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che
assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono
veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione
conversazionale poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno
per fine primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie,
che a certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata
la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro,
i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e
di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e
distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco
molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e
commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del
poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E
quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo
dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi
molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare
a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli
vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e
non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta
si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per
le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra
sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si
vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati
i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna
nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari,
che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere
filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la
matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e
la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da
queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta,
richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in
chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar
parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano
diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle
persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due
maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono
avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre,
le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche
talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il
discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai
perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta
sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e
i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe
materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i
conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti
accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o
protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente
savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana
riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere
convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo
cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter
essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti
artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di
astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare
con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti
è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura
nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso
persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le
persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più
dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel
conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di
questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto,
cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è
perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il
discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona
dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto,
presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par
vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di
vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o
minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si
possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda
degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo
basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere persuasivo procedono.
La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di
quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima
specie e le allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici;
della seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a
persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la
predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati.
Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le
cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il
carattere persuasivo a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose
si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili,
piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del
carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che
a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile
comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un
eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero
accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera
famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura
diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi
che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò,
cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma
ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè
l'animo di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato,
o elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti,
variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che
similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente,
qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi
considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da
proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da
quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente
in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie
di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le
nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi
negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia.
Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga,
insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici
scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il
collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice
alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre
coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre
innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli
di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e
particolari e generali, assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi,
trattazioni, páci congiure, delilli e
virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai
capilani, i gravi consigli e i documenti della politica; di esprimere i
caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle
cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della
maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia,
cioè grave, siccome si addice a chi le gravi cose racconta, certo egli è che
secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello
innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni
più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi
introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da
ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere
storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie, nè
la poetica pompa, che torrebbe fede alla narrazione; perciò é forza che gli
sieno proprie le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale
differisce sola mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e
altra specia del discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in
alcune specie il carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore
altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa
il carallere poetico; imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno,
quanto quelli, in cui la fantasia prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi
al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge orecchio alle finzioni
noe. tiche, quasi come a cose vere, i sapienti le riguardano come simboli della
verità e quasi come leggiadri sogni della filosofia, e in questo loro dolce
ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino l'apparenza delle faticose forme
filoso. fiche. Perciò è palese che il poeta rivolge sem. pre le parole ad
vomini, i quali, sieno di qual sivoglia condizione, amano che la mente loro şia
condotta ad operare senza fatica. Da que. sto si ricava che ogni specie di
carattere poe tico dovrà avere sempre la prerogativa di schivare, come dicemmo
di sopra, le idee che tengono in falica l'intelletto, e rappresentare quelle,
che vestile di forme sensibili, eserci. citano la imaginativa. Non sarà dunque
diviso in ispecie questo genere per rispelto della diversità degl'intel letti,
ma della condizione del poeta o delle persone che introduce a parlare, e delle
varie cose, che ei ſa subbietto del canto. Ma, prima di entrare in questo
proposito, parni che sia da togliere una falsa opinione circa la natura della
poesia. Sono alcuni i quali avvisano che 115 ma il l'essenza di lei consista
nel metro, e fra que sti è il Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della
Poetica d'Aristotele sostiene che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo
con che l'imitazione si fa, ne forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a
coloro che cosi la pensano, qual nome vorrebbono dare all'Eneide tradolla in
favella sciolta dal metro? Le daranno per avventura nome di prosa?
L’espressione “prosa” altro non segna che discorso senza metro, e per ciò
verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è fatto sce. mo di quella
sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio, ma non già di tutte le
altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti a fine di diletto. Dal
che appare manifesto che un altro general nome è bisogno per distinguere i
discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più accomodalo vocabolo che
quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua origine, significa facilore
o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione
o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono
a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in
ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che il verso non è quello
che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si
mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che
a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta disgiungerne le membra,
cioè loglierle il metro, e allora si vede manifestamente che il carattere non
le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie
ma non determina la natura del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi che hanno per fine il dilettare con metro o
senza, si conviene il nome di “poesia”. Ora veniamo alle specie. Talvolta il poeta
rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli Eroi;
talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore,
o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano
dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”,
e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si
possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in
varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo:
cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità
sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore
d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi
degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere
e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di
subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le
umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto
lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà
d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano
secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti
esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al
ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e
dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà
la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia,
e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri
ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi
epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a
parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le
tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste
specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla
condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia,
nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a
par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo
spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così
parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale
favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non
si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie.
Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che
ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or
quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle
forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il
più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene
delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a
gareggiare colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con
sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si
scorge infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi
vidui della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente
belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da'
celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la
bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere.
Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non
mancano nelle regole invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti.
Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben
disposto colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e
gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale
mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera
dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano
maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed
a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene
tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio
ed a nessun altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni
dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno
di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della
perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza.
Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi
copioso, chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di
noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale
di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la
quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi
chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce
dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa
più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in
genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla
nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale,
carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere
oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di
Demostene, di Cicerone, di Ortensio, di Omero, di Virgilio: percioc chè nei
primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno
ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non
gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera,
che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della
fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l'
animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far
si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le
qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo
sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare
civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà
indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello
scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e
pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia
e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e
pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può.
L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di
percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di
ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente
usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si
appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i
sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le
nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie
o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro
gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le
opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza
la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre
fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni
degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire
l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle
qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con
verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per
siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene
di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò
che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia
nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà
di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia
genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e
maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed
all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i
quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le
cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano
quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno
di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza
de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le
cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni
universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si
ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o
rimanere, per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del
precello, è bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e
fatica. Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure
a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore,
l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo
na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da
virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio
che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della
viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo
scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le
cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi
perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che
imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione.
Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e
l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte
dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da
due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e
l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità
diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due
corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno
riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per
la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi
diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli
affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire
diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano
ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull'
orme di Dante, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria di
per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita buccia,
niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori? Rispondo
che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia ramente,
ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore ci
sludieremo di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre la
nostra natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo mi
son un che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo
significando. Che se allrove disse a Virgilio: Tu se' lo mio maestro e lo mio
autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo
onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel
poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal
filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo
stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che
coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri.
Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo notissimo
che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto il mondo, e
che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé quanta ulilità
trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola de' solo il
conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è a sapere
che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar nostro
tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel secolo
XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua latina
e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal Fortunio e
dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente adoperato in
varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo acconciamente
impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da alcun altro
scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e rivolto in
vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene usato, e da
moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo stata la
fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non sia a noi
sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè quello di studiare
agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la lina si stimava
essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli antichi scrittori
del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo studiare i nostri sia
per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita liani, pressoché tutti,
più delle cose forestiere che delle proprie dilettandosi, scrivono sì, che
punto non pare alle loro scritture che sieno stali allevati in Italia?
Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che dicono i politi ci, cioè
che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione, bisogna richiamarle ai loro
principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi all'animo di tutti coloro,
che amano il profitto de' giovani nelle lettere umane; pure sono al cuni cbe,
deridendo coloro che studiano i lesti della lingua, dicono essere sciocchezza
il darsi tanto pensiero delle parole ogni qualvolta si 1centisti, abbia cura
dei concelli; come se il recare alla mente altrui i nostri concelli non dipenda
dalla virtù di ben accoviodate parole. Colali persone, avendo posla loro usanza
o ne' soli domestici negozii o in alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo
studio della lingua, vilipendono ciò che non conoscono, e perciò, non avendo
au. torità, non meritano alcuna risposta. Tutti gli uomini di mente discreta
non si maraviglie ranno, se qui vengono consigliati i giovanetti a studiare
prima nelle opere de’ trecentisti, ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di
forme gentili, e chiarezza e semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed
a riserbare agli anni loro più maturi lo studio dei cinque che scrissero
eloquentemenle di cose gravi e magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non
dobbia. ino noi essere intesi dagli uomini del nostro secolo e cercare di
piacer loro seguendo l'usanza? Perchè dunque vorremo che la gioventù studii
ancora quelle opere, ove si trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor
d'uso, e barbarismi e pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza
e stranezza nel costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere
i soli scrillori del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali
dettate dal Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma
trattarono eloquen temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni
risponderemo che si dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del
volgo; che non si vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino
ma non fra la copia delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma
che per questo non ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro
sopra tutti quel secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti
scrittori, poichè ci teniamo certi che quanto è difficile il rendersi
famigliari e domestiche le maniere native e gentili, altrettanto è facile di
perdere l’abito di peccare contro la grammatica e contro l’uso. La predetta
virtù non si può acquistare se non con lungo esercizio: il diſello si può
togliere assai agevolmente dopo lo studio della grammatica, e dopoche per la filosofia
e per la erudizione ci verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di
ben distinguere la lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza
ban no perduta la grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed
efficaci. Quanto allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per
essere ulilissimo, essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo
adoperarono la lingua, che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e
dagli altri tre centisti, emulando mirabilmente i romani in molli generi di
scrilture: ma teniamo per ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al
candore ed alla semplicità del trecento prima di cercare lo splendore, la ma
gnificenza, la copia e l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché
lulti coloro, che sfor zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla
filosofia sieno ſalli ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella
buccia, una nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere
con verila se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la
tenera età, troveranno assai comodale al bi sogno le parole ed i modi usati
da'trecentisti, la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia
dell'italico sapere, scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo,
in che a'giovani farà mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora
apprenderanno da Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino
sobrietà ed evidenza; dal Caro copia, efficacia e gentilezza; dal Casa
splendore e magnificenza; dal Galileo ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso
i pregi lulli, ond' ė divina la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri
molli, che fecero glorioso il secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di.
sposto se non coloro, cui prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del
trecento, da'quali derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o
Giovani, è quanto ho stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel
cammino delle lettere, alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo
contrario. Vi ho mo strato quali sieno gli elementi della Elocuzio ne; come nel
contemperarli secondo le leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e
final. mente come lo stile proceda da naturale di sposizione e come col sapere
si perfezioni. Darò fine coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio
fanno l'arte, è vero altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo
stile cercate onore, vi sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di
scrivere mollissimo. Wikipedia Ricerca Sinestesia (figura retorica)
Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento
retorica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni
di Wikipedia. La sinestesia (dal greco syn, 'insieme', e aisthánomai,
'percepisco') è una figura retorica, in particolare un tipo di metafora
("metafora sinestetica"), che prevede l'accostamento di 2 parole
appartenenti a due sfere sensoriali diverse.[1] Ha largo uso in poesia ed
in genere nella versificazione: «L'odorino amaro» (Giovanni
Pascoli, Novembre.) «Voci di tenebra azzurra.» (Giovanni Pascoli, La mia
sera.) «Venivano soffi di lampi.» (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo
nero» (Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si
può citare Il sogno di Maria di Fabrizio De André: «Quando mi chiese:
"Conosci l'estate?" io per un giorno per un momento, corsi a vedere
il colore del vento.» È usata anche nella lingua di tutti i giorni
("colori caldi", "giallo squillante" ecc.) e quindi anche
in prosa. NoteModifica ^ Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di
stilistica, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984 [1978] , p.
299, ISBN 88-04-14664-8. Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario
Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sinestesia» Portale
Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Linguistica Ultima
modifica 2 mesi fa di Nima Tayebian, Enfasi Sinestesia pagina di
disambiguazione di un progetto Wikimedia Analogia (retorica) Figura
retorica Wikipedia Il contenutoWikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia)
fenomeno sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni
riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I
contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico:
leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che
indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il
fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni
provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze,
automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o
cognitivo.[2] Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una
persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle
situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è
percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella sua
forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i
nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto
distaccata dagli altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di
sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono)
provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista).
Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta
automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è
involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con
maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e
sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni
sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier
Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di poter
sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo spiega
bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il pittore
e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore russo
Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli effetti
psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori
contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto
con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per
l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita
ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente,
autismo. Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica:
ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo
quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche
della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo
Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]
Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale,
mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD,
esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di
malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è
detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono
quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono
scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.
L'esperienza sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore
(inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un
sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un
colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un
concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di
lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della sinestesiaModifica
Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è possibile identificare
singoli loci genici che determinino con certezza questo fenomeno
neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. [6] Sinestesia: grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro.[7] Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza
magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del
colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro
fusiforme. L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro
fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si
attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla presentazione
di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una attivazione
congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei grafemi, che
fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche senza la presenza
di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree,
non presente in tutte le persone. Le connessioni che si hanno alla
nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un cervello
adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito
pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di
Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che
normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei
sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il
processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza
permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area
del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un
certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme
non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile
essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree
superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta
alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non
sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale
fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici,
alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più
"utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo
spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di
esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta
esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro
effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato
quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano
create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe;
piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade"
neurali solitamente "disattive". Influenza dell'attenzione
sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della
figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di
fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece dovevano
dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde. Questo
esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del
fenomeno sinestesico. Sinestesici projectorModifica Nel caso di
grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il numero
completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare
un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello
del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli
evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.
Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore
appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator
riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente
con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La
percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più
intensa del fotismo, per un sinestesico associator. I sinestesici projector
sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra
quelli intervistati da Dixon e collaboratori). Tra i maggiori studiosi
della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean
Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina. Rapporto con i canali del
calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto
nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello
della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni
quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere
analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del
calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio
di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità
elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi
antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene
controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila
sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3
partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza
di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non
prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano
piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione,
l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo
doloroso sia di natura tattile.[8] NoteModifica ^ a b Emozioni colorate |
Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford:
Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing,
2015. http://www.lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in
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Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci,
Roma, 2008. ISBN 978-88-430-4698-0 Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le
origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi.
Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci
correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri
progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario
«sinestesia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini
o altri file su sinestesia Collegamenti esterniModifica Udire i colori, gustare
le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. URL consultato il 20
maggio 2015. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia. Qualia
aspetti qualitativi delle esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia
tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia
IlWikipedia Ricerca Sinestesia (film) film del 2010 diretto da Erik Bernasconi
Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento film
drammatici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni
di Wikipedia. Sinestesia Lingua originaleitaliano Paese di produzione Svizzera
Anno2010 Durata91 min Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik Bernasconi
SceneggiaturaErik Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm Lugano e RSI
FotografiaPietro Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti specialiFlavio
Scarponi, Oltremondo studio Lugano MusicheZeno Gabaglio, Christian Gilardi
ScenografiaFabrizio Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e personaggi Alessio
Boni: Alan Giorgia Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela Leonardo Nigro:
Igor Teco Celio: Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide Roberta Fossile:
Cathrine Igor Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva Allenbach:
Segretaria Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi: Fisioterapista
Alessandro Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un film del 2010 scritto
e diretto da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e coprodotto da Giulia
Fretta per la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni, Melanie Winiger, Giorgia
Würth e Leonardo Nigro. È stato nominato ai Quartz 2010 per la miglior
sceneggiatura, per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior
attrice esordiente (Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi
il 26 marzo 2010. TramaModifica Il film racconta due momenti della vita
di quattro giovani adulti confrontati con le prove del destino. Alan, sua
moglie Françoise, la sua amante Michela, il suo migliore amico Igor, vivono le
sfaccettature del quotidiano dopo un incidente che costringe Alan su una sedia
a rotelle. Per questo la narrazione si compone, con una struttura circolare, in
quattro capitoli: uno per personaggio, ognuno ispirato a un genere
cinematografico. Sono quattro momenti di una stessa storia, che esplorano le
emozioni dei personaggi da quattro angolature diverse. La trama si basa in
larga parte sull'osservazione di fatti realmente accaduti e affronta con
accenti diversi (thriller psicologico, commedia, dramma…) i temi dell'amicizia,
dell'amore, dell'infedeltà e della disabilità. ProduzioneModifica L'idea
del film è partita nel dicembre 2006, con la lettura di un trafiletto in un
quotidiano. Poi nell'estate del 2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi
ha vinto un concorso indetto dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino
e dalla RSI per progetti di scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a
collaborare con il produttore Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la
stesura della sceneggiatura. AmbientazioneModifica Il film è stato girato
quasi interamente nella Svizzera italiana, a parte alcune scene girate a
Lucerna e Ginevra. Le riprese hanno avuto luogo nella primavera e nell'estate
del 2009. RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero
Candidatura al premio Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti
esterniModifica ( EN ) Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com.
Modifica su Wikidata ( EN ) Sinestesia, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc.
Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata Portale
Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di televisione Ultima
modifica 2 mesi fa di Botcrux Melanie Winiger modella e attrice svizzera
Erik Bernasconi regista e sceneggiatore svizzero Zeno Gabaglio Wikipedia
Il contenuto èGrice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to
cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist
(or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of
conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that
inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della
communicazione – senso – consenso – aesthesis – synaesthesia --– idea dei chi
proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”,
cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il
colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Costantino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Costantino I. Costantino I Cesare e poi Augusto dell'Impero
romano Testa dell'acrolito monumentale di Costantino (Musei Capitolini) Nome
originale: Flavius Valerius Constantinus Regno Cognomina ex virtute: Pius Felix
Invictus Maximus Victor Triumphator Germanicus maximus IV Sarmaticus maximus
III Gothicus maximus II Dacicus maximus Adiabenicus Arabicus maximus Armeniacus
maximus Britannicus maximus Medicus maximus (ante 315[9][10]) Persicus maximus
(nel 312/313,[12] ante 315[9]) Nascita 27 febbraio 274[13] Naissus Morte 22
maggio 337 Nicomedia[14] Sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli
Predecessore Costanzo Cloro (per parte dei territori di competenza
amministrati) e Flavio Severo (per la carica di Cesare d'Occidente) Successore Costantino
II (cesare dal 317) Costanzo II (cesare dal 324) Costante I (cesare dal 333)
Dalmazio (cesare dal 335) Coniuge Minervina Fausta Figli Crispo Costantina
Costantino II Costanzo II Costante I Elena Dinastia Costantiniana Padre
Costanzo Cloro Madre Elena Flavio Valerio Constantino (Constantino I) Moneta di
Costantino (327 circa) con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra
il labaro imperiale Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22 maggio
337 Cause della morte naturali Luogo di sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a
Costantinopoli Religione cristianesimo convertito dal paganesimo Dati militari
Paese servitor Impero romano Forza armata Esercito romano Grado Augusto
Comandanti Costanzo Cloro e Massimiano Guerre Guerra civile romana (306-324)
Campagne germanico-sarmatiche di Costantino Invasioni barbariche del IV secolo
Campagne siriano-mesopotamiche di Sapore II Battaglie Battaglia di Verona
Battaglia di Torino Battaglia di Ponte Milvio Battaglia di Cibalae Battaglia di
Mardia Battaglia dell'Ellesponto Assedio di Bisanzio (324) Battaglia di
Adrianopoli Battaglia di Crisopoli Nemici storici Massenzio e Licinio
Comandante di Esercito romano voci di militari presenti su Wikipedia Manuale
San Costantino I Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia
a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli
Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la
basilica. Imperatore Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22
maggio 337 Venerato da Chiesa cristiana ortodossa Santuario principale Chiesa
dei Santi Apostoli Ricorrenza 21 maggio Manuale V · D · M Battaglie di
Costantino I nella guerra civile. Flavio Valerio Aurelio Costantino, conosciuto
anche come Costantino il Vincitore, Costantino il Grande e Costantino I (in
latino: Flavius Valerius Aurelius Constantinus; in greco antico: Κωνσταντῖνος ὁ
Μέγας?, Konstantînos o Mégas; Naissus, Nicomedia), è un filosofo italiano. Costantino
è una delle figure più importanti dell'impero romano, che riformò largamente e
nel quale permise e favorì la diffusione del cristianesimo. Tra i suoi
interventi più significativi, la riorganizzazione dell'amministrazione e
dell'esercito, la creazione di una nuova capitale a oriente, Costantinopoli, e
la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà religiosa. La Chiesa
ortodossa e le Chiese di rito orientale lo venerano come santo, presente nel
loro calendario liturgico, col titolo di Eguale agli apostoli; mentre il suo
nome non è presente nel Martirologio Romano, il catalogo ufficiale dei santi
riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Le fonti primarie sulla vita di Costantino
e sulle relative vicende da imperatore devono essere prese con la dovuta
cautela. La principale fonte contemporanea è costituita da Eusebio di Cesarea,
autore di una Storia Ecclesiastica che non manca di esaltare la gloria e la
nobiltà di Costantino in quanto imperatore, a cui fece seguito una Vita di
Costantino che ne costituisce una vera e propria agiografia. Anche Lattanzio,
nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo netto la distinzione fra il
pio Costantino e il perverso Diocleziano (Salona). Distinzione forse non del
tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in Nordafrica da famiglia
pagana e convertitosi al cristianesimo, dovette fuggire precipitosamente da
Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba dell'ultima persecuzione
contro i Cristiani. La stessa cautela deve valere per la Storia Nuova di Zosimo.
Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi sullo scisma donatista
racchiude alcune lettere che Costantino avrebbe inviato ai cristiani del
Nordafrica e che, se autentiche, potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero
dell'imperatore riguardo alla questione. Albero genealogico della
dinastia costantiniana che ha in Costanzo Cloro il vero capostipite. Costantino
nacque a Naissus (odierna Niš, in Serbia), un modesto centro situato nella
provincia romana della Mesia Superiore, figlio di Costanzo Cloro, militare e
politico romano di origini illiriche e nativo della Dardania. Costantino e di
madrelingua latina e, ha sempre difficoltà nel padroneggiare il greco, tanto da
doversi avvalere d'interpreti con locutori ellenofoni. Si conosce pochissimo
della sua gioventù. Perfino la sua data di nascita è incerta. Forse è proprio
durante l'adolescenza che gli fu affibbiato il soprannome dispregiativo “Trachala,”
da interpretare nel senso di "viscido come una lumaca". Nominato
Prefetto del pretorio delle Gallie (cioè comandante militare) e in base al
sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, nominato Cesare dall'Augusto di
Occidente, Massimiano, di cui sposa la figliastra Teodora. Costantino e
affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano, ed educato a Nicomedia presso la
corte dell'imperatore, sotto il quale comincia la carriera militare: fu
tribunus ordinis primi e con questo grado fu al seguito dello stesso
Diocleziano nel suo viaggio in Egitto. Successivamente partecipò attivamente
alla campagna contro i Sasanidi condotta da Galerio per poi tornare a servizio
di Diocleziano con il quale lascia definitivamente l'Egitto attraversando la
Palestina. Combatté ancora tra le file dell'esercito di Galerio sul confine
danubiano, ove si distinse nelle guerre contro i Sarmati. Diocleziano abdicò a
favore del proprio Cesare Galerio e lo stesso fa Massimiano in Occidente, a
favore di Costanzo Cloro. Galerio nomina proprio Cesare il nipote Massimino
Daia e impone a Costanzo, con il sostegno di Diocleziano, come nuovo Cesare
Flavio Severo, un ufficiale di alto rango che aveva militato tra le file dello
stesso Galerio.E in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in
Britannia (alcune fonti vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e
propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per garantirsi
la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse con lui alcune campagne militari
nell'isola.Circa un anno dopo, Costanzo Cloro morì nei pressi di Eburacum,
l'odierna York. Qui l'esercito, guidato dal generale germanico Croco (di
origine alamanna), proclama Costantino nuovo Augusto d'Occidente, mettendo a
repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per
porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria
iniziativa gli imperatori. Per tale ragione Galerio, che al tempo era l'unico
Augusto legittimo rimasto in carica, e inizialmente scettico nel riconoscere
l'investitura di Costantino, tuttavia alla fine si convinse a cooptarlo nel
collegio imperiale ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo
Augusto d'Occidente Flavio Severo. Costantino da parte sua accettò la decisione
di Galerio e, per dimostrare come riconoscesse l'autorità di Severo quale nuovo
superiore in grado, cede a quest'ultimo il controllo della diocesi Iberica,
mentre a lui sarebbe rimasto il governo delle Gallie e della Britannia. La
sofferta nomina di Costantino a Cesare, per quanto gestita e riassorbita nei
quadri della tetrarchia, aveva mostrato la debolezza del sistema di successione
per cooptazione creato da Diocleziano. Infatti Massenzio, figlio dell'Augusto
emerito Massimiano, scontento di essere stato tagliato fuori da qualsiasi
posizione di potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei
pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana.[38] Galerio per
l'occasione decise di agire senza indugi e con durezza, ordinando a Severo, che
risiedeva a Milano, di marciare verso Roma per sedare la rivolta ma, giunto in
prossimità della città, le truppe al suo comando disertarono poiché venute a
conoscenza che Massimiano, per il quale avevano militato prima della sua
abdicazione, si era schierato a sostegno del figlio. Severo, fatto prigioniero,
fu poi ucciso.Galerio allora tenta di organizzare in prima persona una
spedizione in Italia, ma non ottenne alcun risultato e fu costretto a ritirarsi
nell'Illirico. Durante questi eventi, Costantino e impegnato sul confine renano
a combattere con successo i Franchi e si era mantenuto neutrale nella disputa
tra Galerio e Massenzio. Massimiano cerca dunque di farselo alleato e, per
attirarlo alla sua causa, lo raggiunse a Treviri, offrendogli in sposa la
figlia Fausta e il titolo di Augusto. Costantino accettò l'offerta di alleanza
e, dopo essere convolato a nozze, si fa proclamare Augusto sul finire
dell'anno. Tornato a Roma, Massimiano entra in urto con Massenzio, al potere
del quale non voleva più essere subordinato e, costretto a fuggire dalla città
poiché le truppe erano rimaste leali al figlio, fu riaccolto alla corte di
Costantino in Gallia. Galerio, nel tentativo di porre rimedio alla crisi
istituzionale creatasi, convoca a Carnuntum un convegno al quale presero parte,
oltre a lui, anche Massimiano e, soprattutto, Diocleziano. In questa
circostanza e creato Augusto Liciniano Licinio, un commilitone di Galerio,
mentre Costantino fu degradato nuovamente a Cesare e Massimiano dovette
deporre, questa volta definitivamente, le vesti imperiali per una seconda
volta. Contestualmente Massenzio fu dichiarato hostis publicus («nemico
pubblico»).[47] Tornato deprivato di ogni potere, Massimiano inizia a
tramare contro Costantino. Approfittando dell'assenza del genero, impegnato a
sedare una sollevazione dei Franchi, il vecchio Erculio si proclamò per la
terza volta imperatore e, assunto il comando della truppe stanziate a
Marsiglia, si arroccò nella città.[49] Costantino, tornato in fretta dal
confine renano, la pose d'assedio ma, ancor prima che iniziassero le ostilità,
i soldati all'interno della città si arresero e consegnarono Massimiano, a cui
fu però risparmiata la vita.[50] Agli inizi del 310, dopo un ennesimo complotto
ordito da Massimiano e sventato questa volta dalla figlia Fausta, Costantino
ordinò la messa a morte del suocero[51] e successivamente, attorno alla metà
dell'anno, decise di riappropriarsi del titolo di Augusto che gli era stato
tolto a Carnuntum, ottenendo stavolta il consenso di Galerio. Alla morte di
Galerio nel 311, Costantino si alleò con Licinio, mentre Massenzio con
Massimino Daia. Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio,
riunito un grande esercito formato anche da barbari catturati in guerra, oltre
a Germani, popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta
dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90 000 fanti e 8 000 cavalieri.[53]
Lungo la strada, Costantino lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le
porte, mentre assediò e distrusse quante si opposero alla sua avanzata. Egli,
dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona,
lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio,[54] presso i Saxa
Rubra sulla via Flaminia, alle porte di Roma, il 28 ottobre del 312. Con la
morte di Massenzio, tutta l'Italia passò sotto il controllo di
Costantino.[55] Durante questa campagna sarebbe avvenuta la celebre e leggendaria
apparizione della croce sovrastata dalla scritta In hoc signo vinces che
avrebbe avvicinato Costantino al cristianesimo. Secondo Eusebio di Cesarea
questa apparizione avrebbe avuto luogo proprio nei pressi di Torino.[56]
Nel 318 circa ebbe dalla moglie Fausta Costantina. Augusto d'Occidente
(313-324) Schema della battaglia avvenuta presso Adrianopoli nel 324,
dove Costantino, seppure in inferiorità numerica, prevalse su Licinio, il quale
lasciò sul campo secondo Zosimo ben 34.000 armati. Massimino Daia veniva
sconfitto da Licinio e si dava la morte. Entrando in Nicomedia Licinio emanò un
rescritto (impropriamente detto editto di Milano dal luogo dove era stato
concordato con Costantino), con cui a nome di entrambi gli augusti rimasti
veniva riconosciuta anche in Oriente la libertà di culto per tutte le
religioni, ponendo fine ufficialmente alle persecuzioni contro i cristiani,
l'ultima delle quali, cominciata da Diocleziano tra il 303 e il 304, si era
conclusa nel 311 su ordine di Galerio, prossimo a morire. Il testo del
decreto recita: (LA) «Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus
quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa
quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus,
haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis
ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut
daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam
quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti,
nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac
propitium possit existere» (IT) «Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio
Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti
gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni
che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo
posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai galilei
e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede,
affinché il divino, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia
pace e prosperità. -- Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo
XLVIII) Nella prosecuzione il rescritto ordina l'immediata restituzione
ai galilei di tutti i luoghi di culto e di ogni altra proprietà delle
chiese. Costantino e Licinio, che ne aveva sposato la sorella Costanza,
entrarono una prima volta in conflitto
(in seguito alla riappacificazione l'Illirico passò a Costantino). In
seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese dopo le battaglie di
Adrianopoli e di Crisopoli e venne successivamente ucciso, Costantino rimase
l'unico augusto al potere. Questo periodo cominciò con una serie di uccisioni,
a partire da quella del suo antico rivale Licinio. L'anno seguente Costantino fa
uccidere a Pola il figlio primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una
presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella
Costanza e di Licinio. Quindi anche la moglie Fausta venne uccisa soffocata o
annegata nel bagno termale, riscaldato oltre la temperatura normale. La
leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta
di averla insidiata, e quindi anche lei venne giustiziata quando Costantino
riconosce l'innocenza del figlio. Forse erano entrambi vittime di falsi
delatori o lei volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli
come successori di Costantino. Il rimorso di Costantino e grande, secondo
quanto riporta ne “I Cesari” il suo polemico successore, il principe Giuliano. Si
erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nuova Roma sul
sito dell'antica Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici pubblici simili
a quelli di Roma. Il luogo venne scelto come capitale nper le sue
eccezionali qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini
orientali e ai danubiani. Inoltre, particolare non secondario, consentiva a
Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante e irritante degl’aristocratici
presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano della religione dell’antica
Roma. Nova Roma e inaugurata e prese presto il nome di “Costantinopoli”. Rispetto
alla vecchia città, la nuova era quattro volte più vasta: dove c'era un'antica
porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più a
occidente di 15 stadi. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453
capitale dell'Impero romano d’oriente. Diocesi (impero romano) e
Prefettura del pretorio. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica
dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato
e suddiviso in quattro prefetture, tutte facenti capo a un unico Imperatore: delle
Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia; d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia,
Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis; d'Oriente,
comprendente tutte le province orientali con l'eccezione delle isole di Lemno,
Imbro e Samotracia, l'Egitto e la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la
Mesia inferiore; d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire
dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria,
a Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria. All'interno
di queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico,
da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata a un
prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi e i governatori
delle province. I prefetti furono, quindi, privati in parte del potere
militare,[65] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[66] e
diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero.
Essi svolgevano le seguenti funzioni:[67] la suprema amministrazione
della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari[68]).
l'applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali. controllo
dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione
venivano destituiti e/o puniti. Inoltre il tribunale del prefetto poteva
giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era
considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi
della sentenza del prefetto. Costantino poi controbilanciava l'importanza e la
potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni
prefettura, divisa in tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un
Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici
da altrettanti Vicari o sottoprefetti, i quali sottostavano all'autorità del
prefetto del pretorio.[69] Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in
province. L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli
affari della corte, affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello
Stato, affidati a tre alti funzionari: costoro, insieme con i prefetti urbani
componevano il Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio
del principe" o "Sacro collegio"). I quattro dignitari che
regolavano le attività della corte erano: il comes rerum privatarum
("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il
patrimonio privato dell'imperatore[70], il praepositus sacri cubiculi
("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che
si occupava della vita della corte imperiale e da cui dipendevano cortigiani e
schiavi, due comites domesticorum ("ministro dei domestici"),
responsabili l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e
l'altro del personale a cavallo e della guardia imperiale. I tre alti
funzionari a cui competeva l'amministrazione dello Stato erano: il
magister officiorum ("maestro degli uffici"), un cancellerie che si
occupava dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne, il quaestor
sacri palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in
materia di leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del
principe", il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre
elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali. La
politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata
aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di Storia
del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 e il
1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al
tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando
cariche sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.),
tali da creare un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i
pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze
di argento e d'oro; la capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando
importanti opere di Fidia e altri scultori della Grecia classica) accentuò
l'emarginazione del Senato romano; la tassazione esorbitante finì per spopolare
anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò,
inoltre, la disgregazione dell'esercito romano, sia con la nomina di barbari al
massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che
salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni. Complessivamente, per
Gibbon, neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di
Costantino. Politica estera e frontiere Lo stesso argomento in
dettaglio: Campagne germanico-sarmatiche di Costantino, Limes romano, Diga del
Diavolo e Brazda lui Novac (limes). Le frontiere romane settentrionali e
orientali al tempo di Costantino, con i territori acquisiti nel corso del
trentennio di campagne militari (dal 306 al 337). La mappa qui sopra
rappresenta anche il mondo romano poco dopo la morte di Costantino (337), con i
territori "spartiti" tra i suoi tre figli (Costante I, Costantino II
e Costanzo II) e i due nipoti (Dalmazio e Annibaliano) Già ai tempi in cui era
stato Cesare in Occidente, attorno agli anni 306-310,[71] Costantino ottenne
grandi successi militari su Alemanni e Franchi, di cui si dice riuscì a
catturare i loro re, dati in pasto alle belve durante i giochi
gladiatorii.[72] Divenuto unico augusto in Occidente nel 313 respinse una
nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con Licinio, al
termine della quale i due augusti trovarono un nuovo equilibrio strategico nel
317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il Danubio. Egli,
infatti, batté sia i Sarmati Iazigi nel 322[5][73] sia i Goti nel
323.[73] Dopo il 316/317, avendo ottenuto da Licinio anche l'Illirico,
Costantino non solo respinse numerose incursioni di Sarmati Iazigi e Goti (tra
gli anni 322[73] e 332), ma potrebbe aver dato inizio alla costruzione di due
nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del
Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum collegavano il
fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mureș, percorrere
il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium;[74] il secondo nella
Romania meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del
basso corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin
quasi al fiume Siret.[74] Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli
la difesa dell'Occidente contro Franchi e Alamanni (contro i quali ottenne
nuovi successi nel 328[75] e il titolo di Alamannicus maximus, insieme con
Costantino II[6]) mentre lui stesso combatteva sul confine danubiano i Goti
(332[7]) e i Sarmati (335[7][8]). Divise l'impero tra i figli assegnando a
Costantino II Gallia, Spagna e Britannia, a Costanzo II le province asiatiche,
l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia, l'Illirico e le province
africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad affrontare in Oriente i
Persiani. Costantino nei suoi oltre trent'anni di regno aveva aspirato a
riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti all'Impero di
Traiano,[76] ma soprattutto a diventare il protettore di tutti i Cristiani
anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte delle
popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere clausole
religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei Sarmati e dei
Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia e ai Persiani se non
fosse morto nel 337.[77] Esercito Lo stesso argomento in dettaglio:
Riforma costantiniana dell'esercito romano. Mappa della ex-Dacia romana
con il suo complesso sistema di fortificazioni e difesa. In grigio la
cosiddetta diga del Diavolo e a destra (in verde) il Brazda lui Novac, di epoca
costantiniana. Le prime vere modifiche apportate da Costantino nella nuova
organizzazione dell'esercito romano, furono effettuate subito dopo la
vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio nel 312. Egli
infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana e il reparto di cavalleria
degli equites singulares e fece smantellare l'accampamento del Viminale.[78] Il
posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova formazione delle schole
palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio ormai legate alla persona
dell'imperatore e destinate a seguirlo nei suoi spostamenti, e non più alla
Capitale.[79] Una nuova serie di riforme furono poi portate a termine una
volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta definitiva di Licinio
nel 324.[79] La guida dell'esercito fu sottratta ai prefetti del pretorio, e
ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) e il magister equitum
(per la cavalleria).[65] I due titoli potevano tuttavia essere riuniti in una
sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della carica si trasformava
magister peditum et equitum o magister utriusque militiae[80] (carica istituita
verso la fine del regno, con due funzionari praesentalis[81]). I gradi più
bassi della nuova gerarchia militare prevedevano, oltre ai soliti centurioni e
tribuni, anche i cosiddetti duces,[65] i quali avevano il comando territoriale
di specifici tratti di frontiera provinciale, a cui erano affidate truppe di
limitanei. Costantino, inoltre, sempre secondo Zosimo, rimosse dalle frontiere
la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città (si tratta della
creazione dei cosiddetti comitatensi):[82] «[...] città che non avevano
bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari [lungo
le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla
soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che
i soldati rammollissero, frequentando i teatri, e abbandonandosi alla vita
dissoluta.» (Zosimo, Storia nuova, II, 34.2.) Nell'evoluzione
successiva il generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di
ministro della guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum
praesentalis e del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il
comando effettivo sul campo. Costantino introdusse una riforma monetaria,
necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi,
introdotto il solidus d'oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè
più leggero (anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva
1/60 di libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di Augusto coniando
la siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un
valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per
quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne
sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di
siliqua. Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido
introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche
durante l'impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono
catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro,
infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di una
svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che
non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura
tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri[83]. Morte
e successione Albero genealogico della dinastia costantiniana: i
discendenti di Costantino. Costantino morì il 22 maggio 337 non molto lontano
da Nicomedia (in località Achyrona),[14] mentre preparava una campagna militare
contro i Sasanidi. La sua salma fu portata a Costantinopoli e sepolta in un
sarcofago nella Chiesa dei Santi Apostoli[84]. Costantino preferì non
nominare un unico erede, ma dividere il potere tra i suoi tre figli cesari
Costante I, Costantino II e Costanzo II e due nipoti Dalmazio e
Annibaliano.[85] Costanzo, che era impegnato in Mesopotamia settentrionale a
supervisionare la costruzione delle fortificazioni frontaliere,[86] si affrettò
a tornare a Costantinopoli, dove organizzò e presenziò alle cerimonie funebri
del padre: con questo gesto rafforzò i suoi diritti come successore e ottenne
il sostegno dell'esercito, componente fondamentale della politica di
Costantino.[87] Durante l'estate del 337 si ebbe un eccidio, per mano
dell'esercito, dei membri maschili della dinastia costantiniana e di altri
esponenti di grande rilievo dello stato: solo i tre figli di Costantino e due
suoi nipoti bambini (Gallo e Giuliano, figli del fratellastro Giulio Costanzo)
furono risparmiati.[88] Le motivazioni dietro questa strage non sono chiare:
secondo Eutropio Costanzo non fu tra i suoi promotori ma non tentò certo di
opporvisi e condonò gli assassini;[89] Zosimo invece afferma che Costanzo fu
l'organizzatore dell'eccidio.[90] Nel settembre dello stesso anno i tre cesari
rimasti (Dalmazio e Annibaliano furono vittime della purga) si riunirono a
Sirmio in Pannonia, dove il 9 settembre furono acclamati imperatori
dall'esercito e si spartirono l'Impero: Costanzo si vide riconosciuta la
sovranità sull'Oriente, Costante sull'Illirico e Costantino II sulla parte più
occidentale (Gallie, Hispania e Britannia). La divisione del potere tra i tre
fratelli durò poco: Costantino II morì nel 340, mentre cercava di rovesciare
Costante, e Costanzo guadagnò i Balcani; nel 350 Costante fu rovesciato
dall'usurpatore Magnenzio, e Costanzo divenne unico imperatore. Icona
ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e la "vera
croce". Il comportamento costantiniano in tema di culto uffiziale ha dato
spazio a molte controversie fra i filosofi -- controversie particolarmente
aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico,
ma le sue convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale,
secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della
battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita la sua costante adesione
al CULTO SOLARE, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di
morte. Secondo altri filosofi, poi, il culto uffiziale e per Costantino un
puro e semplice instrumentum regni. Burckhardt afferma: «Nel caso di un uomo
geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di
tregua, non si può parlare del sacro consapevole -- un uomo simile è
essenzialmente a-religioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte
integrante di una comunità religiosa. Secondo altri filosofi ancora, poi,
occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato
dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe e dei propri
sudditi, qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista
è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello
successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale consegue il dominio
assoluto sull'impero. Dopo questo, si trova comunque d'accordo molti
studiosi di quell'epoca. Tra costoro, Veyne sostiene con sicurezza
l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con Bury, che la sua
rivoluzione e forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio
alla grande maggioranza dei suoi sudditi. E ciò in considerazione del fatto che
la popolazione che segue il culto dei galilei e circa il 8% del totale nel
principato di Costantino.Veyne ha inoltre proposto un'interessante teoria per
tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che
potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente
improvvisa. Veyne ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su
un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute
precedentemente. È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella
ricerca dell'unità e concordia del culto, la cui necessità deriva da un preciso
disegno politico che considera l'unità del mondo condizione indispensabile alla
stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpreta in questo
senso l'antico tema, caro alla Roma sul principato della “pax deorum”, nel
senso che la forza del principato non deriva semplicemente dalle azioni di un
principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben
strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza del
divino. Mentre però, nella religione della Roma antica, vi era un rapporto DIRETTO
tra il potere del principe e il divino, il principe non puo ignorare istituzioni
che, tramite i suoi vescovi, adita la fonte divina del potere. Costantino non puo
fare a meno di essere co-involto nelle lotte teologiche. Su una tale base
ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia comporta quindi anche
interventi molto duri nei confronti di coloro che il principe considera
eretici, che sono trattati duramente, dei pagani. I conflitti teologici si
trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti
interne del principato sono sempre più dipendenti dai risultati delle lotte
teologiche. Gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente
l'intervento del principe per la corretta applicazione delle decisioni dei
concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di
controversie teologiche. Ogni successo di una fazione comportava la deposizione
e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta
politica. La religione della Roma Antica si era fortemente trasformata: sulla
spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine
orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche hanno sempre più
perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si
era andato diffondendo un sincretismo venato di mono-teismo (il colto solare di
un divino unico, il re sole identificato con Giove -- e si tendeva a vedere
nelle immagini degli dei tradizionali – altri che Giove -- l'espressione di un
unico essere divino: Giove. Una forma politica a questa aspirazione
sincretistica e data dall'imperatore Aureliano con l'istituzione del culto
ufficiale del Sole Invitto con elementi del mitraismo e di altri culti solari
di origine orientale. Il culto e diffuso nell'esercito, soprattutto
nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di
Costantino, né Costantino stesso. Costantino e certamente il primo a
comprendere l'importanza della religione per rafforzare la coesione culturale e
politica dell'impero romano. Fa vietare il concubinato dei mariti, mentre
fu reso più difficile il ripudio, antenato del divorzio. La domenica e elevata
a giorno festivo pubblico. Lo Stato inizia a finanziare il clero pubblico e la
costruzione di nuove edificii o fu l'imperatore a farle erigere personalmente,
ad esempio a Roma (Antica basilica di Pietro nel monte Vaticano), ma
especialmente fuora di Roma: a Betlemme
(Basilica della Natività), Gerusalemme (Basilica del Santo Sepolcro) e
Costantinopoli (Chiesa dei Santi Apostoli). In un decreto concesse che su
richiesta di una sola delle parti contendenti, le cause civili potessero essere
giudicate innanzi ai vescovi. Fu concesso agli ecclesiastici l'esonero dagli
oneri municipali. Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol
Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto
compagno" Moneta di Costantino con la rappresentazione del
monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Le monete coniate da Costantino
forniscono indirettamente notizie sull'atteggiamento pubblico di Costantino
verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di principe, alcune
emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al
Genio del Popolo Romano» ("Gen Pop Romani"), provenienti specialmente
dalla zecca di Londinium (Londra). Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di
Ponte Milvio le zecche orientali (Alessandria, Antiochia, Cyzicus, Nicomedia,
ecc.) continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore» (Iovi
conservatori). Nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali (Arles,
Londra, Lione, Augusta Treverorum, Pavia, ecc) continuarono a coniare monete
dedicate «al Sole invitto compagno» e, nel caso della zecca di Pavia, anche «a
Marte salvatore» (Marti Conservatori) e «a Marte Protettore della Patria»
(Marti Patri Conservatori). L'attributo «compagno» riferito al Sole, che
manca in monete analoghe di precedenti imperatori, è singolare e occorre
chiedersene il significato. Normalmente viene interpretato come «al compagno
(di Costantino), il Sole Invitto»; indicherebbe quindi una indiretta
deificazione dell'imperatore stesso. Il vero significato, però, potrebbe anche
essere completamente diverso. Nell'età imperiale, infatti, la parola latina
comes, oltre che «compagno» indicava un funzionario imperiale e perciò da essa
è derivato il titolo nobiliare «conte». Alle orecchie dei galilei, quindi,
questa strana legenda poteva ricordare che il sole non era un dio, ma una
potenza subordinata alla divinità suprema. A sua volta l'imperatore si presenta
come l'autorità suprema in terra allo stesso modo come il sole lo era in cielo;
autorità, però, entrambe subordinate. Questa interpretazione è confermata
dall'emissione (durante la prima guerra
civile contro Licinio), la cui legenda recita: SOLI INVIC COM DN (soli invicto
comiti domini), che potrebbe essere tradotto come «al sole invitto compagno del
signore», ma che sembra più logico tradurre «al sole invitto, ministro del
Signore». La maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente
passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la
legenda «Liete vittorie al principe perpetuo» (Victoriae laetae prin. perp.).Da
quell'anno dalle monete bronzee di Costantino iniziano a sparire gli dei
tradizionali, come Elio, Marte, Giove, sostituiti dall'immagine solitaria
dell'imperatore, che volge gli occhi verso l'alto, ad un divino generico, che
può essere interpretata come Giove. La monetazione aurea invece mantiene ancora
a lungo gli dei tradizionali, forse perché rivolta ai patrizi e a persone di
rango elevato, ancora legate alla religione tradizionale Le monete con
simboli dei galilei o supposti tali sono rare e costituiscono solo circa l'1%
delle tipologie conosciute. La zecca di Pavia (Ticinum) conia nel 315 un
medaglione d'argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l'elmo
piumato dell'imperatore. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia
con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente,
simbolo appunto di Licinio,[99] e simultaneamente scompaiono del tutto dalle
monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata, altro simbolo
apollineo e solare. Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di
derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo
sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il
contatto privilegiato tra l'imperatore e la divinità. L'ambiguitas
constantiniana Quanto sopra osservato a proposito delle monete di Costantino,
cioè la volontà imperiale di presentarsi come un prediletto dal cielo, senza,
però, mettere in chiaro quale fosse la divinità, può essere rilevato in molti
altri aspetti dell'impero di Costantino. Il ruolo determinante giocato da
Costantino nell'ambito della chiesa cristiana (ad esempio tramite la
convocazione di concili e il presiederne i lavori) non deve oscurare il fatto
che Costantino svolse funzioni analoghe nell'ambito di altri culti. Egli
infatti mantenne la carica di pontefice massimo della religione pagana; carica
che era stata di tutti gli imperatori romani a partire da Augusto. Lo stesso
fecero i suoi successori cristiani fino al 375. Anche la battaglia di
Ponte Milvio, con cui nel 312 Costantino sconfisse Massenzio, diede origine a
leggende discordanti, che, però, potrebbero risalire tutte a Costantino, sempre
attento a presentarsi come prescelto dal divino, qualunque essa fosse. Per
queste leggende si veda la voce in hoc signo vinces. In questo senso si
spiegano sia l'editto imperiale di tolleranza o l'editto di Milano del 313
(conferma rafforzata di un editto di Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione
sull'arco di Costantino: entrambi citano una generica "divinità", che
poteva dunque essere identificata sia con il Dio cristiano, sia con il dio
solare. L'ambiguità dell'Editto di Milano, però, è ovvia, dato che esso fu
proclamato da Licinio. Costantino persegue probabilmente il proposito di
riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel quadro di un non troppo definito
monoteismo imperiale. Vi fu una grande confusione da parte degli osservatori
esterni del cristianesimo che portò molti ad identificare i cristiani come
adoratori del sole. Molto prima che Eliogabalo e i suoi successori
diffondessero a Roma il culto siriaco del Sol invictus, molti romani ritenevano
che i cristiani adorassero il sole: «Gli adoratori di Serapide sono
cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di
Cristo» (Adriano) «…molti ritengono che il Dio cristiano sia il
Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e
che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia» (Tertulliano, Ad nationes,
apologeticum, de testimonio animae) Questa confusione era senz'altro
favorita dal fatto che Gesù era risorto nel primo giorno della settimana,
quello dedicato al sole, e perciò i cristiani avevano l'abitudine di
festeggiare proprio in quel giorno (oggi chiamato domenica): «Nel giorno
detto del Sole si radunano in uno stesso luogo tutti coloro che abitano nelle
città o in campagna, si leggono le memorie degli apostoli o le scritture dei
profeti, per quanto il tempo lo consenta; poi, quando il lettore ha terminato,
il presidente istruisce a parole ed esorta all'imitazione di quei buoni esempi.
Poi ci alziamo tutti e preghiamo e, come detto poco prima, quando le preghiere
hanno termine, viene portato pane, vino e acqua, e il presidente offre
preghiere e ringraziamenti, secondo la sua capacità, e il popolo dà il suo
assenso, dicendo Amen. Poi viene la distribuzione e la partecipazione a ciò che
è stato dato con azioni di grazie, e a coloro che sono assenti viene portata
una parte dai diaconi. Coloro che possono, e vogliono, danno quanto ritengono
possa servire: la colletta è depositata al presidente, che la usa per gli
orfani e le vedove e per quelli che, per malattia o altre cause, sono in
necessità, e per quelli che sono in catene e per gli stranieri che abitano
presso di noi, in breve per tutti quelli che ne hanno bisogno.»
(Giustino, II secolo) Questa scelta liturgica era inevitabile. Il giorno
del sole, infatti, non solo era proprio il primo della settimana, quello in cui
Gesù era risorto, ma anche aveva una valenza metaforica teologicamente e
scritturalmente corretta. L'abitudine di chiamare tale giorno "giorno del
Signore" (dies dominica, da cui, appunto il nome domenica) compare per la
prima volta alla fine del primo secolo (Apocalisse 1, 10[100]) e poco dopo
nella didaché, prima cioè che il culto del Sol Invictus prendesse piede.
Anche la decisione di celebrare la nascita di Cristo in coincidenza col
solstizio d'inverno ha dato origine a molte controversie, dato che le date di
nascita di Gesù fornite dai Vangeli sono imprecise e di difficile
interpretazione. Le prime notizie di feste cristiane per celebrare la nascita
di Cristo risalgono circa all'anno 200. Clemente Alessandrino riporta diverse
date festeggiate in Egitto, che sembrano coincidere con l'Epifania o col
periodo pasquale (cfr. Data di nascita di Gesù). Nel 204 circa, invece,
Ippolito di Roma propone il 25 dicembre (e la correttezza storica di tale
scelta sembrerebbe essere stata approssimativamente confermata da recenti
scoperte). La decisione delle autorità romane, tuttavia, di uniformare la data
delle celebrazioni proprio il 25 dicembre potrebbe essere stata stabilita in
buona parte per motivi "politici" in modo da congiungersi e
sovrapporsi alle feste pagane dei Saturnali e del Sol invictus. La
confusione delle date liturgiche fra i culti continuò per un certo periodo,
anche perché ovviamente l'editto di Tessalonica, che proibiva i culti diversi
dal cristianesimo, non determinò la conversione immediata dei pagani. Ancora
ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato scriveva: «È così
tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare
nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si
volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro
fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene
ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza
di ossequio a questo culto degli dei.» (Papa Leone I, 7° sermone tenuto
nel Natale del 460 - XXVII-4) La sovrapposizione fra culto solare e culto
cristiano ha dato origine a molte controversie, tanto che alcuni hanno
sostenuto che il cristianesimo sia stato pesantemente influenzato dal mitraismo
e dal culto del Sol invictus o addirittura trovi in essi la sua radice vera.
Questa ipotesi si forma durante il Rinascimento, ma si è diffusa negli ultimi
decenni del XX secolo, tanto da essere considerata (se non accettata) perfino
negli ambienti più progressisti delle chiese cristiane. Un esempio di questa
ipotesi ce lo fornisce il vescovo siriano Jacob Bar-Salibi che, alla fine del
XII secolo, scrive:[102] «Era costume dei pagani celebrare al 25 dicembre
la nascita del Sole, in onore del quale accendevano fuochi come segno di festività.
Anche i Cristiani prendevano parte a queste solennità. Quando i dotti della
Chiesa notarono che i Cristiani erano fin troppo legati a questa festività,
decisero in concilio che la "vera" Natività doveva essere proclamata
in quel giorno.» (Jacob Bar-Salibi) Anche l'allora cardinale Joseph
Ratzinger (poi papa Benedetto XVI) parla della cristianizzazione della festa
antico romana dedicata al sole e agli dei che lo rappresentavano.[103]
Nel 321 fu introdotta la settimana di sette giorni e fu decretato come giorno
di riposo il dies Solis (il "giorno del Sole", che corrisponde alla
nostra domenica). (LA) «Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque
plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi
agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut
non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne
occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa. * Const. A.
Helpidio. * <a 321 PP. V NON. MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II
CONSS.>» (IT) «Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i
magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi.
Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio
lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano
o la cura delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per
tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo.»
(Codice giustinianeo 3.12.2) Benché dopo la sconfitta di Licinio il
cristianesimo di Costantino trovi sempre più conferme pubbliche, occorre non
dimenticare che: «Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi
città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa
costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi
e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi
destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e
la statua di Tyche, personificazione divinizzata della città, dovevano essere
oggetto di un vero e proprio culto».[104] Probabilmente il progetto
politico di Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una
conversione personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della
persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così
clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva
bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di
offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante
delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di
grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso
profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista
del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente
trionfante. Dal 313 in poi i cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli
vitali del potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata
cospicuamente dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono
concesse numerose esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza.
Dopo l'esercito, la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il
secondo pilastro dell'Impero.[105] La leggenda della donazione
costantiniana Secondo una tarda leggenda medievale, Costantino, dopo la
battaglia di Ponte Milvio, fece dono a papa Silvestro I (convinto di essere
stato da lui guarito dalla lebbra), dello splendido Palazzo Laterano (di
proprietà della moglie Fausta), consegnando così al papa romano la città di
Roma e dando avvio, con quell'atto di devoluzione, al potere temporale dei
papi,[106] ma la cosiddetta Donazione di Costantino (nota in latino come
"Constitutum Constantini", ossia "decisione",
"delibera", "editto") è un documento apocrifo conservato in
copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX secolo) e, come interpolazione,
in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo). Nel 1440 il
filologo italiano Lorenzo Valla[107] dimostrò in modo inequivocabile come il
documento fosse un falso. Colonna di Costantino I a Costantinopoli.
Sotto di essa l'imperatore avrebbe posto amuleti pagani e reliquie cristiane a
protezione della città La leggenda della donazione quindi probabilmente voleva
dare un fondatore illustre, il primo imperatore cristiano, al successivo
disegno politico di imporre il Cristianesimo come unica religione ufficiale
dell'impero romano. Tale sviluppo però ebbe luogo solo a partire dall'epoca
tarda, con Graziano e Teodosio quindi verso la fine del IV secolo (391). Dopo
la caduta dell'Impero d'occidente, nel 476, la "donazione" divenne la
base giuridica del Papato per legittimare il proprio potere temporale sulla città
di Roma e la sua indipendenza dall'imperatore. La conversione Costantino
mantenne il titolo di Pontifex Maximus che gli spettava come imperatore e
condusse una politica di mediazione tra i vari culti dell'Impero e anche tra le
diverse correnti del nascente Cristianesimo. Ricevette il battesimo
cristiano solo in punto di morte,[14][108] per mano di un suo consigliere, il
vescovo ariano Eusebio di Nicomedia.[109] Alcuni storici, però, ritengono che
questo racconto possa essere stato tramandato per motivi politico-religiosi e
propagandistici.[110]. Va detto che il battesimo ricevuto sul letto di morte da
catecumeno era un'usanza del tempo, quando non essendo stato ancora
riconosciuto il sacramento della confessione si preferiva annullare tutti i
propri peccati prima della morte, che avveniva così in albis. Senza
escludere l'utilità politica attesa da Costantino dall'alleanza con la Chiesa
cattolica, alcuni documenti risalenti al periodo dell'Editto di Milano
rivelerebbero un avvicinamento dell'imperatore al cristianesimo ben più marcato
di quanto descritto da parte della storiografia, in una lettera del 314-315 di
Costantino a Elafio, suo vicario imperiale in Africa, si rivolgeva infatti
circa lo scisma donatista con queste parole[111]: «… non sarò mai soddisfatto né
mi aspetterò prosperità e felicità dal potere misericordioso dell'Onnipotente
fino a quando non sentirò che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta
adorazione della religione cattolica in una comune fratellanza…» solo
dieci anni più tardi scriveva a Sapore II re di Persia con medesimi
accenti[112]: «…Io sarò soddisfatto solo quando vedrò che tutti pregheranno,
con fraterna concordia d'intenti, nell'autentico culto della Chiesa
universale…» ciò farebbe pensare che il battesimo venne amministrato in
punto di morte a Nicomedia solo come termine di un lungo processo di
conversione che non fu estraneo a contaminazioni con ambienti dell'arianesimo,
nella cui fede fu battezzato. Tali contaminazioni gli costarono la mancata
canonizzazione cattolica (per la Chiesa cattolica, coerentemente, la
santificazione spetta solo a coloro che sono stati battezzati secondo le norme
cattoliche) e gli concessero l'inserimento ufficiale solo tra i santi
ortodossi; accadde diversamente per la madre Elena, che si commemora il 18 di
agosto, il cui battesimo fu invece celebrato in osservanza di tale liturgia. Fu
dunque l'adesione all'arianesimo negli ultimi anni della sua vita, quelli
successivi alla partenza per la nuova Costantinopoli, a indurre la Chiesa di
Roma a prenderne le distanze; ciò avvenne attraverso la riscrittura agiografica
della vita, da parte di papa Silvestro I (314–335) così come descritta negli
Actus Silvestri.[113]. Non è altresì da escludere che sulla conversione
di Costantino abbiano influito in modo determinante gli eventi succedutisi
dagli inizi del IV secolo con la constatazione del fallimento delle
persecuzioni del 303 e l'editto di Galerio del 311 che tentava di far rientrare
la religione cristiana nell'alveo di tutte le altre religioni ammesse nell'impero,
che tradiva il timore dell'universalismo del cristianesimo che metteva a
rischio le istituzioni romane basate sulle differenze etniche[114]. Dal
papiro di Londra numero 878, che contiene una parte di un editto del 324, e da
un'attenta riconsiderazione storica pare che Costantino fosse animato da
"un effettivo accostamento al sentimento cristiano"[115]. Che
sia stato per convinzione personale o per calcolo politico, Costantino appoggiò
comunque la religione cristiana soprattutto dopo l'eliminazione di Licinio nel
324, costruendo basiliche a Roma, Gerusalemme e nella stessa Costantinopoli;
conferì alle chiese il diritto di ricevere beni in eredità e quelle maggiori
furono dotate di vaste proprietà; diede ai vescovi vari privilegi e poteri
giudiziari, quali quello di essere giudicati da loro pari ponendo le basi al
principio relativo al vescovo di Roma del prima sedes a nemine iudicatur;
concesse gli episcopalis audientia. Fu in epoca costantiniana inoltre, una
volta identificata la Chiesa secondo la definizione paolina di Corpus Mysticum
e ritenuta capace di ricevere donazioni ed eredità, che ebbe luogo il concetto,
prima sconosciuto nella legislazione romana, di persona giuridica nella
successiva legislazione[116]. Il riformatore cristiano Lo stesso
argomento in dettaglio: Concilio di Nicea I. L'icona di San Costantino
nel Castello di Lari (Toscana), opera realizzata per i 1700 anni dell'editto di
Milano del 313 La politica di Costantino mirava a creare una base salda per il
potere imperiale sull'assioma che c'era un unico vero dio, una sola fede e
quindi un unico legittimo imperatore. Nella stessa religione cristiana per
questo motivo era dunque importantissima l'unità: Costantino fu promotore, pur
non essendo battezzato, di diversi concili, per risolvere le questioni
teologiche che dividevano la Chiesa. In tali concili presenziò come pontifex
maximus dei romani o "vescovo di quanti sono fuori della
chiesa". Il primo fu quello convocato ad Arelate (primo concilio di
Arles), in Francia nel 314, che confermò una sentenza emessa da una commissione
di vescovi a Roma, che aveva condannato l'eresia donatista, intransigente nei
confronti di tutti i cristiani che si erano piegati alla persecuzione
dioclezianea: in particolare si trattava del rifiuto di riconoscere come
vescovo di Cartagine Cipriano, il quale era stato consacrato da un vescovo che
aveva consegnato i libri sacri. Ancora nel 325, convocò a Nicea il primo
concilio ecumenico, che lui stesso inaugurò, per risolvere la questione
dell'eresia ariana: Ario, un prete alessandrino sosteneva che il Figlio non era
della stessa "sostanza" del padre, ma il concilio ne condannò le
tesi, proclamando l'omousia, ossia la medesima natura del Padre e del Figlio.
Il concilio di Tiro del 335 condannerà tuttavia Atanasio, vescovo di
Alessandria, il più accanito oppositore di Ario, soprattutto a causa delle
accuse politiche che gli vennero rivolte. L'imperatore fece costruire
numerose chiese cristiane, tra cui le basiliche del Santo Sepolcro a Gerusalemme,
la basilica di Mamre e la basilica della Natività a Betlemme. A Roma eleva la
basilica del Laterano e la prima basilica di San Pietro. Per la sua sepoltura
decise di non farsi seppellire nel mausoleo dove era già la madre a Roma, ma si
fece costruire un mausoleo a Costantinopoli vicino o all'interno della chiesa
dei Santi Apostoli, tra le reliquie di questi ultimi, che cercò di radunare.
Eusebio di Cesarea narra che Costantino fu munifico e ornò gli edifici di oro,
marmi, colonne, e splendidi arredi. Purtroppo nessuna delle basiliche originali
di Costantino si è conservata fino ai giorni nostri, salvo pochi resti di
fondazioni. In tutto l'impero, i templi pagani, salvo poche eccezioni, non
vennero riconvertiti in chiese, ma abbandonati, perché inadatti al nuovo culto che
richiedeva la presenza di numerosi fedeli all'interno. I culti pagani invece si
svolgevano all'aperto, con la cella del tempio riservata al dio. Vi fu quindi
la riconversione ad uso religioso di un particolare tipo di edificio romano, la
basilica civile. Culto Anche se divenuto cristiano, alla morte Costantino
venne divinizzato (divus), per decreto del senato, con la cerimonia pagana
dell'apoteosi, come era consuetudine per gli imperatori romani. Costantino,
nonostante avesse iniziato a costruire un grandioso mausoleo di famiglia a
Roma, lo lasciò a sua madre (il cd. Mausoleo di Elena) e volle essere sepolto a
Costantinopoli, nella Chiesa dei Santi Apostoli, divenendo così il primo
imperatore a essere sepolto in una chiesa cristiana. Costantino è considerato
santo dalla Chiesa ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo
celebra il 21 maggio assieme alla madre Elena. La santità di Costantino
non è riconosciuta dalla Chiesa cattolica (infatti non è riportato nel
Martirologio Romano), che tuttavia celebra sua madre[117] il 18 agosto. A
livello locale il culto di san Costantino è comunque autorizzato anche nelle
chiese di rito romano-latino. In Sardegna, per esempio, la festa del santo
(nella tradizione religiosa sarda) ricorre il 7 luglio. Il 23 aprile invece,
viene festeggiato a Siamaggiore, in provincia di Oristano, l'unico paese
dell'isola in cui Costantino Magno Imperatore ne è anche il patrono. Nell'isola
esistono due santuari principali dedicati all'imperatore: uno si trova a
Sedilo, nel centro geografico dell'isola, in provincia di Oristano, dove il 6 e
7 luglio di ogni anno si corre l'Ardia, una sfrenata e spettacolare corsa a
cavallo di origine bizantina che rievoca la vittoria del 312 a Ponte Milvio;
l'altro è a Pozzomaggiore, in provincia di Sassari. Altre attestazioni minori
si hanno in vari luoghi della Sicilia; l'ultimo sabato di luglio, a Capri
Leone, paese in provincia di Messina, si festeggia la festività in suo onore,
dove per devozione paesana egli è divenuto Santo Patrono. Suggestiva la
processione serale, con il simulacro di Costantino Imperatore portato a spalla
dai fedeli. Titolatura imperiale Lo stesso argomento in dettaglio:
Monetazione tetrarchica e Monetazione di Costantino e dei Costantinidi.
Titolatura imperiale Numero
di volteDatazione evento Tribunicia potestas33 volte: la prima volta il 25
luglio del 306, la seconda il 10 dicembre del 306, la terza nel settembre del
307, la quarta il 10 dicembre del 307 e poi annualmente ogni 10 dicembre fino
al 337 (anno in cui non assunse l'iterazione perché premorì il 22 maggio). Consolato
8 volte. ), 326 (VII), 329 (VIII). Salutatio imperatoria32 volte:[118]la prima
nel 306 quando fu proclamato Caesar, poi nel 307 (2° e 3°), 308 (4°), poi
rinnovata ogni anno dal luglio del 309 fino al luglio del 336.[118] Titoli
vittoriosiGermanicus maximus IV ; Sarmaticus maximus III[6] (317/319,[10]
323[5] e 334[5]); Gothicus maximus II (328 o 329 e 332[5][6][7][9]); Dacicus
maximus; Adiabenicus (ante 315[9]); Arabicus maximus; Armeniacus maximus (tra
il 315 e il 319[10]); Britannicus maximus (ante 315[9][10]); Medicus maximus
(ante 315[9][10]); Persicus maximus (nel 312/313,[12] ante 315[9]). Altri
titoliCaesar (dal 306 al 308), Filius Augustorum (dal 308 al 310)[120] e Augustus
(dal 310 al 337); Pius, Felix, Pontifex Maximus (dal 306);[118] Invictus, Pater
Patriae, Proconsul dal 310;[121] Maximus dal 312;[2][118] Victor (in
sostituzione di Invictus) dal 324;[118][122] Triumphator (titolo aggiunto tra
il 328 ed il 332).[4] Località italiane in cui è attestato il culto a San
Costantino imperatore Calabria Calabria, Provincia di Vibo Valentia, San
Costantino Calabro Calabria, Provincia di Vibo Valentia, Briatico, San
Costantino di Briatico (frazione) Lucania Basilicata, Provincia di Potenza,
San Costantino Albanese Basilicata, Provincia di Potenza, Rivello, San
Costantino (frazione) Sardegna Sardegna, Provincia di Oristano,
Siamaggiore, Parrocchiale di San Costantino Magno Imperatore Sardegna,
Provincia di Oristano, Sedilo, Santuario di Santu Antinu Sardegna, Provincia di
Sassari, Pozzomaggiore, Chiesa di San Costantino (Pozzomaggiore) Toscana
Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Castello dei Vicari a Lari
Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Santuario di San Martino in
Petraja a Casciana Terme Trentino-Alto Adige Trentino-Alto Adige, comune
di Fiè allo Sciliar, frazione di San Costantino/St. Konstantin, Chiesa di San
Costantino Trentino-Alto Adige, comune di Naz-Sciaves, frazione di Raas, Chiesa
dei Santi Egidio e Costantino Note ^ Costantino si attribuì il titolo Invictus
dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda metà del 310. Si
veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990,
pp. 46-61. Il senato di Roma gli accordò questo titolo dopo la vittoria
su Massenzio. Si veda Lattanzio, De mortibus persecutorum XLIV 11-12. ^
Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus nel 324, dopo la
vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 134-144. Costantino adottò il titolo
Triumphator al tempo delle campagne gotiche sul confine danubiano. Si veda nel
merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda
in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 147-150.
Timothy Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift fur Papyrologie und
Epigraphik 20, 1976, pp.149-155. CIL VI, 40776. CIL VIII, 8477 (p
1920). CIL VIII, 10064. CIL VIII, 23116. Iscrizione databile
al 319 sulla quale troviamo diversi titoli vittoriosi: «Imperatori Caesari
Flavio Constantino Maximo Pio Felici Invicto Augusto pontifici maximo,
Germanico maximo III, Sarmatico maximo Britannico maximo, Arabico maximo,
Medico maximo, Armenico maximo, Gothico maximo, tribunicia potestate XIIII,
imperatori XIII, consuli IIII patri patriae, proconsuli, Flavius Terentianus
vir perfectissimus praeses provinciae Mauretaniae Sitifensis numini
maiestatique eius semper dicatissimus.» (CIL VIII, 8412 (p 1916)) ^
Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta
dell'impero, Roma, 2008, p.53; C.Scarre, Chronicle of the roman emperors, New
York, 1999, p.214. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, IX, 8,
2-4; Giovanni Malalas, Cronografia, XII, p.311, 2-14; IL Alg-1, 3956 (Africa
proconsularis, Tenoukla): Dddominis nnnostris Flavio Valerio Constantino
Germanico Sarmatico Persico et Galerio Maximino Sarmatico Germanico Persico et
Galerio Valerio Invicto (?) Pio Felici Augusto XI. ^ Il giorno e il mese sono
largamente accettati, mentre l'anno è talvolta anticipato al 271 o ritardato al
275 o anche molto più tardi (ad esempio "ca. 280" secondo
l'Enciclopedia Europea della Garzanti del 1977. Fonti WEB citano addirittura il
289.). Il suo biografo ufficiale, Eusebio di Cesarea, dice soltanto che la sua
vita fu approssimativamente lunga il doppio del suo regno, cioè circa 62-63
anni. Purtroppo Eusebio dichiara che il suo regno durò 32 anni (e non 31), in
quanto contava come interi anche gli spezzoni incompleti dell'anno di nascita e
di morte; ciò ha indotto in errore alcuni storici, che anticipano di due anni
la sua nascita. Nel merito si veda inoltre Barnes, The New Empire of Diocletian
and Constantine, pp. 39-42. Sesto Aurelio Vittore, De Caesaribus, 41.16;
Sofronio Eusebio Girolamo, Cronaca, 337, p. 234, 8-10; Eutropio, Breviarium
historiae romanae, X, 8.2; Annales Valesiani, VI, 35; Orosio, Historiae
adversos paganos, VII, 28, 31; Chronicon paschale, p.532, 7-21; Teofane
Confessore, Chronographia A.M. 5828 (testo latino); Michele siriaco, Cronaca,
VII, 3. ^ Il titolo imperiale ufficiale era IMPERATOR CAESAR FLAVIVS CONSTANTINVS
PIVS FELIX INVICTVS AVGVSTVS; dopo il 312 aggiunse MAXIMVS ("il
grande") e dopo il 325 sostituì INVICTVS con VICTOR, in quanto INVICTVS
ricordava il culto del Sol Invictus. ^ Costantino I, in Santi, beati e
testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. ^ Origo Constantini
Imperatoris 2, 2. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3, 39–42; Elliott,
Christianity of Constantine, 17; Odahl, 15; Pohlsander, "Constantine
I"; Southern, 169, 341. ^ Charles M. Odahl, Constantine and the Christian
empire, London, Routledge, Gabucci, Ancient Rome : art, architecture and
history, Los Angeles, CA, J. Paul Getty Museum, Barnes, Constantine and
Eusebius, 3; Lenski, "Reign of Constantine" (CC), 59–60; Odahl,
16–17. ^ Drijvers, J.W. Helena Augusta: The Mother of Constantine the Great and
the Legend of Her finding the True Cross (Leiden, 1991) 9, 15–17. ^ Barnes, Constantine
and Eusebius, 3; Barnes, New Empire, 39–40; Elliott, Christianity of
Constantine, 17; Lenski, "Reign of Constantine" (CC), 59, 83; Odahl,
16; Pohlsander, Emperor Constantine, 14. ^ Eleanor H. Tejirian e Reeva Spector
Simon, Conflict, conquest, and conversion two thousand years of Christian
missions in the Middle East, New York, Columbia; Barnes, The New Empire of
Diocletian and Constantine, pp. 39-42. ^ Epitome de Caesaribus, 41.16 ^ Come
convincentemente dimostrato in A. Alflödi, Constantinus... proverbio vulgari
Trachala... nominatus, in BHAC, 1970, (Bonn 1972) pp. 1-5. Nel merito si veda
anche V. Neri, Le fonti della vita di Costantino nell'Epitome de Caesaribus, in
Rivista storica dell'antichità XVII-XVIII/1987-88, Bologna; Lattanzio, De
mortibus persecutorum, 18, 10. ^ Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum 16. ^
Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino I, 19. ^ Origo Constantini Imperatoris
2, 3. Tra il 299 ed il 307 i Tetrarchi iterano il titolo Sarmatico massimo per
quattro volte e ciò ben testimonia l'intenso sforzo bellico profuso contro tale
popolazione barbara. Si veda Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power
in the Later Roman Empire, pp. 179-180. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum,
18, 8-14; Eutropio X, 2, 1. ^ Lattanzio, De mortibus persecutorum 24, 3-8;
Zosimo II, 8, 3. ^ Origo Constantini Imperatoris 2,4; Zonara XII. ^ Epitome de
Caesaribus, 41, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 25, 1-5 ^ Moreau,
Lactance. De la mort des persécuteurs, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26,
1-3; Zosimo II, 9, 2-3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 6-9. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 10. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 27, 2-3. ^ Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in
the Later Roman Empire, p. 71. ^ Pasqualini, Massimiano Herculius. Per
un'interpretazione della figura e dell'opera, p. 87. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 28, 1-2. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 28, 3-4; Zosimo
II, 11, 1. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 1. ^ Sulle deliberazioni
di Carnuntum si veda Roberto, Diocleziano, pp. 247-249. ^ Lattanzio, De
Mortibus Persecutorum, 29, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 4-7. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 8. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum; Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 32, 5. Zosimo, Storia nuova, II, 15, 1. ^ Eutropio,
Breviarium historiae romanae, X, 4. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, pp.
42–44. ^ Nella pianura tra Rivoli e Pianezza: Vittorio Messori e Giovanni
Cazzullo, Il Mistero di Torino, Milano, Mondadori, Zosimo, Storia nuova, II,
26. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 28. Zosimo, Storia nuova, II, 29. ^
Battesimo di Costantino, su treccani.it. URL consultato il 21 febbraio 2021. ^
Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004. ^ Zosimo,
Storia nuova, II, 30. Zosimo, Storia nuova, II, 33.1. Zosimo,
Storia nuova, II, 33.2. Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Ammiano
Marcellino, Storie; Gibbon (a cura di Saunders), pag. 254-255. ^ Zosimo, Storia
nuova, II, 33.4. ^ Gibbon (a cura di Saunders), Per la traduzione di
"comes" con "ministro" si interpreti: Ita etiam qui sacri
Palatii ministeriis ac officiis praeficiebantur, eorumdem ministeriorum ac
officiorum Comites dicti, ut ex infra observandis constat., cfr. Du Cange, II,
423 Anselmo Baroni, Cronologia della storia romana dal 235 al 476, p.
1026-1027. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 3. Zosimo, Storia
nuova, II, 21, 1-3. V.A. Maxfield, L'Europa continentale, pp. 210-213. ^
Anselmo Baroni, Cronologia della storia romana; Flavio Claudio Giuliano, De
Caesaribus, 329c. ^ C.R.Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social ad
economic study, Baltimora & London, 1997, p.202. ^ Zosimo, Storia nuova,
II, 17, 2. Yann Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano
alla caduta dell'impero, Roma, 2008, p.53. ^ Giovanni Lido, De magistratibus,
II, 10; Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma
antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma, Zosimo, Storia nuova, II,
34.2. ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Più
tardi, nel 358, il vescovo Macedonio fece traslare il sarcofago imperiale
nell'attiguo mausoleo del martyrium di S. Acacio. ^ Chronicon paschale, p.532,
1-21. ^ Bury, p. 12. ^ Chronicon paschale, p.533, 5-17; Passio Artemii, 8
(8.12-19); Zonara, L'epitome delle storie, XIII, 4, 25-28. ^ In particolare
furono uccisi i fratellastri di Costantino I, Giulio Costanzo, Nepoziano e
Dalmazio, alcuni loro figli, come Dalmazio Cesare e Annibaliano, e alcuni
funzionari, come Optato e Ablabio. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X,
9. ^ Zosimo, Storia nuova, ii.40. ^ Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi
tempi, tr.it. Longanesi 1957, p.521 ^ Ad esempio, Guido Clemente, titolare
della cattedra di storia romana all'università di Firenze, autore di una Guida
alla storia romana; Augusto Fraschetti, docente di storia economica e sociale
del mondo antico presso la Sapienza di Roma, autore de La conversione. Da Roma
pagana a Roma cristiana; Arnaldo Marcone docente di Storia romana
all'università di Udine, autore di Pagano e cristiano. Vita e morte di
Costantino; Robin Lane Fox, docente di Storia antica presso il College di
Oxford, autore di Pagani e cristiani; e molti altri titolati studiosi del mondo
antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de' Cavalieri, Norman Baynes, Marta Sordi,
Klaus Bringmann. ^ Paul Veyne, Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394),
Collezione Storica Garzanti, Milano, 2008 pp. 64-65 ^ G. Filoramo, La croce e
il potere, Mondadori, Milano; Horst, Costantino il grande, Milano 1987, p. 31.
^ Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II, su
jus.vitaepensiero.it. ^ Dal Gesù storico al Cristo della fede: la svolta
costantiniana, su homolaicus.com. ^ Costantino e la legislazione antiereticale.
La costruzione della figura dell'eretico ^ Notizie in inglese sulle monete di
Costantino in bronzo con simboli cristiani ^ Apocalisse 1, 10, su La Parola -
La Sacra Bibbia in italiano in Internet. ^ La nascita di Gesù è avvenuta
secondo i vangeli circa quindici mesi dopo l'annuncio a Zaccaria della nascita
del Battista. La collocazione di questo evento nell'ultima settimana di
settembre, in accordo con la tradizione cristiana, è compatibile con le notizie
oggi disponibili sul turno di servizio sacerdotale al tempio della classe
sacerdotale di Abia, alla quale apparteneva Zaccaria. Cfr. Data di nascita di
Gesù ^ da Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Yale,
Ramsay MacMullen, 1997, p. 155 ^ La scelta del 25 dicembre per celebrare il
Natale cristiano: dal dies natalis del Sol invictus, espressione del culto
solare di Emesa (e del dio Mitra), alla celebrazione del Cristo, “sole che
sorge”, su gliscritti.it. URL consultato il 3 gennaio 2014. ^ Burckhardt, cit.
(p. 539) ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi; Ruffolo,
Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 156. ^ nella sua opera
De falso credita et ementita Constantini donatione ^ Sozomeno, Historia
Ecclesiastica, II,34; Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, IV,61–63; Socrate
Scolastico, Historia Ecclesiastica, I,39; Teodoreto di Cirro, Historia
Ecclesiastica, I,30. ^ Girolamo, Chronicon. ^ Alessandro Barbero, Costantino il
Vincitore, Salerno, In Epistula Constantini ad Aelafium, CSEL; Carile in
L'imperatore e la Chiesa. Dalla tolleranza (312) alla supremazia della
religione cristiana (380), alle contese per la cattolicità delle chiese;
Enciclopedia Costantiniana (2013), Treccani ^ Gli Actus Silvestri sono
menzionati la prima volta nel Decretum Gelasianum, documento attribuito a papa
Gelasio I, come affermato in: Marilena Amerise, Il battesimo di Costantino il
Grande. Storia di una scomoda eredità (Hermes Einzelschriften, 95), Franz
Steiner Verlag, München 2005, p.93 e ss.; Wilhelm Pohlkamp n Internet Archive.
aveva identificato nei manoscritti una versione più antica (A), datata alla
fine del IV- inizi del V secolo, e una versione più recente (B), del tardo V -
inizi del VI secolo. ^ v. A. Carile in L'imperatore e la Chiesa cit. ^ Ranuccio
Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica,
Etruria-Roma, Utet, Torino 1976, pag 112. ^ Alberto Perlasca, Il concetto di
bene ecclesiastico, pp.50-51. ^ Anche se si pensa che la madre di Costantino
propendesse più per la religione ebraica, tanto da restare delusa alla notizia
della conversione al cristianesimo del figlio (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia
era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 156). Scarre, Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda; Galerio attribuì questo titolo a Costantino e
Massimino Daia subito dopo il convegno di Carnuntum, sostituendolo a quello di
Cesare. Si veda nel merito Alexandra Stefan, Un rang impérial nouveau à
l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie.
Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in
Antiquité Tardive; Costantino si attribuì il titolo Invictus, e con ogni
probabilità anche quello di Pater Patriae insieme alla carica di Proconsul,
dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda metà del 310. Si
veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Costantino
adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus dopo la vittoria definitiva
su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Ammiano
Marcellino, Historiae X. (testo a fronte in inglese disponibile qui).
Aurelio Vittore, De Caesaribus (versione latina) Consolaria costantinopolitana,
s.a. 325. Chronicon paschale. Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum. Epitome
de Caesaribus (versione latina). Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, I-IV,
(testo in latino e traduzione in inglese); Storia ecclesiastica (traduzione in
inglese). Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino), IX-X .
Giordane, De origine actibusque Getarum; Vedi qui testo latino. Girolamo,
Cronaca, versione francese QUI. Lattanzio, De mortibus persecutorum, XXIV; Vedi
qui testo latino. Origo Constantini Imperatoris; Vedi qui testo latino e
traduzione in inglese. Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem, libro
7 Vedi qui testo latino. Notitia dignitatum, Notitia dignitatum (testo latino)
. Panegyrici latini, IV, VII, IX e XII, QUI il testo latino. Socrate
Scolastico, Storia ecclesiastica, I. Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I.
Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, I. Teofane Confessore,
Chronographia (testo latino) . Zonara, L'epitome delle storie, XIII Vedi qui
testo latino. Zosimo, Storia nuova, I-II traduzione inglese del libro I, QUI.
Studi Andreas Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Laterza,
Roma-Bari; Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno Editrice, Roma, Barnes,
The victories of Constantine, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Timothy
Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge, MA Harvard; Barnes, The New Empire
of Diocletian and Constantine, Cambridge, MA Harvard University Press, Barnes,
Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Wiley
Blackwell, Malden - Oxford, 2011. Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli,
L'arte dell'antichità classica. Etruria-Roma, UTET, Torino, 1976 e successive
rist. Jacob Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi,
Milano, Carpiceci e Marco Carpiceci, Come Costantin chiese Silvestro d'entro
Siratti - Costantino il grande, San Silvestro e la nascita delle prime grandi
basiliche cristiane, Edizioni Kappa, Roma 2006. André Chastagnol, L'accentrarsi
del sistema: la tetrarchia e Costantino, in: AA.VV., Storia di Roma, Einaudi,
Torino, 1993, vol. III, tomo 1; ripubblicata anche come Storia Einaudi dei
Greci e dei Romani, Ediz. de Il Sole 24 ORE, Milano; Ombretta Cuneo, La
legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante; Giuffrè, Diehl, La
civiltà bizantina, Garzanti, Milano, 1962. (a cura di) Angela Donati e Giovanni
Gentili, Costantino il Grande: la civiltà antica al bivio tra Occidente e
Oriente, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Fraschetti, La conversione: da
Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma-Bari; Grünewald, Constantinus
Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda Eberhard Horst, Costantino il Grande, Milano, Bompiani, Bohec, Armi e
guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla caduta dell'impero, Carocci,
Roma, 2008. Arnaldo Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino,
Laterza, Roma-Bari, Maxfield, L'Europa continentale, in Il mondo di Roma
imperiale. La formazione, Laterza, Roma-Bari, Mazzarino, L'Impero romano, tre
vol., Laterza, Roma-Bari (v. vol. III); riediz. e successive rist.; Moreau,
Lactance. De la mort des persécuteurs, Parigi 1954. Elena Percivaldi, Fu vero
Editto? Costantino e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Ancora Editrice,
Milano, Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e
dell'opera. Roma, Rentetzi, Costantino, Elena e la vera croce. Modelli
iconografici nell'arte bizantina, Studi Ecumenici. - Istituto di Studi
Ecumenici S. Bernardino - Pontificia Università Antonianum, web.archive.///www. isevenezia.it/it/
pubblicazioni/ pubblicazioni_dell_ise /rivista_ di_studi_ ecumenici/ Roberto,
Diocleziano, Roma 2014. Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza,
Einaudi, Torino, The paradigmatic value of the
depiction of Constantine in the homonymous arch in the formation of the Christ
in Throne's iconography ://web.archive.org
/web3051538/.ni.rs/
byzantium/
english.php (Paper presented to the 2008 Nis and Byzantium-VII International
Scientific Meeting Symposium”, Nis, 3-5 June 2008), Nis, Scarre, Chronicle of
the roman emperors, Pat Southern, The Roman Empire:
from Severus to Constantine, Londra, Stefan, Un rang impérial nouveau à
l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie.
Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in
Antiquité Tardive Costantino e le sfide del cristianesimo. Tracce per una
difficile ricerca, a cura di Sergio Tanzarella - Stanisław Adamiak, Il pozzo di
Giacobbe, Trapani 2013. C.R. Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social
ad economic study, Baltimora & London, 1997. L'editto di Milano e il tempo
della tolleranza. Costantino 313 d.C., Mostra di Palazzo Reale a Milano, mostra
a cura di Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa, catalogo a cura di Gemma Sena
Chiesa, Ed. Mondadori Electa, Milano. Filmografia Costantino il Grande, regia
di Lionello De Felice, con Cornel Wilde, Belinda Lee e Massimo Serato. Voci
correlate Aeroporto Costantino il Grande Niš (Serbia) Antica basilica di San
Pietro in Vaticano Ardia Arco di Costantino Arco di Malborghetto Arte
costantiniana Basilica della Natività Basilica del Santo Sepolcro Basilica
Palatina di Costantino (ad Augusta Treverorum, oggi Treviri) Basilica di
Massenzio (a Roma) Basilica di San Giovanni in Laterano Basilica di San Paolo
fuori le mura Cesaropapismo Colonna di Costantino Monumento a Costantino
Imperatore Donazione di Costantino Flavia Giulia Elena In hoc signo vinces
Monogramma di Cristo Statua colossale di Costantino I Terme di Costantino Ponte
di Costantino (Danubio) Costantino I imperatore, detto il Grande, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Alberto
Olivetti, COSTANTINO I imperatore, detto il Grande, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Costantino I detto il Grande, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, MacGillivray Nicol e
J.F. Matthews, Constantine I, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Costantino I, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.
Costantino I, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia.
Opere di Costantino I, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Costantino I, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Costantino I, su Open Library,
Internet Archive. Costantino I, su Goodreads. Costantino I, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Costantino I, su
Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. The Roman Law Library by Professor
Yves Lassard and Alexandr Koptev, su web.upmf-grenoble. Monete emesse da
Costantino I, su wildwinds.com. Sito dedicato alle monete di Costantino in
bronzo, su constantinethegreatcoins.com. PredecessoreImperatore
romanoSuccessore Costanzo Cloro (con Galerio)306 – 337 Costantino IIVDM
Imperatori romani e relative linee di successione VDM Diocleziano Portale
Antica Roma Portale Biografie Portale Bisanzio
Portale Cristianesimo Categorie: Imperatori romani Santi romani Nati a
Naissus Morti a Nicomedia Costantino I Dinastia costantiniana Santi per
nomeStoria antica del cristianesimo Personalità del cristianesimo ortodosso Personaggi
citati nella Divina Commedia (Inferno) Personaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso) Santi della Chiesa ortodossa[altre] Costantino.
Grice e
Costanzi: l’implicatura conversazionale dell’amore e la morte – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo Umbro). Filosofo
italiano. Grice: “I like Costanzi; possibly my favourite of his essays is the
one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos for the Oxonian!” Si laurea a Bologna.
Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere” (Perrella, Roma);
“Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella, Roma); “Schopenhauer”
(Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia, Roma; Spinoza,
Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia, Roma); “L'ascetica
di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e l'argomento
d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere e il senso
della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del Cristianesimo e la
contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna angelicata e il
senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La filosofia
pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul prologo di
Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso Prologo, in
Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica
pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo
come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna; “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto
di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità
della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria
editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia”
(Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede,
Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di
cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana
di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione
di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala
francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana
di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo
e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M.
Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia
del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "Umbria Left. Il filosofo imagliato dal Sessantotto,
"il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani. Wikipedia
Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua Segui Al di là del principio di piacere Titolo
originale Jenseitsdes
Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu AutoreSigmund Freud 1ª ed.
originale Genere Saggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco Al di
là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un saggio di
Sigmund Freud incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero
rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di
morte" (Todestrieb[e]). Giuditta II di Klimt,, Venezia,
Galleria internazionale d'arte moderna. Achille sorregge Pentesilea dopo averla
colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se
ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a
Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto
psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in
questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti
dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi
o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia). Empedocle di Agrigento
si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della
civiltà greca. Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle
che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da
indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche
se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia
cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. I due
principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e
neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono,
sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»
Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a
creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre]
Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica.
Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre
Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto
di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia
negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata
per distruggere la malattia stessa).» Freud riscontra anche in un altro
filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta:
"E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle
erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più
grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e
riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e
opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la
morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è
filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un
audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e
dettagliata ricerca è in grado di convalidare?" «Thanatos non
compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones, l'avrebbe
talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è
probabilmente dovuto a Federn.» Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su
esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro, per
Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e
tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello
di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla
libido). Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal
capitolo sette de L'interpretazione dei sogni e che adesso, sotto l'influsso
del pensiero di Schopenhauer, diventa identico al principio del Nirvana
proposto da Low: le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato
psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso
livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà
inanimata. La coazione a ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che
«nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma
anche a prescindere dal principio di piacere.» Sulla falsariga del motto errare
humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro
volte «demoniaca»: Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza
correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura
perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che
essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal
caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco". La
coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci
della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli
eventi più violenti. Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi
della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete
per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per
la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni
tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai
definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene
riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a
muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a
ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La
coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica.
Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e
conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro. Freud
rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali,
persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo
piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da
sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé,
rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza
materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla
vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il
rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il
rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in
particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per
riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera
l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al
bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo
quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono
farlo in un modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il
principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo
punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di
dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi
strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad
abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a
quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che
la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno
con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Implicazioni
Modifica Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come
Sciacchitano sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo
dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti,
con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria psicoanalisi.
Essa comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della
psicoterapia. Il nuovo modello freudiano individuava nello psichico un nucleo
patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi
identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità
soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per
far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto
abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i
piedi, alle loro illusioni umanitarie». Freud non cambierà più idea. Ciò
significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale
"inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un
ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto contrario.
Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del carattere, propose una
propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di morte.
La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte:
SchieleModifica «Egon Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in
sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come
attesta il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo appare come un
lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode
[Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola
esistenziale.» (Vozza) Agonia, Egon Schiele, Monaco di Baviera,
Neue Pinakothek. Madre con i due bambini, Vienna, Österreichische Galerie
Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia
della malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica:
l'uomo non [...] medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo
studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa
morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella
prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto
pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia, sacra rappresentazione di
stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di
una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro
di sofferenza che è stato Grünewald.» (Marco Vozza) «La Madre con i due
bambini esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante
osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio
di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha
chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a
lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.» (Marco Vozza[25])
NoteModifica ^ Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello
rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima
(Roberto Faenza, 2002): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su
YouTube(vedi screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di
piacere(1920), in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri
scritti; Torino, Bollati Boringhieri, . Ed. paperback Freud, Analisi
terminabile e interminabile, in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione
monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri; Ed.
paperbackGalimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino; Freud
Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri; Jones, Vita e opere di
Freud, vol. 3: L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti, 1977. ISBN non
esistente. ^ Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci
e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2, Bari-Roma, Laterza, voce
Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, books.google.it.
^ Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere; Freud, Freud, op. cit., p.
235. ^ Sigmund Freud; Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema
economico del masochismo". Pasqua, Al di là del principio di piacere: sul
principio di Piacere e la Coscienza; Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op.
cit., voce Principio di piacere. Op. cit., su books.google.it. ^ Sigmund Freud;
Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. Op.
cit., Anteprima disponibile; Google Libri. ^ Sigmund Freud; Cf. anche Il
perturbante, OSF; Freud Introduzione
alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund Freud, Al di là
del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là
del principio di piacere; Freud, op. cit. Sciacchitano, Il demone del
godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut aut, Vozza, Il senso della
fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas, Vozza,
op. cit., Vozza, ibidem. Voci correlateModifica Psicoanalisi Empedocle Eros
(filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte Sabina
Nikolaevna Špil'rejn Tanato; Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di
piacere, su Open Library, Internet Archive. Edizioni e traduzioni di Al di là
del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Laplanche, Jean-Bertrand
Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle,
e Compulsion to Repeat, Portale Letteratura Portale Psicologia
Nikolaevna Špil'rejn psicoanalista russa Differimento Resistenza
(psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei
contenuti inconsci alla coscienza Wikipedia Il contenutoTeodorico Moretti
Costanzi. Keywords: amore e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?),
Zarathustra, il singolo della diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum,
amore/morte, eros/tanatos, immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri,
le due esseri entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new
discourse on metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di
metafisica: del genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita -- nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. Costanzi
Grice e Courmayeur: l’implicatura
conversazionale di Hegel in Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice:
“The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is that he is a
count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian philosopher who
doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all the money in the
world’! That helps with philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL,
which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats and not just dons like
Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et
Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si
laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi
la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a
Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale
venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione
autonoma Valle d'Aosta. Fra le sue opere
più note, Il concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo
pensiero storico-filosofico. Oltre che
filosofo del diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il
fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante,
finalmente distinta dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio
col saggio, “Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento
tematico della “Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per
filosofi in uso nella filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo
uno schema concettuale schiettamente filosofico: "il concetto di forza –
forzare ", "il concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il
concetto di autorità – auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato,
secondo una scala di qualificazione crescente. Il concetto di "forza"
(il forzare) e qualificato di un imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto
di "potere" (potere del giurato) contiene il concetto di forza (il
forzare – come un mando o imperativo efficace), ma organizzato in una
istituzione e qualificato dal ‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il
concetto di "autorità" come contenendo la second faccia del potere del
giurato, qualificato da una concetto di legge variable: la promozione del
giurato, la promozione del bene comune (la res publica), o la promozione della
piccolo patria. Altre opere: Il concetto dello stato (Torino: Giappichelli);
“La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La filosofia della politica, Torino: POMBA);
“Filosofia politica nel medio evo italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La
filosofia politica d’Alighieri” (Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed
economia, Pavia: Libreria Internazionale F.lli Treves); “Morale, Roma:
Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine politiche: la filosofia politica
medioevale, Torino: Giappichelli); “Il
concetto dello stato in Zwingli", in Filosofia del diritto, Roma); La
teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna,
Torino: Istituto giuridico della R. Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea,
Edizioni di Comunità). La piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione
Politica, Pensa Multimedia. Dizionario
biografico degli italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Ricerca
Patria Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Patria (disambigua). La Patria (dal latino = la terra dei
padri) è il concetto di nazione e paese, natio interiorizzato e
idealizzato. L'Altare della Patria a Roma. Descrizione La patria è
un topos prettamente letterario (concetto ricorrente) che è possibile ritrovare
in tantissimi temi trattati e argomentati nelle scienze umane, con particolare
frequenza nell'area umanistica. BibliografiaModifica Vincenzo
Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in «Il Veltro», Finotti, Italia.
L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, Ceccarelli, Patria. Da patria a
nazione, in Guido Pescosolido e Giuseppe Bedeschi (a cura di), Dizionario di
storia, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”,
«patria» Collegamenti esterniModifica patria, su Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata patria, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Thesaurus Portale
Antropologia Portale Politica Portale Storia Popolo
insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno
Stato Statista personaggio politico deputato a governare e regolare gli
affari di Stato Sciovinismo forma fanatica ed esasperata di nazionalismo
o patriottismo. Grice: “It’s only natural that
Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was born in a
minority, like Russell, who was born in a place which some called England, some
called Wales. The situation is so borderline that it reminded me of my ancestors,
the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are having in Germany!
Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It
is not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’
– the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since
it just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is
legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have no legitimate power’ – and you have no power,
means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!”
As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of
Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta
belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with
Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre
Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et
Courmayeur. Courmayeur. Keywords: Hegel in Italia, piccola patria, il concetto
dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare
come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato
in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia: l’autorita,
come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto ideale
variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccola patria. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. Courtmayeur.
Grice e Cotroneo: l’implicatura conversazionale della
VIRTÙ – [andreia] filosofia italiana – Luigi Speranza (Campo Calabro). Filosofo italiano. Si laurea Messina
sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”.
“Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I
trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e
moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa,
società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della
libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà,
Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli,
Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane);
“Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo.
L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un
viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo,
Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La
virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le
Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La
scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo,
Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora);
“Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica
vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele,
retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini,
Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano
Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su
Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno
di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia
dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria
Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo, in
Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, Storia della filosofia, Milano, Bompiani,
Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra
Storia della Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica
Italiana, Roma, Carocci, Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano,
Franco Angeli, Cotroneo, in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ricerca
Virtù disposizione d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Virtù
(disambigua). La virtù (dal latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una
disposizione d'animo volta al bene, che consiste nella capacità di una persona
di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale, o di
essere o agire in un modo ritenuto perfetto secondo un punto di vista morale, religioso,
o anche sociale in base a alla cultura di riferimento. Il significato di
virtù ha risentito di quello di bene, un concetto che assume significati
diversi a seconda delle modifiche intervenute nel corso delle varie situazioni
storiche e sociali. Concezione questa non condivisa dalle dottrine che ne
negano il relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione di
valori, intesi come assoluti, immutabili nel tempo. La parola latina virtus,
che significa letteralmente "virilità", dal latino vir
"uomo" (nel senso specifico di "maschio" e contrapposto
alla donna) si riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi
maschili, come ad esempio il coraggio. Nella lingua italiana la virtù è
invece la qualità di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il
termine è riferito comunemente anche a un qualche tratto caratteriale
considerato da alcuni positivo. Personificazione della virtù nella
Biblioteca di Celso. La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il
concetto grecoModifica Niccolò Machiavelli Nella visione della vita
secondo la filosofia anticagreca, la concezione dell'aretè non era connessa
all'azione per il conseguimento del bene, bensì indicava semplicemente una
forza d'animo, un vigore morale e anche fisico. Essa coincide con la
realizzazione dell'essenza innata della persona, sia sul piano dell'aspetto
fisico, il lavoro, il comportamento e gli interessi intellettuali. Questa
concezione di virtù contiene l'eccellenza degli eroi omerici, quella degli
statisti Ateniesi, o quella descritta nel Menone di Platone ovvero la capacità
di ben governare. In questo senso il coraggio, la moderazione e la giustizia
erano virtù morali. Tale sarà, ad esempio, il senso nella concezione
rinascimentale sulla politica in Niccolò Machiavelli che vorrà distinguere
l'aretè del principe moderno, come la capacità di opporsi alla
"fortuna" e di modificare le circostanze ai propri fini di potere e
con lo scopo principale del mantenimento dello stato (senza tener conto del
giudizio morale sui mezzi impiegati), dalla virtus cristiana del sovrano
medioevale che governa per grazia di Dio a cui deve rispondere per la
giustificazione della sua azione politica, diretta anche a difendere i buoni e
proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale
né religiosa dovrà ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della
sua "aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica
italiana. Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù consisterà
nella "volontà di potenza" in opposizione alla "morale degli
schiavi" nata dallo spirito di risentimento del Cristianesimo nei
confronti degli uomini superiori. Le virtùModifica Platone
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etica Socrate e Platone. La concezione della virtù
nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue
trasformazioni nel corso del tempo. Così in Platone le virtù
corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne
La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da
Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire principali:
la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se eccessivi, sfociano
nella sregolatezza; il coraggio o forza d'animo necessaria per mettere in atto
i comportamenti virtuosi; la saggezza o "prudenza", variamente intesa
dalla speculazione antica seguente, che costituisce, come controllo delle
passioni, la base di tutte le altre virtù; la giustizia è quella che realizza
l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le altre virtù presenti nell'uomo
virtuoso e nello stato perfetto. Le virtù secondo Aristotele Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Aristotele L'Etica. Aristotele
Mentre Platone parlava genericamente di saggezza per l'esercizio della virtù,
Aristotele la distingue invece dalla "sapienza". La saggezza, o
"prudenza", è una "virtù dianoetica", propria cioè della
razionalità comune a tutti che ispira la condotta umana permettendo il giusto
esercizio delle "virtù etiche", quelle cioè che riguardano l'azione
concreta. Tra le virtù dianoetiche che presiedono alla conoscenza
(intelletto, scienza, sapienza) o alla attività tecniche (arte), la saggezza è
propria di colui che, pur non essendo filosofo, è in grado di operare
virtuosamente. Se si dovesse acquisire la sapienza filosofica per praticare le
virtù etiche questo comporterebbe che solo chi ha raggiunto l'età matura,
divenendo filosofo, potrebbe essere virtuoso mentre con la saggezza, grado
inferiore della sapienza, anche i giovani possono praticare quelle virtù etiche
che permetteranno l'acquisto delle virtù dianoetiche. La saggezza insomma
permette una vita virtuosa, premessa e condizione della sapienza filosofica,
intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che
pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi
realizzano a pieno poiché «Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino
in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla
vita umana.» Virtù eticheVirtù dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza
Liberalità Magnificenza Magnanimità Mansuetudine Virtù calcolative Arte
Prudenza Virtù scientifiche Sapienza Scienza Intelligenza La saggezza può esser
fatta conseguire ai giovani tramite l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti
tali dalla collettività, impartiranno anche con l'esempio concreto della loro
condotta. Da questi modelli il giovane apprenderà che le virtù etiche
consistono nella capacità di comportarsi secondo il "giusto mezzo" tra
i vizi ai quali si contrappongono (ad esempio il coraggio è l'atteggiamento
mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà), sino a conseguire con
l'abitudine un abito spontaneamente virtuoso: infatti «La virtù è una
disposizione abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in
relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in
base al quale la determinerebbe l'uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per
eccesso e quello per difetto» In medio stat virtus è il detto della
filosofia scolastica che traduce il concetto greco di mesotes. La virtù
secondo gli stoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento
in dettaglio: Stoicismo Etica. La saggezza, ossia la capacità di operare con
prudenza, è al centro della morale epicurea e stoicama, mentre per gli epicurei
la virtù si consegue attraverso un calcolo razionale dei piaceri stabilendo
quali di essi siano veramente necessari e naturali, per gli stoici invece il
comportamento virtuoso, risultato del conseguimento dell'"apatia",
cioè della liberazione ascetica dalle passioni, è di per sé portatore di
felicità. Per coloro che non riescono a condurre la loro vita secondo saggezza
lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che insegneranno a operare
secondo ciò che è più "conveniente" od opportuno tenendosi sempre
lontano dagli eccessi delle passioni. La morale stoica ispirerà quella
dei filosofi come Cartesio, che rivaluterà tra le passioni quella della
"magnanimità", considerata virtù somma, e Spinoza che afferma che «il
primo e unico fondamento della virtù, ossia della retta maniera di vivere, è di
cercare il proprio utile» intendendo per "utile" solo ciò che
«conduce l'uomo a maggior perfezione» infatti «gli uomini che ricercano il
proprio utile sotto la guida della ragione non appetiscono per sé niente che
non desiderino gli altri uomini, e perciò essi sono giusti, fedeli, onesti» e
per ciò stesso la virtù è premio a sé stessa come portatrice di una vita serena
condotta secondo la razionalità. Le virtù secondo il
cristianesimoModifica «Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire
simili a Dio» Nel pensiero cristiano oltre le virtù umane è possibile
l'esercizio di quelle soprannaturali: le virtù teologali di fede, speranza e
carità che in qualche modo dovranno conciliarsi con quelle dell'etica
antica. San Tommaso conserverà la validità delle virtù
"cardinali" aristoteliche ma considerandole inferiori a quelle
teologali mentre Agostino riteneva false le virtù umane dei pagani che
mascherano sotto il nome di virtù quello che in realtà è l'esercizio di vizi "splendidi",
ma pur sempre negativi in quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca
dell'effimera gloria umana. L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il
cui esercizio, per quanto essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla
volontà divina che lo infonde negli spiriti eletti, cioè dalla infusione
nell'uomo della indispensabile grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà
nel XVI secolo con la Riforma protestante e nel Giansenismo. Inoltre uno
dei nove cori delle gerarchie angeliche, viene denominato Virtù ed indica
secondo lo Pseudo-Dionigi il coro angelico preposto a dispensare la grazia
divina. La virtù nel pensiero modernoModifica Nella filosofia dell'età
moderna la concezione della virtù oscilla tra quella che la considera come
l'esercizio di un controllo delle passioni a cui rinunciare e quella che invece
la ritiene rientrare nell'ambito di un comportamento istintivo e naturale
dell'uomo. Alla prima interpretazione si associano le dottrine della corrente
libertina da Pierre Bayle a Mandeville che ironizzano sulla effettiva
possibilità per gl’uomini dell'esercizio delle virtù che se anzi fossero
attuate provocherebbero la disgregazione della società. «Il vizio è
tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per
obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione
celebre e gloriosa.]» Si è sempre parlato ipocritamente di virtù,
osservano i libertini, le quali in realtà sono la mascheratura dei propri vizi
come ben appare nella contrapposizione tra le ostentate "pubbliche
virtù" e i nascosti "vizi privati". La virtù come sacrificio del
singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti, è anche nella concezione
politica di Montesquieu che riporta questo comportamento civile ai regimi
repubblicani mentre in quelli monarchici prevale l'orgoglio e in quelli dispotici
la paura. Anthony Ashley Cooper, III conte di Shaftesbury Nell'etica
inglese la virtù è intesa, in opposizione alle dottrine
sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento impulsivo
naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza (Shaftesbury e
Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla riprovazione
morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura o
all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione
virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di
Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il
suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù
secondo David Hume e Adam Smith è quello della simpatia. Le nostre sensazioni
nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili moralmente in
rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una dimensione
esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre da ciò che
provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.» (David Hume,
Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza) «Per
scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che
deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la
forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o
nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di
cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre. Questa disposizione
naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà espressione
nel deismo e in seguito costituirà il nucleo della teoria romantica
dell'"anima bella" di Schiller. La virtù come sforzo. Kant Una
ripresa della concezione della virtù come repressione delle passioni umane è
nella filosofia morale di Kant che distingue una "dottrina della
virtù" dalla "dottrina del diritto". Nel diritto l'uomo si
sottomette alla legge per rispettarne la formalità esteriore senza considerare
il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella
morale ci si vuole comportare secondo il dettato morale indipendentemente da
qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù
come soggezione della volontà all'"imperativo categorico". La
vetta, opera simbolista di Cesare Saccaggi, che esprime i concetti romantici di
Streben («sforzo») e Sehnuct («struggimento»), ossia l'anelito dell'uomo verso
un ideale che si rivela sempre più arduo ed elevato. L'imperativo categorico,
ossia la virtù, implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben),
combattendo le inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua
volontà a ciò che l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa
avvenire spontaneamente significa confondere la debolezza umana con ciò che è
proprio della santità che appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei
confronti della legge morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per
gli uomini sia per la divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa
ostacolarla nell'osservanza della legge morale, non ha neppure virtù. Questa
visione della virtù assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo che Kant
invece rifiuta laddove questo connette all'esercizio della virtù la felicità.
Certo l'uomo nella sua costituzione sensibile ha bisogno della felicità ma
nulla garantisce che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di giustizia vuole
poi che l'uomo abbia una felicità bilanciata al suo comportamento virtuoso ma
poiché questo non accadrà mai nel nostro mondo terreno, egli allora postulerà
l'esistenza di un'anima immortale a cui un Dio giusto assicuri la giusta
felicità. L'etica kantiana, tradotta da Fichte e Schelling nella tensione
verso un ideale infinito a cui l'Io cerca progressivamente di conformare il
non-io, pur non raggiungendolo mai definitivamente, sarà invece messa in
discussione da Hegel, il quale vi vedrà l'espressione di un tipico
soggettivismo delle "virtù private" contrapposto a quella
"eticità" antica, ancora valida nel suo tempo, da apprezzare perché
rivolta alla collettività dove si realizza il bene tramite la famiglia, la
società civile e lo Stato.[Le virtù secondo il BuddhismoModifica Il Buddhismo
sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù come un desiderabile obiettivo
per l'uomo buono che ci ricorda l'antica concezione socraticaispirata a
quell'intellettualismo etico secondo cui il l'uomo fa il male perché ignora
cosa sia il bene. Le virtù nel Buddhismo sono il continuo applicare, come
regole di autodisciplina nella vita quotidiana, dei Tre rifugi o dei Cinque
precetti che consistono nello 1. Astenersi dall'uccidere o danneggiare
qualunque creatura vivente 2. Astenersi dal prendere ciò che non ci è stato
dato 3. Astenersi da una condotta sessuale irresponsabile 4. Astenersi da un
linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi dall'assumere bevande alcoliche e
droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano la disciplina e la sensibilità
necessarie per chi voglia coltivare la meditazione, che è il secondo aspetto
del sentiero. La virtù nella filosofia cinese La virtù (traduzione di
"de" 德) è un
concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il confucianesimo e il
taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao (solitamente tradotta
come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore importante, contenuto nella
gran parte del pensiero cinese, è che lo stato sociale di ciascuno debba essere
determinato dall'insieme delle sue virtù manifeste, e non da un qualunque
privilegio di nascita. Nei suoi Analecta, Confucio parla della pratica che
conduce alla perfetta virtù. Le virtù confuciane si sviluppano in due rami: il
ren e il li; il ren può essere tradotto come benevolenza, amore disinteressato,
e l'uomo la può raggiungere praticando cinque virtù: magnanimità, rispetto, scrupolosità,
gentilezza e sincerità. Confucio afferma che queste virtù devono essere
praticate verso il li, che è la parte pratica della virtù confuciana. Il li
consiste in cinque canali relazionali: marito/moglie, genitore/figlio,
amico/amico, giovane/anziano, suddito/sovrano. Romanus Cessario, Le
virtù, Editoriale Jaca, Ancient Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of
Philosophy) Ferroni, Machiavelli, o Dell'incertezza: la politica come arte del
rimedio, Donzelli Editore, Platone, Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a
fronte, a cura di Vitali, Feltrinelli Editore, Aristotele, Etica Nicomachea, Aristotele,
Etica Nicomachea, Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur
Descartes, Paris, Albin Michel 1995 ^ Remo Bodei, Geometria delle passioni.
Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli Editore, Eth.
V, prop. 41 Eth. IV, prop. 18 ^ San Gregorio di Nissa, De beatitudinibus,
oratio 1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger (Leiden L'elenco è dedotto
dalla prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Rivestiti della corazza della
fede e della carità avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8) Kostko, Beatitudine
e vita cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio
Domenicano, I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella
concezione cristiana sono superbia, avarizia, lussuria, gola, ira, invidia e
accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della diocesi di Nizza1) Mondin, Etica
e politica, Edizioni Studio Domenicano, Mandeville, La favola delle api ^
L'espressione si ritrova nell'operetta di Bernard de Mandeville pubblicata
anonima con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (Ronzio di
arnie, o Furfanti divenuti onesti), ristampata con l'aggiunta del sottotitolo
Vizi privati e pubbliche virtù e infine con il titolo Fable of the Bees: or,
Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati,
pubbliche virtù) Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, Kant,
Metafisica dei costumi Galli e Aa.Vv., Saccaggi: un poliedrico pittore
internazionale su gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro Gabbantichità.
Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci, l'atteggiamento passionale
e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida irraggiungibilità della
donna, allegoria della Montagna-Natura. Fausto Fraisopi, Adamo sulla sponda del
Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando Editore, Pasquale
Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un confronto critico, Guida; Hua,
Buddhismo: Une breve introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, Pavolini,
Buddismo, Hoepli, Chiesa Cattolica,
Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, New Catholic
Encyclopedia, Catholic University of America, Natoli, Dizionario dei vizi e
delle virtù, Feltrinelli UE Scheler, Per la riabilitazione della virtù. Aquino,
Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a fronte, Milano,
Bompiani, Paideia Bushidō Moralità Etica
Bontà Teoria dei valori Giustizia sociale Pietà (teologia) Sette peccati
capitali Virtù cardinali Virtù teologali Timè. «virtù» virtù, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Virtù / Virtù
(altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Virtù, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata
The Four Virtues, su thefourvirtues.com. The Virtues Project, su metamind. Virtue
Science.com. Portale Filosofia Portale Religione. Etica ramo della filosofia Etica
Nicomachea opera di Aristotele Virtù dianoetiche ed etiche Wikipedia Il
contenutoGirolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords: VIRTÙ, retorica, retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica
moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” –
The Swimming-Pool Library. Cottroneo.
Cotta: l’accademia
a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears as a character
in De natura deorum by Cicero. There he presents the points of view of the
Accademia. However, he spent some time in exile and almost certainly studied
the doctrine of the Porch and that of the Garden as well. Gaio Aurelio Cotta.
Cotta.
Grice e Cotta: l’implicatura
conversazionale nella storia del diritto romano -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per
che violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a
secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You
see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he was – but
Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that and coined
‘cum-cor’ – i.e. something like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice:
“I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on
essentialism, deontic logic, and from war to peace!” Figlio di Alberto, studioso di scienze
forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto
di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si
laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno
dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in
barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai
tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere
il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una brigata
partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i primi
ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua partecipazione
alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di bronzo al valor
militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero politico
dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia
giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della
fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu,
Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche
sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento,
Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il
concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’
in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in
Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida
tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale
Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il
diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra
alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu,
Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il
sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La
Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, C. puo
fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente
stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione
finale e transitoria della Costituzione. Diritto
romano ordinamento giuridico della civiltà romana Lingua Segui Modifica Con
diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno costituito
l'ordinamento giuridico romano per circa tredici secoli, dalla data
convenzionale della Fondazione di Roma fino alla fine dell'Impero di
Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l'Italia
fu invasa dai Longobardi: l'impero d'Occidente si dissolse definitivamente e
Bisanzio, formalmente imperiale e romana, si allontanò sempre più dall'eredità
dell'antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica). Il Corpus
Iuris Civilis in una stampa del XVIII secolo, che raggruppava l'insieme di
tutte le leggi romane contemporanee e precedenti alla sua compilazione,
avvenuta sotto Giustiniano I «Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere,
alterum non laedere, suum cuique tribuere. Le regole del diritto sono queste:
vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.»
(Eneo Domizio Ulpiano Libro secondo delle Regole dal Digesto1.1.10 principio
[1]) L'importanza storica del diritto romano si riflette ancora oggi in una
lista di termini legali latini. Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero
romano d'Occidente, il Codice giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano
d'Oriente, conosciuto come Impero bizantino. Il linguaggio legale in Oriente fu
il greco. Il diritto romano definisce un sistema legale applicato nella
maggior parte dell'Europa occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In
Germania, il diritto romano venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano
Impero. Il diritto romano servì inoltre come base per la pratica legale
attraverso l'Europa occidentale continentale, così come nella maggior parte
delle colonie delle nazioni europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia.
Il sistema inglese e nord americano della common law venne influenzato anche
dal diritto romano, in particolare nel loro glossario giuridico latineggiante. Anche
la parte orientale dell'Europa venne influenzata dalla giurisprudenza del
Corpus Iuris Civilis, specialmente nei paesi come la Romania medievale[4]che
creò un nuovo sistema, un mix del diritto romano e locale. L'Europa orientale
fu inoltre influenzata dal diritto medievale bizantino. Il diritto romano
viene diviso approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi. Dalla
fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Storia del diritto romano, Ius Quiritium e Mos maiorum.
La prima fase, detta del diritto arcaico o quiritario, comprende il periodo che
ha inizio con la fondazione di Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole. In
questo periodo, il diritto privato, compreso il diritto civile romano era
applicato solo ai cittadini romani, ed era legato alla religione. Si trattava
di una forma giuridica non sviluppata, quindi non contenente gli attributi di
formalismo rigoroso, simbolismo e conservatorismo. Il giurista Sesto Pomponio
disse: "All'inizio della nostra città, le persone iniziarono le loro prime
attività senza alcun diritto scritto, e senza alcuna regola fissa: tutte le
cose erano governate dispoticamente dai re". Si ritiene che il diritto
romano sia radicato nella mitologia etrusca, con un'enfatizzazione dei rituali.
Diritto repubblicano fino alla seconda guerra punica. Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges
Liciniae Sextiae, Lex Canuleia, Lex Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del
secondo periodo coincide con il primo testo di diritto: le leggi delle XII
tavole. Il tribuno della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che le leggi
fossero scritte, per evitare che i magistrati potessero applicarle in modo
arbitrario.Dopo otto anni di scontri politici, i plebei riuscirono a convincere
i patrizia inviare un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di Solone; essi
inviarono poi altre delegazioni ad altre città greche per ottenerne il
consenso. Secondo quanto ci racconta Livio, furono scelti dieci cittadini
romani per mettere per iscritto le leggi. Mentre stavano eseguendo questo
lavoro, gli vennero attribuiti poteri politici supremi, detti imperium, mentre
il potere dei normali magistrativenne ridotto. I decemviri produssero le leggi
su dieci tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo
decemvirato, si racconta, aggiunse, nel 449 a.C. due ulteriori tavole. La nuova
legge delle dodici tavole venne ora approvata dall'assemblea popolare. Gli
studiosi moderni tendono a non dar credito alla precisione degli storici
romani. Non credono in genere che un secondo decemvirato abbia mai avuto luogo.
Il decemvirato si ritiene abbia incluso i punti più controversi del diritto
consuetudinario, e di aver assunto le funzioni principali a Roma. Inoltre, la
questione sulla influenza greca trovata nel diritto romano arcaico è ancora
molto discussa. Molti studiosi ritengono improbabile che i patrizi abbiano
inviato una delegazione ufficiale in Grecia, come gli storici romani credevano.
Invece, gli studiosi suggeriscono che i Romani abbiano acquisito leggi dalle
città greche della Magna Grecia, serbatoio principale dal mondo romano a quello
greco. Il testo originale delle XII tavole non si è conservato, anche perché
furono distrutte durante il sacco di Roma da parte dei Galli. I frammenti
sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso
moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme
applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili.
Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare
l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano
valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al
diritto privato e alla procedura civile. In seguito le leggi delle dodici
tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come: la Lex
Canuleia, che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei; le
Leges Licinae Sextiae che prevedevano restrizioni sui terreni pubblici (ager
publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo; la Lex Ogulnia
dove i plebei ottennero l'accesso alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia dove
i verdetti delle assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le
persone; la Lex Aquilia, che poteva essere considerata come la fonte del
moderno diritto civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla
cultura giuridica europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma
l'emergere di una classe di professionisti giuristi e della giurisprudenza.
Questo venne realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la
filosofia al soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come
una scienza. Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana
sono collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato una serie di
"modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico da utilizzare in
tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio, queste formule
sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro pubblicazione rese
così possibile, anche per chi non ricopriva cariche sacerdotali, di esplorare
il significato di questi testi di legge. Il periodo che successe dopo la
fine della seconda guerra punica fino all'avvento del principato, corrisponde
storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico. Questo periodo
coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande numero di
trattati, soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi giuristi
del periodo repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di un
voluminoso trattato su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande
influenza nelle epoche successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco
Tullio Cicerone. E benché Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto
evoluto, oltre a una raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne
rimpiazzata dal principato. In questo periodo possiamo notare lo sviluppo
di leggi più flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In aggiunta al
vecchio e formale ius civile venne creata una nuova classe giuridica: lo ius
honorarium, che può essere definita come "la legge introdotta dai
magistrati che avevano il diritto di promulgare editti al fine di sostenere,
integrare o correggere la giurisprudenza esistente. Con questa nuova legge il
vecchio formalismo venne abbandonato per i più flessibili principi dello ius
gentium. L'adattamento del diritto alle nuove esigenze fu dedicata alla
pratica giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i pretori. Un
pretore non era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una nuova legge
quando emetteva i suoi editti. I risultati delle sue sentenze godevano di
tutela giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove norme
giuridiche. Il successore del precedente pretore non era vincolato dalle
disposizioni del suo predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute
negli editti del suo predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si
generò un modo costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per
editto. Così, nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile, che andava
integrandosi e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi pretorie. In
realtà, la legge pretoria venne così definita dal celebre giurista romano
Papiniano. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel
supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Il
diritto pretorio è una legge introdotta da pretori per integrare o correggere
il diritto civile per il bene pubblico.» Alla fine, il diritto civile e
il diritto pretorio si fusero nel Corpus Iuris Civilis. I primi
duecentocinquant'anni da Augusto, fino alla morte dell'imperatore Alessandro
Severo corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo momento
storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il momento più
elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le pratiche dei
giuristi di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto romano.
I giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali: su richiesta
delle parti private; ai magistrati a cui era affidata l'amministrazione della
giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli editti dei pretori,
quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro mandato, su come
avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in base alle quali
vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi vennero incaricati di
occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e amministrativi. I giuristi
produssero, inoltre, tutta una serie di commentari legali e trattati. Attorno
al 130 il giurista Salvio Giuliano redasse un modello standard di come doveva
essere redatto un editto di un pretore, che poi venne utilizzato da tutti i
pretori da quel momento in poi. Questo editto conteneva dettagliate descrizioni
di tutti i casi, nei quali il pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale
e una difesa. L'editto standard funzionava come un codice di legge completa,
anche se formalmente non aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti
giuridici per un'azione legale di successo. L'editto divenne pertanto la base
per numerosi commentari giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda
come, Giulio Paolo e Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti
giuridici elaborati dai giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo
numerosi da menzionare qui. Seguono quindi alcuni esempi: i giuristi
romani separarono chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto
legale, dalla possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso).
Elaborarono anche la distinzione tra contratto e colpa come fonti delle
obbligazioni legali. I contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione, appalto
di servizi) furono regolati nei più importanti codici continentali e le
caratteristiche di ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella
giurisprudenza romana. Il giurista classico Gaio creò un sistema di diritto
privato basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e
actiones (azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi:
basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di William Blackstone,
gli atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile tedesco
(Bürgerliches Gesetzbuch). L'ultimo periodo è quello denominato post-classico,
iniziato con la morte di Alessandro Severo e segnò la fine del principato, dilaniato
dalle guerre civiliper la porpora imperiale e dalle continue invasioni dei
barbari del nord e delle armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di
Giustiniano. In questo periodo le condizioni per il fiorire di una cultura
giuridica raffinata divennero meno favorevoli. La situazione politica ed
economica generale si era andata deteriorando, da quando gli imperatori
romaniavevano assunto un controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita
politica. Il sistema politico del principato, che aveva mantenuto alcune
caratteristiche della costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi
nella monarchia assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di
giuristi che considerassero il diritto come una scienza, non come mero
strumento per raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca
assoluto, non si adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria
cessò quasi di esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del
III secolo. Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto
classico finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in
Oriente prese piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi
classiche e della giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive,
soprattutto grazie all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base
del diritto medievale. Eredità del diritto romanoModifica In
OrienteModifica Edizione del Digesta, parte del Corpus Iuris Civilis di
Giustiniano I. Quando la centralità dell'Impero romano venne spostata a est
della Grecia nel IV secolo, apparvero nella legislazione ufficiale romana molti
concetti legali di origine greca. Questa influenza risulta visibile perfino nel
diritto privato inerente ai rapporti tra persone e alla famiglia, che
tradizionalmente faceva parte del diritto che subiva minori cambiamenti. Per
esempio Costantino I cominciò a porre delle restrizioni all'antico concetto
romano di patria potestas, il potere detenuto dal padre nei confronti della
famiglia e dei suoi discendenti, riconoscendo che le persone in potestate, i
discendenti, potevano avere diritti di proprietà. Egli apparentemente fece
delle concessioni al concetto molto più severo di autorità paterna del diritto
greco-ellenistico. Il Codex Theodosianus era una codificazione delle leggi di
Costantino. Gli imperatori successivi andarono perfino oltre, fino a quando
Giustiniano I decretò che un fanciullo in potestate potesse diventare
proprietario di tutto ciò che avesse acquistato, con esclusione di quanto
veniva acquistato da suo padre. L'opera giuridica di Giustiniano,
particolarmente il Corpus Iuris Civilis, continuò a costituire la base della
pratica legale dell'Impero bizantino. Leone III Isaurico emise un nuovo codice,
denominato Ecloga. Gli imperatori Basilio I il Macedone e Leone VI il
Saggiocommissionarono la traduzione in greco del Codice e del Digesto, parti
del codice di Giustiniano, conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto
romano preservato nel corpus legislativo di Giustiniano e nella
Basilicarimasero la base della giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa
ortodossa perfino dopo la fine dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi,
formando così la base per gran parte del Fetha Negest, che rimase in essere in
Etiopia. Reintroduzione in OccidenteModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Regni romano-barbarici, Diritto barbarico e
Diritto medievale. In seguito alle invasioni barbariche, come fonte principale
del diritto, il diritto romano scomparve in gran parte dell'Europa occidentale.
L’imperatore d'Oriente Giustiniano I promulgò il Corpus iuris civilis che in
futuro sarebbe diventato la base per la reintroduzione del Diritto romano
nell'Occidente. Nel Corpus, Giustiniano fece confluire tutte le antiche leggi
di Roma cercando di armonizzarle con le nuove che nel frattempo erano state
promulgate. Il Codice di Giustiniano fu applicato nei territori italiani
sottoposti all'autorità di Bisanzio, ma le seguenti invasioni barbariche le
cancellarono dall'Occidente, riducendo il diritto romano a mero diritto comune.
In seguito, l'insistenza degli imperatori romano-germanici di proclamarsi
diretti successori dell'Impero romano, in particolare della Dinastia ottoniana
di Sassonia favorì, anche grazie alle università, la reintroduzione del Diritto
romano in Occidente, andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli
invasori germanici. Nel Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per
volontà dell'imperatore Federico II con le due assise di Capua e Messina. Il
diritto romano venne riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi
europei. Un sistema giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con
elementi di Diritto canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto
feudale, divenne comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius
commune, termine che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come
civil law. Diritto romano e tutela dei monumentiModifica La protezione
delle opere pubbliche e delle principali opere d'arte come anche, più in
generale, dell'intera consistenza cittadina era disciplinata da un insieme
organico di statuti, leggi, costituzioni e provvedimenti risalenti già alla
prima età repubblicana. Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche
pubbliche che sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici,
regolando e inserendo in un sistema altamente efficiente una realtà in
precedenza già presente, seppur in forma embrionale, anche nel mondo greco.
Le tracce di come un tanto imponente sistema si sia trasmesso sino ai giorni
nostri, influenzando la nascita delle prime moderne forme di protezione dei
monumenti pubblici, sono fin troppo evidenti. Si pensi, per esempio,
all'istituzione dei magistri aedificiorum et stratarum voluti, nella Roma del
Quattrocento, da papa Martino V. Diritto romano oggiModifica Oggi, il diritto
romano non è più applicato nella giurisprudenza moderna, anche se negli
ordinamenti giuridici di alcuni Stati come il Sudafrica e San Marinoalcune
parti si basano ancora sullo ius commune. Tuttavia, anche se la giurisprudenza
si basa su un codice, si applicano molte regole derivanti dal diritto romano:
nessun codice ha completamente rotto i collegamenti con la tradizione romana.
Piuttosto, le disposizioni del diritto romano sono state create su misura in un
sistema più coerente, espresso nella lingua nazionale di molti Stati. Per
questa ragione, la conoscenza del diritto romano è indispensabile per capire i
sistemi giuridici contemporanei. Il diritto romano risulta spesso un argomento
obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie giurisdizioni di diritto
civile. Come passo fondamentale verso l'unificazione del diritto privato
negli Stati membri dell'Unione europea, viene così adottato il vecchio Ius
Commune, che era la base comune della pratica legale in tutto il mondo,
permettendo poi molte varianti locali, ed è sentito da molti come un modello
basilare. Divisioni interne al diritto romanoModifica Il diritto romano
si suddivide in: ius Quiritium (deriva da "Quirites", sinonimo
di "Romani"), costituito da un insieme di consuetudini ancestrali,
non scritte, talmente remote che i Romani stessi non ne conoscevano l'origine.
Riguardava gli ambiti di diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e
proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non
esistevano. Costituisce il nucleo più arcaico del ius civile. ius civile, era
l'insieme delle norme che regolano i rapporti tra i cives romani, considerato
nell'ottica romana come orgogliosa prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso
il giurista romano Papiniano dà la seguente definizione tramandataci dal
Digesto giustinianeo: Ius autem civile est quod ex legibus, plebis scitis,
senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Il ius
civile è il diritto che promana dalle leggi, dai plebisciti, dai
senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei
giurisperiti.» (Digesto) ius gentium, l'insieme di tutti gli istituti che
trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche presso altri
popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da Cicerone, si
trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però, non essendo
filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando la natura come
atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali. Ciò accadde
specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché stabilisce che
"Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli
esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della femmina, che
noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei figli. Vediamo
infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi, conoscono e
praticano questo diritto. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel Digesto
giustinianeo (D.) e insieme con l'intero Corpus iuris civilis costituirà
oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali. Gaio propende per una
bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile,
creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto
comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè
in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché
ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una
situazione naturale già predisposta dalla stessa natura; Ulpiano propende per
una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che lo ius civile sia creazione
artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento
per i soli uomini, mentre lo ius naturale sarebbe quello di tutte le creature
viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una
condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale
dell'uomo. ius honorarium (o ius praetorium), che riguarda le situazioni di
diritto o di fatto che, pur non trovando tutela nelle norme dello ius civile,
sono state regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di
iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel medesimo brano in cui definisce il ius
civile, racchiude il concetto di ius honorarium, che egli chiama ius
praetorium, nelle seguenti parole. Ius praetorium est quod praetores
introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi gratia propter utilitatem
publicam; quod et honorarium dicitur ab honore praetorum. Il ius pretorium è il
diritto introdotto dai praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo
ius civileper la pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato
honorariumdall'onore dei pretori.» Ius legitimum, il cui nome deriva da
lex è il diritto prodotto in sede assembleare attraverso la votazione e
approvazione di una legge comiziale; lo ius legitimum ha particolare vita in
età repubblicana e fiorisce particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo
la sua morte e la trasformazione dello Stato in impero; con il venir meno delle
assemblee a favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio
imperiale del potere la lex perde il suo carattere di comizialità e viene a
identificarsi con la definizione di norme da parte dell'imperatore stesso,
nella forma della "costituzione imperiale". Da questo momento lo ius
legitimum si estingue, confluendo nello ius civile. Durante la repubblica le
principali assemblee produttrici di ius legitimum erano i comitia centuriata e
i concilia plebis, in minore parte le altre assemblee. Eneo Domizio Ulpiano,
Digesto1.1.10 principio. Ad esempio stare decisis, culpa in contrahendoo in
pacta sunt servanda. In Germania, Art.
311 BGB. Valacchia, Moldova e alcune
altre province medievali. Secondo Francisci (Sintesi storica del diritto romano)
la prima fase, denominata del diritto "primitivo", iniziava con la
fondazione di Roma e terminava con la fine della seconda guerra punica. Biondi,
Istituzioni di diritto romano, Ius civile Quiritium. ^ Come ad esempio la
pratica rituale della mancipatio, una forma di vendita. "Roman Law",
in Catholic Encyclopedia, Appleton Company, New York. Jenő Szmodis, The Reality
of the Law — From the Etruscan Religion to the Postmodern Theories of Law, Ed.
Kairosz, Budapest, Olga Tellegen-Couperus, A Short History of Roman Law, Livio,
Ab Urbe condita libri. Decemviri legibus scribundis. ^ Pudentes, sing. prudens,
o jurisprudentes. Pietro De Francisci, Sintesi storica del diritto romano. Invece
Biondi lo accorpa in un unico periodo con il precedente e lo chiama
"repubblicano". Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, in The
American Philosophical Society. Magistratuum edicta. Actionem dare. Edictum traslatitium. Francisci, Sintesi
storica del diritto romano, Tellegen-Couperus & Tellegen-Couper, A Short
History of Roman Law. Ecloga | Byzantine law Britannica, su britannica. Cardini e Montesano, Storia
Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia. "È questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale Giustiniano dettò
le sue nuove leggi preoccupandosi però di armonizzarle coerentemente con quelle
antiche. Tale monumento alla sapienza giuridica di Roma sarebbe stato alla base
della rinascita degli studi giuridici e delle istituzioni politiche della
stessa Europa; e costituisce ancora oggi il fondamento sul quale si appoggiano
i sistemi giuridici di gran parte dei paesi del mondo. Cardini e Montesano,
Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "La pretesa di
questi re di atteggiarsi a imperatori romani non fu priva di risultati anche
importanti: essa fu ad esempio uno dei motivi per cui, a partire dalla metà del
XII secolo, il diritto romano rientrò nell'Europa occidentale e -anche grazie
al lavoro che fu allora espletato nelle università- s'impose come nuovo diritto
sostituendosi in tutto o in massima parte alle precedenti tradizioni giuridiche
ereditate dai germani delle invasioni." Cardini e Marina Montesano, Storia
Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "Introdusse il diritto
romano, fondò l'Università di Napoli per disporre di un ceto di funzionari
fedeli istruiti all'interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero
dovuto andare fino a Bologna per studiare) e favorì lo "Studio"
medico di Salerno." ^ Incluse tutte le proprietà private. ^ V. Campanelli,
L'antefatto: leggi e norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", I
curatores viarum, operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^ Platone,
nel VI capitolo delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati chiamati
astynomi, storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene) dediti
alla cura e alla riparazione dei luoghi pubblici. Con la bolla Etsi in
cunctarum. Che per gli Stoici era permeata dalla ragione divina. Fassò Fassò,
p. 25, nota 5: «Digesto, Fassò, p. 25. BibliografiaModifica Fonti primarie
giuridiche La ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul
ritrovamento di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un
elenco (certamente non esaustivo) delle principali fonti di produzione del
diritto romano che ci sono pervenute: Augusto, Res gestae divi Augusti
(opera divisa in sei tabulae). Marco Tullio Cicerone, De legibus, libri I-III
Wikisource-logo.svg. Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano Imperatoris Theodosiani
Codex Wikisource-logo.svg; il contraltare alla codificazione Giustinianea, in
sedici libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra cui il Liber Legum
Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones Sirmondianae: raccolta di 16
costituzioni imperiali, che disciplinano materie ecclesiastiche; presero il
nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond. Emanate non furono tutte
accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale vennero pubblicate da Mommsen.
Corpus Inscriptionum Latinarum. Decretum Gelasianum, fonte di diritto canonico,
più che di diritto romano (da The Latin Library); Editto di Costantino e
Licinio logo.svg. Edictum Theodorici Regis: l'Editto di Teodorico pubblicato
nel 500, diviso in 154 articoli, era un codice "territoriale", cioè
conteneva disposizioni valide sia per i Romani che per gli Ostrogoti. Ciascuno
degli articoli era ricavato da un testo delle leges o degli iura, soprattutto
dai codices, dalle Sententiae di Paolo ecc. Vi sono anche alcune norme nuove,
di incerta origine (non si sa se di origine ostrogota oppure derivate dalla
pratica). Fontes Iuris Romani Anteiustiniani in usum scholarum, divise in 7
libri (due sulle Leges, due sugli Auctores, e 3 sui Negotia). Fragmenta
Vaticana Fragmenta Vaticana, frammenti di un'ampia compilazione privata di
costituzioni imperiali e di passi desunti dalle opere di Papiniano, Ulpiano e
Paolo. Il palinsesto fu scoperto da Mai nella Biblioteca Vaticana. Le
costituzioni imperiali ivi riportate sono varie.. Giustiniano I, Corpus iuris
civilis, composto da: Imperatoris Iustiniani Institutiones, (versione latina) -logo.svg;
opera didattica in 4 libri destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini
Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure
Collecti Digestorum seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in 50 libri di
frammenti estrapolati (non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più
eminenti giuristi della storia di Roma (testo latino); Domini Nostri
Sacratissimi Principis Iustiniani Codex, testo latino (raccolta di costituzioni
imperiali da Adriano allo stesso Giustiniano); Novellae Constitutiones -
costituzioni emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del Codex, fino alla
sua morte. Istituzioni di Gaio (Gai Institutionum). Leggi delle XII tavole
(Duodecim Tabularum Leges). Lex Romana Burgundionum, scritta all'inizio del VI
secolo, è articolata in 47 titoli e la si attribuisce a Gundobado, re dei
Burgundi (Gallia Orientale). È destinata ai soli sudditi romani del regno dei
Burgundi. Sententiae Pauli: i cinque titoli delle Sententiae receptae Pavlo
tributae e i cinque libri delle Pavli sententiarvm interpretatio. Senatus
consultum de Bacchanalibus; Ulpiano, Titvli ex corpore Ulpiani (opera piuttosto
elementare, destinata soprattutto all'insegnamento del diritto, contenuta in un
manoscritto della Biblioteca Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si
tratta di una compilazione post-classica, con molta probabilità dell'epoca di
Diocleziano o Costantino di passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di
Ulpiano). Storiografia moderna Dario Annunziata, Temi e problemi della
giurisprudenza severiana. Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Editoriale
Scientifica, Napoli, Ruiz, Storia del diritto romano, Jovene, Ruiz, Istituzioni
di diritto romano, Jovene, Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré,
Milano Burdese, Manuale di Diritto Privato Romano, Utet giuridica, Burdese,
Manuale di Diritto Pubblico Romano, Utet giuridica, Costabile, Storia del
diritto pubblico romano, Iriti, Francisci, Sintesi storica del diritto romano,
Roma Marzo, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano, Marzo, Manuale
elementare di diritto romano, Utet, Torino Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palumbo,
Cesare Sanfilippo. Istituzioni di diritto romano, Rubbettino, Schiavone, Ius:
l'invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2 International roman
law moot court Diritto latino romano, diritto, su Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Diritto romano, su hls-dhs-dss.ch,
Dizionario storico della Svizzera. Diritto romano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Digitalizzazione completa
del Corpus Iuris Civilis: Lion, Hugues de la Porte, Corpus iuris civilis, su
thelatinlibrary.com. The Roman Law Library (Yves Lassard, Alexandr Koptev)
Dizionario Storico del Diritto Romano SimoneDiritto e Storia del Diritto Romano
Otto Vervaart, Rechtshistorieː A gateway to legal history - Roman Law, su rechtshistorie.nl.
Fonti di diritto romano, su ancientrome.ru. (in russo). Portale Antica
Roma Portale Diritto Portale Roma Portale
Storia Corpus iuris civilis raccolta di materiale giurisprudenziale, voluta
dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I Digesto Compilazione di frammenti
derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I. Basilika. Il
conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima
ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il
normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il
giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta –
polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library. Cotta.
Grice
e Crassicio: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. Crassicio Pasicle moved to Rome where he worked
as a teacher before joining the school of Quinto Sestio.
Grice
e Crasso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. An orator and a politican. He took a keen interest in philosophy and
at different times studied with Metodoro of Scepsis, Carmada, Clitomaco di
Cartagine and Mnesarco. Lucio Lucinio Crasso. Crasso.
Grice
e Cratippo: il Lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Lizio. Friend of Cicerone. Tutor of Orazio and Bruto. Marco
Tullio Cratippo. Crattipo.
Grice e Credaro: l’implicatura
conversazionale del discorso al senato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sondrio).
Filosofo italiano. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the
universities! I especially love the way he connects it all, in that uniquely
Italian way, with the ‘assoluto’!” Si
laurea a Pavia, dove fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante
di liceo. Wi recò a Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto
Wundt. Insegna a Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia
nei governi Luzzatti e Giolitti IV --
istituì il Liceo moderno. Relatore nella presentazione della Legge che istitutiva
dei Corsi di perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche, di durata
biennale, di preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la direzione
didattica delle scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-Credaro, che
stabiliva che lo stipendio dei maestri delle scuole elementari fosse a carico
del bilancio dello Stato, e non più dei Comuni, contribuendo così in maniera
determinante all'eliminazione dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa
legge, infatti, i comuni di campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non
erano in grado di istituire e mantenere scuole elementari e pertanto rendevano
di fatto inapplicata la legge Coppino sull'obbligo scolastico. Si interessa attivamente dei problemi agricoli
e forestali di Sondrio. Autore di numerosi saggi, in particolare sui Kant eHerbart. Commissario Generale Civile della Venezia
Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere
fannesso all'Italia. In tale veste tentò una politica particolarmente
conciliante verso la minoranza di lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento
amministrativo de-centrato della regione. In seguito, anche a causa delle
pressioni dei nazionalisti, la sua politica nei confronti della minoranza di
lingua tedesca si fece più intransigente. Testimonianza ne è la cosiddetta Lex
Corbino,elaborata da Credaro, sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove
province che è considerata da una parte della storiografia strumento per
potenziare la presenza italiana soprattutto nel territorio misti-lingue della
regione a danno della minoranza tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una
squadra d'azione fascista che lo costrinse alle dimissioni per far luogo
all'insediamento di un prefetto di Trento. Termina quindi la sua carriera
politica in disparte rispetto al regime che si andava consolidando. Altre
opere: “Lo scetticismo degli platonisti (Roma, Tip. alle Terme Diocleziane); La
libertà di volere (Milano, Bernardoni); G. F. Herbart, Torino, Paravia),
“Razionalismo trascendente in Italia” Catania, Battiato); Wundt (Milano,
Società Anonima Editrice Dante Alighieri). Andrea Di Michele,
L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra
Italia liberale e fascismo, Alessandria, Orso, Analfabetismo, Dizionario
biografico degli italiani, Credaro un italiano d'altri tempi articolo di Sergio
Romano, Corriere della Sera, Sondrio. Se il nome di Carneade non è completamente ignorato dalle
persone colte, che non si occupano di storia della filosofia, si deve alla parte
giuridica del suo pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da
pochi frammenti della famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto
dello giusto tenuta a Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha
presi dal trattato della repubblica di Cicerone. Questa orazione alla Trasimaco
*contro* la coerenza del concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum,
giurato cf. Cicero jusjuratum --, che fa epoca nella storia della cultura del
popolo romano, non deve essere considerata solamente un episodio della vita di
Carneade, una semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione
sugli animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre
vedute di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine
bisogna anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato
(Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che
tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e
Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito
avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la
battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per
desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro
scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono
un corso di conferenze (A. Gell. Noct. Att.; Macrob. Saturn.). É probabile che
tutti e tre filosofi – Carneade accademico, Critolao peripatetico del liceo – e
Diogene stoico -- abbiano scelto l'argomento delle loro orazioni dalla
filosofia pratica, come quella che interessa vivamente i loro ospiti, tutti
dati alle armi, agli affari, alla politica, all'amministrazione; anzi e le cito
supporre che ciascuno abbia esposte le idee della sua scuola – l’accademia, il
liceo, e la stoa -- intorno al “giurato” – Cicerone iusiuratum, il principio o
imperativo più importante della vita pubblica e privata. Il soggetto del
giurato – Cicerone, iusiuratum – dove soddisfare pienamente le esigenze e i desideri
dell'uditorio, poichè i romani, a ragione o a torto, si credeno gli uomini più
giusti (giuratura, iusiuraturus) e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum)
attribuivano la grandezza, alla quale era pervenuta la propria patria. In
questa ipotesi lo stoico Diogene, con parola modesta e sobria, come attesta
Polibio, che ebbe opportunità di ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo
morale e il cosmo-politismo della sua setta. L'anima di tutti gli uomini è
uguale; e come tutte le cose uguali si attraggono, cosi anche gli esseri
razionali; per ciò l'istinto della società è insito nella stessa ragione, la
quale insegna a ciascuno di noi che esiste una sola città, un solo stato, la
grande società umana; ciascuno si sente parte integrante di questo immenso
organismo governato da una sola legge (ius) e da un solo diritto, la retta
ragione (ius). Questa legge (ius) conforme alla natura si fa sentire in tutti,
immutabile, sempiterna, divina; invita col comando al dovere, col divieto
allontana dalla frode. È suprema, assoluta; non è lecito crearne altre
contrarie, nè abrogarla totalmente o parzialmente; non voto di popolo, non
decreto di senato possono dispensare dall'ubbidirla; nessuno ha bisogno
d'interprete per comprenderla; è la medesima in Atene e in Roma, oggi e domani
e sempre; l'inventore e il promulgatore di essa è uno solo, il maestro e il
comandante di tutti, Dio. Chi non vi obbedisce, va contro la natura e per
questo fatto solo soffrirà tutte le pene. L'uomo pensa e opera moralmente (mos:
costume) solo in quanto conformasi a questa unica legge; e poichè questa è la
medesima in tutti gli uomini, tutti debbono tendere allo stesso scopo, al bene
universale. Il uomo non deve vivere per sè, ma per l'umanità; l'interesse
personale deve essere asso lutarnente subordinato a quello umano Cic., de fin.;
de rep.; Plut., de comm. notit.; Zeller). In questo stato politico ed etico
regna perfetta concordia ed armonia. Tutti i cittadini hanno vivo il sentimento
dell'ordine, coltivano la virtù e reprimono gli appetiti irrazionali, che sono
la causa dell’inimicizia e della guerra (bellum, polemos). Sono sottomessi alla
volontà divina, al fato, alla serie universale e interminabile delle cause e
degli effetti. I doveri fondamentali sono il giurato (iusiuratum), in qua
virtutis splendor est maximus, e la benevolenza e la beneficenza.Questedue
virtù sono le basi della società civile (Cic., de fin.). Intorno ad esse
Diogene puo parlare a lungo ai Romani, perchè nella Stoa e stato soggetto di
molte dispute e di scritti. Il suo tutore Crisippo gli aveva insegnato in
proposito una dottrina propria. Tutti gli altri esseri sono nati per il bene
degli uomini e degli dei, due uomini per formare una popolazione, una società,
una comunanza, una communita, un comune; è inerente alla natura che tra l'uomo
e il genere umano, come tra parte e tutto, interceda un diritto naturale. Colui
che lo osserva è giusto (promuove il giurato – iusiurato); ingiusto chi lo
trasgredisce. Tra il diritto pubblico e quello privato non avvi opposizione
(Cic., de fin.). Un uomo non si trova in rapporti giuridici con una bestia, ma
solo con suo simile. Affinchè si realizzi il regno del giurato (iusiuratum) e
della moralità occorre che la perfetta ragione sia presente in tutti. La
ragione invece si trova solamente nel sapiente; si formarono quindi gli stati
singoli, che tengono divisa l'umanità. Come gli stati, così le istituzioni che
li governano sono effetto di errore e stoltezza: quali l’istituzione del matrimonio,
l’istituzione della famiglia, l’istituzione della proprietà, l’istituzione dela
moneta, l’istituzione del ribunale, l’istituzione del ginnasio (Diog. L.).
Stato conforme alla natura umana, con istituzioni veramente buone, non esiste.
Edotto di questo idealismo politico, puo sul Campidoglio il pretore romano A.
Albino, uomo erudito e versato nella lingua greca, dire per ischerzo volgendosi
a Carneade. “A te, Carneade, non sembra io sia un pretore, nè questa una città,
nè in essa abitino cittadini). A cui Carneade, che subito capisce di essere stato
preso per il collega della Stoa. “A questo stoico non sembra cosi.” I filosofi
ateniesi non lasciano di contendere neppure in paese straniero; o certo
Carneade e stato assai lieto di osservare che al senso pratico dei romani la
dottrina de' suoi avversari si presenta come assolutamente *ridicola*; e
tornato in patria, credette il fatto degno di essere raccontato a' suoi
discepoli (L'aneddoto è ricordato da Clitomaco. Cic., Ac.). Sogliono gli
storici narrarci che Carneade tenne a Roma *due* discorsi ispirati a scopo
opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza del diritto naturale e loda la
giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike – cf. lex). Il secondo giorno
sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità, all’audacia e alla
sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di difendere contraddizione si
anorme. Anche non tenendo conto che, se si applicasse questo criterio, tutta la
filosofia dei accademici sarebbe un' immoralità, perchè il loro metodo e di
difendere in ogni quistione le soluziori opposte. Idue discorsi (tesi ed
antitesi, positio e contra-positio, posizione e contra-posizione), tenuti in
giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la sintesi, o com-posizione) e si
propongano il medesimo fine: mostrare la falsità della dottrina della tesi di
Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in questa parte della filosofia,
molto più che in altre, sono dipendenti da Platone e da Aristotele, bisogna
prendere le mosse da questi. Leggiamo in Lattanzio. Carneades autem, ut Aristotelem
refelleret ac Platonem, justitiae patronos, prima illa disputatione collegit ea
omnia, quae pro justitia dicebantur, ut posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades,
quoniam erant infirma, quæ a philosophis adserebantur, sumsit audaciam
refellendi, quia refelli posse intellexit (Lattanzio, Instit. div.). E al
trove. Nec immerito extitit Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui
refelleret istorum (Platone e Aristotele ) orationem et iustitiam, quæ
fundamentum stabile non habebat, everteret, non quia vituperandam esse
iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius ostenderet nihil certi, nihil
firmi de iustitia disputare (Epit.). Di qui è evidente che la prima orazione
non era che un esordio, un'introduzione, uno sguardo storico alla questione,
un'esposizione delle idee accettate da Diogene, che Carneade s'appresta a confutare
nel vegnente giorno (Cic., de rep.); confutazione, la quale non aveva per
iscopo di vituperare la giustizia in sé, ma di colpire i filosofi avversari, o
almeno la loro teoria dommatica – il domma.Non è la virtù stoica, che Carneade
demole, ma il sapere. Su questo si dovrà tornare più innanzi. E caso a noi
pervennero frammenti solamente della seconda orazione. Questa sola offriva una
filosofia nuova, dava una scossa inaspettata e forte all'intelligenza dei romani.
Perciò eam disputationem, qua iustitia evertitur, apud Ciceronem L. Furius
recordatur (Lattanzio, Instit. dio. I. c.). E noi ora possiamo tentare di
ricostruire questo singolare di scorso nelle sue linee generali. Per Carneade,
non esiste una giustizia (giurato – iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se
esso esistesse le medesimecose sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste,
buone o cattive, morali o immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le
fredde, le dolci e le amare. Invece chi conosce il mondo e la storia, sa che
regna una grandissima diversità di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini
tra il popolo romano e il popolo sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al
Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gli etoli reputano cosa onesta il
brigantaggio. I Lacedemoni dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano
toccare col giavellotto. Gli Ateniesi solevano annunciare pubblicamente che
loro apparteneva ogni terra che producesse olive e biade. I barbari galli
stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento col lavoro, invece che colle
armi. I romani vietano ai Transalpini la coltivazione dell'ulivo e della vite,
per impedire la concorrenza ai loro prodotti e dar a questi un valore più
elevato. Gli semitici egiziani, che hanno una storia di moltissimi secoli,
adorano come divinità il bue e belve di ogni genere. I semitici Persiani,
disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i tempii, persuasi essere cosa
illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione tutto il mondo, fossero
rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro manda ad esecuzione
la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli Egiziani, i barbari
galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai accetti alle loro deità
il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum)
ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o alla legge di oggi? A
quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere? Se una un imperativo
o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana, costante s'impone alla
coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste variazioni non sarebbero
possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un uomo che per natura
arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (ius) è una invenzione dell’uomo a
scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto che non raramente la legge,
le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a questo sesso un particolare
vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’, attentamente
esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio fisso, naturale,
vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non isfugge che ogni
disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata appena non
risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle mani il
potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera, per
istinto di natura, gli animali e le altre nazione come istrumenti della propria
conservazione e felicità (Cic., de rep.). La storia insegna che ogni popolo che
diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui, ma unicamente ai
proprii. Voi stessi o ROMANI, dice Carneade parlando a un Scipione Emiliano, il
futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a Lelio il saggio, al letterato
Furio Filo, a Scevola il futuro giureconsult, all'erudito Sulpicio Gallo,
algrande oratore Galba, al vecchio CATONE, l'implacabile nemico di Cartagine,
al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti ostaggi achei
trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale Polibio. Voi
stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla giustizia. Se volete
essere giusti, restituite le cose tolte agli altri, ritornate alle vostre
capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il criterio direttivo della
vostra vita non e il giurato
(iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara; poichè voi, coll'intimare
la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie* sotto un pretesto di
legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per venuti al possesso di
tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che avesse potuto produrre
negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori della loro grandezza
politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri esempi, che sono celebri
e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota risposta data dal pirata
catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto di mare con una sola
fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o Alessandro, infesti tutto il
mondo con grande esercito e flotta. Il patriottismo, questa virtù somma e
perfetta, che suole essere portata fino al cielo colle lodi, è la negazione del
giurato (iusiuratum), perchè si alimenta della discordia seminata tra gli
uomini e consiste nell'aumentare la prosperità del proprio paese, naturalmente
a danno di un altro, coll’nvadere violentemente il territorio altrui, estendere
il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è colui che acquista dei beni alla
patria colla distruzione di altre città e nazioni, colma l'erario di denaro,
rese più ricchi i concittadini. E, quel che è peggio, non solo il popolo e la
classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano e incoraggiano a commettere
cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non manca neppure l'autorità
della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia, che invano si tentano di
nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno diritto di vita e di
morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire per volontà
divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta, o per potenza, hanno
nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una setta. Ma i membri
prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il sopravvento nel maneggio dei
pubblici affari, la forma di governo si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè
gli uomini si temono l'un l'altro, e una classe ha paura dell'altra, interviene
una specie di *patto* o contratto fra popolo e potenti e si costituisce una
forma mista di governo, dove la giustizia è un effetto non di natura o di
volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve
scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria* e non riceverne; e
farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima la prima, perchè
soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza;
ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad essere continuamente
in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo
stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la
guerra, la discordia, la rapina, la violenza, l'inganno, in una parola, la
negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita
per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo,
considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che
l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi
avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si
acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre,
le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la
distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati
nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle
rapine i tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità
nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i
trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma
ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente
colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è
prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene
osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale
dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la
critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente
tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo
quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha
chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione
teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie
utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza
politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria,
estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove
sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza
danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare
tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il
suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la
felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai
l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo
attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al
sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali
di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione
del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la
propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il
popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da
sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di
nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi
o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con
la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato
(iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il
sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi
negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque
mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine
della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un
individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche
desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo
l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della
gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa
guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum --
anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione
e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui
non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita.
Credeno, I ROMANI pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente
negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione
tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum)
(Cic., de fin.). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’ dimostra
egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che sa
difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli altri.
Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari e appropriati
alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno schiavo, che
ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce questi
difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista fama di uomo onesto, perchè non inganna,
maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se
no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè
inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o
argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo
sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a
maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio, sta
per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai,
dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se
parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep.). Dunque qui pure si presenta la
contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente, è ingiusto. Ma in
questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di vantaggi
più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice della
povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe più spiccato.
Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare, vede un altro più
debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che vale a
sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e si
pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi
furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi
al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in
sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a
qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma
stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo. Cosicchè il giure naturale, la giustizia
naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta
d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il
giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un fatto
che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo -- principio
che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere quanto esteso
fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi una grande
forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il difensore
del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi opposta,
perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso schiavo,
il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e viene
meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo, l'anima
al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il conquistatore
tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto perchè e peggiore
di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci credere che egli risolve
il rimorso nella paura della pena, negando che fosse un sentimento più profondo
e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi il malvagio sarebbe
semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic. de leg.). In conclusione:
per Diogene, fondamento della morale e del diritto è l'inclinazione ad amare
gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che ha radice nella natura,
la quale sola offre la norma per distinguere il giurato dalla sua assenza, il
bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è l'utilità, e l'utilità
sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la quale non deriva da un
imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come provano la loro
varietà e il dissenso degli uomini (Cic., de leg.). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve attribuire un
significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione colle premesse
teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo proclamato da
Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è una dottrina *precettiva*,
alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e l'esposizione di un fatto
psicologico e sociale – come il principio cooperativo di Grice. Carneade non
pare credere all'effetto pratico della morale normativa e si limita ad
analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza, prudential, il
quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal realizzare il precetto
dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal proporne del proprio
precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta all'osservazione
quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più alta e sforzano a credere
o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro:
swear to a binding formula. NA Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wundt
Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag Wundt NA Wundt. Estate Wundt Brief von Luigi Credaro
an Wilhelm Wundt Ricerca Sofistica Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione –
"Illuminismo greco" rimanda qui. Se stai cercando il movimento
culturale greco del XVIII secolo, vedi Nuovo illuminismo greco. La sofistica
(in greco σοφιστική τέχνη, sofistiké téchne) è stata una corrente filosofica[1]
sviluppatasi nell'antica Grecia, ad Atene in particolare, a partire dalla
seconda metà del V secolo a.C., la quale, in polemica con la scuola eleatica e
avvalendosi del metodo dialettico di Zenone di Elea, pose al centro della
propria riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita
sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né di un
movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi
esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di
«maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo
ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro contrastanti. L'Acropoli
e l'agorà di Atene: qui fiorì la sofistica I sofisti rinunciarono alla vastità
delle congetture cosmologiche dei filosofi naturalisti, concentrandosi sulla
soggettività dell'uomo, sulla legittimità delle opinioni e il valore dei
fenomeni. L'approccio dei sofisti era quindi orientato all'individualismo e al
relativismo, alla critica dei valori tradizionali, al razionalismo. I
contemporanei avvertirono in queste posizioni il rischio di derive ateistiche e
di corruzione dei costumi. Certa storiografia moderna ha invece evocato l'idea
di un illuminismo greco. Etimologia. Anticamente il termine σοφιστής
(sophistés, sapiente) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si riferiva ad
un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di un'ampia
cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti» quegli
intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro
compenso:[6] quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva
scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il
termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come ricerca
del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere alcun
sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e ai
soldi, più che alla verità. Il termine mantiene anche nel linguaggio corrente
un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli basati
sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. La sofistica è stata
rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento fondamentale della filosofia
antica. Contesto storico-culturale Magnifying glass icon mgx2. Svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Pentecontaetiae Guerra del Peloponneso.
Veduta dell’Acropoli di Atene Lo sviluppo della sofistica ad Atene è legato a
un insieme di fattori culturali, economici e politico-sociali. Con la sconfitta
dei Persiani a Salamina le poleis greche affermarono la propria autonomia, e la
loro potenza si ampliò progressivamente nel corso dei successivi cinquant'anni
di pace (la cosiddetta Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte
furono le città rivali, ovvero Sparta e Atene: la prima espanse la propria
influenza su quasi tutto il Peloponneso attraverso un'ampia rete di alleanze,
mentre Atene, membro di primo piano della Lega delio-attica, con l'avvento di
Pericle finì con l'assumerne il comando. Con il potere politico ed economico
crebbe però anche l'ostilità tra le due città, e il desiderio di supremazia
sull'intera Grecia portò al disastro della Guerra del Peloponneso.
Pericle Pericle, leader carismatico della fazione democratica, governò
Atene per circa un trentennio, portando la città al suo massimo splendore. Egli
fece trasferire il tesoro della Lega delio-attica da Deload Atene, e trasformò
il volto della città con un imponente piano di riforma architettonica (simbolo
del potere dell'epoca sono gli edifici dell'Acropoli: il Partenone, l'Eretteo,
i Propilei); inoltre, si intensificarono i rapporti con le altre città,
attraverso alleanze e scambi commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace
a favorire l'affermarsi della sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di
virtù» itineranti, di spostarsi di città in città, seguendo le rotte
commerciali. Visitando luoghi con tradizioni e ordinamenti politici differenti,
talvolta varcando addirittura i confini dell'Ellade, essi iniziarono ad
interrogarsi sul valore intrinseco delle leggi e della morale, giungendo ad un
sostanziale relativismo eticoche riconosceva il valore delle norme morali solo
in relazione alle usanze della città in cui ci si trova ad operare: la stessa
areté (virtù) da loro insegnata si riduceva all'insieme delle norme e delle
convenzioni riconosciute valide dai cittadini, alle quali il retore si deve
adeguare per avere successo e buona fama. Tuttavia, bisogna considerare che non
erano considerati “cittadini” le donne, gli stranieri (meteci) e gli schiavi.
L'età di Pericle fu dunque al tempo stesso l'età dello splendore e della crisi
della polis, poiché coincise con la crisi dei valori tradizionali, di cui i
sofisti furono protagonisti; come scrive Mario Untersteiner, la sofistica è
«l'espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto
contraddittoria, e perciò tragica, sia la realtà». Il primo interesse dei
sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale,
religiosa, fatta di regole basate sulla forza dell'autorità e del mito (e per
questo motivo sono talvolta guardati come "precursori
dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale flessibile,
basata sulla retorica. D'altra parte, la stessa retorica che essi insegnavano
aveva un'enorme importanza per la vita civile nel regime democratico
dell'epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l'uguaglianza giuridica
(isonomia) e la libertà di parola durante l'assemblea pubblica
(parresia). Il tramonto dell'aristocrazia segnò il tramonto di una
mentalità, di un'epoca con le sue aspirazioni eroiche. Le eroiche lotte
sostenute contro i Persiani, le nuove leggi e le nuove costituzioni crearono un
grande senso di fiducia in se stessi. Nel pensiero dei sofisti si rispecchiano
le esigenze delle àlacri classi borghesi, l'arrivismo degli uomini nuovi,
l'irriverenza verso le tradizioni sacre ed il beffardo disprezzo del passato,
le violente lotte fra città e città, la corsa sfrenata alle cariche politiche.
I sofisti Rosa, Protagora e Democrito I sofisti erano considerati maestri di
virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi
furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Platone e
Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura».
Ironicamente, i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di
cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma
come "metodo di formazione" di un individuo nell'ambito di un popolo
o di un contesto sociale. Essi riscossero successo soprattutto presso i ceti
altolocati. La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere
vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e
dell'insegnante professionista[14]. Argomento centrale del loro insegnamento è
la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la
morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i
giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per
essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere
convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche. I sofisti, a
differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e
alla ricerca dell'archèoriginario, ma si concentrano sulla vita umana,
diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di
sofisti: Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e
Ippia Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a
loro volta distinguibili in: Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco,
Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico Sofisti della
physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi
naturalistici: Antifonte, (Ippia) Eristi, portano all'esasperazione il metodo
dialettico: Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto Altri: Seniade di
Corinto, forse l'anonimo autore dei Dissoi logoi Stando alle fonti, pare che
anche il filosofo Aristipposia stato un sofista prima di incontrare Socrate e
unirsi a lui; in particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per
certo che diede lezioni di eloquenza a pagamento. A questo proposito si
racconta un aneddoto: protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno,
il quale, contestando il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe
detto: «Mille dracme? Ma io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e Aristippo
avrebbe risposto: «E tu compralo questo schiavo, così ne avrai due in casa,
questo e tuo figlio!». A quanto pare Aristippo praticava tariffe differenziate
in base alle capacità degli allievi, così che se uno di questi aveva la
sfortuna di essere poco dotato la sua tariffa aumentava vertiginosamente,
mentre se al contrario era particolarmente brillante e intuitivo la tariffa
ammontava a poco più di 1 dracma, praticamente gratis. Caratteri generali
della sofistica Magnifying glass icon mgx 2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Relativismo etico sofistico. La sofistica, come detto, fu un
movimento disomogeneo, e ogni sofista differiva dagli altri per interessi e
posizioni personali. Tuttavia, è possibile riconoscere in questi autori alcuni
caratteri comuni. Centralità dell'uomo. I sofisti si interessarono
prevalentemente di problematiche umane ed antropologiche, tanto che gli
studiosi parlano di antropocentrismo sofistico. Essi approfondirono i temi
legati alla vita dell'uomo, che venne analizzata soprattutto dal punto di vista
gnoseologico (ciò che l'uomo può conoscere e ciò che non può conoscere), etico
(ciò che è bene e ciò che è male) e politico (il problema dello Stato e della
giustizia). L'essere umano veniva considerato a partire dalla sua condizione di
individuo posto all'interno di una comunità, caratterizzata da determinati
valori culturali, morali, religiosi e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a
osservare formalmente le leggi e le tradizioni della polis, così da diventare
cittadini rispettati e di successo – quindi virtuosi. Rottura con la
“fisiologia” presocratica. Come conseguenza del punto precedente, i sofisti in
genere trascurarono le discipline naturalistiche e scientifiche, che invece
erano state tenute in grande considerazione dai filosofi precedenti. Per questa
ragione alcuni studiosi hanno definito "cosmologica" la filosofia
precedente ed "umanistico" o "antropologico" il pensiero
sofistico. In realtà, va precisato che tale generalizzazione è per certi versi
limitativa, poiché ad essa fanno eccezione i casi di Ippia di Elide (che,
mirando ad un sapere enciclopedico, coltivò studi inerenti a vari campi
scientifici, tra cui matematica, geometria e astronomia) e Antifonte (il quale,
studioso dei testi ippocratici, fu esperto di anatomia umana ed embriologia).
Relativismo ed empirismo. I sofisti concepivano la verità come una forma di
conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo
rapporto con l'esperienza. Non esiste un'unica verità, poiché essa si frantuma
in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative,
finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti: si parla
pertanto di relativismo gnoseologico. Questo relativismo investe tutti gli
ambiti della conoscenza, dall'etica alla politica, dalla religione alle scienze
della natura.Dialettica e retorica. Le tecniche dialettiche dell'argomentare
(cioè dimostrare, attraverso passaggi logici rigorosi, la verità di una tesi) e
del confutare (cioè dimostrare logicamente la falsità dell'antitesi,
l'affermazione contraria alla tesi) erano già state utilizzate da Zenone
all'interno della scuola eleatica, ma fu soprattutto con i sofisti che esse si
affermarono e si affinarono. La dialettica divenne una disciplina filosofica
essenziale e influenzò profondamente la retorica, ponendo l'accento sull'aspetto
persuasivo dei discorsi, fino a scadere nell'eristica.Alla luce di tutto ciò,
alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di
“illuminismo greco” ante litteram, in quanto i miti e le credenze tradizionali
vennero criticati e sostituiti con nozioni razionali: in altre parole la sofistica
avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento
culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.
L'insegnamento Greuter, "Socrate e i suoi studenti", XVII
secolo. Nell'Atene era costume che i maestri tenessero lezione all'aperto, in
piazza o sotto i portici Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi
deputati all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi,[20] le palestre
pubbliche e le piazze, le quali includevano dei portici in cui i maestri
potevano passeggiare con i loro discepoli o sedere in banchi dove potevano
discutere. In genere, la scelta del luogo in cui tenere lezione era legata al
tipo di "sapienza" professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza
pubblica per mostrare la sua disponibilità verso tutti i cittadini e il
disinteresse per il denaro – e lo stesso faranno i cinici in epoca successiva –
mentre gli accademici, i peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi
attrezzati con strumenti scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato
ancora una volta che la sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un
movimento caratterizzato da un ampio e variegato dibattito interno.
Capisaldi dell'insegnamento sofistico sono: L'insegnabilità della virtù: essendo
i sofisti "maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle
strategie per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo
infatti possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere
i valori più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo,
essi si rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che
aspiravano al successo.La retorica: i sofisti non furono degli scienziati,
poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica;
piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per
apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima
consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una
discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla
morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione
dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col
diritto positivo (nomos).Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti,
spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole
e leggi[23]. Ciò fece sorgere in loro domande quali: Ci sono regole
uguali per tutti? In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il
relativismo etico. Vi è una cultura superiore alle altre? Porre la domanda già
equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il
relativismo culturale. La Seconda sofisticaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda sofistica.
L'imperatore ADRIANO, in veste greca, offre un sacrificio ad Apollo (Londra,
British Museum) Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la
sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza,
soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai
filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire
dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si
assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della sofistica, grazie a un
movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica[24]
(detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella
antica). Diversamente dalla sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica
abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e
via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoriae retorica. La Nuova
sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente
letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante
dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi
sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando
(eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti;
la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo
lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi,
trattati, opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di
intrattenimento, brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica.
Tra i vari autori di lingua greca che rientrano in questo fenomeno letterario,
i più importanti sono: Dione Crisostomo («dalla bocca d'oro») ricoprì
varie cariche politiche e svolse la propria attività di retore e insegnante in
Bitinia e a ROMA, dove però è condannato all'esilio. Erode Attico, tra i più
importanti e rinomati, insegnante di retorica e amico dell'imperatore stoico Marco
Aurelio ANTONINO, ricoprì vari incarichi nell'amministrazione pubblica romana,
tra cui il consolato. Elio Aristide, allievo di Erode Attico, famoso
soprattutto per le opere di onirocritica e per la sua devozione al dio
Asclepio; Luciano di Samosata, uomo vicino alla famiglia imperiale romana -- dinastia
degli Antonini --, è autore di vari saggi sui più disparati argomenti, nonché
modello di purismo linguistico. Flavio Filostrato, membro di una famiglia di
celebri retori e sofisti, è tra i più potenti letterati alla corte dei Severi. La
Seconda sofistica perdura. Tratti tipici di questo movimento sono
rintracciabili in filosofi come Imerio, Libanio, Temistio e Sinesio, per
giungere infine alla Scuola di Gaza. La storiografia moderna considera
comunemente i sofisti come filosofi. Si veda a proposito: M. Untersteiner, Le
origini sociali della sofistica, appendice a: I sofisti, Milano Guthrie, The
Sophists, Cambridge Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Reale, Il pensiero
antico, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna. Più precisamente, Mario
Untersteiner, riprendendo a sua volta H.I. Marrou e A. Levi, scrive: «Fu più
volte riconosciuto che nella sofistica non devesi scorgere una scuola
filosofica abbastanza uniforme e coerente, ma piuttosto sia meglio accogliere
l'opinione molto diffusa nell'antichità, “che considerava sofisti coloro che
andavano da una città all'altra della Grecia per insegnarvi pubblicamente la
loro σοφία dietro retribuzione. Il contenuto di questa sapienza variava secondo
gli insegnanti di essa; però (nemmeno Gorgia rappresenta un'eccezione) tutti i
sofisti professavano di essere maestri di ἀρετή (virtù), ossia dichiaravano
d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme
individuali e sociali”» (I sofisti, Milano sofistica, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Il sostantivo σοφιστής deriva
dal verbo σοφίζειν (sophízein), che significa «rendere sapiente». Cfr. Guthrie,
The Sophists, Cambridge Per le varie accezioni del sostantivo si veda anche: L.
Rocci, Dizionario Greco Italiano, Firenze Kerferd, I sofisti, trad. it.,
Bologna Sofista» in origine indicava generalmente una personalità ritenuta
sapiente, e fu utilizzata per riferirsi anche a poeti come Omero ed Esiodo. ^
DK 79 2a, 3. La rivalutazione della sofistica come corrente filosofica iniziò
nel XIX secolo a opera di Hegel e Nietzsche. Oggi ai sofisti è riconosciuto lo
statusnon solo di filosofi morali ma anche di teoreti. Cfr. G.B. Kerferd, I
sofisti, trad. it., Bologna Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I sofisti,
trad. it., Bologna Untersteiner, I sofisti, Milano Faggin, Storia della
filosofia, volume primo, Principato editore, Milano, Così li definisce Socrate
in: Senofonte, Memorabili Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Jaeger, Paideia,
trad. it., Firenze Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Diogene Laerzio II,
65. ^ Plutarco, De liberis educandis Untersteiner, I sofisti, Milano Questo è
l'argomento su cui verte il Teetetoplatonico, nel quale si analizza la dottrina
protagorea dell’homo mensura (Cfr. DK 80A1). Kerferd, I sofisti, trad. it.,
Bologna Tra i cittadini ateniesi abbienti che patrocinarono l'attività dei
sofisti, il più famoso è senz'altro Callia, che compare come personaggio nel
Protagora di Platone (è in casa sua che avviene il dialogo e sono ospitati
Protagora, Prodico e Ippia). ^ M. Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I
sofisti, trad. it., Bologna Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Illuminanti al
riguardo sono le affermazioni di Antifonte (DK) e quelle contenute nei
cosiddetti Dissoi logoi (DK Filostrato, Vite dei sofisti I Corno, Letteratura
greca, Milano Corno, Letteratura greca, Milano Edizioni dei frammentiModifica I frammenti e
le testimonianze sui sofisti sono raccolti in Die Fragmente der Vorsokratiker,
a cura di Hermann Diels e Walther Kranz. In traduzione italiana sono
consultabili: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G.
Giannantoni, Roma-Bari: Laterza 1979. I presocratici. Prima traduzione
integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di
Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani,
2006. I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner e A.M.
Battegazore, Firenze: La Nuova Italia, 1949-1962 (nuova edizione: Milano:
Bompianim con introduzione di G. Reale). I sofisti, a cura di M. Bonazzi, pref.
di F. Trabattoni, Milano: BUR, Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e
testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno Mondadori, Torino Mauro
Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, Guthrie, The Sophists, Cambridge: Cambridge
University Press, Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna: Il Mulino, 1988 M.
Isnardi Parente, Sofistica e democrazia antica, Firenze: Sansoni, Jaeger,
Paideia. La formazione dell'uomo greco, Firenze, La nuova Italia (nuova
edizione con un'introduzione di Giovanni Reale, Bompiani: Milano 2003). H.-I.
Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, Roma: Studium, Levi, Storia
delle Sofistica, Napoli, Morano, 1966. E. Paci, Storia del pensiero
presocratico, Roma: Edizioni Radio Italiana, Plebe, Breve storia della retorica
antica, Bari: Laterza, Reale, Il pensiero antico, Milano: Vita e Pensiero, Schreiber,
Aristotle on false reasoning: language and the world in the Sophistical
refutations, State University of New York Press, Untersteiner, I sofisti,
Milano: Bruno Mondadori Antropocentrismo Demagogia Dissoi logoi (Sofistica)
Eristica Presocratici Relativismo culturale Relativismo etico sofistico
Retorica Seconda sofistica Sofisma. «sofista» Sofistica, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Taylor e Mi-Kyoung Lee, The Sophists,
su Stanford Encyclopedia of Philosophy. George Duke, The Sophists (Ancient
Greek), su Internet Encyclopedia of Philosophy. Portale Antica Grecia
Portale Filosofia. Protagora retore e filosofo greco antico
Eristica arte della contesa verbale Dissoi logoi opera filosofica. Luigi
Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato, iusiuratum, Carneade, il secondo
discorso, contro Democrito, ragione pratica (saggezza), ragione teorica, a
philosopher in political linguistics: German minority, Italian majority in
Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca, lingua italiana, ordinamento
amministrativode-centrato, Wundt, Kant, razionalismo trascendente, Herbart,
scetticismo, accademia, prima accademia, seconda accademia, terza accademia, liberta di volere, freewill, volere libero, ambiascata
ateniense a roma, influenza dell’academia nell’elite romana – l’accademia come
perfezionamento per la dirigenza romana, Wundt, positivismo, suggestione, i
primordii del kantismo in Italia, Hegel vacuo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Credaro” – The Swimming-Pool Librrary. Credaro.
Grice
e Crescente: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. He was a member of the Cinargo in Rome. He was Taziano
regarded him as a greedy immoral hypocrite.
Grice e Crespi: l’implicatura
conversazionale d’Antonino e compagnia – filosofia romana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Crespi is an
interesting figure; Strawson calls him an Englishman since he became a Brit! My
favourite is his edition of Marcauurelio’s remembrances – which is a n irony:
he was a roman, but left his remembrances in Hellenic; and the Italians needed
a translation! It would be as if Pocahontas’s remembrances were in Anglo-Saxon!”
Collaboratore della Critica sociale, si avvicina alle posizione modernista.
Collaboraa Il Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione liberale, Coenobium.
Emigrato durante il fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti. Altre opere:
“Le vie della fede” (Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi religiosa” (Firenze,
Tip. Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano, Treves); “Dall'io al
tu” (Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo, "Annali della
Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Carteggio, Roma,
Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni Bonomi, Angelo
Crespi, Cremona, Padus). Wikipedia Ricerca Filosofia
ellenistica periodo della filosofia greca antica Lingua Segui Modifica La
filosofia ellenistica è il periodo della filosofiaoccidentale e della filosofia
greca antica durante il periodo ellenistico. StoriaModifica Il
mondo ellenistico nel 300 a.C. Il periodo ellenistico seguì le conquiste di
Alessandro Magno (356-323 a.C.), che aveva diffuso la cultura greca antica in
tutto il Medio Oriente e nell'Asia occidentale, dopo il precedente periodo
culturale della Grecia classica. Il periodo classico della filosofia greca antica
era iniziato con Socrate (470-399 a.C. circa), il cui allievo Platone aveva
insegnato ad Aristotele, che a sua volta aveva istruito Alessandro. Mentre i
pensatori classici avevano per lo più sede ad Atene, il periodo ellenistico
vide i filosofi attivi in tutto l'impero. Il periodo iniziò con la morte di
Alessandro nel 323 a.C. (poi quella di Aristotele nel 322 a.C.), e fu seguito
dal predominio della filosofia dell'antica Roma durante il periodo imperiale
romano. Sviluppi e dibattiti sul pensieroModifica I fondatori
dell'Accademia, i peripatetici, i seguaci del cinismo e del cirenaismo erano
stati tutti allievi di Socrate, mentre lo stoicismo era soltanto indirettamente
influenzato da lui.[1] Il pensiero di Socrate fu quindi influente per molte di
queste scuole dell'epoca, portandole a concentrarsi sull'etica e su come
raggiungere l'eudaimonia (la bella vita), e alcune di loro seguirono il suo
esempio di usare l'autodisciplina e l'autarchia a tal fine.[2] Secondo AC
Grayling, la maggiore insicurezza e perdita di autonomia dell'epoca spinse
alcuni a usare la filosofia come mezzo per cercare sicurezza interiore dal
mondo esterno.[3] Questo interesse nell'usare la filosofia per migliorare la
vita è stato colto nell'affermazione di Epicuro: "vuote sono le parole di quel
filosofo che offre una terapia per nessuna sofferenza umana".[4]
EpistemologiaModifica L'epistemologia degli epicurei era empirica, con la
conoscenza che alla fine proveniva dai sensi.[4]Epicuro sosteneva che le
informazioni sensoriali non sono mai false, anche se a volte possono essere
fuorvianti, e che "Se combatti contro tutte le sensazioni, non avrai uno
standard contro il quale giudicare anche quelle di coloro che dici si
sbagliano".[5] Rispose a un'obiezione all'empirismo fatta da Platone in
Menone, secondo la quale non si può cercare informazioni senza avere un'idea
preesistente di cosa cercare, quindi significa che la conoscenza deve precedere
l'esperienza.[6] La risposta epicurea è che la prolepsi (preconcetti) sono
concetti generali che consentono di riconoscere cose particolari e che queste
emergono da ripetute esperienze di cose simili. PlatonismoModifica
Il Platonismo rappresenta la filosofia dell'allievo di Socrate, Platone, e i
sistemi filosofici da esso strettamente derivati. Antica
AccademiaModifica Il platonismo primitivo, noto come "l'Antica
Accademia", inizia con Platone, seguito da Speusippo(nipote di Platone),
che gli succedette come capo della scuola (fino al 339 a.C.), e da Senocrate
(fino al 313 a.C.). Entrambi cercarono di fondere le speculazioni pitagoriche
sul numero con la teoria delle forme di Platone. Scetticismo
accademicoModifica Carneade, copia romana dalla statua esposta nell'Agorà
di Atene, c. 150 a.C., Museo Glyptothek Lo scetticismo accademico è il periodo
dell'antico platonismo risalente intorno al 266 a.C., quando Arcesilao divenne
capo dell'Accademia platonica, fino a circa il 90 a.C., quando Antioco di
Ascalona respinse lo scetticismo, sebbene i singoli filosofi, come Favorino e
il suo maestro Plutarco, continuassero a difendere lo scetticismo accademico
dopo questa data. Gli scettici accademici sostenevano che la conoscenza delle
cose è impossibile. Le idee o le nozioni non sono mai vere; tuttavia, ci sono
gradi di somiglianza con la verità, e quindi gradi di credenza, che consentono
di agire. La scuola era caratterizzata dai suoi attacchi agli stoici e al dogma
stoico che impressioni convincenti portavano alla vera conoscenza.
Arcesilao Carneade Cicerone Medioplatonismo Antioco di Ascalona respinse lo
scetticismo, lasciando il posto al periodo noto come Medioplatonismo, in cui il
platonismo era fuso con alcuni dogmi peripatetici e molti stoici. Nel
medioplatonismo, le forme platoniche non erano trascendenti ma immanenti alle
menti razionali, e il mondo fisico era un essere vivente e animato, l'anima del
mondo. La natura eclettica del platonismo in questo periodo è dimostrata dalla
sua incorporazione nel pitagorismo (Numenio di Apamea) e nella filosofia
ebraica[7] (Filone di Alessandria). Plutarco Neoplatonismo Il
Neoplatonismo, o plotinismo, era una scuola di filosofia religiosa e mistica
fondata da Plotino nel III secolo e basata sugli insegnamenti di Platone e
degli altri platonici. Il vertice dell'esistenza era l'Assoluto o il Bene, la
fonte di tutte le cose. Nella virtù e nella meditazione l'anima aveva il potere
di elevarsi per raggiungere l'unione con l'Assoluto, la vera funzione degli
esseri umani. I neoplatonici non cristiani erano soliti attaccare il
cristianesimo fino a quando cristiani come Agostino, Boezio ed Eriugena non
adottarono il neoplatonismo. Plotino Porfirio Giamblico Proclo CirenaismoModifica
Il Cirenaismo fu fondato nel IV secolo a.C. da Aristippo, allievo di Socrate.
Aristippo il Giovane, nipote del fondatore, sosteneva che il motivo per cui il
piacere era buono era che era evidente nel comportamento umano fin dalla più
giovane età, perché questo lo rendeva naturale e quindi buono (il cosiddetto
argomento della culla).I Cirenaici credevano anche che il piacere presente
liberasse dall'ansia del futuro e dai rimpianti del passato, lasciandoci in
pace.Queste idee furono prese ulteriormente da Anniceride di Cirene, che
espanse il piacere per includere cose come l'amicizia e l'onore. Teodoro l'Ateo
non era d'accordo e sosteneva che i legami sociali dovrebbero essere tagliati e
dovrebbe essere sposata l'autosufficienza. Egesia di Cirene, d'altra parte,
affermava che la vita alla fine non poteva essere complessivamente
piacevole. Cinismo Il pensiero dei Cinici si basava sul vivere con
il minimo necessario e nel rispetto della natura. Il primo cinico fu Antistene,
che era un allievo di Socrate. Introdusse le idee di ascetismo e opposizione
alle norme sociali Il suo seguace fu Diogene, che seguì questa direzione. Invece
del piacere, i cinici promuovevano il vivere intenzionalmente in difficoltà
(ponos). Tutto questo perché era visto come naturale e quindi buono, mentre la
società era innaturale e quindi cattiva, così come i benefici materiali. I
piaceri forniti dalla natura (che sarebbero stati immediatamente accessibili)
erano tuttavia accettabili. Cratete di Tebe affermava quindi che "la
filosofia è un chilo di fagioli e non si cura di nulla". Altri cinici
includevano Menippo e Demetrio (10–80). Scuola peripatetica. Un busto in
marmo di Aristotele La scuola peripatetica era composta dai filosofi che
avevano mantenuto e sviluppato la filosofia di Aristotele. Sostenevano l'esame
del mondo per comprendere il fondamento ultimo delle cose. Lo scopo della vita
era l'eudaimonia che nasceva da azioni virtuose, che consistevano nel mantenere
la media tra i due estremi del troppo e del troppo poco. Teofrasto Stratone di Lampsaco Alessandro di Afrodisia Aristocle
di Messene Pirronismo Pirro d'Elide, testa in marmo, copia romana, Museo
Archeologico di Corfù Il Pirronismo era una scuola di scetticismo filosoficoche
ebbe origine con Pirrone e fu ulteriormente avanzata da Enesidemo nel I secolo
a.C. Il suo obiettivo era l'atarassia (essere mentalmente imperturbabile), che
si ottiene attraverso l'epoché(cioè la sospensione del giudizio) su questioni
non evidenti (cioè, questioni di credenza). Pirrone Timone di Fliunte Enesidemo
Sesto Empirico Epicureismo Busto romano di Epicuro L'epicureismo fu
fondato da Epicuro. La sua epistemologia era basata sull'empirismo, ritenendo
che le esperienze sensoriali non possano essere false, anche se possono essere
fuorvianti, poiché sono il prodotto del mondo che interagisce con il proprio
corpo. Ripetute esperienze sensoriali possono quindi essere utilizzate per
formare concetti (prolepsi) sul mondo, e tali concetti ampiamente condivisi
("concezioni comuni") possono fornire ulteriormente le basi per la
filosofia. Applicando il suo empirismo, Epicuro sostenne l'atomismo notando che
la materia non poteva essere distrutta poiché alla fine si sarebbe ridotta a
nulla e che doveva esserci vuotoaffinché la materia potesse muoversi. Anche se
questo di per sé non provava l'esistenza degli atomi, si oppose all'alternativa
osservando che gli oggetti infinitamente divisibili sarebbero infinitamente
grandi, simili ai paradossi di Zenone.[19] Considerava l'universo
governato dal caso, senza alcuna interferenza da parte degli dei. Considerava
l'assenza di dolore come il più grande piacere e sosteneva una vita
semplice. Epicuro Metrodoro Ermarco di Mitilene Zenone di Sidone (I
secolo a.C.) Filodemo di Gadara Lucrezio StoicismoModifica Zenone di Cizio, il
fondatore dello stoicismo Lo stoicismo fu fondato da Zenone di Cizio nel III
secolo a.C. Basato sulle idee etiche dei cinici, insegnava che l'obiettivo
della vita era vivere in accordo con la natura. Sostenne lo sviluppo
dell'autocontrollo e della forza d'animo come mezzi per superare le emozioni
distruttive. Zenone di Cizio Cleante Crisippo Panezio Posidonio Seneca Epitteto
Marco Aurelio Giudaismo ellenisticoModifica Il giudaismo ellenistico era un
tentativo di stabilire la tradizione religiosa ebraica all'interno della
cultura e della lingua dell'ellenismo. Il suo principale rappresentante fu
Filone di Alessandria. Filone di Alessandria Flavio Giuseppe NeopitagorismoModifica
Il neopitagorismo era una scuola di filosofia che faceva rivivere le dottrine
pitagoriche, prominente nel I e II secolo. Era un tentativo di introdurre un
elemento religioso nella filosofia greca, adorare Dio vivendo una vita ascetica,
ignorando i piaceri del corpo e tutti gli impulsi sensoriali, per purificare
l'anima. Publio Nigidio Figulo. Apollonio di Tiana. Numenio di Apamea. Cristianesimo
ellenisticoModifica Il cristianesimo ellenistico fu il tentativo di
riconciliare il cristianesimo con la filosofia greca, a partire dalla fine del
II secolo. Attingendo in particolare al platonismo e al neoplatonismo
emergente, figure come Clemente Alessandrino cercarono di fornire al
cristianesimo un quadro filosofico. Clemente Alessandrino. Origene. Agostino
d'Ippona. Elia Eudocia. Voci correlate Filosofia greca Filosofia antica
Ellenismo Religione ellenistica Cento scuole di pensiero Grayling, The History
of Philosophy, Penguin, Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman
Worlds, Oxford. Grayling, The History of Philosophy, Penguin, John Sellars,
Hellenistic Philosophy, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Sellars, Hellenistic
Philosophy, Oxford University Press, Platonismo su Enciclopedia Britannica. Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy
in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford, Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford Long, Sedley, The Hellenistic Philosophers,
Cambridge, Reale, The Systems of the Hellenistic Age: History of Ancient
Philosophy (Suny Series in Philosophy), edito e tradotto dall'italiano da Catan,
Albany, State of New York Universit "Platonismo." Cross, FL, ed. nel
dizionario di Oxford della chiesa cristiana . New York: Oxford. Portale Antica
Grecia Portale Antica Roma Portale Filosofia Atarassia
termine filosofico Scuola cirenaica Autarchia (filosofia) Wikipedia IlAngelo
Crespi. Grice: “His essay on Antonino is brilliant – his philosophy of history
is controversial. Keywords: la filosofia dell’impero romano, impero, impero
romano, impero britannico, funzione dell’impero, funzione storica dell’impero,
filosofia imperial, imperialismo, imperialismo romano, imperialism britannico,
post-imperialismo, Antonino. Filosofia
della storia – aporie, lingua latina, impero romano, lingua nazionale, nazione
romana, nazione italiana, lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana,
toscano, -- Refs.: Luigi Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool
Library. Crespi.
Grice e Crespo – filosofo italiano.
Grice e Critolao – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Sent as a deputation to Rome. He emphasized the relative
unimportance o material comforts for the good life.
Grice e Croce: l’implicatura conversazionale dell’idealismo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescasseroli). Filosofo italiano. Grice: “I would
think the fashionable Englishwoman may think Croce is the most important
philosopher that ever lived!” -- vide under “Grice as Croceian” -- Grice as
Croceian: expression and intention -- Croce, B., philosopher. I genitori
appartenevano a due abbienti famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari, quella
materna, originaria della stessa Pescasseroli, ma radicatasi anche in
Capitanata e Terra di Lavoro, particolarmente legata agli ideali liberali, e
l'altra, quella paterna, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti),
ma trapiantata a Napoli, legata invece ad una mentalità di stampo borbonico. C.
crebbe in un ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora
adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla
religiosità tradizionale. Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni
perse i genitori, Pasquale C. e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti durante il terremoto di Casamicciola,
nell'isola d'Ischia, dove C. si trovava in vacanza con la famiglia. Un
terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e
per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle
popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie
ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del
male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà
insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero,
influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni private
dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli
nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente
bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di
suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Petroni, la
famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro
residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da
Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite
Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna
C. e fratello del filosofo Spaventa, che, mettendo da parte dei dissapori
storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria casa a Roma,
dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed ebbe modo di
formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo culturale
nella casa dello zio Silvio, C. ebbe modo di frequentare importanti uomini
politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo. Pur
essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli,
Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola. Non
terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e
filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma
incomprensibile. Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa di
passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove
aveva trascorso la sua vita VICO, il filosofo napoletano amato da C. per la
concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua. Fu tra i
fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo di intellettuali. Compì
numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e Regno Unito mentre nella sua
formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in
particolare per la poesia di Carducci, e per le opere di Sanctis. Attraverso
Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di
cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx
risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad
approfondire. La fondazione de La critica e la vita politica Uscì il
primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Gentile, e
stampata a sue spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per
censo senator e fu Ministro della Pubblica Istruzione nel quinto e ultimo
governo Giolitti. Con regio decreto dgli
fu concesso il titolo di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica
istruzione che fu poi ripresa e attuata da Gentile. Posizione nella prima
guerra mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche
tra «interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che
[gli interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro
oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di
tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le
tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come
suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe
inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla
tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un
«interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le
due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si
rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni
liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole
alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non
andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio,
volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che
saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla
come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni
antinazionali e settarie» (C., Epistolario, Napoli) Il rapporto con il
fascismo L'iniziale fiducia al governo fascista C. nella sua biblioteca
Inizialmente C. fu vicino al fascismo. Ascoltò e applaudì il discorso di MUSSOLINI
al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata preparatoria per la marcia su
Roma. In occasione delle votazioni al Senato, successive all'uccisione del
deputato socialista Matteotti, fu tra i 225 senatori che votarono la fiducia al
governo MUSSOLINI, insieme a Gentile e Morello. In seguito C. spiegò in
un'intervista che il suo non era stato un voto fascista, ha votato a favore del
regime perché pensava che MUSSOLINI, se sostenuto, puo esser sottratto
all'estremismo fascista a cui C. fa risalire la responsabilità del delitto
Matteotti. Abbiamo deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci,
fiducia condizionata. Nell'ordine del giorno che abbiamo redatto è detto
esplicitamente che il senato si aspetta che il Governo restauri la legalità e
la giustizia, come del resto Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo
modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede
alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un
male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento
opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di
Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito. C. scrive su Il Giornale
d'Italiache il regime mussoliniano «non poteva e non doveva essere altro che un
ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime
liberale». La rottura e il Manifesto degli intellettuali antifascisti Il
filosofo abruzzese si allontanò definitivamente dal regime allorché, su
sollecitazione di Amendola, scrisse il Manifesto degli intellettuali
antifascisti in replica al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile. Lo
scritto, pubblicato sul quotidiano Il Mondo, tra l'altro sosteneva. Contaminare
politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si
faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze
e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore
generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che
risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è
lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è
naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle
proprie nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova
religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso
manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra
allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli
all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di
violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di
atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di
corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati
sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e
di cinismo. Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci
sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due
secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna;
quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia,
di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e
morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni
avanzamento.» Secondo Norberto Bobbio, il Manifesto degli intellettuali
antifascisti sancì l'assunzione da parte di C. del ruolo di coscienza morale
dell'antifascismo italiano» e di «filosofo della libertà. Lo scritto segnò
inoltre la rottura dell'amicizia con Gentile, a causa delle ormai
inconciliabili divergenze filosofiche e politiche. In seguito Croce fu l'unica
voce fuori dal coro tollerata dal regime. Il ruolo di Croce come coscienza
dell'antifascismo è testimoniato, tra gli altri, da Primo Levi, che ricordò che
negli anni del fascismo e della guerra, segnati per gli antifascisti da
smarrimento morale, isolamento e incertezze, solo «La Bibbia, C., la geometria,
la fisica, ci apparivano fonti di certezza. Il mio liberalismo è cosa che porto
nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento
italiano, figlio di Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri
di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non
mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel bene dell'Italia
quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato
anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto.» (Lettera a Alfieri) Rifiutò di
entrare nell'Accademia d'Italia, e dopo un breve appoggio al movimento
antifascista Alleanza Nazionale per la Libertà, fondato dal poeta Lauro De Bosis,
si allontanò dalla vita politica, continuando peraltro ad esprimere liberamente
le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse, almeno
esplicitamente. L'unico atto di ostilità violenta ed esplicita compiuto dal
fascismo verso C. fu la devastazione della sua casa napoletana. Negl’anni
successivi, quelli della sua affermazione e del cosiddetto consenso, il
fascismo ritenne C. un avversario poco temibile, sostenitore com'era della tesi
di un fascismo inteso come malattia morale inevitabilmente superata dal
progresso della storia. Inoltre la fama di C. presso l'opinione pubblica
europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime. Ha altresì
blandi rapporti culturali con intellettuali in qualche modo vicini al regime,
anche se marginali, come un carteggio epistolare con il tradizionalista Julius
Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per due opere, da pubblicare
presso Laterza con il benestare dello stesso C., Saggi sull'idealismo magico,
Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente, La tradizione ermetica. Il
governo fascista richiese ai docenti delle università italiane un atto di
formale adesione al regime in base all'articolo del regio decreto (il
cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A seguito di tale provvedimento,
i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla patria,
secondo quanto già imposto dal regolamento generale universitario, ma anche al
regime fascista. In quell'occasione, C. incoraggiò professori come Calogero e Einaudi
a rimanere all'università, «per continuare il filo dell'insegnamento secondo
l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per l'area politica del
liberalismo, la sua scuola ha durante tutto il ventennio fascista una platea
assai più ampia di allievi: del resto, già prima dalle sue idee avevano tratto
esempio anche Gramsci e il gruppo comunista de L'Ordine Nuovo.Polemica sulla
Giornata della fede La non adesione di C. al fascismo parve messa in discussione
dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia, quando il filosofo, in
occasione della Giornata della fede dona la propria medaglietta da senatore
accompagnandola con questa secca lettera al presidente del Senato. Eccellenza,
quantunque io non approvi la politica del Governo, ho accolto in omaggio al
nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho rimesso alla questura del Senato la
mia medaglia, Il gesto suscita negl’ambienti dell'antifascismo italiano, in
patria e all'estero, sorpresa, dolore e polemiche che colpirono dolorosamente C..
Al termine di un drammatico colloquio con Ceva, inviata a sostenere il punto di
vista degl’antifascisti, dopo un iniziale tentativo di giustificazione, C. affermò.
Dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro. Il regime varò la
legislazione anti-semita. C. non era presente nell'aula del Senato, quale forma
di protesta. Egli fu uno dei pochi a esprimersi contro di esse a livello
pubblico. Il governo invia a tutti i professori universitari e i membri delle
accademie un questionario da compilare ai fini della classificazione
"razziale". Tutti gl’interpellati risposero. L'unico intellettuale
non ebreo che rifiuta di compilare il questionario è Croce. L'unico
effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo
me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare
che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata. Il filosofo,
invece di restituire compilata la scheda, invia una lettera al presidente
dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, in cui scrive sarcasticamente.
Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto
rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di
farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa
sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo
paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? (C. a Messedaglia,
Presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A.
CAPRISTO, L’espulsione degl’ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani. C.
è quindi espulso da quasi tutte le accademie di cui è membro, comprese
l'Accademia Nazionale dei Lincei e la Società Napoletana di Storia
Patria. All'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, unica accademia
che lo mantenne socio, alla fine della guerra C. riconosce il merito di non
averlo espulso durante il regime fascista. Dopo aver denunciato la persecuzione
degl’ebrei, C. però critica anche gli atteggiamenti degl’ebrei stessi, sia
quelli che hanno aderito al fascismo, sia quelli che vivevano separati,
ritenendo la specificità ebraica come pericolosa per gl’ebrei stessi. Quando
s'iniziò l'infame persecuzione contro gl’ebrei, io ebbi, con un brivido di
orrore, la piena rivelazione della sostanziale delinquenza che è nel fascismo,
come chi fosse costretto ad assistere allo sgozzamento a freddo di un innocente
e mi misi di lancio dalla loro parte con tutto l'esser mio per fare quello che
per loro si poteva a lenire o diminuire il loro strazio. Molti danni e molte
iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per
altr’italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o
preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con
gl’altri italiani; procurando di cancellare quella distinzione e divisione
nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e
pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire
l'idea di popolo eletto, che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il
quale, purtroppo, aveva a suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la
folle attuazione. Essi disconoscono le premesse storiche -- Grecia, ROMA,
Cristianità -- della civiltà di cui dovrebbero venire a fare parte. Lettera a Merzagora)
Espresse quindi una posizione di perplessità per il sionismo. Il rientro nella
vita politica Dopo la caduta del regime C. rientra in politica, accettando la
nomina a presidente del Partito Liberale Italiano. Durante la Resistenza cercò
di mediare tra i vari partiti antifascisti e fu Ministro senza portafoglio nel
secondo governo Badoglio, benché non stimasse né il Maresciallo né il re
Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione col fascismo. Subito
dopo la liberazione di Roma entrò a far parte del secondo governo Bonomi,
sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni qualche mese
dopo. Egli avrebbe preferito
l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio Emanuele (con
rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e l'incarico di capo del
governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno Unito si opposero. Al
referendum sulla forma dello Stato votò per la monarchia, inducendo tuttavia il
Partito Liberale (di cui rimane presidente) a non schierarsi, per far sì che
prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando
in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di votanti
favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la maggioranza
legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e
l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma nuova della
Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente
il contributo delle proprie forze. C. con Altavilla e il Capo provvisorio dello
Stato, Concetti che C. aveva, nella loro sostanza, già espresso; ben prima che
Umberto II, nel messaggio ribadisse tale indicazione. Eletto all'Assemblea
Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a Capo provvisorio
dello Stato, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da Luigi
Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose strenuamente alla firma del
Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea
costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica. Fonda a
Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici destinando per la sede un
appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel
Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca C. Presidente
dell'associazione PEN International e, negli stessi anni, entrò a far parte del
Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Per
un ictus cerebrale rimase semiparalizzato e si ritirò in casa continuando a
studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca. I funerali solenni si
tennero nella sua Napoli e le sue spoglie tumulate nella tomba di famiglia al
Cimitero di Poggioreale. Il rapporto con la cultura cattolica «Pure filosofo
quale sono io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto
dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e
serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. Il rapporto di C. con la cultura
cattolica varia nel corso del tempo. I filosofi idealisti, come C. e Gentile,
avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica al
positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un
progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura
cattolica. Croce, pur non essendo un anticlericale militante, riteneva
importante la separazione liberale tra culto e stato, propugnata da CAVOUR. Il
culto con i Patti Lateranensi ha ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le
istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche
antifasciste dell'idealismo crociano. C. fu contrario al Concordato e dichiara
apertamente in Senato che accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi
valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa
che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Mussolini
gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo
di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando C. scrive la
Storia d'Europa, il Vaticano critica aspramente l'autore che difendeva le
filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose
all'Indice questo saggio ma, non ottenendo negli anni successivi da C. un qualsiasi
ripensamento, ninserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. La
polemica anti-concordataria crociana vide l'adesione del giovane filosofo
nonviolento e liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a casa di Luigi
Russo, aveva avuto modo di conoscere C., a cui aveva consegnato un pacco di
dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva apprezzato e fatto pubblicare
nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo
Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventarono uno
tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. La
posizione personale di C. nei confronti della religione cattolica è ben
espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani". Il
termine "cristiani" inserito nel titolo tra virgolette non voleva
indicare l'adesione a un credo confessionale, bensì la consapevolezza di
un'inevitabile appartenenza culturale rappresentata nella sua particolare
prospettiva dal fenomeno del cristianesimo: non si trattava di una professione
di fede cristiana dovuta a un rinnegamento dell'agnosticismo come volle fare
intendere la propaganda fascista, ma di riconoscere il valore storico e di
«rivolgimento spirituale»: «Il cristianesimo è stato la più grande
rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e
profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo
attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un
miracolo, una rivelazione dall'alto, un intervento di Dio nelle cose umane, che
da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre
rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana,
non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate.
Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della
filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per la capacità dei
princìpi cristiani di contrastare il neopaganesimo e l'ateismo propagandati dal
nazismo e dal comunismo sovietico. Sono profondamente convinto e persuaso che
il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato
da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico,
che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella
che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione
ancora cristiana della vita con un'altra che potrebbe risalire all'età
precristiana, e anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella anteriore
alla civiltà, la barbarica violenza dell'orda? C., in sintesi, vede nel
cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale ma non ripudia
l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella religione un momento
della realizzazione storica dello spirito che si avvia, superandolo, ad una più
alta sintesi. All'Assemblea Costituente lotterà contro l'inserimento,
voluto dalla DC, e dal comunista Togliatti, dei Patti Lateranensi nel secondo
comma dell'articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, giudicandolo
come "sfacciata prepotenza pretesca". In vista delle elezioni
politiche, tuttavia, si accordò con il segretario della Democrazia Cristiana,
Alcide De Gasperi, per dare vita a un manifesto comune, Europa, cultura e
libertà, contro i totalitarismi passati e presenti. A seguito della vittoria
della DC, replicò severamente ai laici benpensanti schierati col Fronte
Popolare che sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era composto in
prevalenza l'elettorato cattolico: «Beneditele quelle beghine di cui
ridete, perché senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo liberi. Lasciando
disposizioni per la sua morte (che avverrà tre anni dopo) scriverà invece che
la sensibilità religiosa della moglie cattolica le consentirà di evitare che un
sacerdote tenti di "redimerlo" all'ultimo minuto, perché è "cosa
orrenda profittare delle infermità per strappare a un uomo una parola che sano
egli non avrebbe mai detta". C. fu
legato sentimentalmente e convisse con Angelina Zampanelli, fino alla morte di
lei. La coppia prese alloggio a Palazzo Filomarino, a Napoli. Angelina,
sofferente di cuore, morì poco più che quarantenne a Raiano, dove insieme a
Croce ella soggiornava spesso d'estate, presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti
della cugina del filosofo, Petroni, moglie di Rossi. C. sposa a Torino, con
rito religioso e poi civile, Adele Rossi, da cui ha V figli: Giulio, Elena,
Alda, Lidia (moglie dello scrittore e dissidente anticomunista polacco Grudziński)
e Silvia. Il filosofo, oggi, deve non già fare il puro filosofo, ma esercitare
un qualche mestiere, e in primo luogo, il mestiere dell'uomo.» (C.,
Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, Sicilia Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di
Croce può essere suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici,
letterari e il dialogo con il marxismo, quello della maturità e delle opere
filosofiche sistematiche e quello dell'approfondimento teorico e revisione
della filosofia dello spirito in chiave storicista. Come idealista, ritiene che
la realtà sia quella che viene concepita dal soggetto, in quanto riflesso della
sua idea e interiorità, ed è convinto che la razionalità e la libertà emergano
nella storia, pur tra immani difficoltà. La filosofia idealista riconduce
totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà
fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto;
l'idealismo, come in Hegel, implica una concezione etica fortemente rigorosa,
come ad esempio nel pensiero di Fichte che è incentrato sul dovere morale
dell'uomo di ricondurre il mondo al principio ideale da cui esso ha origine; in
C. questo ideale è la libertà umana. Definito da Gramsci "papa laico della
cultura italiana", a sua filosofia ha goduto di enorme credito nella
cultura italiana del XX secolo, perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in
cui si sono levate molte critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce
fu un intellettuale rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time
gli dedicò la copertina e contestualmente alla rivalutazione del pensiero
crociano, si è registrato l'interesse della collana editoriale di Stanford,
mentre la rivista statunitense di politica internazionale Foreign Affairs lo
inserì tra i pensatori più attuali, accanto a intellettuali come Berlin, Fukuyama
e Trotsky. Parallelamente allo studio del marxismo, C. approfondisce anche il
pensiero di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che
continuamente si determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è
quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente
divenendo storia secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera
soprattutto il carattere razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la
conoscenza si produrrebbe allora attraverso processi di mediazione dal
particolare all'universale, dal concreto all'astratto, per cui C. afferma che
la conoscenza è data dal giudizio storico, nel quale universale e particolare
si fondono recuperando la sintesi a priori di Kant e lo storicismo di VICO, suo
altro filosofo di riferimento. Da destra, Giovanni Laterza, Jacini, C. e Secly.
Il divenire e la logica della dialettica, in Hegel e in Marx, è esso stesso
verità in movimento; anche per C. la verità è dialettica, ma occorre esprimere
un giudizio storico ed esistono delle regole che arginano la pretesa
giustificativa di ogni fenomeno: in Croce lo Spirito - in quanto intelletto
umano - si realizza nella storia ma nel rispetto della libertà. Per questo ogni
fatto è quindi calato nella realtà storica, ma questo non può giustificare, con
la scusa del divenire e del progresso, aspetti deplorevoli come, ad esempio, il
totalitarismo fascista o comunista, il primo come necessario (concezione di Gentile
e della sua idea di realtà come atto puro di pensare e agire) e il secondo come
fase storica obbligata (seguendo il concetto marxiano della dittatura del
proletariato, di cui il filosofo tedesco parla nella sua teoria
"razionalista" del materialismo storico). Quindi il materialismo
dialettico di Engels e quello storico di Marx sono da ritenersi errati. In
questo, il suo storicismo si differenzia dal pensiero di un altro filosofo
liberale, Popper, secondo cui dialettica e storicismo finiscono invece per
generare quasi sempre totalitarismo (concezione assai diffusa nel pensiero del
liberalismo novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt, per C. la radice
totalitaria è proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto dello storicismo
stesso. Il neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove filosofie come
l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà e
dell'umanesimo, C. critica l'esistenzialista Heidegger, divenuto poi
anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo, definendolo
anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa
pasta morale. Esprime così un tagliente
giudizio sul filosofo di Essere e tempo. Scrittore di generiche sottigliezze,
arieggiante a un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai
segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia,
dell'etica, della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita
spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri
filosofi tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi
si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la
storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e
materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come
celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e
vero attore, l'umanità. E così si appresta o si offre a rendere servigi
filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la
filosofia.» (Conversazioni Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione
di Hegel che "la storia sia storia di libertà" viene da Croce
inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale
nascere, nel successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio
finale e definitivo di maturità. C. fa proprio questo detto hegeliano chiarendo
però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di una
libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà
come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come
tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per
l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui anelano sempre
alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale» (cioè la ragione
concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale è razionale»
(cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni fenomeno storico,
anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni storici, senza ben
rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai la libertà ha
abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe
dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che possa sostituire
quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il cuore dell'uomo,
nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è una fase di
presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo, venendo
superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli critica
Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in modo
riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre secondo C.
sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è infatti
opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che certi atti
ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri
ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un vero e
proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre, la
prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi rientra
né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un complesso
miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono di
presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che
l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della
considerazione economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività
(ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme
fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o
universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale),
economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione
tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre
all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti. All'interno
dell'estetica infatti si ha opposizione dialettica tra bello e brutto,
all'interno della logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella economia tra
utile e inutile e infine nell'etica tra bene e male. Estetica C. scrisse
anche importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto,
Shakespeare e Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e
"La poesia di Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria
estetica che mirava alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione
artistica. Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con
le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la
ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò
questa iniziale teoria stabilendo per la storia un nesso con la filosofia.
L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si
configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si
riferisce alle rappresentazioni e alle intuizioni che noi abbiamo della
realtà. Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima
forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché
tutte le forme sono presenti insieme nello spirito. L'arte, come aspetto
dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza,
intuizione del particolare che: come forma dello spirito, come creatività
non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello spirito
rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma
dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi
respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e
moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non
può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento;
come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale:
compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come
intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile
intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che
l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.)
che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che
l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della
semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel
grado di intensità dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed
esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e
profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che
sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni
ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in
realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si
tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto
ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto
spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.
Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è
il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia.
L'estetica quindi come una «linguistica in generale». Dall'estetica deriva la
critica letteraria crociana, espressa in molti saggi. Della logica, Croce
tratta essenzialmente nella Logica come scienza del concetto puro); essa
corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola
intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che
attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è
l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità
universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella
misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli
oggetti di cui si occupa. Il termine logica in C. assume quindi un significato
più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la
Logica di C. è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi
dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il
filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è
invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali C.
non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Geymonat nel suo
Corso di filosofia - immagini dell'uomo, la vera indubbia grandezza di C. va
cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc.,
che non nella sua opera di filosofo. Gentile ai tempi del direttorato alla
Scuola normale di Pisa. In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è
stata sviluppata in Italia da altre correnti di pensiero contemporaneo a quello
crociano, con studiosi fra quali Peano e lo stesso Geymonat. Un orientamento
parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli
eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici
italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura
scientifica. Invece C. ha con la logica e la scienza un rapporto difficile. La
sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro
dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella
tecnico-scientifica. Il rapporto conflittuale con le scienze matematiche e
sperimentali Un caso emblematico del giudizio di C. nei confronti della
matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il
matematico e filosofo della scienza Enriques, avvenuta in seno al congresso
della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques.
Questi sostene che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse
ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di
Enriques mal si confaceva a quella idealistica di C. e Gentile, come pure a
gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più
formata da idealisti crociani. C., in particolare, rispose ad
Enriques[84], liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo
Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle
problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono
vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e
dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei
filosofi idealisti, come C. medesimo. I concetti scientifici non sono veri e
propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti
pratici di costituzione fittizia. La realtà è storia e solo storicamente
la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur
necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla
nell'intrinseco. Sul tema C. sostenne, tra l'altro, che: «Gli uomini di
scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla
sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo
filosofico-storico.» (C. da Il risveglio filosofico e la cultura
italiana, A proposito dello sviluppo della logica matematica e
dell'introduzione dei formalismi simbolici, ad opera di matematici e filosofi
quali Frege, Peano, Russell, C. dichiara. I nuovi congegni della logica
matematica sono stati offerti sul mercato. E tutti, sempre, li hanno stimati
troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco
nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra probabile e, ad ogni
modo, è fuori della competenza della filosofia e appartiene a quella della
pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che
persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se
molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la
loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da
ora, pienamente provata. (C. da Logica come scienza del concetto puro. Anni
dopo, ancora scrive. Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona
grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse
rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono
concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la
meditazione del vero. C. da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici e
ribadiva come: «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche
postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come
scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di
finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto
filosofico e quindi filosofia della filosofia. C. da Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici. Tuttavia ebbe altresì un cordiale e rispettoso scambio epistolare
con Albert Einstein. Secondo diversi storici e filosofi (es. Giorello, Bellone,
Massarenti), l'influenza antiscientifica di C. e di Gentile sarebbe stata
fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli
orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si sarebbe indirizzata
prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di
secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che
attribuisse importanza alla scienza e alla tecnica e portando, per conseguenza,
ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale. La
scuola sarà caratterizzata dal primato dell'umanesimo letterario e in
particolare dell'umanesimo classico. Tutte le istituzioni culturali saranno
improntate al primato delle lettere, della filosofia e della storia. Giorello
nel quarantennale della morte di C. ha scritto che "predicò la religione
della libertà e per questo gli siamo riconoscenti. Ma la sua condanna della
scienza e la sua estetica hanno causato danni gravissimi alla nostra cultura.
Che ora esige riparazione. Lo stesso
Giorello però ha in parte ritrattato l'affermazione, negando che sia da
attribuire a C. il mancato sviluppo scientifico italiano, adducendo che quelle
che lui considerava una "colpa" sarebbero da accreditare maggiormente
alla Chiesa, agli scienziati stessi e alla classe politica, più che
all'idealismo, che trascura le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la
filosofia di Croce «interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando
si parla di scienza. C. riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque
validità e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso
dichiarò più volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del
tempo a studiare «i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori
come Kant. ilosofia della pratica «La legge morale è la suprema forza della
vita e la realtà della Realtà.» (Filosofia della pratica. Etica ed
economica, Laterza, Bari) Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della
pratica. Economica ed etica. C. dà molto rilievo alla volizione individuale che
è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che
regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a
quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita
degli individui. Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso
amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e
propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di
incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto,
quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. C. critica
anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile. Lo stato
non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di
individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è poi
concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito;
non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti
eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito,
che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo
avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria e
storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma
giustificatrice» C., Teoria e storia della storiografia) La storia e lo
spirito: lo storicismo assoluto VICO Come si evince anche da Teoria e
storia della storiografia la filosofia di C., ispirata soprattutto a VICO, è
fortemente storicista. Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la
filosofia di C., questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che
tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si
dispiega nella sua interezza all'interno della storia. La storia non è dunque
una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza
storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei
fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il
compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni
forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma
di conoscenza. In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene
visione logica della realtà. Quanto appena affermato si può evincere dalla
celebre frase «la storia non è giustiziera, ma giustificatrice». Con questo
afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male.
Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte
gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea,
ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da
interessi del presente. Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio
storico, conferisce a ogni storia il carattere di "storia
contemporanea", perché, per remoti e remotissimi che sembrino
cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre
riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano
le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere
l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è
conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise. Anche se
subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, C. critica gli illuministi e
in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli assoluti che
regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia nella sua
totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente, secondo i
propri ritmi e le proprie ragioni. La storia è un cammino progressivo per
cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e progredisce
incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per l'appunto questo
progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a superare storicamente
la negatività dei periodi bui della storia non è una certezza su cui adagiarsi:
questa consapevolezza del progresso storico deve essere confermata da un
impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati non sono mai scontati
né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in
cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza. La libertà si
traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della
libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione,
che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si
evince dal volume. La storia come pensiero e come azione Per Croce la libertà
può essere apprezzata solo difendendola costantemente in maniera dialettica,
poiché la storia è necessariamente contrasto. Chi desideri in breve persuadersi
che la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre
nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo
di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta;
e subito se ne ritrarrà inorridito come dall'immagine, peggio che della morte,
della noia infinita.» (La storia come pensiero e come azione). Ciò però
non vuol dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso
saggio ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può
essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla». La concezione
storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole
influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del
maggior storico americano del nazismo, George Mosse. C. interviene al congresso
liberale. C. critico letterario, specie quello di Poesia e non poesia, esercitò
molta influenza successiva, quasi una "dittatura intellettuale sulla
cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio furono ritenute
scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola usata da Croce),
poiché non presentate come opinione personale ma come veri canoni estetici,
varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie europee,
esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di Annunzio, Pascoli
(di cui apprezzò solo alcune parti di Myricae e dei Canti di Castelvecchio
criticando i saggi e le poesie civili), del crepuscolarismo e di Leopardi: di
quest'ultimo salvò, nei Canti, gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma
criticò le poesie "dottrinali" e polemiche (in particolare i
Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e
le opere filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali),
affermando che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo
poetico in prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle
condizioni fisiche e psicologiche del poeta recanatese. C. non considera
Leopardi un vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità
filosofica ma che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e
indifferente, ma solo un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al
servizio della sua poesia. Sulla scorta di Sanctis, esprime simpatia umana al
poeta recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le
sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande
ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e
sentimentale al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale,
e, a proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in
Del carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Carducci
a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di
nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro il
positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova
come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista
al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze
da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il
misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina
dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la
gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce
spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica
letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un
elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S.
Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi
dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono
anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad
esempio, la prefazione all'opera di Parodi, Poesia e letteratura: conquista di
anime e studi di critica, pubblicata postuma da Laterza, a cura di C.. Il
filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi articoli su vari argomenti
pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e italiani (Cfr. Panetta,
Settant'anni di militanza: C., tra riviste e quotidiani) Ad esempio la sua
collaborazione con il quotidiano Il Resto del Carlino dura per più di 40 anni. Filosofia
dello spirito Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale
Logica come scienza del concetto puro Filosofia della pratica. Economica ed
Etica Teoria e storia della storiografia; Problemi di estetica e contributi
alla storia dell'estetica italiana La filosofia di VICO Saggio sullo Hegel
seguito da altri scritti di storia della filosofia Materialismo storico ed
economia marxistica Nuovi saggi di estetica Etica e politica. La poesia.
Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura La storia
come pensiero e come azione Il carattere della filosofia moderna Discorsi di
varia filosofia; Filosofia e storiografia; Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici; Perché non possiamo non dirci "cristiani"; Primi saggi
Cultura e vita morale L'Italia. Pagine sulla guerra Pagine sparse; Nuove pagine
sparse; Terze pagine sparse; Scritti e discorsi politici; Carteggio C.-Vossler;
C. - Papini, Carteggio; Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria
italiana; Saggi sulla letteratura italiana del Seicento La rivoluzione
napoletana La letteratura della nuova Italia; I teatri di Napoli dal
Rinascimento alla fine del secolo decimottavo La Spagna nella vita italiana
durante la Rinascenza Conversazioni critiche Storie e leggende napoletane
Manifesto degli intellettuali antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed
altri saggi storici e critici Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della
storiografia italiana nel secolo decimonono; La poesia di Dante Poesia e non
poesia Storia del Regno di Napoli Uomini e cose della vecchia Italia Storia
d'Italia; Storia dell'età barocca in Italia Nuovi saggi sulla letteratura
italiana del Seicento Storia d'Europa nel secolo decimonono Poesia popolare e
poesia d'arte Varietà di storia letteraria e civile Vite di avventure, di fede
e di passione Poesia antica e moderna Poeti e scrittori del pieno e del tardo
Rinascimento La letteratura italiana del Settecento Letture di poeti e
riflessioni sulla teoria e la critica della poesia Aneddoti di varia
letteratura Morra e Castro Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha
in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di C., promossa con
Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio Montale, Tutte le poesie,
Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani alla voce
"neoidealismo" Emanuele
Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano,
Rizzoli, Giorello, Dimenticare Croce? C.
- Senato Partito Liberale Italiano «nato
nel 1924, sciolto durante il fascismo e ricostituito». In Enciclopedia Treccani
alla voce "Partito Liberale Italiano" Pagina jpg del Corriere
del Mezzogiorno: Luigi Mosca, L'America innamorata di C. La prestigiosa rivista
USA "Foreign Affairs" lo incorona tra i pensatori più attuali, Einaudi
infatti sosteneva che «il liberismo non è né punto né poco "un principio
economico", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una
"soluzione concreta" che talvolta e, diciamo pure, abbastanza
sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con
l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più
perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il
politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della
vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al
raggiungimento della massima elevazione umana.» (in Einaudi, Il buongoverno.
Saggi di economia politica, a cura di Rossi, Il filosofo dedica ai paesi degli
avi, sia paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia
di un comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito
collocate in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari). È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato
in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra
le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr.
Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C., Napoli, Un'analisi
di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera di Croce è in S.
Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza di Croce
sul terremoto C., Memorie della mia
vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli. "Il superstite è accolto allora nella
casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del
filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che
questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e
l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo
oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei
quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente
bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo, Benedetto
si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Labriola, che con le lezioni
sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della
fede. C. ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte,
come una preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di C., di Matteo Marchesini,
Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Ministri
della Pubblica Istruzione, su storia.camera.
Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera. Jannazzo, C. e la corsa verso
la guerra, in Idem, C. e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa,
Palermo, Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli, C. e il
suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati - Portale storico; citato
in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore
Guglielmino/Hermann Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia
letteraria e all'analisi testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato
S.p.A.,. Guglielmino/Grosser, Sambugar, Salà, Letteratura italiana, C. e il
manifesto antifascista. Levi, Potassio,
in Il sistema periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa
della civiltà e della cultura si è avuta in Italia, per opera di C.. Se da noi
solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a
differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al C.. (Ruggiero)
Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il regime fascista,
certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della
cultura, consentì tacitamente a C. una certa libertà di critica politica; e
Croce si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa degli ideali di
libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale la figura di
C. ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il valore di un simbolo della
loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui lo spirito prevalga sulla
violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il terzo volume del carteggio
tra C. e Laterza (l'editore delle opere crociane) offre una grande quantità di
esempi delle difficoltà di mantenersi in equilibrio “tra l'opposizione concreta
e organizzata al fascismo, e l'adesione o la cinica indifferenza”. Esempi
“quasi tutti orientati però verso una precisa direzione: quella
dell'autocensura, a volte praticata, altre volte orgogliosamente respinta...
Tra i molti casi che potrebbero essere citati a illustrazione di questo
atteggiamento, è notevole quello sorto attorno alla dedica apposta da Paolo
Treves, nel libro sulla filosofia di Campanella, al padre Claudio, scrittore e
parlamentare socialista, famigerato tra i fascisti soprattutto per il celebre
duello ingaggiato con Mussolini. La dedica recitava: “A mio padre, che mi
additò con l'esempio la dignità della vita”. Laterza scrive a C. accostando,
con diplomatica sottigliezza, la lettura di un volgare trafiletto anticrociano
e antilaterziano sul “Lavoro fascista” alla questione della dedica, che egli
propone al Treves di limitare “alle prime tre parole essenziali, non essendo
opportuno motivarla allo stato attuale delle cose”. Alla lettera C. risponde il
giorno dopo, tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del
Treves e sull'assenza in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con
maliziosa e retorica ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto
senso quella dedica affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della
vita (il corsivo è ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”.
Comunque sia, la dedica uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino,
recensione a C.-Giovanni Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio,
Napoli, Roma-Bari, Istituto italiano per gli studi storici, Laterza, “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia
di particolari in una lettera di Nicolini a Gentile riportata da Sasso in Per
invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro Barbera (a cura di), La
biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-C.-Laterza, Roma, Fondazione
Julius Evola, Cesare Medail, Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della
Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a C.. Regio Decreto
Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del Regno d'Italia, Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, La
Repubblica, Giarrizzo rivendicò con una punta di orgoglio l'essere annoverato
tra i “nipotini” di C. (se, nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per
Martino un «basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di C. e del
filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori, si veda: Gramsci, Il materialismo storico e
la filosofia di C. C., Epistolario, I,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, La vicenda è descritta e
analizzata da Sasso, La guerra d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me
stesso, Bologna, Il mulino, Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini
di lavoro, Napoli, La tentazione antisemita di tre antifascisti liberali Dante Lattes, Ferruccio Pardo, C. e l'inutile
martirio d'Israele. L'ebraismo secondo C. e secondo la filosofia crociana Sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e
diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Tompkins,
L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel
racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo sulle sue
posizioni: l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti
dell'opposizione avrebbero accettato di entrare nel governo di Badoglio era
l'abdicazione di Vittorio Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire
le porte al fascismo, favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni». Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a C.,
Torino, Lattes, Mazzini, poi in Scritti e discorsi politici, II, Bari, Laterza;
sulle caratteristiche "affettive" del pronunciamento di C. al
referendum, vedi Fulvio Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla
repubblica attraverso i Taccuini di lavoro di C., in C. e la nascita della
Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica,
Soveria Mannelli, Rubbettino, "non
sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a
fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che
quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre
questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche
eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la
duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi
sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata
e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. C., mai
nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata nomina potesse
concretizzarsi.» (In Galliani, Il Capo dello Stato e le leggi, Giuffrè, Ente
Morale, su Uni SOB.na.Senato della Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della
libertà: Napoli - il funerale di C. C., Maria Curtopassi, Dialogo su Dio:
carteggio, Archinto, Il carteggio fra C. e Curtopassi è stato pubblicato presso
la casa editrice Archinto da Giovanni Russo, autore anche della nota
introduttiva, Maurizio Griffo, Il pensiero di C. tra religione e laicità. La
citazione è tratta da: C, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. C., Perché non
possiamo non dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi,
tratto da: C., Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari
della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. C., Gentile e la condanna del
Sant'Uffizio, Laterza, Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il
Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta
da C., Il ministro dell'Educazione Nazionale, Bottai alluse ironicamente
all'operetta crociana con un articolo intitolato Benedetto Croce rincristianito
per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia: venti secoli di identità,
Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci "cristiani, in La Critica;
poi in Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari, Croce, M. Curtopassi, Dialogo
su Dio. Carteggio op.cit. ibidem. Focher, Rc. a Capanna, La religione in C.. Il
momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia come religione, Bari,
in Rivista di studi crociati, Sandro Magister, Colloquio con Foa (Da
l'Espresso, Documenti) In Vittorio
Messori, Pensare la storia: una lettura cattolica dell'avventura umana,
Paoline, Nello Ajello, Solo per amore, "La Repubblica, Sasso, Per
invigliare me stesso, Bologna, Il mulino, Nel registro mortuario di Raiano,
vicino a L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del senatore C."
Benedetto Croce e l'amore Ottaviano
Giannangeli, C. a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario",
Milano-Roma, Morta Alda C., figlia di C.
È morta Silvia C. l'ultima nata del filosofo Morta Lidia, l'ultima figlia ancora vivente
di C. Si è spenta a Napoli. Il pensiero filosofico di C. - senato C., La
storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel C., da "papa laico" a grande
dimenticato Grassano, La filosofia
politica di Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello
storicismo; commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello
storicismo di Popper Croce e il
totalitarismo Carteggio C.-Omodeo Hegel,
Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al
positivismo che voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si
era interessato dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la
storia; cfr. La storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari. Per questo motivo C. della Divina Commedia di
Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una forte e
sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del Paradiso
dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia
Nella premessa C. scrive di aver trattato l'argomento nello scritto
intitolato Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro pubblicato
negli Atti dell’Accademia pontaniana. In effetti però avverte C. che il volume «È
una seconda edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (C.,
Logica, Cent'anni di ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del
prof. Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, C., La storia come pensiero e
come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e C. Dimenticare C.? (Corriere della Sera) La scienza negata. Il caso italiano, Codice,
l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore) Ministro dell'Istruzione del governo MUSSOLINI,
promotore della riforma scolastica varata in Italia. Radice in O. Pompeo
Faracovi (a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte,
Livorno, Giorello, Dimenticare Croce?, in Il Corriere della Sera, L'arretratezza
dell'Italia in campo scientifico è il risultato di cattive scelte dei politici
da una parte e di resistenze culturali e di incapacità degli scienziati stessi
a comunicare dall'altra e che quindi risultano indipendenti dall'idealismo
crociano. A livello culturale, casomai, esistono altre forze che potrebbero
essere imputate del ritardo scientifico, si veda per esempio la nefasta
influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti delle ricerche bioetiche. La
mia perplessità nei confronti di Croce non riguarda le pretese conseguenze
della sua filosofia sullo sviluppo tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi
sembra che sia una polemica datata e ormai superata. Non credo che dalle
posizioni antiscientifiche di Croce derivi un ritardo della società italiana
nei confronti della scienza. Quella di C. è una filosofia interessante sotto
altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza e quindi è
deficitaria sotto il profilo di una seria trattazione del problema della
conoscenza.» (Giorello), in È vero che C. odiava la scienza? - Dialogo tra Giorello
e Ocone, Matera, Biscaldi, Giusti, Pezzotti, Rosci, Scienze umane - Corso
integrato, Marietti Scuola, 9. Benedetto
Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, Abbagnano, Storia
della filosofia, Benadusi, Caravale, M.s Italy: Interpretation, Reception, and
Intellectual Heritage, Palgrave Macmillan, Sambugar, Salà, Letteratura
italiana Paolo Ruffilli, Introduzione
alle Operette morali di Leopardi, ed. Garzanti
Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano C., Schopenhauer e il nome del male Si riferisce a d'Annunzio, Fogazzaro e
Pascoli Riportato in Pazzaglia,
Letteratura italiana III C., Del
carattere della più recente letteratura italiana, in Letteratura della nuova
Italia, Bari, Dino Biondi, Il Resto del Carlino, Edizioni Nazionali istituite
anteriormente alla legge su Ministero per i Beni e le Attività Culturali, concernente
l'«Edizione Nazionale delle opere di C. Integrazione della composizione della
Commissione» su Ministero per i Beni e le Attività Culturali, VISTO il D.P.R istitutivo
dell'Edizione Nazionale delle opere di C.».Bibliografia Fassò, C., in Novissimo
Digesto Italiano, diretto da A. Azara e E. Eula, Torino, Pomba, Antoni,
Commento a C., Venezia, Neri Pozza, Alfredo Parente, Il pensiero politico di C.
e il nuovo liberalismo, Solmi, Il C. e noi, in "La Rassegna
d'Italia", La letteratura italiana contemporanea, a cura di Giovanni Pacchiano,
Milano, Adelphi). Nicolini, C., Pomba, Torino, Ottaviano Giannangeli, C. a
Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, (ora in
Id., Operatori letterari abruzzesi, Lanciano, Itinerari). Damiano Venanzio
Fucinese, Dieci lettere inedite di C., in "Dimensioni", Lanciano, Ulisse
Benedetti, C. e il Fascismo, Roma, Volpe Rditore, Roma, Sasso, C. La ricerca
della dialettica, Napoli, Morano, Badaloni, Muscetta, Labriola, Croce, Gentile,
Roma-Bari, Laterza (in part. di Muscetta: La versatile precocità giovanile di
Benedetto Croce. Profilo della sua lunga operosità, Critica e metodologia
letteraria di C., Croce scrittore: multiforme unità della sua prosa).
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Einaudi, Sasso, La "Storia d'Italia" di C.. Cinquant'anni dopo,
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the Problem of Reality, Giammattei, Retorica e idealismo, Mulino, Bologna, Sasso,
Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di C., Bologna, Mulino, Galasso,
C. e lo spirito del suo tempo, Milano, Saggiatore, C. e la cultura meridionale.
Atti del convegno di studi, Sulmona-Pescasseroli-Raiano, a cura di Papponetti,
Pescara, Ediars, Toni Iermano, Lo scrittoio di C. con scritti inediti e rari,
Napoli, Fiorentino, Antonio Cordeschi, C. e la bella Angelina. Storia di un
amore, Milano, Mursia, Sasso, Filosofia e idealismo. I – C., Napoli,
Bibliopolis, Mengaldo, "C.", in: Profili critici del Novecento,
Torino, Bollati Boringhieri, Sartori, Studi crociani, Bologna, Mulino, Giannangeli,
C.e la riconquista dell'Abruzzo e Due monografie e un appunto, in Scrittura e
radici. Saggi, Lanciano, Carabba, C. filosofo. Atti del convegno internazionale
di studi in occasione dell’anniversario della morte: Napoli-Messina, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Paolozzi, L'estetica di C., Napoli, Guida, Rizi, C. and
Italian fascism, University of Toronto Press, Toronto, Visentin, Il
neoparmenidismo italiano, I. Le premesse storiche e filosofiche: C. e Gentile,
Napoli, Bibliopolis, Maria Panetta, C. editore, Napoli, Bibliopolis, Verucci,
Idealisti all'indice. C., Gentile e la condanna del Sant'Uffizio, Laterza, Roma,
Cotroneo, C. filosofo italiano, Firenze, Le Lettere, Gembillo, C., filosofo
della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, Mauro, Il problema religioso
nel pensiero di C., Milano, FrancoAngeli. Marcello Mustè, La filosofia
dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Marcello Mustè, C., Carocci, Roma, Giammattei,
I dintorni di C.. Tra figure e corrispondenze, Napoli, Guida, Giancristiano
Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di C., Macerata, Liberi libri, Galasso,
La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei,
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studio per la voce di un lessico crociano, in JusOnline, IV. Pirro, filosofia e
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Einaudi, Silvestri Paolo, “Liberalismo, legge, normatività. Per una rilettura
epistemologica del dibattito C.-Einaudi”, in Marchionatti, Soddu, Einaudi nella
cultura, nella società e nella politica del Novecento, Olschki, Firenze, Silvestri
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istituzioni e libertà, Giappichelli, Turin, Russo, C. e il diritto: dalla
ricerca della pura forma giuridica all'irrealtà delle leggi, in Diacronìa.
Rivista di storia della filosofia del diritto, Voci correlate Istituto italiano
per gli studi storici Fondazione Biblioteca C. Liberalismo Manifesto degli
intellettuali antifascisti Premio nazionale di cultura C.. Treccani Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.C., su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana.C., su Dictionary of Art Historians, Lee
Sorensen.Opere di C. / C. (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited
srl.Opere di C., su Open Library, Internet Archive.Opere di Benedetto C., su
Progetto Gutenberg.Audiolibri d su Libri Vox. Pubblicazioni di C., su Persée,
Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. Bibliografia
di C., su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. C., su
storia.camera, Camera dei deputati. C., su Senatori d'Italia, Senato della
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notes9.senato. L'Istituto italiano per gli studi storici fondato da C., su
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bibliografia di C., su rivista.ssef. Una bibliografia di C. con corredo di
riassunti delle opere e piccoli s aggi, su nuovorealismo. Biografia di C. con
elenco opere, su giornale difilosofia. net. Il problema dell'impressione nella
ricerca filosofica del giovane C., su giornaledi filosofia.net. L'elenco dei
volumi dell'Edizione Nazionale, su bibliopolis. C., su Camera - Assemblea
Costituente, Parlamento italiano. Le riviste di C. on line. Accesso full text a
«La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia» ai «Quaderni della
“Critica”» su biblioteca filosofia.uniroma1. C., il filosofo liberale, sul RAI
Filosofia, su filosofia.rai. Alessandra Tarquini, C., il filosofo liberale, Radio3.
Aus dieser Schule sind die beiden großen zeitgenössischen Philosophen Italiens
hervorgegangen, C. und Gentile. Beide Denker knüpfen an die J Gentile, Che
cosa e il fascismo. Gentile hat einen Neudruck seiner Werke veranlaßt. In
seiner ,,Introduzione alla filosotia' sagt er: Damit aus einem Volke eine
Nation werde, muß es sich seiner Nationalität, seiner Kraft und seiner
Kultur bewußt sein. Philosophie Hegels an, die gerade in Italien,
namentlich an der Universität Neapel, von jeher gepflegt wurde. C.
übernimmt von dem großen deutschen Denker den Leitgedanken, nämlich die
Idee des Geistes als einer dialektischen Tätigkeit, die sich im Rhytmus
von Gegensätzen bewegt. Diese Gegensätze formuliert er allerdings etwas
anders als Siegel, indem er zwischen kontradiktorischen und nur konträren
Momenten unterscheidet. Ferner lehnt C. die empirischen Gedanken völlig ab; für
ihn erzeugt nur der Geist die Realität. Es gibt in der Welt nichts, was
nicht Manifestation des Geistes wäre. Er gliedert sich in zwei
Hauptformen: theoretische Aktivität (Erkennen) und praktische (Wollen und
Handeln). Unterformen sind: intuitives Anschauen (Kunst), intellektuelles
Denken (Wissenschaft), ulititalisches Handeln (Ökonomie), moralisches
Wollen (Ethik). So schrieb denn C. ein Buch über Lebendiges und Totes in
Hegels Philosophie und betonte seine innere Verwandtschaft mit Vico,
dessen Lehre er gleichfalls eine besondere Schrift gewidmet hat. Diese
Verwandtschaft tritt besonders in C. Werken über Historik und Ästhetik
hervor. Diese und andere Bücher des italienischen Philosophen haben
internationales Ansehen erlangt. Gentile schließt sich zwar im allgemeinen an
den Geist der Hegelschen Dialektik an. Er faßt sie aber nicht als
abstrakte Reflexion auf, sondern als konkretes Denken, das zugleich ein
landein ist. Daher bezeichnet er seine Philosophie als Aktualismus. Die
wahre Realität liegt in dem schöpferischen Akt des Geistes. Dieser ist
nicht etwa nur Bewußtsein und Kontemplation der Welt, sondern
schöpferisches Hervorbringen der Welt; Ethik und Politik sind daher ein
Ausfluß des Geistes. Selbst die historische Schau bedeutet nicht nur einen
Bericht über Geschehnisse der Vergangenheit, sondern auch eine geistige
Schöpfung 1). In dieser Lehre erblickt Gentile eine Fortführung der
italienischen Tradition, die von Bruno bis auf Vico, Gioberti und
Spaventa reicht. Er hat sich vollkommen dem Faschismus angeschlossen, war
eine Zeitlang Unterrichtsminister und Urheber einer tiefgreifenden
Schulreform. Gentile hat auch wichtige Beiträge zur Staatstheorie des
Faschismus geliefert 2 ), welche weiter unten erwähnt werden sollen. Es
sei noch hinzugefügt, daß auf dem Gebiete der Rechtsphilosophie sich G. Del
Vecchio auch außerhalb Italiens einen Namen gemacht hat durch seinen
Kampf gegen den reinen Rechtspositivismus und seine philosophische
Begründung des Imperialismus; dadurch hat seine Lehre eine nahe Beziehung
zum Faschismus. Von den zahlreichen Schriften Gentiles ist ,,Der aktuale
Idealismus“ auch in deutscher Übersetzung erschienen. -I Vgl.
besonders „Che cosa e il fascismo", „La filosolia de] fascismo“.
Charakteristisch ist der Satz: ,,Lo stato del fascismo e una creazionc tutta
spirituale". Benedetto Croce. Croce. Keywords: idealism, la filosofia di Croce come
antecedente del fascismo, Mussolini giornalista, la ruttura Croce-Gentile –
l’idealismo di Croce pre-fascismo come fascista: hegel, idea dello spirito,
idealism assoluto, la relazione tra Vico e Hegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Croce:
implicatura: intenzione, espressione, e communicazione” Croce.
Grice e Cuoco: l’implicatura conversazionale di
Platone in Italia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Civitacampomarano).
Filosofo italiano. Vincenzo Cuoco. Litografia di Vincenzo Cuoco del 1840
Direttore del Tesoro del Regno di Napoli Durata mandato28 febbraio 1812 – 1815
MonarcaGioacchino Murat Dati generali Partito politicoMurattiani
ProfessioneGiurista, economista. Targa posta sulla casa natìa di Vincenzo Cuoco
a Civitacampomarano Cuoco nacque a Civitacampomarano, un piccolo borgo del
Contado di Molise, nel Regno di Napoli (attualmente in provincia di
Campobasso), figlio di Michelangelo Cuoco, un avvocato e studioso di economia,
appartenente ad una famiglia della locale borghesia di provincia, e di Colomba
de Marinis. Ricevuta una prima istruzione nel vivace ambiente
illuministico del paese natìo, animato dalla famiglia Pepe, a cui era
imparentato (tra i parenti ebbe come cugino Gabriele Pepe), nel 1787 si recò a
Napoli per studiarvi diritto e fu allievo privato di Ignazio Falconieri. Non
terminò gli studi di legge, ma a partire da questo periodo si interessò di
questioni economiche, sociali, culturali, filosofiche e politiche, materie che
resteranno sempre al centro della sua attività e dei suoi interessi.
Nell'ambiente culturale napoletano conobbe ed entrò in contatto con
intellettuali illuminati del Sud, tra i quali anche il conterraneo Galanti, che
in una lettera del 4 settembre del 1790 al padre Michelangelo, descrive
Vincenzo: «capace, di molta abilità e di molto talento», ma «trascurato» e
«indolente», forse non soddisfatto appieno della collaborazione di Vincenzo
alla stesura della sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie.
Partecipò attivamente alla costituzione della Repubblica Napoletana nel 1799 ed
alle sue vicissitudini, ricoprendovi le cariche di segretario del suo ex
docente Ignazio Falconieri (che ricopriva la carica di comandante militare del
Dipartimento del Volturno) e di organizzatore del Dipartimento del
Volturno. In seguito alla capitolazione della Repubblica per mano delle
truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo ed al susseguente ritorno al
potere dei Borboni, conobbe il carcere per alcuni mesi, venendo inoltre
condannato alla confisca dei beni e quindi costretto all'esilio, dapprima a
Parigi e poi a Milano, dove già nel 1801 pubblicò il suo capolavoro, il Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana, poi ampliato nella successiva edizione
del 1806. Sempre a Milano, tra il 1802 ed il 1804 diresse il Giornale
Italiano, dando un'impronta economica di rilievo al periodico e svolgendo una
vivace attività pubblicistica, che proseguirà anche a Napoli con la sua
collaborazione al Monitore delle Sicilie. Nel 1806 pubblicò il suo
Platone in Italia, originale romanzo utopistico proposto in forma epistolare, e
quindi rientrò nel Regno di Napoli governato da Giuseppe Bonaparte,
ricoprendovi importanti incarichi pubblici, prima come Consigliere di
Cassazione e poi Direttore del Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei
più importanti consiglieri del governo di Gioacchino Murat. In questo
ambito preparò nel 1809 un Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione
nel Regno di Napoli, nel quale l'istruzione pubblica è vista come
indispensabile strumento per la formazione di una coscienza nazional popolare.
Seguace del Pestalozzi, Cuoco prospetta «un'istruzione generale, pubblica ed
uniforme». [1] Dal 1810 ebbe l'incarico di Capo del Consiglio Provinciale
del Molise e, durante la durata di tale impiego, scrisse nel 1812 Viaggio in
Molise, opera storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato
grazie anche alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe),
presso la quale si conservano ancora suoi scritti e ritratti. Gli ultimi
suoi anni furono funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse
anche a causa del travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione),
spingendolo alla distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti,
e costringendolo a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte,
avvenuta a Napoli nel 1823, per le conseguenze di una frattura del femore,
riportata in seguito a una caduta. Opere Studioso di letteratura,
giurisprudenza e filosofia, Vincenzo Cuoco si segnala, oltre che per la sua
attività pubblicistica, per il Platone in Italia, originale romanzo utopistico
in forma epistolare e, soprattutto, per il Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, opera di fondamentale importanza nella nostra
storiografia, forse non studiata e conosciuta quanto meriterebbe. Lavorò ad
altri saggi e opere letterarie, rimaste in gran parte incompiute (salvo il
saggio Viaggio nel Molise, scritto nel 1812) e da lui stesso distrutte nel
corso delle crisi nervose causate dalla malattia che lo accompagnò nei suoi
ultimi anni. Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 «Tutte
le volte che in quest'opera si parla di "nome", di
"opinione", di "grado", s'intende sempre di quel grado, di
quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il
solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.» (V. Cuoco - Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Prefazione alla seconda
edizione) Il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 fu
scritto durante l'esilio a Parigi e pubblicato a Milano in forma anonima nel
1801. L'opera narra gli eventi occorsi a Napoli tra il dicembre del 1798
(fuga di re Ferdinando IV di Borbone in Sicilia) e la caduta della Repubblica
Napoletana, comprese le rappresaglie che ne seguirono la fine. Il saggio
conobbe un vasto successo (fu presto tradotto anche in tedesco) e andò
abbastanza rapidamente esaurito, tanto da spingere l'autore - anche per
scoraggiare i tentativi di ristampa abusiva - a porre mano ad una nuova
edizione ampliata, che vide la luce nel 1806. Nel 1807 il saggio fu tradotto
anche in francese (quasi contemporaneamente ad analoga traduzione del Platone
in Italia). Accanto alla dimensione puramente storiografica, attraverso
la quale vengono ripercorsi gli eventi che condussero alla nascita e alla
rapida fine dell'effimero esperimento repubblicano (inquadrati dall'autore nel
burrascoso contesto delle invasioni napoleoniche in Italia), l'opera si propone
come un commento storico e mira a delineare una lettura critica della vicenda
rivoluzionaria. Il racconto degli accadimenti viene proposto sotto forma
di indagine rigorosa dei fatti e investe l'esposizione dei principi teorici che
mossero gli artefici della rivoluzione napoletana. Senza indulgere in
enfasi e retorica, viene in tal modo offerto al lettore uno spaccato della
vivace e avanzata cultura filosofica e politica d'inizio secolo nella capitale del
Sud d'Italia (all'epoca in Europa seconda solo a Parigi per estensione), ove
gli insegnamenti di Mario Pagano (1748-1799), di Antonio Genovesi, di Gaetano
Filangieri (1752-1788), e di Giambattista Vico confluiscono a filtrare e
aggiornare la lettura sempre valida de Il Principe di Niccolò
Machiavelli. «I Francesi furono costretti a dedurre i princìpi loro dalla
più astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per l'ordinario
gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder
le proprie idee con le leggi della natura.» (V. Cuoco - Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap. VII) Poste a confronto la
Rivoluzione francese e quella partenopea, Vincenzo Cuoco indaga le ragioni del
fallimento di quest'ultima e ne individua con lucidità e senza pregiudizi le
cause: ispirata e poi di fatto imposta dagli stranieri, la rivoluzione
coinvolge a Napoli solo un’élite molto limitata numericamente (e largamente
impreparata alla difficile arte del governo), senza penetrare nella coscienza
popolare e senza tenere in alcun conto le peculiarità, tradizioni, necessità
reali e aspirazioni più autentiche che caratterizzavano le genti
napoletane: «Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la
costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui
bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità, che il popolo credeva legittima
e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva,
gli avesse procurato de' beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che
soffriva; forse… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria
desolata e degna di una sorte migliore.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, cap.XV) Se da un lato, secondo Cuoco, il
governo rivoluzionario cadde vittima - prima di tutto - della sua stessa
imperizia tecnico-politica, dall'altro l'esperimento era votato in partenza al
fallimento in quanto mirava ad applicare ciecamente il modello della
Rivoluzione francese, tal quale, senza minimamente preoccuparsi di adattarlo
alla realtà napoletana e alle sue peculiarità. D'altra parte, osserva
Cuoco con spirito squisitamente moderno e rara acutezza, si pretendeva che il
popolo aderisse ciecamente a una rivoluzione della quale non poteva capire né i
valori, né le ragioni: "«Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»…
Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua
felicità?" (Saggio..., cap. XIX) La Rivoluzione fu dunque imposta al
popolo, piuttosto che proposta o sorta dalle sue istanze più autentiche e
profonde, determinando pertanto una profonda e insanabile frattura tra gli
intellettuali che la guidarono e la popolazione che se ne sentì sostanzialmente
estranea e che spontaneamente seppe riconoscerla per quel che certo essa era a
livello geopolitico: un regime imposto dall'interesse di una potenza
straniera. L'acuta e onesta critica di Cuoco - sempre sostenuto nella sua
opera da un raro attaccamento al realismo e da una logica incalzante - nel condannare
la cieca fiducia delle élite in teorie generali che non tengono nel giusto
conto la storia e la cultura più profonde e vere dei popoli, individua dunque
già all'alba del XIX secolo nella frattura tra classi dirigenti e istanze
popolari quello che sarà forse il più grave dramma dell'intera avventura
risorgimentale italiana e che tanto dovrà pesare sulla storia dell'Italia
unita, sino ai giorni nostri. Critiche al saggio storico L'opera di
Vincenzo Cuoco ricevette aspre critiche per la sua documentazione
storiografica. Al di là delle convinzioni politiche, gli è stata rimproverata
una certa parzialità nella ricerca storiografica. L'abate Domenico Sacchinelli,
segretario del cardinale Fabrizio Ruffo, fondatore e comandante dell'Esercito
della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, principale responsabile della
sanguinaria caduta della Repubblica e della restaurazione dei Borboni al trono,
criticò aspramente la sua opera. Al fine di far conoscere la sua versione
dei fatti, Domenico Sacchinelli pubblicò un'opera intitolata Memorie storiche
sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (1836), scritta nove anni dopo la morte
di Fabrizio Ruffo nella quale, essendo stato segretario del cardinale e
possedendo dei documenti del periodo, contestava molte delle notizie su Ruffo e
sui sanfedisti. Sacchinelli, nella prefazione, asserisce che Cuoco, a sua
differenza, non poteva sapere quello che l'esercito della Santa Fede aveva
fatto per filo e per segno, in quali paesi era stato e quali paesi aveva
saccheggiato o incendiato.[2] Per contro, Benedetto Croce la segnalò
quale "[...] prima vigorosa manifestazione del pensiero vichiano,
antiastrattista e storico, e l'inizio della nuova storiografìa, fondata sul
concetto dello svolgimento organico dei popoli, e della nuova politica, la
politica del liberalismo nazionale, rivoluzionario e moderato insieme."
(B. Croce, Storia della storiografia italiana, Volume primo, Laterza,
1921) Platone in Italia Platone in Italia, 1916 «Se l'arte
dell'eloquenza è l'arte di persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di
dire sempre il vero, il solo vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di
nostra inferma natura di rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti,
quanto più atte al fine, cioè quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel
pensiero.» (V. Cuoco - Platone in Italia) Il Platone in Italia,
diviso in due volumi, è un originale esempio di romanzo storico scritto in
forma epistolare che l'autore finge di aver tradotto dal greco. L'opera,
scritta prima del suo rientro a Napoli nel 1806 (e pubblicata nello stesso
anno), è dedicata alla celebrazione del mito di un'immaginata "Italia
pitagorica", intesa come antico e mitico luogo della saggezza. Nel
racconto immaginario di Cuoco si descrive il viaggio intrapreso dal giovane
Cleobolo, discepolo di Platone, in visita nella Magna Grecia in compagnia del
suo maestro: il viaggio fornisce lo spunto per esaltare l'originalità e la
natura primigenia della civiltà italiana, vista da Cuoco come più antica di
quella ellenica: è nell'Italia meridionale che quelle popolazioni raggiungono
per prime l'apice sia nel campo delle istituzioni civili, sia nelle scienze e
nelle arti. Anche in quest'opera è chiaramente rintracciabile l'influsso
di Vico e del suo De antiquissima Italorum sapientia, laddove Cuoco ne coglie
non solo la dimensione storica, ma anche quella filosofica. Importante
dal punto di vista ideologico, l'opera intende affermare la supremazia
culturale italiana rispetto alla Francia e al resto d'Europa e può essere
considerata un preannuncio della corrente d'orgoglio nazionale che si
svilupperà in tutto il primo Ottocento e che culminerà nel celebre Del primato
morale e civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti. A tratti disorganica
e monotona, l'opera non rende giustizia al suo autore da un punto di vista
squisitamente letterario, specie se confrontata con lo stile straordinariamente
persuasivo, agile ed efficace del Saggio sulla rivoluzione napoletana.
Opere Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, in Scrittori
d'Italia 43, Bari, Laterza, 1913. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 74,
vol. 1, 2ª ed., Bari, Laterza, 1928. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia
92, vol. 2, Bari, Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 93, vol.
1, Bari, Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 94, vol. 2, Bari,
Laterza, 1924. Note ^ Rapporto al re Gioacchino Marat e Progetto di decreto per
l'ordinamento della Pubblica Istruzione nel Regno di Napoli, vedi Carlo
Salinari Carlo Ricci, Storia della letteratura italiana, Volume terzo, Parte
prima, Edizioni Laterza, Bari 1981. p 11 ^ sacchinelli-memorie, prefazione.
Bibliografia Fulvio Tessitore, Lo storicismo di Vincenzo Cuoco, Morano editore,
Napoli, 1965 Fulvio Tessitore, Vincenzo Cuoco tra illuminismo e storicismo,
Libreria Scientifica Editore, Napoli, 1971. Fulvio Tessitore, Vincenzo Cuoco,
in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia , Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2012. Dario De Salvo, la Pedagogia del
Reale di Vincenzo Cuoco, PensaMultimedia, Lecce-rovato, 2016. A. Boroli e
AA.VV., Universo - la grande enciclopedia per tutti, Istituto Geografico De
Agostini S.p.A., Novara, 1970; AA.VV., l'Enciclopedia, UTET Torino - Istituto
Geografico De Agostini S.p.A., Novara - Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A.,
Roma, 2003; Mario Themelly, «CUOCO, Vincenzo», in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 31, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 1985.
Felice Battaglia, «CUOCO, Vincenzo», la voce nella Enciclopedia Italiana,
Volume 12, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Fausto Moriani,
Esoterismi e storie: Platone nell'interpretazione di Vincenzo Cuoco, in Le vie
della ricerca. Studi in onore di Francesco Adorno, Olschki, Firenze, 1996, pp.
677–688. Domenico Sacchinelli, Sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (PDF),
Tipografia di Carlo Calanco, 1836. Altri progetti Collabora a Wikisource
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Collegamenti esterni Cuòco, Vincenzo, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Felice Battaglia,
CUOCO, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1931. Modifica su Wikidata Cuoco, Vincenzo, in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Cuòco, Vincènzo, su
sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Vincenzo Cuoco, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
Mario Themelly, CUOCO, Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
31, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1985. Modifica su Wikidata Opere di
Vincenzo Cuoco, su Liber Liber. Modifica su Wikidata Opere di Vincenzo Cuoco,
su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Vincenzo Cuoco,
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ottobreMorti il 14 dicembreNati a CivitacampomaranoMorti a NapoliEconomisti
italiani del XVIII secoloEconomisti italiani del XIX secoloPersonalità del
RisorgimentoPersonalità della Repubblica Napoletana (1799)[altre] L'opera
filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei
molte plici articoli del “Giornale italiano”. La filosofia italica di Cuoco si
continua nel “Platone in Italia”, nuova ed alta testimonianza di quello spirito
che vediamo in opera ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio
milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello
spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e
compenetra il suo Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che
scrive che “ama di morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa
più non esiste”, mentre Cuoco vive
ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora
consapevole sempre di più di quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che
l'amore di patria nasce dalla pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui
solo fine è sempre lo stesso: creare lo spirito nazionale, e crearlo,
presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che
questo e lo scopo del suo “Platone in Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che
ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una lettera al vicerè Eugenio è “diretto
a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione,
quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il
“Platone in Italia” di Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un
romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando
impregiudicata assolutamente l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge
con cura non può non accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non
allo scrittore, di questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra
vivere. La trama del “Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che
Cuoco quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un
greco, Cleobolo, fa un viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore,
Platone. Platone e il suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia:
Crotone, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e
conosce direttamente o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI,
Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della
letteratura italiana. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari.
Cuoco, Saggio storico. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella
miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli.
La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani,
ammira le opere d'arte, disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo
stringe con Mnesilla un bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno
dinanzi all'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la
frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto
questo riguardo un romanzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui
sopra tutti importante quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una
grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed
imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di
Platone e Cleobolo è “un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro
contenuto,” che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e
monumenti. Lo scopo non è più il viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe
idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX
amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè
col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco
anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere
spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come
forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto.
E cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi
secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera,
più pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun
limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi
piace; immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone
il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un
limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che
avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con
l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine
che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca
del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli
persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra
come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto
(2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25
gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e
didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non
sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in
azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo
dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo
scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in
certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o
sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne
potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che
dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente,
scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè
può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato
dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi,
potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni
che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum
sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba
trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè
certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare
che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola,
ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla
civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi
voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo
titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi
ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci
latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco
pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima
italica, e che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere
costruita da esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone
in Italia” di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla
faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso
non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e
non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno,
per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile.
L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di
vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un
fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre
in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI
apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in
quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più
delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo
propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la
quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più
forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco
venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del
colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue
in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera,
forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo
in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava;
ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li
rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello
di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi
come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare
che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello?
Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno
fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce
tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io
tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del
ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al
soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò
e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo
so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo
indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi
le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura
grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e
indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro
amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone,
tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza,
con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista
mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo
il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro
insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto
di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi
vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo
Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi
sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro
insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa
posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente
esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo
l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non
appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare
lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do
lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non è una
novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia
stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per
il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale
civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia
essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del
pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui
l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della
prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico,
una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome
“etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè
consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero
origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de'
costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed
istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale,
corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò
per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino
Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non
cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che
abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al
l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i
cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita
istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li
compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza,
nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai
interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di
vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed
altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si
ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta
composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire
pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente
ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene
dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi
disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian
popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e
l'altra regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre
comune degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli,
ma, stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più
precoce che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più
civili, i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico
primato italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si
manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste
calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed
evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la
battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la
rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani
nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero
un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca
agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono
puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un istrumento
di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in tutte quelle
parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria,
nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto più
sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità. La
stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de'
secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono indiscussa la
loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello, scienza
rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di masse e
organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la convivenza
nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima esperienza
sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni eterogenee. Le
romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da
Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il romano, discendente
da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice Cleobolo ad alcuni
legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più antica della città
vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver
imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei
re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon
Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra
queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee del popolo,
il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io! Queste dunque
già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e valicare un mare
tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre quarti dunque del
vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte,
ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione, perchè può stare,
senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla
patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma queste cose sono
dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è
vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire
che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non
volevano fare. Passando nel campo delle arti belle, tra gl’elleni la poesia
drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche olimpiadi, dice un
comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate dalla morte di Tespi e
di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si ha già
meritato quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo,
gli ha dato il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva
tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta ancor oliva la rusticità del
villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già
adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati
elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani ne hanno più
degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche finiscono. In tutto
ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad
ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico. Ma
lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonarelo varie
inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per
l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari popoli hanno fra loro
relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono fratelli animati da un'unica
missione. Guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una
condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto
edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del
terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si
conserva ancora per metà. In tutto il rimanente dell'area, mucchi di
calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non
sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali han formato un tempo
un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta. Ma l'antico non
è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è infranta, per cui alla
primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della
molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come
i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende
quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle
genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola gente, un nome unico: ‘Italia.’
Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le
quali formano quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le
ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par di riconoscere un certo quasi
fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un
edificio no vello. È la gran fede del
Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della
penisola. Tutta l'Italia, dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di
cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e
forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani
nella storia, come han dato finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di
virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino
alla distruzione. Tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in
Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco
però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si
concreta in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte
vite darà organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo,
ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di
continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito
disegno di ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare.
Pitagora volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun
cittadino ha un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a
cozzare continuamente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume
facean nascer suoi fratelli e la divisione degl’ordini politici ne costringeva
ad odiar come nemici. E l'energia di tutti non logorata da domestiche gare,
potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de’ barbari.
Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese
che non è loro patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali,
parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle
loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso
che Socrate ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra:
ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la
patria, dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto
vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi
indigene, nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le
loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini
nella co scienza collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità?
Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e
pedagogico insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza
ottimi ordini civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria,
chi voglia e chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte
chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella
della virtù. È necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile
all'atabulo, che diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle
montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È
necessario istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha
sempre bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una
mente per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve
essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia,
secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere
educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e
non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella
delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si
volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un
popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe
il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi
di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e
formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde
il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città,
perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di
cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario
perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i
poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di
forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è
che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la
subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti.
Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere
la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo
non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica
severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso
frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il
popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi.
Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare
tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile
o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è
necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della
medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle
stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne
quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la
sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli
direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi
che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con
i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto
filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso
e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente,
più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso
linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e
massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e
parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi.
Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono
altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi
possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli
per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo
scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con
mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza:
la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I
pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono
come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel
bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità
piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre
mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di
credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per
suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non
cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità
più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il
popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che
già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per
il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le
prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla
virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività
legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le
leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto,
se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e
la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima
risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se
condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si
presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde
coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del
vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera
pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è
immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran
parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla
legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di
questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri
costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano
riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza
dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri
fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli
spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha
moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali,
volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro
ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi
ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non
potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per
avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno
rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto
come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e
servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli
scogli. La legge però resterà sempre un
astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più
conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da
pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da
premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin
guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa
scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili
sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so
pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve
studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di
essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto
in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza
delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla
pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti
ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono
nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute
provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di
comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie
l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. «
Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini
degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della
legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono
inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più
discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di
natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua
natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto
i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere
il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o
l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi,
dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto
abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La
risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi
diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo,
perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il maggior
numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E questi
pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe ranza
dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a
conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che
le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a
ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta,
riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto
altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al
Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla
religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità
statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo
visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo
lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto,
osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale
dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può
prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter
tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione
e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei cittadini e
le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo stato
dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione e
leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della
religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni
pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi
de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la
religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può
assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando
intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono
quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può
moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato
e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen
derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione,
che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile
allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e
dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come
una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non
vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro
curarsi un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi
eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso
stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima
presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche
dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano
negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di
censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al
reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti
guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno
della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar
monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza
audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri
difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti,
preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed
oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu
la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle
altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi
diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla
sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e
dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una
reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine
eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita
felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra
loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di
classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della
legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come
necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel
suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si
rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli
ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di
Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita:
ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni
dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più
grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che
invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto
quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi
diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema
ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co
stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto,
posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe
sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco
a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna:
l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più
funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e
che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua
prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma
guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la
miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche
l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la
gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con
gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il
molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte
plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur
necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui
convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e
non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi
un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno
sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e
molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi
si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe
avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora,
« dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche
gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei
beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la
ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno
sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto.
Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del
popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo
che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee
diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle
sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità
che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed
avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra
conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la
politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi,
pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi,
ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i
vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini
pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli
sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma
delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini
ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre
dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria.
Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato,
equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia
null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension.
Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti
d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti
gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i
grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno
che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi
eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari;
per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i
pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito,
e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il
quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle
che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro
ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri
genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione
di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco:
fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è
possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più
vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali
diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno
all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e
deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla
conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione
unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è
quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di
distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più
validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge
agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli
gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La
conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma
deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè,
unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il
Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone
e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui
spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e
Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto
dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto
il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non possono non
commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età,
scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano;
ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o
con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non
sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa vicendevole
guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di
tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre
piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del
genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior
consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero
de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la
virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna
può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico
caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura,
colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà
delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la
diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione
degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno
appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni
esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di
ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione
sola? Da ciò scaturisce la necessità
della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale:
chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza,
Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è
nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del
divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta
tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa
oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò
capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la
imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli
del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà,
e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i
greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà
dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di
tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi
vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il
pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee
liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere
che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di
vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e
talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni,
sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi
crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per
emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto
l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo
lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più,
ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi
vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere
superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero
un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire,
e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra
maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non
vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am
miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina.
Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni
considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una
grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo
valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale
della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un
tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta
l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose
belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che
da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti;
in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si
ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello
stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno
riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro
semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone
un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo
ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone
e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli
il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta
nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal
Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al
quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387.
(3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il
Cuoco e il Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del
Primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è
lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in
potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o
almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia:
perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta
realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato
giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti
italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di
purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a
sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il
Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca
e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della
Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li
bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed
italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza;
nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi,
ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha
nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle
quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la
volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini,
tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. Cuoco.
Grice e Curcio: l’implicatura conversazionale dei
corpi esistenti – lucrezio epicureo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Noto). Filosofo. Grice: “Curcio is what we could
call at Oxford a poet; he wrote a little book ‘Esistentee,’ an obvious parody
on Sartre, ‘L’essistentialismo e un umanesimo.’ – His background is philososophical
though, and it shows!” Ensegna a Noto e Messina. Direttore Generale per
l'Ordine Ginnasiale. Altre opere:
“Armonia e dissonanza” – consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia
– cognata con ‘armento’ e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il
prezzo della salute” (Noto). Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del
templo” (Bonacci, Roma); “Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma);
“II grano di follia” (Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo,
(Bonacci, Roma); “A due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci,
Roma); “Esistente” (Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due
cene” (Bonacci, Roma); “Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma);
“Derelictus” (Bonacci, Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale”
(Bonacci, Roma); “Felix” (Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma). MARIUS
THE EPICUREAN. THE RENAISSANCE : Studies
in Art and Poetry. Globe. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court
Painters— Denys I'Auxerrois — Sebastian van Storck — Diike Carl of
Rosen- mold. Globe, APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Globe. PLATO
AND PLATONISM : A Series of Lectures. Globe. MARIUS THE EPICUREAN. HIS
SENSATIONS AND IDEAS. WALTER PATER. FELLOW OF BRASENOSE. a Xfiiiepivis
Svapos, Sre fi^Kiarai ai viKTCs m^ LIBRARY
MACMILLAN AND CO., Ltd. The Religion of Numa. White-nights. Change
of Air. The Tree of Knowledge 5. The Golden Book 6.
Euphuism. A Pagan End. Animula Vagula. New Cyrenaicism. On the Way. The Most
Religious City in the World. The Divinity that doth hedge a King. The
"Mistress and Mother" of Palaces .Manly Amusement. Stoicism at Court.
Second Thoughts. Beata Urbs. The Ceremony of the Dart. The Will as
Vision Two Curious Houses. Guests. Two Curious Houses. The Church in
Cecilia's House. The Minor Peace of the Church. Divine Service. A
Conversation not Imaginary . . Sunt Lacrim^e Rerum. The Martyrs. The Triumph of
Marcus Aurelius. Anima naturaliter Christiana. MARIUS THE EPICUREAN
BY WALTER PATER. ESSAYS FROM THE GUARDIAN. Extra Crown
8vo. 6s. G ASTON DE LATOUR : An Unfinished Romance. Prepared
for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel College. Extra
Crown 8vo. 7s. 6d. MISCELLANEOUS STUDIES : A Series of Essays.
Pre- pared for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel
College. Extra Crown GREEK STUDIES : A Series of Essays. Prepared for
the Press by SHADWELL, Fellow of Oriel. MARIUS THE EPICUREAN. His
Sensations and Ideas. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court Painters
; Denys 1'Auxerrois : Sebastian van Storck ; Duke Carl of
Rosenmold. THE RENAISSANCE : Studies in Art and Poetry. Extra. PLATO AND
PLATONISM : A Series of Lectures. Extra Crown 8vo. 8s.
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ARTHUR C. BENSON. English Men of Letters Series. MACMILLAN
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SENSATIONS AND IDEAS WALTER PATER. FELLOW OF BRASENOSE, OXFORD. Xet/u/nvos
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ST. MARTIN'S STREET, LONDON. STOICISM AT COURT. SECOND THOUGHTS. BEATA
URBS. THE CEREMONY OF THE DART. THE WILL AS VISION. TWO CURIOUS HOUSES i.
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A CONVERSATION NOT IMAGINARY. SUNT LACRIM^E RERUM. THE MARTYRS. THE TRIUMPH OF
MARCUS AURELIUS . . 197 28. ANIMA NATURALITER CHRISTIANA. Marius
the Epicurean HIS SENSATIONS AND IDEAS. PATER. London. (The Library
Edition.). The Religion of Numa. White-Nights 3. Change of Air 4.
The Tree of Knowledge 5. The Golden Book 6. Euphuism. A Pagan End. Animula
Vagula. New Cyrenaicism On the Way. The Most Religious City in the World.
The Divinity that Doth Hedge a King. The “Mistress and Mother” of Palaces
14. Manly Amusement. I have placed an asterisk immediately after each of
Pater’s footnotes and a + sign after my own notes, and have listed each of my
notes at that chapter’s end. Greek typeface: For this full-text edition,
I have transliterated Pater’s Greek quotations. If there is a need for the
original Greek, it can be viewed at my site, http://www.ajdrake.com/etexts, a
Victorianist archive that contains the complete works of Walter Pater and many
other nineteenth-century texts, mostly in first editions. MARIUS THE
EPICUREAN, VOLUME ONE WALTER PATER Χειμερινὸς ὄνειρος, ὅτε μήκισται
αἱ νύκτες+ +“A winter’s dream, when nights are longest.” Lucian,
The Dream/ MARIUS THE EPICUREAN. “THE RELIGION OF NUMA” -- As, in
the triumph of Christianity, the old religion lingered latest in the country,
and died out at last as but paganism—the religion of the villagers, before the
advance of the Christian Church; so, in an earlier century, it was in places
remote from town-life that the older and purer forms of paganism itself had
survived the longest. While, in Rome, new religions had arisen with bewildering
complexity around the dying old one, the earlier and simpler patriarchal
religion, “the religion of Numa,” as people loved to fancy, lingered on with
little change amid the pastoral life, out of the habits and sentiment of which
so much of it had grown. Glimpses of such a survival we may catch below the
merely artificial attitudes of Latin pastoral poetry; in Tibullus especially,
who has preserved for us many poetic details of old Roman religious
usage. At mihi contingat patrios celebrare Penates, Reddereque antiquo
menstrua thura Lari: —he prays, with unaffected seriousness.
Something liturgical, with repetitions of a consecrated form of words, is
traceable in one of his elegies, as part of the order of a birthday sacrifice.
The hearth, from a spark of which, as one form of old legend related, the child
Romulus had been miraculously born, was still indeed an altar; and the
worthiest sacrifice to the gods the perfect physical sanity of the young men
and women, which the scrupulous ways of that religion of the hearth had tended
to maintain. A religion of usages and sentiment rather than of facts and
belief, and attached to very definite things and places—the oak of immemorial
age, the rock on the heath fashioned by weather as if by some dim human art,
the shadowy grove of ilex, passing into which one exclaimed involuntarily, in
consecrated phrase, Deity is in this Place! Numen Inest!—it was in natural
harmony with the temper of a quiet people amid the spectacle of rural life,
like that simpler faith between man and man, which Tibullus expressly connects
with the period when, with an inexpensive worship, the old wooden gods had been
still pressed for room in their homely little shrines. And about the time
when the dying Antoninus Pius ordered his golden image of Fortune to be carried
into the chamber of his successor (now about to test the truth of the old
Platonic contention, that the world would at last find itself happy, could it
detach some reluctant philosophic student from the more desirable life of
celestial contemplation, and compel him to rule it), there was a boy living in
an old country-house, half farm, half villa, who, for himself, recruited that
body of antique traditions by a spontaneous force of religious veneration such
as had originally called them into being. More than a century and a half had
past since Tibullus had written; but the restoration of religious usages, and
their retention where they still survived, was meantime come to be the fashion
through the influence of imperial example; and what had been in the main a
matter of family pride with his father, was sustained by a native instinct of
devotion in the young Marius. A sense of conscious powers external to
ourselves, pleased or displeased by the right or wrong conduct of every
circumstance of daily life—that conscience, of which the old Roman religion was
a formal, habitual recognition, was become in him a powerful current of feeling
and observance. The old-fashioned, partly puritanic awe, the power of which
Wordsworth noted and valued so highly in a northern peasantry, had its
counterpart in the feeling of the Roman lad, as he passed the spot, “touched of
heaven,” where the lightning had struck dead an aged labourer in the field: an
upright stone, still with mouldering garlands about it, marked the place. He
brought to that system of symbolic usages, and they in turn developed in him
further, a great seriousness—an impressibility to the sacredness of time, of
lifeand its events, and the circumstances of family fellowship; of such gifts
to men as fire, water, the earth, from labour on which they live, really
understood by him as gifts—a sense of eligious responsibility in the
reception of them. It was a religion for the most part of fear, of
multitudinous scruples, of a year-long burden of forms; yet rarely (on clear
summer mornings, for instanrce) the thought of those heavenly powers afforded a
welcome channel for the almost stifling sense of health and delight in him, and
relieved it as gratitude to the gods. The day of the “little” or private
Ambarvalia was come, to be celebrated by a single family for the welfare of all
belonging to it, as the great college of the Arval Brothers offici ated at
Rome in the interest of the whole state. At the appointed time all work ceases;
the instruments of labour lie untouched, hung with wreaths of flowers, while
masters and servants together go in solemn procession along the dry paths of
vineyard and cornfield, conducting the victims whose blood is presently to be
shed for the purification from all natural or supernatural taint o f the
lands they have “gone about.” The old Latin words of the liturgy, to be said as
the procession moved on its way, though their precise meaning was long since
become unintelligible, were recited from an ancient illuminated roll, kept in
the painted chest in the hall, together with the family records. Early on that
day the girls of the farm had been busy in the great portico, filling large
baskets with flowers plucked short from branches of apple and cherry, then in
spacious bloom, to strew before the quaint images of the gods—Ceres and
Bacchus and the yet more mysterious Dea Dia—as they passed through the fields,
carried in their little houses on the shoulders of white-clad youths, who were
understood to proceed to this office in perfect temperance, as pure in soul and
body as the air they breathed in the firm weather of that early summer-time.
The clean lustral water and the full incense-box were carried after them. The
altars were gay with garlands of wool and the more sumptuous sort of blossom
and green herbs to be thrown into the sacrificial fire, fresh-gathered this
morning from a particular plot in the old garden, set apart for the purpose.
Just then the young leaves were almost as fragrant as flowers, and the scent of
the bean-fields mingled pleasantly with the cloud of incense. But for the
monotonous intonation of the liturgy by the priests, clad in their strange,
stiff, antique vestments, and bearing ears of green corn upon their heads,
secured by flowing bands of white, the procession moved in absolute stillness,
all persons, even the children, abstaining from speech after the utterance of
the pontifical formula, Favete linguis!—Silence! Propitious Silence!—lest any
words save those proper to the occasion should hinder the religious efficacy of
the rite. With the lad Marius, who, as the head of his house, took a
leading part in the ceremonies of the day, there was a devout effort to
complete this impressive outward silence by that inward tacitness of mind,
esteemed so important by religious Romans in the performance of these sacred
functions. To him the sustained stillness without seemed really but to be
waiting upon that interior, mental condition of preparation or expectancy, for
which he was just then intently striving. The persons about him, certainly, had
never been challenged by those prayers and ceremonies to any ponderings on the
divine nature: they conceived them rather to be the appointed means of setting
such troublesome movements at rest. By them, “the religion of Numa,” so staid,
ideal and comely, the object of so much jealous conservatism, though of direct
service as lending sanction to a sort of high scrupulosity, especially in the
chief points of domestic conduct, was mainly prized as being, through its
hereditary character, something like a personal distinction—as contributing,
among the other accessories of an ancient house, to the production of that
aristocratic atmosphere which separated them from newly-made people. But in the
young Marius, the very absence from those venerable usages of all definite
history and dogmatic interpretation, had already awakened much speculative
activity; and to-day, starting from the actual details of the divine service,
some very lively surmises, though scarcely distinct enough to be thoughts, were
moving backwards and forwards in his mind, as the stirring wind had done all
day among the trees, and were like the passing of some mysterious influence
over all the elements of his nature and experience. One thing only distracted
him—a certain pity at the bottom of his heart, and almost on his lips, for the
sacrificial victims and their looks of terror, rising almost to disgust at the
central act of the sacrifice itself, a piece of everyday butcher’s work, such
as we decorously hide out of sight; though some then present certainly
displayed a frank curiosity in the spectacle thus permitted them on a religious
pretext. The old sculptors of the great procession on the frieze of the
Parthenon at Athens, have delineated the placid heads of the victims led in it
to sacrifice, with a perfect feeling for animals in forcible contrast with any
indifference as to their sufferings. It was this contrast that distracted
Marius now in the blessing of his fields, and qualified his devout absorption
upon the scrupulous fulfilment of all the details of the ceremonial, as the
procession approached the altars. The names of that great populace of
“little gods,” dear to the Roman home, which the pontiffs had placed on the
sacred list of the Indigitamenta, to be invoked, because they can help, on
special occasions, were not forgotten in the long litany—Vatican who causes the
infant to utter his first cry, Fabulinus who prompts his first word, Cuba who
keeps him quiet in his cot, Domiduca especially, for whom Marius had through
life a particular memory and devotion, the goddess who watches over one’s safe
coming home. The urns of the dead in the family chapel received their due
service. They also were now become something divine, a goodly company of
friendly and protecting spirits, encamped about the place of their former
abode—above all others, the father, dead ten years before, of whom, remembering
but a tall, grave figure above him in early childhood, Marius habitually
thought as a genius a little cold and severe. Candidus insuetum miratur
limen Olympi, Sub pedibusque videt nubes et sidera.— Perhaps!—but
certainly needs his altar here below, and garlands to-day upon his urn. But the
dead genii were satisfied with little—a few violets, a cake dipped in wine, or
a morsel of honeycomb. Daily, from the time when his childish footsteps were
still uncertain, had Marius taken them their portion of the family meal, at the
second course, amidst the silence of the company. They loved those who brought
them their sustenance; but, deprived of these services, would be heard
wandering through the house, crying sorrowfully in the stillness of the night.
And those simple gifts, like other objects as trivial—bread, oil, wine,
milk—had regained for him, by their use in such religious service, that poetic
and as it were moral significance, which surely belongs to all the means of
daily life, could we but break through the veil of our familiarity with things
by no means vulgar in themselves. A hymn followed, while the whole assembly
stood with veiled faces. The fire rose up readily from the altars, in clean,
bright flame—a favourable omen, making it a duty to render the mirth of the
evening complete. Old wine was poured out freely for the servants at supper in
the great kitchen, where they had worked in the imperfect light through the
long evenings of winter. The young Marius himself took but a very sober part in
the noisy feasting. A devout, regretful after-taste of what had been really
beautiful in the ritual he had accomplished took him early away, that he might
the better recall in reverie all the circumstances of the celebration of the
day. As he sank into a sleep, pleasant with all the influences of long hours in
the open air, he seemed still to be moving in procession through the fields,
with a kind of pleasurable awe. That feeling was still upon him as he awoke
amid the beating of violent rain on the shutters, in the first storm of the
season. The thunder which startled him from sleep seemed to make the solitude
of his chamber almost painfully complete, as if the nearness of those angry
clouds shut him up in a close place alone in the world. Then he thought of the
sort of protection which that day’s ceremonies assured. To procure an agreement
with the gods—Pacem deorum exposcere: that was the meaning of what they had all
day been busy upon. In a faith, sincere but half-suspicious, he would fain have
those Powers at least not against him. His own nearer household gods were all
around his bed. The spell of his religion as a part of the very essence of
home, its intimacy, its dignity and security, was forcible at that moment;
only, it seemed to involve certain heavy demands upon him. To an
instinctive seriousness, the material abode in which the childhood of Marius
was passed had largely added. Nothing, you felt, as you first caught sight of
that coy, retired place,—surely nothing could happen there, without its full
accompaniment of thought or reverie. White-nights! so you might interpret its
old Latin name.* “The red rose came first,” says a quaint German mystic,
speaking of “the mystery of so-called white things,” as being “ever an
after-thought—the doubles, or seconds, of real things, and themselves but
half-real, half-material—the white queen, the white witch, the white mass,
which, as the black mass is a travesty of the true mass turned to evil by
horrible old witches, is celebrated by young candidates for the priesthood with
an unconsecrated host, by way of rehearsal.” So, white-nights, I suppose, after
something like the same analogy, should be nights not of quite blank
forgetfulness, but passed in continuous dreaming, only half veiled by sleep.
Certainly the place was, in such case, true to its fanciful name in this, that
you might very well conceive, in face of it, that dreaming even in the daytime
might come to much there. * _Ad Vigilias Albas_. The young
Marius represented an ancient family whose estate had come down to him much
curtailed through the extravagance of a certain Marcellus two generations
before, a favourite in his day of the fashionable world at Rome, where he had
at least spent his substance with a correctness of taste Marius might seem to
have inherited from him; as he was believed also to resemble him in a
singularly pleasant smile, consistent however, in the younger face, with some
degree of sombre expression when the mind within was but slightly moved.
As the means of life decreased, the farm had crept nearer and nearer to the
dwelling-house, about which there was therefore a trace of workday negligence
or homeliness, not without its picturesque charm for some, for the young master
himself among them. The more observant passer-by would note, curious as to the
inmates, a certain amount of dainty care amid that neglect, as if it came in
part, perhaps, from a reluctance to disturb old associations. It was
significant of the national character, that a sort of elegant gentleman farming,
as we say, had been much affected by some of the most cultivated Romans. But it
became something more than an elegant diversion, something of a serious
business, with the household of Marius; and his actual interest in the
cultivation of theearth and the care of flocks had brought him, at least,
intimately near to those elementary conditions of life, a reverence for which,
the great Roman poet, as he has shown by his own half-mystic pre-occupation
with them, held to be the ground of primitive Roman religion, as of primitive
morals. But then, farm-life in Italy, including the culture of the olive and
the vine, has a grace of its own, and might well contribute to the
production of an ideal dignity of character, like that of nature itself in this
gifted region. Vulgarity seemed impossible. The place, though impoverished, was
still deservedly dear, full of venerable memories, and with a living sweetness
of its own for to-day. To hold by such ceremonial traditions had been a
part of the struggling family pride of the lad’s father, to which the example
of the head of the state, old Antoninus Pius—an example to be still further
enforced by his successor—had given a fresh though perhaps somewhat artificial
popularity. It had been consistent with many another homely and old-fashioned
trait in him, not to undervalue the charm of exclusiveness and immemorial
authority, which membership in a local priestly college, hereditary in his
house, conferred upon him. To set a real value on these things was but one
element in that pious concern for his home and all that belonged to it, which,
as Marius afterwards discovered, had been a strong motive with his father. The
ancient hymn—Fana Novella!—was still sung by his people, as the new moon grew
bright in the west, and even their wild custom of leaping through heaps of
blazing straw on a certain night in summer was not discouraged. The privilege
of augury itself, according to tradition, had at one time belonged to his race;
and if you can imagine how, once in a way, an impressible boy might have an
inkling, an inward mystic intimation, of the meaning and consequences of all
that, what was implied in it becoming explicit for him, you conceive aright the
mind of Marius, in whose house the auspices were still carefully consulted before
every undertaking of moment. The devotion of the father then had handed
on loyally—and that is all many not unimportant persons ever find to do—a
certain tradition of life, which came to mean much for the young Marius. The
feeling with which he thought of his dead father was almost exclusively that of
awe; though crossed at times by a not unpleasant sense of liberty, as he could
but confess to himself, pondering, in the actual absence of so weighty and
continual a restraint, upon the arbitrary power which Roman religion and Roman
law gave to the parent over the son. On the part of his mother, on the other
hand, entertaining the husband’s memory, there was a sustained freshness of
regret, together with the recognition, as Marius fancied, of some costly self-sacrifice
to be credited to the dead. The life of the widow, languid and shadowy enough
but for the poignancy of that regret, was like one long service to the departed
soul; its many annual observances centering about the funeral urn—a tiny,
delicately carved marble house, still white and fair, in the family-chapel,
wreathed always with the richest flowers from the garden. To the dead, in fact,
was conceded in such places a somewhat closer neighbourhood to the old homes
they were thought still to protect, than is usual with us, or was usual in Rome
itself—a closeness which the living welcomed, so diverse are the ways of our
human sentiment, and in which the more wealthy, at least in the country, might
indulge themselves. All this Marius followed with a devout interest, sincerely
touched and awed by his mother’s sorrow. After the deification of the emperors,
we are told, it was considered impious so much as to use any coarse expression
in the presence of their images. To Marius the whole of life seemed full of
sacred presences, demanding of him a similar collectedness. The severe and
archaic religion of the villa, as he conceived it, begot in him a sort of
devout circumspection lest he should fall short at any point of the demand upon
him of anything in which deity was concerned. He must satisfy with a kind of
sacred equity, he must be very cautious lest he be found wanting to, the claims
of others, in their joys and calamities—the happiness which deity sanctioned,
or the blows in which it made itself felt. And from habit, this feeling of a
responsibility towards the world of men and things, towards a claim for due
sentiment concerning them on his side, came to be a part of his nature not to
be put off. It kept him serious and dignified amid the Epicurean speculations
which in after years much engrossed him, and when he had learned to think of
all religions as indifferent, serious amid many fopperies and through many
languid days, and made him anticipate all his life long as a thing towards
which he must carefully train himself, some great occasion of self-devotion,
such as really came, that should consecrate his life, and, it might be, its
memory with others, as the early Christian looked forward to martyrdom at the
end of his course, as a seal of worth upon it. The traveller, descending
from the slopes of Luna, even as he got his first view of the Port-of-Venus,
would pause by the way, to read the face, as it were, of so beautiful a
dwelling-place, lying away from the white road, at the point where it began to
decline somewhat steeply to the marsh-land below. The building of pale red and
yellow marble, mellowed by age, which he saw beyond the gates, was indeed but
the exquisite fragment of a once large and sumptuous villa. Two centuries of
the play of the sea-wind were in the velvet of the mosses which lay along its
inaccessible ledges and angles. Here and there the marble plates had slipped
from their places, where the delicate weeds had forced their way. The graceful
wildness which prevailed in garden and farm gave place to a singular nicety
about the actual habitation, and a still more scrupulous sweetness and order
reigned within. The old Roman architects seem to have well understood the
decorative value of the floor—the real economy there was, in the production of
rich interior effect, of a somewhat lavish expenditure upon the surface they
trod on. The pavement of the hall had lost something of its evenness; but,
though a little rough to the foot, polished and cared for like a piece of
silver, looked, as mosaic-work is apt to do, its best in old age. Most
noticeable among the ancestral masks, each in its little cedarn chest below the
cornice, was that of the wasteful but elegant Marcellus, with the quaint
resemblance in its yellow waxen features to Marius, just then so full of
animation and country colour. A chamber, curved ingeniously into oval form,
which he had added to the mansion, still contained his collection of works of
art; above all, that head of Medusa, for which the villa was famous. The
spoilers of one of the old Greek towns on the coast had flung away or lost the
thing, as it seemed, in some rapid flight across the river below, from the
sands of which it was drawn up in a fisherman’s net, with the fine golden
laminae still clinging here and there to the bronze. It was Marcellus also who
had contrived the prospect-tower of two storeys with the white pigeon-house
above, so characteristic of the place. The little glazed windows in the
uppermost chamber framed each its dainty landscape—the pallid crags of Carrara,
like wildly twisted snow-drifts above the purple heath; the distant harbour
with its freight of white marble going to sea; the lighthouse temple of Venus
Speciosa on its dark headland, amid the long-drawn curves of white breakers.
Even on summer nights the air there had always a motion in it, and drove the
scent of the new-mown hay along all the passages of the house. Something
pensive, spell-bound, and but half real, something cloistral or monastic, as we
should say, united to this exquisite order, made the whole place seem to
Marius, as it were, sacellum, the peculiar sanctuary, of his mother, who, still
in real widowhood, provided the deceased Marius the elder with that secondary
sort of life which we can give to the dead, in our intensely realised memory of
them—the “subjective immortality,” to use a modern phrase, for which many a
Roman epitaph cries out plaintively to widow or sister or daughter, still in
the land of the living. Certainly, if any such considerations regarding them do
reach the shadowy people, he enjoyed that secondary existence, that warm place
still left, in thought at least, beside the living, the desire for which is
actually, in various forms, so great a motive with most of us. And Marius the
younger, even thus early, came to think of women’s tears, of women’s hands to
lay one to rest, in death as in the sleep of childhood, as a sort of natural
want. The soft lines of the white hands and face, set among the many folds of
the veil and stole of the Roman widow, busy upon her needlework, or with music
sometimes, defined themselves for him as the typical expression of maternity.
Helping her with her white and purple wools, and caring for her musical
instruments, he won, as if from the handling of such things, an urbane and feminine
refinement, qualifying duly his country-grown habits—the sense of a certain
delicate blandness, which he relished, above all, on returning to the “chapel”
of his mother, after long days of open-air exercise, in winter or stormy
summer. For poetic souls in old Italy felt, hardly less strongly than the
English, the pleasures of winter, of the hearth, with the very dead warm in its
generous heat, keeping the young myrtles in flower, though the hail is beating
hard without. One important principle, of fruit afterwards in his Roman life,
that relish for the country fixed deeply in him; in the winters especially,
when the sufferings of the animal world became so palpable even to the least
observant. It fixed in him a sympathy for all creatures, for the almost human
troubles and sicknesses of the flocks, for instance. It was a feeling which had
in it something of religious veneration for life as such—for that mysterious
essence which man is powerless to create in even the feeblest degree. One by
one, at the desire of his mother, the lad broke down his cherished traps and
springes for the hungry wild birds on the salt marsh. A white bird, she told
him once, looking at him gravely, a bird which he must carry in his bosom
across a crowded public place—his own soul was like that! Would it reach the
hands of his good genius on the opposite side, unruffled and unsoiled? And as
his mother became to him the very type of maternity in things, its unfailing
pity and protectiveness, and maternity itself the central type of all love;—so,
that beautiful dwelling-place lent the reality of concrete outline to a
peculiar ideal of home, which throughout the rest of his life he seemed, amid
many distractions of spirit, to be ever seeking to regain. And a certain
vague fear of evil, constitutional in him, enhanced still further this
sentiment of home as a place of tried security. His religion, that old Italian
religion, in contrast with the really light-hearted religion of Greece, had its
deep undercurrent of gloom, its sad, haunting imageries, not exclusively
confined to the walls of Etruscan tombs. The function of the conscience, not
always as the prompter of gratitude for benefits received, but oftenest as his
accuser before those angry heavenly masters, had a large part in it; and the
sense of some unexplored evil, ever dogging his footsteps, made him oddly
suspicious of particular places and persons. Though his liking for animals was
so strong, yet one fierce day in early summer, as he walked along a narrow
road, he had seen the snakes breeding, and ever afterwards avoided that place
and its ugly associations, for there was something in the incident which made
food distasteful and his sleep uneasy for many days afterwards. The memory of
it however had almost passed away, when at the corner of a street in Pisa, he
came upon an African showman exhibiting a great serpent: once more, as the
reptile writhed, the former painful impression revived: it was like a peep into
the lower side of the real world, and again for many days took all sweetness
from food and sleep. He wondered at himself indeed, trying to puzzle out the
secret of that repugnance, having no particular dread of a snake’s bite, like
one of his companions, who had put his hand into the mouth of an old garden-god
and roused there a sluggish viper. A kind of pity even mingled with his
aversion, and he could hardly have killed or injured the animals, which seemed
already to suffer by the very circumstance of their life, being what they were.
It was something like a fear of the supernatural, or perhaps rather a moral
feeling, for the face of a great serpent, with no grace of fur or feathers, so
different from quadruped or bird, has a sort of humanity of aspect in its
spotted and clouded nakedness. There was a humanity, dusty and sordid and as if
far gone in corruption, in the sluggish coil, as it awoke suddenly into one
metallic spring of pure enmity against him. Long afterwards, when it happened
that at Rome he saw, a second time, a showman with his serpents, he remembered
the night which had then followed, thinking, in Saint Augustine’s vein, on the
real greatness of those little troubles of children, of which older people make
light; but with a sudden gratitude also, as he reflected how richly possessed
his life had actually been by beautiful aspects and imageries, seeing how
greatly what was repugnant to the eye disturbed his peace. Thus the
boyhood of Marius passed; on the whole, more given to contemplation than to
action. Less prosperous in fortune than at an earlier day there had been reason
to expect, and animating his solitude, as he read eagerly and intelligently,
with the traditions of the past, already he lived much in the realm of the
imagination, and became betimes, as he was to continue all through life,
something of an idealist, constructing the world for himself in great measure
from within, by the exercise of meditative power. A vein of subjective
philosophy, with the individual for its standard of all things, there would be
always in his intellectual scheme of the world and of conduct, with a certain
incapacity wholly to accept other men’s valuations. And the generation of this
peculiar element in his temper he could trace up to the days when his life had
been so like the reading of a romance to him. Had the Romans a word for
unworldly? The beautiful word umbratilis perhaps comes nearest to it; and, with
that precise sense, might describe the spirit in which he prepared himself for
the sacerdotal function hereditary in his family—the sort of mystic enjoyment
he had in the abstinence, the strenuous self-control and ascêsis, which such
preparation involved. Like the young Ion in the beautiful opening of the play
of Euripides, who every morning sweeps the temple floor with such a fund of
cheerfulness in his service, he was apt to be happy in sacred places, with a
susceptibility to their peculiar influences which he never outgrew; so that
often in after-times, quite unexpectedly, this feeling would revive in him with
undiminished freshness. That first, early, boyish ideal of priesthood, the
sense of dedication, survived through all the distractions of the world, and
when all thought of such vocation had finally passed from him, as a ministry,
in spirit at least, towards a sort of hieratic beauty and order in the conduct
of life. And now what relieved in part this over-tension of soul was the
lad’s pleasure in the country and the open air; above all, the ramble to the
coast, over the marsh with its dwarf roses and wild lavender, and delightful
signs, one after another—the abandoned boat, the ruined flood-gates, the flock
of wild birds—that one was approaching the sea; the long summer-day of idleness
among its vague scents and sounds. And it was characteristic of him that he
relished especially the grave, subdued, northern notes in all that—the charm of
the French or English notes, as we might term them—in the luxuriant Italian
landscape. Dilexi decorem domus tuae. That almost morbid religious
idealism, and his healthful love of the country, were both alike developed by
the circumstances of a journey, which happened about this time, when Marius was
taken to a certain temple of Aesculapius, among the hills of Etruria, as was
then usual in such cases, for the cure of some boyish sickness. The religion of
Aesculapius, though borrowed from Greece, had been naturalised in Rome in the
old republican times; but had reached under the Antonines the height of its
popularity throughout the Roman world. That was an age of valetudinarians, in
many instances of imaginary ones; but below its various crazes concerning
health and disease, largely multiplied a few years after the time of which I am
speaking by the miseries of a great pestilence, lay a valuable, because partly
practicable, belief that all the maladies of the soul might be reached through
the subtle gateways of the body. Salus, salvation, for the Romans, had
come to mean bodily sanity. The religion of the god of bodily health, Salvator,
as they called him absolutely, had a chance just then of becoming the one
religion; that mild and philanthropic son of Apollo surviving, or absorbing,
all other pagan godhead. The apparatus of the medical art, the salutary mineral
or herb, diet or abstinence, and all the varieties of the bath, came to have a
kind of sacramental character, so deep was the feeling, in more serious
minds, of a moral or spiritual profit in physical health, beyond the obvious
bodily advantages one had of it; the body becoming truly, in that case, but a
quiet handmaid of the soul. The priesthood or “family” of Aesculapius, a vast
college, believed to be in possession of certain precious medical secrets, came
nearest perhaps, of all the institutions of the pagan world, to the Christian
priesthood; the temples of the god, rich in some instances with the accumulated
thank-offerings of centuries of a tasteful devotion, being really also a kind
of hospitals for the sick, administered in a full conviction of the
religiousness, the refined and sacred happiness, of a life spent in the
relieving of pain. Elements of a really experimental and progressive
knowledge there were doubtless amid this devout enthusiasm, bent so faithfully
on the reception of health as a direct gift from God; but for the most part his
care was held to take effect through a machinery easily capable of misuse for purposes
of religious fraud. Through dreams, above all, inspired by Aesculapius
himself, information as to the cause and cure of a malady was supposed to come
to the sufferer, in a belief based on the truth that dreams do sometimes, for
those who watch them carefully, give many hints concerning the conditions of
the body—those latent weak points at which disease or death may most easily
break into it. In the time of Marcus Aurelius these medical dreams had become
more than ever a fashionable caprice. Aristeides, the “Orator,” a man of
undoubted intellectual power, has devoted six discourses to their
interpretation; the really scientific Galen has recorded how beneficently they
had intervened in his own case, at certain turning-points of life; and a belief
in them was one of the frailties of the wise emperor himself. Partly for the
sake of these dreams, living ministers of the god, more likely to come to one
in his actual dwelling-place than elsewhere, it was almost a necessity that the
patient should sleep one or more nights within the precincts of a temple
consecrated to his service, during which time he must observe certain rules
prescribed by the priests. For this purpose, after devoutly saluting the
Lares, as was customary before starting on a journey, Marius set forth one
summer morning on his way to the famous temple which lay among the hills beyond
the valley of the Arnus. It was his greatest adventure hitherto; and he had
much pleasure in all its details, in spite of his feverishness. Starting early,
under the guidance of an old serving-man who drove the mules, with his wife who
took all that was needful for their refreshment on the way and for the offering
at the shrine, they went, under the genial heat, halting now and then to pluck
certain flowers seen for the first time on these high places, upwards, through
a long day of sunshine, while cliffs and woods sank gradually below their path.
The evening came as they passed along a steep white road with many windings
among the pines, and it was night when they reached the temple, the lights of
which shone out upon them pausing before the gates of the sacred enclosure,
while Marius became alive to a singular purity in the air. A rippling of water
about the place was the only thing audible, as they waited till two priestly
figures, speaking Greek to one another, admitted them into a large,
white-walled and clearly lighted guest-chamber, in which, while he partook of a
simple but wholesomely prepared supper, Marius still seemed to feel pleasantly
the height they had attained to among the hills. The agreeable sense of
all this was spoiled by one thing only, his old fear of serpents; for it was
under the form of a serpent that Aesculapius had come to Rome, and the last
definite thought of his weary head before he fell asleep had been a dread
either that the god might appear, as he was said sometimes to do, under this
hideous aspect, or perhaps one of those great sallow-hued snakes themselves,
kept in the sacred place, as he had also heard was usual. And after an hour’s
feverish dreaming he awoke—with a cry, it would seem, for some one had entered
the room bearing a light. The footsteps of the youthful figure which approached
and sat by his bedside were certainly real. Ever afterwards, when the thought
arose in his mind of some unhoped-for but entire relief from distress, like
blue sky in a storm at sea, would come back the memory of that gracious
countenance which, amid all the kindness of its gaze, had yet a certain air of
predominance over him, so that he seemed now for the first time to have found
the master of his spirit. It would have been sweet to be the servant of him who
now sat beside him speaking. He caught a lesson from what was then said,
still somewhat beyond his years, a lesson in the skilled cultivation of life,
of experience, of opportunity, which seemed to be the aim of the young priest’s
recommendations. The sum of them, through various forgotten intervals of
argument, as might really have happened in a dream, was the precept, repeated
many times under slightly varied aspects, of a diligent promotion of the
capacity of the eye, inasmuch as in the eye would lie for him the determining
influence of life: he was of the number of those who, in the words of a poet
who came long after, must be “made perfect by the love of visible beauty.” The
discourse was conceived from the point of view of a theory Marius found
afterwards in Plato’s Phaedrus, which supposes men’s spirits susceptible to
certain influences, diffused, after the manner of streams or currents, by fair
things or persons visibly present—green fields, for instance, or children’s
faces—into the air around them, acting, in the case of some peculiar natures,
like potent material essences, and conforming the seer to themselves as with
some cunning physical necessity. This theory,* in itself so fantastic, had
however determined in a range of methodical suggestions, altogether quaint here
and there from their circumstantial minuteness. And throughout, the possibility
of some vision, as of a new city coming down “like a bride out of heaven,” a
vision still indeed, it might seem, a long way off, but to be granted perhaps
one day to the eyes thus trained, was presented as the motive of this
laboriously practical direction. * [Transliteration:] Ê aporroê tou
kallous. +Translation: “Emanation from a thing of beauty.” “If thou
wouldst have all about thee like the colours of some fresh picture, in a clear
light,” so the discourse recommenced after a pause, “be temperate in thy
religious notions, in love, in wine, in all things, and of a peaceful heart
with thy fellows.” To keep the eye clear by a sort of exquisite personal
alacrity and cleanliness, extending even to his dwelling-place; to
discriminate, ever more and more fastidiously, select form and colour in things
from what was less select; to meditate much on beautiful visible objects, on
objects, more especially, connected with the period of youth—on children at
play in the morning, the trees in early spring, on young animals, on the
fashions and amusements of young men; to keep ever by him if it were but a
single choice flower, a graceful animal or sea-shell, as a token and
representative of the whole kingdom of such things; to avoid jealously, in his
way through the world, everything repugnant to sight; and, should any
circumstance tempt him to a general converse in the range of such objects, to
disentangle himself from that circumstance at any cost of place, money, or
opportunity; such were in brief outline the duties recognised, the rights
demanded, in this new formula of life. And it was delivered with conviction; as
if the speaker verily saw into the recesses of the mental and physical being of
the listener, while his own expression of perfect temperance had in it a
fascinating power—the merely negative element of purity, the mere freedom from
taint or flaw, in exercise as a positive influence. Long afterwards, when
Marius read the Charmides—that other dialogue of Plato, into which he seems to
have expressed the very genius of old Greek temperance—the image of this
speaker came back vividly before him, to take the chief part in the
conversation. It was as a weighty sanction of such temperance, in almost
visible symbolism (an outward imagery identifying itself with unseen
moralities) that the memory of that night’s double experience, the dream of the
great sallow snake and the utterance of the young priest, always returned to
him, and the contrast therein involved made him revolt with unfaltering
instinct from the bare thought of an excess in sleep, or diet, or even in
matters of taste, still more from any excess of a coarser kind. When he
awoke again, still in the exceeding freshness he had felt on his arrival, and
now in full sunlight, it was as if his sickness had really departed with the
terror of the night: a confusion had passed from the brain, a painful dryness
from his hands. Simply to be alive and there was a delight; and as he bathed in
the fresh water set ready for his use, the air of the room about him seemed
like pure gold, the very shadows rich with colour. Summoned at length by one of
the white-robed brethren, he went out to walk in the temple garden. At a
distance, on either side, his guide pointed out to him the Houses of Birth and
Death, erected for the reception respectively of women about to become mothers,
and of persons about to die; neither of those incidents being allowed to
defile, as was thought, the actual precincts of the shrine. His visitor of the
previous night he saw nowhere again. But among the official ministers of the
place there was one, already marked as of great celebrity, whom Marius saw
often in later days at Rome, the physician Galen, now about thirty years old.
He was standing, the hood partly drawn over his face, beside the holy well, as
Marius and his guide approached it. This famous well or conduit, primary
cause of the temple and its surrounding institutions, was supplied by the water
of a spring flowing directly out of the rocky foundations of the shrine. From
the rim of its basin rose a circle of trim columns to support a cupola of
singular lightness and grace, itself full of reflected light from the rippling
surface, through which might be traced the wavy figure-work of the marble
lining below as the stream of water rushed in. Legend told of a visit of
Aesculapius to this place, earlier and happier than his first coming to Rome:
an inscription around the cupola recorded it in letters of gold. “Being come
unto this place the son of God loved it exceedingly:”—Huc profectus filius Dei
maxime amavit hunc locum;—and it was then that that most intimately human of
the gods had given men the well, with all its salutary properties. The element
itself when received into the mouth, in consequence of its entire freedom from
adhering organic matter, was more like a draught of wonderfully pure air than
water; and after tasting, Marius was told many mysterious circumstances
concerning it, by one and another of the bystanders:—he who drank often thereof
might well think he had tasted of the Homeric lotus, so great became his desire
to remain always on that spot: carried to other places, it was almost
indefinitely conservative of its fine qualities: nay! a few drops of it would
amend other water; and it flowed not only with unvarying abundance but with a
volume so oddly rhythmical that the well stood always full to the brim,
whatever quantity might be drawn from it, seeming to answer with strange
alacrity of service to human needs, like a true creature and pupil of the
philanthropic god. Certainly the little crowd around seemed to find singular
refreshment in gazin g on it. The whole place appeared sensibly influenced
by the amiable and healthful spirit of the thing. All the objects of the
country were there at their freshest. In the great park-like enclosure for the
maintenance of the sacred animals offered by the convalescent, grass and trees
were allowed to grow with a kind of graceful wildness; otherwise, all was
wonderfully nice. And thatfreshness seemed to have something moral in its
influence, as if it acted upon the body and the merely bodily powers of
apprehension, through the intelligence; and to the end of his visit Marius saw
no more serpents. A lad was just then drawing water for ritual uses, and
Marius followed him as he returned from the well, more and more impressed by
the religiousness of all he saw, on his way through a long cloister or
corridor, the walls well-nigh hidden under votive inscriptions recording
favours from the son of Apollo, and with a distant fragrance of incense in the
air, explained when he turned aside through an open doorway into the temple
itself. His heart bounded as the refined and dainty magnificence of the place
came upon him suddenly, in the flood of early sunshine, with the ceremonial
lights burning here and there, and withal a singular expression of sacred
order, a surprising cleanliness and simplicity. Certain priests, men whose
countenances bore a deep impression of cultivated mind, each with his little
group of assistants, were gliding round silently to perform their morning
salutation to the god, raising the closed thumb and finger of the right hand
with a kiss in the air, as the y came and went on their sacred business,
bearing their frankincense and lustral water. Around the walls, at such a level
that the worshippers might read, as in a book, the story of the god and his
sons, the brotherhood of the Asclepiadae, ran a series of imageries, in low
relief, their delicate light and shade being heightened, here and there, with
gold. Fullest of inspired and sacred expression, as if in this place the chisel
of the artist had indeed dealt not with marble but with the very
breath of feeling and thought, was the scene in which the earliest generation
of the sons of Aesculapius were transformed into healing dreams; for “grown now
too glorious to abide longer among men, by the aid of their sire they put away
their mortal bodies, and came into another country, yet not indeed into Elysium
nor into the Islands of the Blest. But being made like to the immortal gods,
they began to pass about through the world, changed thus far from their first
form that they appear eternally young, as many persons have seen them in many
places—ministers and heralds of their father, passing to and fro over the
earth, like gliding stars. Which thing is, indeed, the most wonderful
concerning them!” And in this scene, as throughout the series, with all its
crowded personages, Marius noted on the carved faces the same peculiar union of
unction, almost of hilarity, with a certain self-possession and reserve, which
was conspicuous in the living ministrants around him. In the central
space, upon a pillar or pedestal, hung, ex voto, with the richest personal
ornaments, stood the image of Aesculapius himself, surrounded by choice
flowering plants. It presented the type, still with something of the severity
of the earlier art of Greece about it, not of an aged and crafty physician, but
of a youth, earnest and strong of aspect, carrying an ampulla or bottle in one
hand, and in the other a traveller’s staff, a pilgrim among his pilgrim worshippers;
and one of the ministers explained to Marius this pilgrim guise.—One chief
source of the master’s knowledgeof healing had been observation of the remedies
resorted to by animals labouring under disease or pain—what leaf or berry the
lizard or dormouse lay upon its wounded fellow; to which purpose for long years
he had led the life of a wanderer, in wild places. The boy took his place as
the last comer, a little way behind the group of worshippers who stood in front
of the image. There, with uplifted face, the palms of his two hands raised and
open before him, and taught by the priest, he said his collect of thanksgiving
and prayer (Aristeides has recorded it at the end of his Asclepiadae) to the
Inspired Dreams:— “O ye children of Apollo! who in time past have
stilledthe waves of sorrow for many people, lighting up a lamp of safety before
those who travel by sea and land, be pleased, in your great condescension,
though ye be equal in glory with your elder brethren the Dioscuri, and your lot
in immortal youth be as theirs, to accept this prayer, which in sleep and
vision ye have inspired. Order it arig ht, I pray you, according to your
loving-kindness to men. Preserve me from sickness; and endue my body with such
a measure of health as may suffice it for the obeying of the spirit, that I
maypass my days unhindered and in quietness.” On the last morning of his
visit Marius entered the shrine again, and just before his departure the
priest, who had been his special director during his stay at the place, lifting
a cunningly contrived panel, which formed the back of one of the carved seats,
bade him look through. What he saw was like the vision of a new world, by the
opening of some unsuspected window in a familiar dwelling-place. He looked out
upon a long-d rawn valley of singularly cheerful aspect, hidden, by the
peculiar conformation of the locality, from all points of observation but this.
In a green meadow at the foot of the steep olive-clad rocks below, the novices
were taking their exercise. The softly sloping sides of the vale lay alike in
full sunlight; and its distant opening was closed by a beautifully formed
mountain, from which the last wreaths of morning mist were rising under the
heat. It might have seemed the very presentment of a land of hope, its hollows
brimful of a shadow of blue flowers; and lo! on the one level space of the
horizon, in a long dark line, were towers and a dome: and that was Pisa.—Or
Rome, was it? asked Marius, ready to believe the utmost, in his
excitement. All this served, as he understood afterwards in retrospect,
at once to strengthen and to purify a certain vein of character in him.
Developing the ideal, pre-existent there, of a religious beauty, associated for
the future with the exquisite splendour of the temple of Aesculapius, as it
dawned upon him on that morning of his first visit—it developed that ideal in
connexion with a vivid sense of the value of mental and bodily sanity. And this
recognition of the beauty, even for the aesthetic sense, of mere bodily health,
now acquired, operated afterwards as an influence morally salutary,
counteracting the less desirable or hazardous tendencies of some phases of
thought, through which he was to pass. He came home brown with health to
find the health of his mother failing; and about her death, which occurred not
long afterwards, there was a circumstance which rested with him as the
cruellest touch of all, in an event which for a time seemed to have taken the
light out of the sunshine. She died away from home, but sent for him at the
last, with a painful effort on her part, but to his great gratitude, pondering,
as he always believed, that he might chance otherwise to look back all his life
long upon a single fault with something like remorse, and find the burden a
great one. For it happened that, through some sudden, incomprehensible
petulance there had been an angry childish gesture, and a slighting word, at
the very moment of her departure, actually for the last time. Remembering this
he would ever afterwards pray to be saved from offences against his own
affections; the thought of that marred parting having peculiar bitterness for
one, who set so much store, both by principle and habit, on the sentiment of
home. O mare! O littus! verum secretumque Mouseion,+ quam multa invenitis,
quam multa dictatis! Pliny’s Letters. It would hardly have been
possible to feel more seriously than did Marius in those grave years of his
early life. But the death of his mother turned seriousness of feeling into a
matter of the intelligence: it made him a questioner; and, by bringing into
full evidence to him the force of his affections and the probable importance of
their place in his future, developed in him generally the more human and
earthly elements of character. A singularly virile consciousness of the
realities of life pronounced itself in him; still however as in the main a
poetic apprehension, though united already with something of personal ambition
and the instinct of self-assertion. There were days when he could suspect,
though it was a suspicion he was careful at first to put from him, that that
early, much cherished religion of the villa might come to count with him as but
one form of poetic beauty, or of the ideal, in things; as but one voice, in a
world where there were many voices it would be a moral weakness not to listen
to. And yet this voice, through its forcible pre-occupation of his childish
conscience, still seemed to make a claim of a quite exclusive character,
defining itself as essentially one of but two possible leaders of his spirit,
the other proposing to him unlimited self-expansion in a world of various
sunshine. The contrast was so pronounced as to make the easy, light-hearted,
unsuspecting exercise of himself, among the temptations of the new phase of
life which had now begun, seem nothing less than a rival religion, a rival
religious service. The temptations, the various sunshine, were those of the old
town of Pisa, where Marius was now a tall schoolboy. Pisa was a place lying
just far enough from home to make his rare visits to it in childhood seem like
adventures, such as had never failed to supply new and refreshing impulses to
the imagination. The partly decayed pensive town, which still had its commerce
by sea, and its fashion at the bathing-season, had lent, at one time the vivid
memory of its fair streets of marble, at another the solemn outline of the dark
hills of Luna on its background, at another the living glances of its men and
women, to the thickly gathering crowd of impressions, out of which his notion of
the world was then forming. And while he learned that the object, the
experience, as it will be known to memory, is really from first to last the
chief point for consideration in the conduct of life, these things were feeding
also the idealism constitutional with him—his innate and habitual longing for a
world altogether fairer than that he saw. The child could find his way in
thought along those streets of the old town, expecting duly the shrines at
their corners, and their recurrent intervals of garden-courts, or side-views of
distant sea. The great temple of the place, as he could remember it, on turning
back once for a last look from an angle of his homeward road, counting its tall
gray columns between the blue of the bay and the blue fields of blossoming flax
beyond; the harbour and its lights; the foreign ships lying there; the sailors’
chapel of Venus, and her gilded image, hung with votive gifts; the seamen
themselves, their women and children, who had a whole peculiar colour-world of
their own—the boy’s superficial delight in the broad light and shadow of all
that was mingled with the sense of power, of unknown distance, of the danger of
storm and possible death. To this place, then, Marius came down now from
White-nights, to live in the house of his guardian or tutor, that he might
attend the school of a famous rhetorician, and learn, among other things,
Greek. The school, one of many imitations of Plato’s Academy in the old
Athenian garden, lay in a quiet suburb of Pisa, and had its grove of cypresses,
its porticoes, a house for the master, its chapel and images. For the memory of
Marius in after-days, a clear morning sunlight seemed to lie perpetually on
that severe picture in old gray and green. The lad went to this school daily
betimes, in state at first, with a young slave to carry the books, and
certainly with no reluctance, for the sight of his fellow-scholars, and their
petulant activity, coming upon the sadder sentimental moods of his childhood,
awoke at once that instinct of emulation which is but the other side of
sympathy; and he was not aware, of course, how completely the difference of his
previous training had made him, even in his most enthusiastic participation in
the ways of that little world, still essentially but a spectator. While all
their heart was in their limited boyish race, and its transitory prizes, he was
already entertaining himself, very pleasurably meditative, with the tiny drama
in action before him, as but the mimic, preliminary exercise for a larger
contest, and already with an implicit epicureanism. Watching all the gallant
effects of their small rivalries—a scene in the main of fresh delightful
sunshine—he entered at once into the sensations of a rivalry beyond them, into
the passion of men, and had already recognised a certain appetite for fame, for
distinction among his fellows, as his dominant motive to be. The fame he
conceived for himself at this time was, as the reader will have anticipated, of
the intellectual order, that of a poet perhaps. And as, in that gray monastic
tranquillity of the villa, inward voices from the reality of unseen things had
come abundantly; so here, with the sounds and aspects of the shore, and amid
the urbanities, the graceful follies, of a bathing-place, it was the reality,
the tyrannous reality, of things visible that was borne in upon him. The real
world around—a present humanity not less comely, it might seem, than that of
the old heroic days—endowing everything it touched upon, however remotely, down
to its little passing tricks of fashion even, with a kind of fleeting beauty,
exercised over him just then a great fascination. That sense had come
upon him in all its power one exceptionally fine summer, the summer when, at a
somewhat earlier age than was usual, he had formally assumed the dress of
manhood, going into the Forum for that purpose, accompanied by his friends in
festal array. At night, after the full measure of those cloudless days, he
would feel well-nigh wearied out, as if with a long succession of pictures and music.
As he wandered through the gay streets or on the sea-shore, the real world
seemed indeed boundless, and himself almost absolutely free in it, with a
boundless appetite for experience, for adventure, whether physical or of the
spirit. His entire rearing hitherto had lent itself to an imaginative
exaltation of the past; but now the spectacle actually afforded to his untired
and freely open senses, suggested the reflection that the present had, it might
be, really advanced beyond the past, and he was ready to boast in the very fact
that it was modern. If, in a voluntary archaism, the polite world of that day
went back to a choicer generation, as it fancied, for the purpose of a
fastidious self-correction, in matters of art, of literature, and even, as we
have seen, of religion, at least it improved, by a shade or two of more
scrupulous finish, on the old pattern; and the new era, like the Neu-zeit of
the German enthusiasts at the beginning of our own century, might perhaps be
discerned, awaiting one just a single step onward—the perfected new manner, in
the consummation of time, alike as regards the things of the imagination and
the actual conduct of life. Only, while the pursuit of an ideal like this
demanded entire liberty of heart and brain, that old, staid, conservative
religion of his childhood certainly had its being in a world of somewhat narrow
restrictions. But then, the one was absolutely real, with nothing less than the
reality of seeing and hearing—the other, how vague, shadowy, problematical!
Could its so limited probabilities be worth taking into account in any
practical question as to the rejecting or receiving of what was indeed so real,
and, on the face of it, so desirable? And, dating from the time of his
first coming to school, a great friendship had grown up for him, in that life
of so few attachments—the pure and disinterested friendship of schoolmates. He
had seen Flavian for the first time the day on which he had come to Pisa, at
the moment when his mind was full of wistful thoughts regarding the new life to
begin for him to-morrow, and he gazed curiously at the crowd of bustling
scholars as they came from their classes. There was something in Flavian a
shade disdainful, as he stood isolated from the others for a moment, explained
in part by his stature and the distinction of the low, broad forehead; though
there was pleasantness also for the newcomer in the roving blue eyes which
seemed somehow to take a fuller hold upon things around than is usual with
boys. Marius knew that those proud glances made kindly note of him for a
moment, and felt something like friendship at first sight. There was a tone of
reserve or gravity there, amid perfectly disciplined health, which, to his
fancy, seemed to carry forward the expression of the austere sky and the clear
song of the blackbird on that gray March evening. Flavian indeed was a creature
who changed much with the changes of the passing light and shade about him, and
was brilliant enough under the early sunshine in school next morning. Of all
that little world of more or less gifted youth, surely the centre was this lad
of servile birth. Prince of the school, he had gained an easy dominion over the
old Greek master by the fascination of his parts, and over his fellow-scholars
by the figure he bore. He wore already the manly dress; and standing there in
class, as he displayed his wonderful quickness in reckoning, or his taste in
declaiming Homer, he was like a carved figure in motion, thought Marius, but
with that indescribable gleam upon it which the words of Homer actually
suggested, as perceptible on the visible forms of the gods—hoia theous
epenênothen aien eontas.+ A story hung by him, a story which his comrades
acutely connected with his habitual air of somewhat peevish pride. Two points
were held to be clear amid its general vagueness—a rich stranger paid his
schooling, and he was himself very poor, though there was an attractive
piquancy in the poverty of Flavian which in a scholar of another figure might
have been despised. Over Marius too his dominion was entire. Three years older
than he, Flavian was appointed to help the younger boy in his studies, and
Marius thus became virtually his servant in many things, taking his humours
with a sort of grateful pride in being noticed at all, and, thinking over all
this afterwards, found that the fascination experienced by him had been a
sentimental one, dependent on the concession to himself of an intimacy, a
certain tolerance of his company, granted to none beside. That was in the
earliest days; and then, as their intimacy grew, the genius, the intellectual
power of Flavian began its sway over him. The brilliant youth who loved dress,
and dainty food, and flowers, and seemed to have a natural alliance with, and
claim upon, everything else which was physically select and bright, cultivated
also that foppery of words, of choice diction which was common among the élite
spirits of that day; and Marius, early an expert and elegant penman,
transcribed his verses (the euphuism of which, amid a genuine original power,
was then so delightful to him) in beautiful ink, receiving in return the profit
of Flavian’s really great intellectual capacities, developed and accomplished
under the ambitious desire to make his way effectively in life. Among other
things he introduced him to the writings of a sprightly wit, then very busy
with the pen, one Lucian—writings seeming to overflow with that intellectual
light turned upon dim places, which, at least in seasons of mental fair
weather, can make people laugh where they have been wont, perhaps, to pray.
And, surely, the sunlight which filled those well-remembered early mornings in
school, had had more than the usual measure of gold in it! Marius, at least,
would lie awake before the time, thinking with delight of the long coming hours
of hard work in the presence of Flavian, as other boys dream of a
holiday. It was almost by accident at last, so wayward and capricious was
he, that reserve gave way, and Flavian told the story of his father—a freedman,
presented late in life, and almost against his will, with the liberty so fondly
desired in youth, but on condition of the sacrifice of part of his peculium—the
slave’s diminutive hoard—amassed by many a self-denial, in an existence
necessarily hard. The rich man, interested in the promise of the fair child
born on his estate, had sent him to school. The meanness and dejection,
nevertheless, of that unoccupied old age defined the leading memory of Flavian,
revived sometimes, after this first confidence, with a burst of angry tears amid
the sunshine. But nature had had her economy in nursing the strength of that
one natural affection; for, save his half-selfish care for Marius, it was the
single, really generous part, the one piety, in the lad’s character. In him
Marius saw the spirit of unbelief, achieved as if at one step. The much-admired
freedman’s son, as with the privilege of a natural aristocracy, believed only
in himself, in the brilliant, and mainly sensuous gifts, he had, or meant to
acquire. And then, he had certainly yielded himself, though still with
untouched health, in a world where manhood comes early, to the seductions of
that luxurious town, and Marius wondered sometimes, in the freer revelation of
himself by conversation, at the extent of his early corruption. How often,
afterwards, did evil things present themselves in malign association with the
memory of that beautiful head, and with a kind of borrowed sanction and charm
in its natural grace! To Marius, at a later time, he counted for as it were an
epitome of the whole pagan world, the depth of its corruption, and its
perfection of form. And still, in his mobility, his animation, in his eager
capacity for various life, he was so real an object, after that visionary
idealism of the villa. His voice, his glance, were like the breaking in of the
solid world upon one, amid the flimsy fictions of a dream. A shadow, handling
all things as shadows, had felt a sudden real and poignant heat in them.
Meantime, under his guidance, Marius was learning quickly and abundantly,
because with a good will. There was that in the actual effectiveness of his
figure which stimulated the younger lad to make the most of opportunity; and he
had experience already that education largely increased one’s capacity for
enjoyment. He was acquiring what it is the chief function of all higher
education to impart, the art, namely, of so relieving the ideal or poetic
traits, the elements of distinction, in our everyday life—of so exclusively
living in them—that the unadorned remainder of it, the mere drift or débris of
our days, comes to be as though it were not. And the consciousness of this aim
came with the reading of one particular book, then fresh in the world, with
which he fell in about this time—a book which awakened the poetic or romantic
capacity as perhaps some other book might have done, but was peculiar in giving
it a direction emphatically sensuous. It made him, in that visionary reception
of every-day life, the seer, more especially, of a revelation in colour and
form. If our modern education, in its better efforts, really conveys to any of
us that kind of idealising power, it does so (though dealing mainly, as its
professed instruments, with the most select and ideal remains of ancient
literature) oftenest by truant reading; and thus it happened also, long ago,
with Marius and his friend. NOTES 43. +Transliteration:
Mouseion. The word means “seat of the muses.” Translation: “O sea! O shore! my
own Helicon, / How many things have you uncovered to me, how many things
suggested!” Pliny, Letters, Book I, ix, to Minicius Fundanus. 50.
+Transliteration: hoia theous epenênothen aien eontas. Translation: “such as
the gods are endowed with.” Homer, Odyssey, 8.365. The two lads were
lounging together over a book, half-buried in a heap of dry corn, in an old
granary—the quiet corner to which they had climbed out of the way of their
noisier companions on one of their blandest holiday afternoons. They looked
round: the western sun smote through the broad chinks of the shutters. How like
a picture! and it was precisely the scene described in what they were reading,
with just that added poetic touch in the book which made it delightful and
select, and, in the actual place, the ray of sunlight transforming the rough
grain among the cool brown shadows into heaps of gold. What they were intent on
was, indeed, the book of books, the “golden” book of that day, a gift to
Flavian, as was shown by the purple writing on the handsome yellow wrapper,
following the title Flaviane!—it said, Flaviane! lege Felicitur! Flaviane!
Vivas! Fioreas! Flaviane! Vivas! Gaudeas! It was perfumed with oil
of sandal-wood, and decorated with carved and gilt ivory bosses at the ends of
the roller. And the inside was something not less dainty and fine, full
of the archaisms and curious felicities in which that generation delighted,
quaint terms and images picked fresh from the early dramatists, the lifelike
phrases of some lost poet preserved by an old grammarian, racy morsels of the
vernacula r and studied prettinesses:—all alike, mere playthings for the
genuine power and natural eloquence of the erudite artist, unsuppressed by his
erudition, which, however, made some people angry, chiefly less well “got-up”
people, and especially those who were untidy from indolence. No! it was certainly
not that old-fashioned, unconscious ease of the early literature, which could
never come again; which, after all, had had more in common with the “infinite
patience” of Apuleius than with the hack-work readiness of his detractors, who
might so well have been “self-conscious” of going slip-shod. And at least his
success was unmistakable as to the precise literary effect he had intended,
including a certain tincture of “neology” in expression—nonnihil interdum
elocutione novella parum signatum—in the language of Cornelius Fronto, the
contemporary prince of rhetoricians. What words he had found for conveying,
with a single touch, the sense of textures, colours, incidents! “Like
jewellers’ work! Like a myrrhine vase!”—admirers said of his writing. “The golden
fibre in the hair, the gold thread-work in the gown marked her as the
mistress”—aurum in comis et in tunicis, ibi inflexum hic intextum, matronam
profecto confitebatur—he writes, with his “curious felicity,” of one of his
heroines. Aurum intextum: gold fibre:—well! there was something of that kind in
his own work. And then, in an age when people, from the emperor Aurelius
downwards, prided themselves unwisely on writing in Greek, he had written for
Latin people in their own tongue; though still, in truth, with all the care of
a learned language. Not less happily inventive were the incidents
recorded—story within story—stories with the sudden, unlooked-for changes of
dreams. He had his humorous touches also. And what went to the ordinary boyish
taste, in those somewhat peculiar readers, what would have charmed boys more
purely boyish, was the adventure:—the bear loose in the house at night, the
wolves storming the farms in winter, the exploits of the robbers, their
charming caves, the delightful thrill one had at the question—“Don’t you know
that these roads are infested by robbers?” The scene of the romance was
laid in Thessaly, the original land of witchcraft, and took one up and down its
mountains, and into its old weird towns, haunts of magic and incantation, where
all the more genuine appliances of the black art, left behind her by Medea when
she fled through that country, were still in use. In the city of Hypata,
indeed, nothing seemed to be its true self—“You might think that through the
murmuring of some cadaverous spell, all things had been changed into forms not
their own; that there was humanity in the hardness of the stones you stumbled
on; that the birds you heard singing were feathered men; that the trees around
the walls drew their leaves from a like source. The statues seemed about to
move, the walls to speak, the dumb cattle to break out in prophecy; nay! the
very sky and the sunbeams, as if they might suddenly cry out.” Witches are
there who can draw down the moon, or at least the lunar virus—that white fluid
she sheds, to be found, so rarely, “on high, heathy places: which is a poison.
A touch of it will drive men mad.” And in one very remote village lives
the sorceress Pamphile, who turns her neighbours into various animals. What
true humour in the scene where, after mounting the rickety stairs, Lucius,
peeping curiously through a chink in the door, is a spectator of the
transformation of the old witch herself into a bird, that she may take flight
to the object of her affections—into an owl! “First she stripped off every rag
she had. Then opening a certain chest she took from it many small boxes, and
removing the lid of one of them, rubbed herself over for a long time, from head
to foot, with an ointment it contained, and after much low muttering to her
lamp, began to jerk at last and shake her limbs. And as her limbs moved to and
fro, out burst the soft feathers: stout wings came forth to view: the nose grew
hard and hooked: her nails were crooked into claws; and Pamphile was an owl.
She uttered a queasy screech; and, leaping little by little from the ground,
making trial of herself, fled presently, on full wing, out of doors.” By
clumsy imitation of this process, Lucius, the hero of the romance, transforms
himself, not as he had intended into a showy winged creature, but into the
animal which has given name to the book; for throughout it there runs a vein of
racy, homely satire on the love of magic then prevalent, curiosity concerning
which had led Lucius to meddle with the old woman’s appliances. “Be you my
Venus,” he says to the pretty maid-servant who has introduced him to the view
of Pamphile, “and let me stand by you a winged Cupid!” and, freely applying the
magic ointment, sees himself transformed, “not into a bird, but into an ass!”
Well! the proper remedy for his distress is a supper of roses, could such be
found, and many are his quaintly picturesque attempts to come by them at that
adverse season; as he contrives to do at last, when, the grotesque procession
of Isis passing by with a bear and other strange animals in its train, the ass
following along with the rest suddenly crunches the chaplet of roses carried in
the High-priest’s hand. Meantime, however, he must wait for the spring,
with more than the outside of an ass; “though I was not so much a fool, nor so
truly an ass,” he tells us, when he happens to be left alone with a daintily
spread table, “as to neglect this most delicious fare, and feed upon coarse
hay.” For, in truth, all through the book, there is an unmistakably real feeling
for asses, with bold touches like Swift’s, and a genuine animal breadth. Lucius
was the original ass, who peeping slily from the window of his hiding-place
forgot all about the big shade he cast just above him, and gave occasion to the
joke or proverb about “the peeping ass and his shadow.” But the
marvellous, delight in which is one of the really serious elements in most
boys, passed at times, those young readers still feeling its fascination, into
what French writers call the macabre—that species of almost insane
pre-occupation with the materialities of our mouldering flesh, that luxury of
disgust in gazing on corruption, which was connected, in this writer at least,
with not a little obvious coarseness. It was a strange notion of the gross lust
of the actual world, that Marius took from some of these episodes. “I am told,”
they read, “that when foreigners are interred, the old witches are in the habit
of out-racing the funeral procession, to ravage the corpse”—in order to obtain
certain cuttings and remnants from it, with which to injure the
living—“especially if the witch has happened to cast her eye upon some goodly
young man.” And the scene of the night-watching of a dead body lest the witches
should come to tear off the flesh with their teeth, is worthy of Théophile
Gautier. But set as one of the episodes in the main narrative, a true gem
amid its mockeries, its coarse though genuine humanity, its burlesque horrors,
came the tale of Cupid and Psyche, full of brilliant, life-like situations,
speciosa locis, and abounding in lovely visible imagery (one seemed to see and
handle the golden hair, the fresh flowers, the precious works of art in it!)
yet full also of a gentle idealism, so that you might take it, if you chose,
for an allegory. With a concentration of all his finer literary gifts, Apuleius
had gathered into it the floating star-matter of many a delightful old
story.— The Story of Cupid and Psyche. In a certain city
lived a king and queen who had three daughters exceeding fair. But the beauty
of the elder sisters, though pleasant to behold, yet passed not the measure of
human praise, while such was the loveliness of the youngest that men’s speech
was too poor to commend it worthily and could express it not at all. Many of
the citizens and of strangers, whom the fame of this excellent vision had
gathered thither, confounded by that matchless beauty, could but kiss the
finger-tips of their right hands at sight of her, as in adoration to the
goddess Venus herself. And soon a rumour passed through the country that she
whom the blue deep had borne, forbearing her divine dignity, was even then
moving among men, or that by some fresh germination from the stars, not the sea
now, but the earth, had put forth a new Venus, endued with the flower of virginity.
This belief, with the fame of the maiden’s loveliness, went daily further into
distant lands, so that many people were drawn together to behold that glorious
model of the age. Men sailed no longer to Paphos, to Cnidus or Cythera, to the
presence of the goddess Venus: her sacred rites were neglected, her images
stood uncrowned, the cold ashes were left to disfigure her forsaken altars. It
was to a maiden that men’s prayers were offered, to a human countenance they
looked, in propitiating so great a godhead: when the girl went forth in the
morning they strewed flowers on her way, and the victims proper to that unseen
goddess were presented as she passed along. This conveyance of divine worship
to a mortal kindled meantime the anger of the true Venus. “Lo! now, the ancient
parent of nature,” she cried, “the fountain of all elements! Behold me, Venus,
benign mother of the world, sharing my honours with a mortal maiden, while my
name, built up in heaven, is profaned by the mean things of earth! Shall a perishable
woman bear my image about with her? In vain did the shepherd of Ida prefer me!
Yet shall she have little joy, whosoever she be, of her usurped and unlawful
loveliness!” Thereupon she called to her that winged, bold boy, of evil ways,
who wanders armed by night through men’s houses, spoiling their marriages; and
stirring yet more by her speech his inborn wantonness, she led him to the city,
and showed him Psyche as she walked. “I pray thee,” she said, “give thy
mother a full revenge. Let this maid become the slave of an unworthy love.”
Then, embracing him closely, she departed to the shore and took her throne upon
the crest of the wave. And lo! at her unuttered will, her ocean-servants are in
waiting: the daughters of Nereus are there singing their song, and Portunus,
and Salacia, and the tiny charioteer of the dolphin, with a host of Tritons
leaping through the billows. And one blows softly through his sounding
sea-shell, another spreads a silken web against the sun, a third presents the
mirror to the eyes of his mistress, while the others swim side by side below,
drawing her chariot. Such was the escort of Venus as she went upon the
sea. Psyche meantime, aware of her loveliness, had no fruit thereof. All
people regarded and admired, but none sought her in marriage. It was but as on
the finished work of the craftsman that they gazed upon that divine likeness.
Her sisters, less fair than she, were happily wedded. She, even as a widow,
sitting at home, wept over her desolation, hating in her heart the beauty in
which all men were pleased. And the king, supposing the gods were angry,
inquired of the oracle of Apollo, and Apollo answered him thus: “Let the damsel
be placed on the top of a certain mountain, adorned as for the bed of marriage
and of death. Look not for a son-in-law of mortal birth; but for that evil
serpent-thing, by reason of whom even the gods tremble and the shadows of Styx
are afraid.” So the king returned home and made known the oracle to his
wife. For many days she lamented, but at last the fulfilment of the divine
precept is urgent upon her, and the company make ready to conduct the maiden to
her deadly bridal. And now the nuptial torch gathers dark smoke and ashes: the
pleasant sound of the pipe is changed into a cry: the marriage hymn concludes
in a sorrowful wailing: below her yellow wedding-veil the bride shook away her
tears; insomuch that the whole city was afflicted together at the ill-luck of
the stricken house. But the mandate of the god impelled the hapless
Psyche to her fate, and, these solemnities being ended, the funeral of the
living soul goes forth, all the people following. Psyche, bitterly weeping,
assists not at her marriage but at her own obsequies, and while the parents
hesitate to accomplish a thing so unholy the daughter cries to them: “Wherefore
torment your luckless age by long weeping? This was the prize of my
extraordinary beauty! When all people celebrated us with divine honours, and in
one voice named the New Venus, it was then ye should have wept for me as one
dead. Now at last I understand that that one name of Venus has been my ruin.
Lead me and set me upon the appointed place. I am in haste to submit to that
well-omened marriage, to behold that goodly spouse. Why delay the coming of him
who was born for the destruction of the whole world?” She was silent, and
with firm step went on the way. And they proceeded to the appointed place on a
steep mountain, and left there the maiden alone, and took their way homewards
dejectedly. The wretched parents, in their close-shut house, yielded themselves
to perpetual night; while to Psyche, fearful and trembling and weeping sore
upon the mountain-top, comes the gentle Zephyrus. He lifts her mildly, and,
with vesture afloat on either side, bears her by his own soft breathing over
the windings of the hills, and sets her lightly among the flowers in the bosom
of a valley below. Psyche, in those delicate grassy places, lying sweetly
on her dewy bed, rested from the agitation of her soul and arose in peace. And
lo! a grove of mighty trees, with a fount of water, clear as glass, in the
midst; and hard by the water, a dwelling-place, built not by human hands but by
some divine cunning. One recognised, even at the entering, the delightful
hostelry of a god. Golden pillars sustained the roof, arched most curiously in
cedar-wood and ivory. The walls were hidden under wrought silver:—all tame and
woodland creatures leaping forward to the visitor’s gaze. Wonderful indeed was
the craftsman, divine or half-divine, who by the subtlety of his art had
breathed so wild a soul into the silver! The very pavement was distinct with
pictures in goodly stones. In the glow of its precious metal the house is its
own daylight, having no need of the sun. Well might it seem a place fashioned
for the conversation of gods with men! Psyche, drawn forward by the
delight of it, came near, and, her courage growing, stood within the doorway.
One by one, she admired the beautiful things she saw; and, most wonderful of
all! no lock, no chain, nor living guardian protected that great treasure
house. But as she gazed there came a voice—a voice, as it were unclothed of
bodily vesture—“Mistress!” it said, “all these things are thine. Lie down, and
relieve thy weariness, and rise again for the bath when thou wilt. We thy
servants, whose voice thou hearest, will be beforehand with our service, and a
royal feast shall be ready.” And Psyche understood that some divine care
was providing, and, refreshed with sleep and the Bath, sat down to the feast.
Still she saw no one: only she heard words falling here and there, and had
voices alone to serve her. And the feast being ended, one entered the chamber
and sang to her unseen, while another struck the chords of a harp, invisible
with him who played on it. Afterwards the sound of a company singing together
came to her, but still so that none were present to sight; yet it appeared that
a great multitude of singers was there. And the hour of evening inviting
her, she climbed into the bed; and as the night was far advanced, behold a
sound of a certain clemency approaches her. Then, fearing for her maidenhood in
so great solitude, she trembled, and more than any evil she knew dreaded that
she knew not. And now the husband, that unknown husband, drew near, and
ascended the couch, and made her his wife; and lo! before the rise of dawn he
had departed hastily. And the attendant voices ministered to the needs of the
newly married. And so it happened with her for a long season. And as nature has
willed, this new thing, by continual use, became a delight to her: the sound of
the voice grew to be her solace in that condition of loneliness and
uncertainty. One night the bridegroom spoke thus to his beloved, “O
Psyche, most pleasant bride! Fortune is grown stern with us, and threatens thee
with mortal peril. Thy sisters, troubled at the report of thy death and
seeking some trace of thee, will come to the mountain’s top. But if by
chance their cries reach thee, answer not, neither look forth at all, lest thou
bring sorrow upon me and destruction upon thyself.” Then Psyche promised that
she would do according to his will. But the bridegroom was fled away again with
the night. And all that day she spent in tears, repeating that she was now dead
indeed, shut up in that golden prison, powerless to console her sisters
sorrowing after her, or to see their faces; and so went to rest weeping.
And after a while came the bridegroom again, and lay down beside her, and
embracing her as she wept, complained, “Was this thy promise, my Psyche? What have
I to hope from thee? Even in the arms of thy husband thou ceasest not from
pain. Do now as thou wilt. Indulge thine own desire, though it seeks what will
ruin thee. Yet wilt thou remember my warning, repentant too late.” Then,
protesting that she is like to die, she obtains from him that he suffer her to
see her sisters, and present to them moreover what gifts she would of golden
ornaments; but therewith he ofttimes advised her never at any time, yielding to
pernicious counsel, to enquire concerning his bodily form, lest she fall,
through unholy curiosity, from so great a height of fortune, nor feel ever his
embrace again. “I would die a hundred times,” she said, cheerful at last,
“rather than be deprived of thy most sweet usage. I love thee as my own soul,
beyond comparison even with Love himself. Only bid thy servant Zephyrus bring
hither my sisters, as he brought me. My honeycomb! My husband! Thy Psyche’s
breath of life!” So he promised; and after the embraces of the night, ere the
light appeared, vanished from the hands of his bride. And the sisters,
coming to the place where Psyche was abandoned, wept loudly among the rocks,
and called upon her by name, so that the sound came down to her, and running
out of the palace distraught, she cried, “Wherefore afflict your souls with
lamentation? I whom you mourn am here.” Then, summoning Zephyrus, she reminded
him of her husband’s bidding; and he bare them down with a gentle blast. “Enter
now,” she said, “into my house, and relieve your sorrow in the company of Psyche
your sister.” And Psyche displayed to them all the treasures of the
golden house, and its great family of ministering voices, nursing in them the
malice which was already at their hearts. And at last one of them asks
curiously who the lord of that celestial array may be, and what manner of man
her husband? And Psyche answered dissemblingly, “A young man, handsome and
mannerly, with a goodly beard. For the most part he hunts upon the mountains.”
And lest the secret should slip from her in the way of further speech, loading
her sisters with gold and gems, she commanded Zephyrus to bear them away.
And they returned home, on fire with envy. “See now the injustice of fortune!”
cried one. “We, the elder children, are given like servants to be the wives of
strangers, while the youngest is possessed of so great riches, who scarcely
knows how to use them. You saw, Sister! what a hoard of wealth lies in the
house; what glittering gowns; what splendour of precious gems, besides all that
gold trodden under foot. If she indeed hath, as she said, a bridegroom so
goodly, then no one in all the world is happier. And it may be that this
husband, being of divine nature, will make her too a goddess. Nay! so in truth
it is. It was even thus she bore herself. Already she looks aloft and breathes
divinity, who, though but a woman, has voices for her handmaidens, and can
command the winds.” “Think,” answered the other, “how arrogantly she dealt with
us, grudging us these trifling gifts out of all that store, and when our company
became a burden, causing us to be hissed and driven away from her through the
air! But I am no woman if she keep her hold on this great fortune; and if the
insult done us has touched thee too, take we counsel together. Meanwhile let us
hold our peace, and know naught of her, alive or dead. For they are not truly
happy of whose happiness other folk are unaware.” And the bridegroom,
whom still she knows not, warns her thus a second time, as he talks with her by
night: “Seest thou what peril besets thee? Those cunning wolves have made ready
for thee their snares, of which the sum is that they persuade thee to search
into the fashion of my countenance, the seeing of which, as I have told thee
often, will be the seeing of it no more for ever. But do thou neither listen
nor make answer to aught regarding thy husband. Besides, we have sown also the
seed of our race. Even now this bosom grows with a child to be born to us, a
child, if thou but keep our secret, of divine quality; if thou profane it,
subject to death.” And Psyche was glad at the tidings, rejoicing in that solace
of a divine seed, and in the glory of that pledge of love to be, and the
dignity of the name of mother. Anxiously she notes the increase of the days,
the waning months. And again, as he tarries briefly beside her, the bridegroom
repeats his warning: “Even now the sword is drawn with which thy sisters
seek thy life. Have pity on thyself, sweet wife, and upon our child, and see
not those evil women again.” But the sisters make their way into the palace
once more, crying to her in wily tones, “O Psyche! and thou too wilt be a
mother! How great will be the joy at home! Happy indeed shall we be to have the
nursing of the golden child. Truly if he be answerable to the beauty of his
parents, it will be a birth of Cupid himself.” So, little by little, they
stole upon the heart of their sister. She, meanwhile, bids the lyre to sound
for their delight, and the playing is heard: she bids the pipes to move, the
quire to sing, and the music and the singing come invisibly, soothing the mind
of the listener with sweetest modulation. Yet not even thereby was their malice
put to sleep: once more they seek to know what manner of husband she has, and
whence that seed. And Psyche, simple over-much, forgetful of her first story,
answers, “My husband comes from a far country, trading for great sums. He is
already of middle age, with whitening locks.” And therewith she dismisses them
again. And returning home upon the soft breath of Zephyrus one cried to
the other, “What shall be said of so ugly a lie? He who was a young man with
goodly beard is now in middle life. It must be that she told a false tale: else
is she in very truth ignorant what manner of man he is. Howsoever it be, let us
destroy her quickly. For if she indeed knows not, be sure that her bridegroom
is one of the gods: it is a god she bears in her womb. And let that be far from
us! If she be called mother of a god, then will life be more than I can
bear.” So, full of rage against her, they returned to Psyche, and said to
her craftily, “Thou livest in an ignorant bliss, all incurious of thy real
danger. It is a deadly serpent, as we certainly know, that comes to sleep at
thy side. Remember the words of the oracle, which declared thee destined to a
cruel beast. There are those who have seen it at nightfall, coming back from
its feeding. In no long time, they say, it will end its blandishments. It but
waits for the babe to be formed in thee, that it may devour thee by so much the
richer. If indeed the solitude of this musical place, or it may be the
loathsome commerce of a hidden love, delight thee, we at least in sisterly
piety have done our part.” And at last the unhappy Psyche, simple and frail of
soul, carried away by the terror of their words, losing memory of her husband’s
precepts and her own promise, brought upon herself a great calamity. Trembling
and turning pale, she answers them, “And they who tell those things, it may be,
speak the truth. For in very deed never have I seen the face of my husband, nor
know I at all what manner of man he is. Always he frights me diligently from
the sight of him, threatening some great evil should I too curiously look upon
his face. Do ye, if ye can help your sister in her great peril, stand by her
now.” Her sisters answered her, “The way of safety we have well
considered, and will teach thee. Take a sharp knife, and hide it in that part
of the couch where thou art wont to lie: take also a lamp filled with oil, and
set it privily behind the curtain. And when he shall have drawn up his coils
into the accustomed place, and thou hearest him breathe in sleep, slip then
from his side and discover the lamp, and, knife in hand, put forth thy
strength, and strike off the serpent’s head.” And so they departed in
haste. And Psyche left alone (alone but for the furies which beset her)
is tossed up and down in her distress, like a wave of the sea; and though her
will is firm, yet, in the moment of putting hand to the deed, she falters, and
is torn asunder by various apprehension of the great calamity upon her. She
hastens and anon delays, now full of distrust, and now of angry courage: under
one bodily form she loathes the monster and loves the bridegroom. But twilight
ushers in the night; and at length in haste she makes ready for the terrible
deed. Darkness came, and the bridegroom; and he first, after some faint essay
of love, falls into a deep sleep. And she, erewhile of no strength, the
hard purpose of destiny assisting her, is confirmed in force. With lamp plucked
forth, knife in hand, she put by her sex; and lo! as the secrets of the bed
became manifest, the sweetest and most gentle of all creatures, Love himself,
reclined there, in his own proper loveliness! At sight of him the very flame of
the lamp kindled more gladly! But Psyche was afraid at the vision, and, faint
of soul, trembled back upon her knees, and would have hidden the steel in her
own bosom. But the knife slipped from her hand; and now, undone, yet ofttimes
looking upon the beauty of that divine countenance, she lives again. She sees
the locks of that golden head, pleasant with the unction of the gods, shed down
in graceful entanglement behind and before, about the ruddy cheeks and white
throat. The pinions of the winged god, yet fresh with the dew, are spotless upon
his shoulders, the delicate plumage wavering over them as they lie at rest.
Smooth he was, and, touched with light, worthy of Venus his mother. At the foot
of the couch lay his bow and arrows, the instruments of his power, propitious
to men. And Psyche, gazing hungrily thereon, draws an arrow from the
quiver, and trying the point upon her thumb, tremulous still, drave in the
barb, so that a drop of blood came forth. Thus fell she, by her own act, and
unaware, into the love of Love. Falling upon the bridegroom, with indrawn
breath, in a hurry of kisses from eager and open lips, she shuddered as she
thought how brief that sleep might be. And it chanced that a drop of burning
oil fell from the lamp upon the god’s shoulder. Ah! maladroit minister of love,
thus to wound him from whom all fire comes; though ’twas a lover, I trow, first
devised thee, to have the fruit of his desire even in the darkness! At the
touch of the fire the god started up, and beholding the overthrow of her faith,
quietly took flight from her embraces. And Psyche, as he rose upon the
wing, laid hold on him with her two hands, hanging upon him in his passage
through the air, till she sinks to the earth through weariness. And as she lay
there, the divine lover, tarrying still, lighted upon a cypress tree which grew
near, and, from the top of it, spake thus to her, in great emotion. “Foolish
one! unmindful of the command of Venus, my mother, who had devoted thee to one
of base degree, I fled to thee in his stead. Now know I that this was vainly
done. Into mine own flesh pierced mine arrow, and I made thee my wife, only
that I might seem a monster beside thee—that thou shouldst seek to wound the
head wherein lay the eyes so full of love to thee! Again and again, I thought
to put thee on thy guard concerning these things, and warned thee in
loving-kindness. Now I would but punish thee by my flight hence.” And therewith
he winged his way into the deep sky. Psyche, prostrate upon the earth,
and following far as sight might reach the flight of the bridegroom, wept and
lamented; and when the breadth of space had parted him wholly from her, cast
herself down from the bank of a river which was nigh. But the stream, turning
gentle in honour of the god, put her forth again unhurt upon its margin. And as
it happened, Pan, the rustic god, was sitting just then by the waterside,
embracing, in the body of a reed, the goddess Canna; teaching her to respond to
him in all varieties of slender sound. Hard by, his flock of goats browsed at
will. And the shaggy god called her, wounded and outworn, kindly to him and
said, “I am but a rustic herdsman, pretty maiden, yet wise, by favour of my
great age and long experience; and if I guess truly by those faltering steps,
by thy sorrowful eyes and continual sighing, thou labourest with excess of
love. Listen then to me, and seek not death again, in the stream or otherwise.
Put aside thy woe, and turn thy prayers to Cupid. He is in truth a delicate
youth: win him by the delicacy of thy service.” So the shepherd-god spoke,
and Psyche, answering nothing, but with a reverence to his serviceable deity,
went on her way. And while she, in her search after Cupid, wandered through
many lands, he was lying in the chamber of his mother, heart-sick. And the
white bird which floats over the waves plunged in haste into the sea, and
approaching Venus, as she bathed, made known to her that her son lies afflicted
with some grievous hurt, doubtful of life. And Venus cried, angrily, “My son,
then, has a mistress! And it is Psyche, who witched away my beauty and was the
rival of my godhead, whom he loves!” Therewith she issued from the sea,
and returning to her golden chamber, found there the lad, sick, as she had
heard, and cried from the doorway, “Well done, truly! to trample thy mother’s
precepts under foot, to spare my enemy that cross of anunworthy love; nay,
unite her to thyself, child as thou art, that I might have a daughter-in-law
who hates me! I will make thee repent of thy sport, and the savour of thy
marriage bitter. There is one who shall chasten this body of thine, put out thy
torch and unstring thy bow. Not till she has plucked forth that hair, into
which so oft these hands have smoothed the golden light, and sheared away thy
wings, shall I feel the injury done me avenged.” And with this she hastened in
anger from the doors. And Ceres and Juno met her, and sought to know the
meaning of her troubled countenance. “Ye come in season,” she cried; “I pray
you, find for me Psyche. It must needs be that ye have heard the disgrace of my
house.”And they, ignorant of what was done, would have soothed her anger,
saying, “What fault, Mistress, hath thy son committed, that thou wouldst
destroy the girl he loves? Knowest thou not that he is now of age? Because he
wears his years so lightly must he seem to thee ever but a child? Wilt thou for
ever thus pry into the pastimes of thy son, always accusing his wantonness, and
blaming in him those delicate wiles which are all thine own?” Thus, in secret
fear of the boy’s bow, did they seek to please him with their gracious
patronage. But Venus, angry at their light taking of her wrongs, turned her
back upon them, and with hasty steps made her way once more to the sea.
Meanwhile Psyche, tost in soul, wandering hither and thither, rested not night
or day in the pursuit of her husband, desiring, if she might not soothe his
anger by the endearments of a wife, at the least to propitiate him with the
prayers of a handmaid. And seeing a certain temple on the top of a high
mountain, she said, “Who knows whether yonder place be not the abode of my
lord?” Thither, therefore, she turned her steps, hastening now the more because
desire and hope pressed her on, weary as she was with the labours of the way,
and so, painfully measuring out the highest ridges of the mountain, drew near
to the sacred couches. She sees ears of wheat, in heaps or twisted into
chaplets; ears of barley also, with sickles and all the instruments of harvest,
lying there in disorder, thrown at random from the hands of the labourers in
the great heat. These she curiously sets apart, one by one, duly ordering them;
for she said within herself, “I may not neglect the shrines, nor the holy
service, of any god there be, but must rather win by supplication the kindly
mercy of them all.” And Ceres found her bending sadly upon her task, and
cried aloud, “Alas, Psyche! Venus, in the furiousness of her anger, tracks thy
footsteps through the world, seeking for thee to pay her the utmost penalty;
and thou, thinking of anything rather than thine own safety, hast taken on thee
the care of what belongs to me!” Then Psyche fell down at her feet, and
sweeping the floor with her hair, washing the footsteps of the goddess in her
tears, besought her mercy, with many prayers:—“By the gladdening rites of
harvest, by the lighted lamps and mystic marches of the Marriage and mysterious
Invention of thy daughter Proserpine, and by all beside that the holy place of
Attica veils in silence, minister, I pray thee, to the sorrowful heart of
Psyche! Suffer me to hide myself but for a few days among the heaps of corn,
till time have softened the anger of the goddess, and my strength, out-worn in
my long travail, be recovered by a little rest.” But Ceres answered her,
“Truly thy tears move me, and I would fain help thee; only I dare not incur the
ill-will of my kinswoman. Depart hence as quickly as may be.” And Psyche,
repelled against hope, afflicted now with twofold sorrow, making her way back
again, beheld among the half-lighted woods of the valley below a sanctuary builded
with cunning art. And that she might lose no way of hope, howsoever doubtful,
she drew near to the sacred doors. She sees there gifts of price, and garments
fixed upon the door-posts and to the branches of the trees, wrought with
letters of gold which told the name of the goddess to whom they were dedicated,
with thanksgiving for that she had done. So, with bent knee and hands laid
about the glowing altar, she prayed saying, “Sister and spouse of Jupiter! be
thou to these my desperate fortune’s Juno the Auspicious! I know that thou dost
willingly help those in travail with child; deliver me from the peril that is
upon me.” And as she prayed thus, Juno in the majesty of her godhead, was
straightway present, and answered, “Would that I might incline favourably to
thee; but against the will of Venus, whom I have ever loved as a daughter, I
may not, for very shame, grant thy prayer.” And Psyche, dismayed by this
new shipwreck of her hope, communed thus with herself, “Whither, from the midst
of the snares that beset me, shall I take my way once more? In what dark
solitude shall I hide me from the all-seeing eye of Venus? What if I put on at
length a man’s courage, and yielding myself unto her as my mistress, soften by
a humility not yet too late the fierceness of her purpose? Who knows but that I
may find him also whom my soul seeketh after, in the abode of his
mother?” And Venus, renouncing all earthly aid in her search, prepared to
return to heaven. She ordered the chariot to be made ready, wrought for her by
Vulcan as a marriage-gift, with a cunning of hand which had left his work so
much the richer by the weight of gold it lost under his tool. From the
multitude which housed about the bed-chamber of their mistress, white doves
came forth, and with joyful motions bent their painted necks beneath the yoke.
Behind it, with playful riot, the sparrows sped onward, and other birds sweet
of song, making known by their soft notes the approach of the goddess. Eagle
and cruel hawk alarmed not the quireful family of Venus. And the clouds broke
away, as the uttermost ether opened to receive her, daughter and goddess, with
great joy. And Venus passed straightway to the house of Jupiter to beg
from him the service of Mercury, the god of speech. And Jupiter refused not her
prayer. And Venus and Mercury descended from heaven together; and as they went,
the former said to the latter, “Thou knowest, my brother of Arcady, that never
at any time have I done anything without thy help; for how long time, moreover,
I have sought a certain maiden in vain. And now naught remains but that, by thy
heraldry, I proclaim a reward for whomsoever shall find her. Do thou my bidding
quickly.” And therewith she conveyed to him a little scrip, in the which was
written the name of Psyche, with other things; and so returned home. And
Mercury failed not in his office; but departing into all lands, proclaimed that
whosoever delivered up to Venus the fugitive girl, should receive from herself
seven kisses—one thereof full of the inmost honey of her throat. With that the
doubt of Psyche was ended. And now, as she came near to the doors of Venus, one
of the household, whose name was Use-and-Wont, ran out to her, crying, “Hast
thou learned, Wicked Maid! now at last! that thou hast a mistress?” And seizing
her roughly by the hair, drew her into the presence of Venus. And when Venus
saw her, she cried out, saying, “Thou hast deigned then to make thy salutations
to thy mother-in-law. Now will I in turn treat thee as becometh a dutiful
daughter-in-law!” And she took barley and millet and poppy-seed, every
kind of grain and seed, and mixed them together, and laughed, and said to her:
“Methinks so plain a maiden can earn lovers only by industrious ministry: now
will I also make trial of thy service. Sort me this heap of seed, the one kind
from the others, grain by grain; and get thy task done before the evening.” And
Psyche, stunned by the cruelty of her bidding, was silent, and moved not her
hand to the inextricable heap. And there came forth a little ant, which had understanding
of the difficulty of her task, and took pity upon the consort of the god of
Love; and he ran deftly hither and thither, and called together the whole army
of his fellows. “Have pity,” he cried, “nimble scholars of the Earth, Mother of
all things!—have pity upon the wife of Love, and hasten to help her in her
perilous effort.” Then, one upon the other, the hosts of the insect people
hurried together; and they sorted asunder the whole heap of seed, separating
every grain after its kind, and so departed quickly out of sight. And at
nightfall Venus returned, and seeing that task finished with so wonderful
diligence, she cried, “The work is not thine, thou naughty maid, but his in
whose eyes thou hast found favour.” And calling her again in the morning, “See
now the grove,” she said, “beyond yonder torrent. Certain sheep feed there,
whose fleeces shine with gold. Fetch me straightway a lock of that precious
stuff, having gotten it as thou mayst.” And Psyche went forth willingly,
not to obey the command of Venus, but even to seek a rest from her labour in
the depths of the river. But from the river, the green reed, lowly mother of
music, spake to her: “O Psyche! pollute not these waters by self-destruction,
nor approach that terrible flock; for, as the heat groweth, they wax fierce.
Lie down under yon plane-tree, till the quiet of the river’s breath have
soothed them. Thereafter thou mayst shake down the fleecy gold from the trees
of the grove, for it holdeth by the leaves.” And Psyche, instructed thus
by the simple reed, in the humanity of its heart, filled her bosom with the
soft golden stuff, and returned to Venus. But the goddess smiled bitterly, and
said to her, “Well know I who was the author of this thing also. I will make
further trial of thy discretion, and the boldness of thy heart. Seest thou the
utmost peak of yonder steep mountain? The dark stream which flows down thence
waters the Stygian fields, and swells the flood of Cocytus. Bring me now, in
this little urn, a draught from its innermost source.” And therewith she put
into her hands a vessel of wrought crystal. And Psyche set forth in haste
on her way to the mountain, looking there at last to find the end of her
hapless life. But when she came to the region which borders on the cliff that
was showed to her, she understood the deadly nature of her task. From a great
rock, steep and slippery, a horrible river of water poured forth, falling
straightway by a channel exceeding narrow into the unseen gulf below. And lo!
creeping from the rocks on either hand, angry serpents, with their long necks
and sleepless eyes. The very waters found a voice and bade her depart, in
smothered cries of, Depart hence! and What doest thou here? Look around thee!
and Destruction is upon thee! And then sense left her, in the immensity of her
peril, as one changed to stone. Yet not even then did the distress of
this innocent soul escape the steady eye of a gentle providence. For the bird
of Jupiter spread his wings and took flight to her, and asked her, “Didst thou
think, simple one, even thou! that thou couldst steal one drop of that
relentless stream, the holy river of Styx, terrible even to the gods? But give
me thine urn.” And the bird took the urn, and filled it at the source, and
returned to her quickly from among the teeth of the serpents, bringing with him
of the waters, all unwilling—nay! warning him to depart away and not molest
them. And she, receiving the urn with great joy, ran back quickly that
she might deliver it to Venus, and yet again satisfied not the angry goddess.
“My child!” she said, “in this one thing further must thou serve me. Take now
this tiny casket, and get thee down even unto hell, and deliver it to
Proserpine. Tell her that Venus would have of her beauty so much at least as
may suffice for but one day’s use, that beauty she possessed erewhile being
foreworn and spoiled, through her tendance upon the sick-bed of her son; and be
not slow in returning.” And Psyche perceived there the last ebbing of her
fortune—that she was now thrust openly upon death, who must go down, of her own
motion, to Hades and the Shades. And straightway she climbed to the top of an
exceeding high tower, thinking within herself, “I will cast myself down thence:
so shall I descend most quickly into the kingdom of the dead.” And the tower
again, broke forth into speech: “Wretched Maid! Wretched Maid! Wilt thou
destroy thyself? If the breath quit thy body, then wilt thou indeed go down
into Hades, but by no means return hither. Listen to me. Among the pathless wilds
not far from this place lies a certain mountain, and therein one of hell’s
vent-holes. Through the breach a rough way lies open, following which thou wilt
come, by straight course, to the castle of Orcus. And thou must not go
empty-handed. Take in each hand a morsel of barley-bread, soaked in hydromel;
and in thy mouth two pieces of money. And when thou shalt be now well onward in
the way of death, then wilt thou overtake a lame ass laden with wood, and a
lame driver, who will pray thee reach him certain cords to fasten the burden
which is falling from the ass: but be thou cautious to pass on in silence. And
soon as thou comest to the river of the dead, Charon, in that crazy bark he
hath, will put thee over upon the further side. There is greed even among the
dead: and thou shalt deliver to him, for the ferrying, one of those two pieces
of money, in such wise that he take it with his hand from between thy lips. And
as thou passest over the stream, a dead old man, rising on the water, will put
up to thee his mouldering hands, and pray thee draw him into the ferry-boat.
But beware thou yield not to unlawful pity. “When thou shalt be come
over, and art upon the causeway, certain aged women, spinning, will cry to thee
to lend thy hand to their work; and beware again that thou take no part
therein; for this also is the snare of Venus, whereby she would cause thee to
cast away one at least of those cakes thou bearest in thy hands. And think not
that a slight matter; for the loss of either one of them will be to thee the
losing of the light of day. For a watch-dog exceeding fierce lies ever before
the threshold of that lonely house of Proserpine. Close his mouth with one of
thy cakes; so shalt thou pass by him, and enter straightway into the presence
of Proserpine herself. Then do thou deliver thy message, and taking what she
shall give thee, return back again; offering to the watch-dog the other cake,
and to the ferryman that other piece of money thou hast in thy mouth. After
this manner mayst thou return again beneath the stars. But withal, I charge
thee, think not to look into, nor open, the casket thou bearest, with that
treasure of the beauty of the divine countenance hidden therein.” So
spake the stones of the tower; and Psyche delayed not, but proceeding diligently
after the manner enjoined, entered into the house of Proserpine, at whose feet
she sat down humbly, and would neither the delicate couch nor that divine food
the goddess offered her, but did straightway the business of Venus. And
Proserpine filled the casket secretly and shut the lid, and delivered it to
Psyche, who fled therewith from Hades with new strength. But coming back into
the light of day, even as she hasted now to the ending of her service, she was
seized by a rash curiosity. “Lo! now,” she said within herself, “my simpleness!
who bearing in my hands the divine loveliness, heed not to touch myself with a
particle at least therefrom, that I may please the more, by the favour of it,
my fair one, my beloved.” Even as she spoke, she lifted the lid; and behold!
within, neither beauty, nor anything beside, save sleep only, the sleep of the
dead, which took hold upon her, filling all her members with its drowsy vapour,
so that she lay down in the way and moved not, as in the slumber of
death. And Cupid being healed of his wound, because he would endure no
longer the absence of her he loved, gliding through the narrow window of the
chamber wherein he was holden, his pinions being now repaired by a little rest,
fled forth swiftly upon them, and coming to the place where Psyche was, shook
that sleep away from her, and set him in his prison again, awaking her with the
innocent point of his arrow. “Lo! thine old error again,” he said, “which had
like once more to have destroyed thee! But do thou now what is lacking of the
command of my mother: the rest shall be my care.” With these words, the lover
rose upon the air; and being consumed inwardly with the greatness of his love,
penetrated with vehement wing into the highest place of heaven, to lay his
cause before the father of the gods. And the father of gods took his hand in
his, and kissed his face and said to him, “At no time, my son, hast thou
regarded me with due honour. Often hast thou vexed my bosom, wherein lies the
disposition of the stars, with those busy darts of thine. Nevertheless, because
thou hast grown up between these mine hands, I will accomplish thy desire.” And
straightway he bade Mercury call the gods together; and, the council-chamber
being filled, sitting upon a high throne, “Ye gods,” he said, “all ye whose
names are in the white book of the Muses, ye know yonder lad. It seems good to
me that his youthful heats should by some means be restrained. And that all
occasion may be taken from him, I would even confine him in the bonds of marriage.
He has chosen and embraced a mortal maiden. Let him have fruit of his love, and
possess her for ever.” Thereupon he bade Mercury produce Psyche in
heaven; and holding out to her his ambrosial cup, “Take it,” he said, “and live
for ever; nor shall Cupid ever depart from thee.” And the gods sat down
together to the marriage-feast. On the first couch lay the bridegroom,
and Psyche in his bosom. His rustic serving-boy bare the wine to Jupiter; and
Bacchus to the rest. The Seasons crimsoned all things with their roses. Apollo
sang to the lyre, while a little Pan prattled on his reeds, and Venus danced
very sweetly to the soft music. Thus, with due rites, did Psyche pass into the
power of Cupid; and from them was born the daughter whom men call Voluptas.
So the famous story composed itself in the memory of Marius, with an expression
changed in some ways from the original and on the whole graver. The petulant,
boyish Cupid of Apuleius was become more like that “Lord, of terrible aspect,”
who stood at Dante’s bedside and wept, or had at least grown to the manly
earnestness of the Erôs of Praxiteles. Set in relief amid the coarser matter of
the book, this episode of Cupid and Psyche served to combine many lines of
meditation, already familiar to Marius, into the ideal of a perfect imaginative
love, centered upon a type of beauty entirely flawless and clean—an ideal which
never wholly faded from his thoughts, though he valued it at various times in
different degrees. The human body in its beauty, as the highest potency of all
the beauty of material objects, seemed to him just then to be matter no longer,
but, having taken celestial fire, to assert itself as indeed the true, though
visible, soul or spirit in things. In contrast with that ideal, in all the pure
brilliancy, and as it were in the happy light, of youth and morning and the
springtide, men’s actual loves, with which at many points the book brings one
into close contact, might appear to him, like the general tenor of their lives,
to be somewhat mean and sordid. The hiddenness of perfect things: a shrinking
mysticism, a sentiment of diffidence like that expressed in Psyche’s so
tremulous hope concerning the child to be born of the husband she had never yet
seen—“in the face of this little child, at the least, shall I apprehend
thine”—in hoc saltem parvulo cognoscam faciem tuam: the fatality which seems to
haunt any signal+ beauty, whether moral or physical, as if it were in itself
something illicit and isolating: the suspicion and hatred it so often excites
in the vulgar:—these were some of the impressions, forming, as they do, a
constant tradition of somewhat cynical pagan experience, from Medusa and Helen
downwards, which the old story enforced on him. A book, like a person, has its
fortunes with one; is lucky or unlucky in the precise moment of its falling in
our way, and often by some happy accident counts with us for something more
than its independent value. The Metamorphoses of Apuleius, coming to Marius
just then, figured for him as indeed The Golden Book: he felt a sort of
personal gratitude to its writer, and saw in it doubtless far more than was
really there for any other reader. It occupied always a peculiar place in his
remembrance, never quite losing its power in frequent return to it for the revival
of that first glowing impression. Its effect upon the elder youth was a
more practical one: it stimulated the literary ambition, already so strong a
motive with him, by a signal example of success, and made him more than ever an
ardent, indefatigable student of words, of the means or instrument of the
literary art. The secrets of utterance, of expression itself, of that through
which alone any intellectual or spiritual power within one can actually take
effect upon others, to over-awe or charm them to one’s side, presented
themselves to this ambitious lad in immediate connexion with that desire for
predominance, for the satisfaction of which another might have relied on the
acquisition and display of brilliant military qualities. In him, a fine
instinctive sentiment of the exact value and power of words was connate with
the eager longing for sway over his fellows. He saw himself already a gallant
and effective leader, innovating or conservative as occasion might require, in
the rehabilitation of the mother-tongue, then fallen so tarnished and languid;
yet the sole object, as he mused within himself, of the only sort of patriotic
feeling proper, or possible, for one born of slaves. The popular speech was
gradually departing from the form and rule of literary language, a language
always and increasingly artificial. While the learned dialect was yearly
becoming more and more barbarously pedantic, the colloquial idiom, on the other
hand, offered a thousand chance-tost gems of racy or picturesque expression, rejected
or at least ungathered by what claimed to be classical Latin. The time was
coming when neither the pedants nor the people would really understand Cicero;
though there were some indeed, like this new writer, Apuleius, who, departing
from the custom of writing in Greek, which had been a fashionable affectation
among the sprightlier wits since the days of Hadrian, had written in the
vernacular. The literary prog ramme which Flavian had already
designed for himself would be a work, then, partly conservative or reactionary,
in its dealing with the instrument of the literary art; partly popular and
revolutionary, asserting, so to term them, the rights of the proletariate of
speech. More than fifty years before, the younger Pliny, himself an effective
witness for the delicate power of the Latin tongue, had said,—“I am one of
those who admire the ancients, yet I do not, like some others, underrate
certain instances of genius which our own times afford. For it is not true that
nature, as if weary and effete, no longer produces what is admirable.” And he,
Flavian, would prove himself the true master of the opportunity thus indicated.
In his eagerness for a not too distant fame, he dreamed over all that, as the
young Caesar may have dreamed of campaigns. Others might brutalise or
neglect the native speech, that true “open field” for charm and sway over men.
He would make of it a serious study, weighing the precise power of every phrase
and word, as though it were precious metal, disentangling the later
associations and going back to the original and native sense of each,—restoring
to full significance all its wealth of latent figurative expression, reviving
or replacing its outworn or tarnished images. Latin literature and the Latin
tongue were dying of routine and languor; and what was necessary, first of all,
was to re-establish the natural and direct relationship between thought and
expression, between the sensation and the term, and restore to words their
primitive power. For words, after all, words manipulated with all his
delicate force, were to be the apparatus of a war for himself. To be forcibly
impressed, in the first place; and in the next, to find the means of making
visible to others that which was vividly apparent, delightful, of lively
interest to himself, to the exclusion of all that was but middling, tame, or
only half-true even to him—this scrupulousness of literary art actually awoke
in Flavian, for the first time, a sort of chivalrous conscience. What care for
style! what patience of execution! what research for the significant tones of
ancient idiom—sonantia verba et antiqua! What stately and regular
word-building—gravis et decora constructio! He felt the whole meaning of the
sceptical Pliny’s somewhat melancholy advice to one of his friends, that he
should seek in literature deliverance from mortality—ut studiis se literarum a
mortalitate vindicet. And there was everything in the nature and the training
of Marius to make him a full participator in the hopes of such a new literary
school, with Flavian for its leader. In the refinements of that curious spirit,
in its horror of profanities, its fastidious sense of a correctness in external
form, there was something which ministered to the old ritual interest, still
surviving in him; as if here indeed were involved a kind of sacred service
tothe mother-tongue. Here, then, was the theory of Euphuism, as
manifested in every age in which the literary conscience has been awakened to
forgotten duties towards language, towards the instrument of expression: infact
it does but modify a little the principles of all effective expression at all
times. ’Tis art’s function to conceal itself: ars est celare artem:—is a
saying, which, exaggerated by inexact quotation, has perhaps been oftenest and
most confidently quoted by those who have had little literary or other art to
conceal; and from the very beginning of professional literature, the “labour of
the file”—a labour in the case of Plato, for instance, or Virgil, like that of
the oldest of goldsmiths as described by Apuleius, enriching the work by far
more than the weight of precious metal it removed—has always had its function.
Sometimes, doubtless, as in later examples of it, this Roman Euphuism,
determined at any cost to attain beauty in writing—es kallos graphein+—might
lapse into its characteristic fopperies or mannerisms, into the “defects of its
qualities,” in truth, not wholly unpleasing perhaps, or at least excusable,
when looked at as but the toys (so Cicero calls them), the strictly congenial
and appropriate toys, of an assiduously cultivated age, which could not help
being polite, critical, self-conscious. The mere love of novelty also had, of
course, its part there: as with the Euphuism of the Elizabethan age, and of the
modern French romanticists, its neologies were the ground of one of the
favourite charges against it; though indeed, as regards these tricks of taste
also, there is nothing new, but a quaint family likeness rather, between the
Euphuists of successive ages. Here, as elsewhere, the power of “fashion,” as it
is called, is but one minor form, slight enough, it may be, yet distinctly
symptomatic, of that deeper yearning of human nature towards ideal perfection,
which is a continuous force in it; and since in this direction too human nature
is limited, such fashions must necessarilyreproduce themselves. Among other
resemblances to later growths of Euphuism, its archaisms on the one hand, and
its neologies on the other, the Euphuism of the days of Marcus Aurelius had, in
the composition of verse, its fancy for the refrain. It was a snatch from a
popular chorus, something he had heard sounding all over the town of Pisa one
April night, one of the firstbland and summer-like nights of the year, that
Flavian had chosen for the refrain of a poem he was then pondering—the
Pervigilium Veneris—the vigil, or “nocturn,” of Venus. Certain elderly
counsellors, filling what may be thought a constant part in the little
tragi-comedy which literature and its votaries are playing in all ages, would
ask, suspecting some affectation or unreality in that minute culture of
form:—Cannot those who have a thing to say, say it directly? Why not be simple
and broad, like the old writers of Greece? And this challenge had at least the
effect of setting his thoughts at work on the intellectual situation
as it lay between the children of the present and those earliest masters.
Certainly, the most wonderful, the unique, point, about the Greek genius, in
literature as in everything else, was the entire absence of imitation in its
productions. How had the burden of precedent, laid upon every artist, increased
since then! It was all around one:—that smoothly built world of old classical
taste, an accomplished fact, with overwhelming authority on every detail of the
conduct of one’s work. With no fardel on its own back, yet so imperious towards
those who came labouring after it, Hellas, in its early freshness, looked as
distant from him even then as it does from ourselves. There might seem to be no
place left for novelty or originality, —place only for a patient, an
infinite, faultlessness. On this question too Flavian passed through a world of
curious art-casuistries, of self-tormenting, at the threshold of his work. Was
poetic beauty a thing ever one and the same, a type absolute; or, changing
always with the soul of time itself, did it depend upon the taste, the peculiar
trick of apprehension, the fashion, as we say, of each successive age? Might
one recover that old, earlier sense of it, that earlier manner, in a
mas terly effort to recall all the complexities of the life, moral and
intellectual, of the earlier age to which it had belonged? Had there been
really bad ages in art or literature? Were all ages, even those earliest,
adventurous, matutinal days, in themselves equally poetical or unpoetical; and
poetry, the literary beauty, the poetic ideal, always but a borrowed light upon
men’s actual life? Homer had said— Hoi d’hote dê limenos
polybentheos entos hikonto, Histia men steilanto, thesan d’ en nêi melainê...
Ek de kai autoi bainon epi phêgmini thalassês.+ And how poetic the
simple incident seemed, told just thus! Homer was always telling things after
this manner. And one might think there had been no effort in it: that here was
but the almost mechanical transcript of a time, naturally, intrinsically,
poetic, a time in which one could hardly have spoken at all without ideal
effect, or, the sailors pulled down their boat without making a picture in “the
great style,” against a sky charged with marvels. Must not the mere prose of an
age, itself thus ideal, have coun ted for more than half of Homer’s
poetry? Or might the closer student discover even here, even in Homer, the
really mediatorial function of the poet, as between the reader and the actual
matter of his experience; the poet waiting, so to speak, in an age which had
felt itself trite and commonplace enough, on his opportunity for the touch of
“golden alchemy,” or at least for the pleasantly lighted side of things
themselves? Might not another, in one’s own prosaic and used-up time, so
uneventful as it had been through the long reign of these quiet Antonines, in
like manner, discover his ideal, by a due waiting upon it? Would not a future
generation, looking back upon this, under the power of the enchanted-distance
fallacy, find it ideal to view, in contrast with its own languor—the languor
that for some reason (concerning which Augustine will one day have his view)
seemed to haunt men always? Had Homer, even, appeared unreal and affected in
his poetic flight, to some of the people of his own age, as seemed to happen
with every new literature in turn? In any case, the intellectual conditions of
early Greece had been—how different from these! And a true literary tact would
accept that difference in forming the primary conception of the literary
function at a later time. Perhaps the utmost one could get by conscious effort,
in the way of a reaction or return to the conditions of an earlier and fresher
age, would be but novitas, artificial artlessness, naïveté; and this quality too
might have its measure of euphuistic charm, direct and sensible enough, though
it must count, in comparison with that genuine early Greek newness at the
beginning, not as the freshness of the open fields, but only of a bunch of
field-flowers in a heated room. There was, meantime, all this:—on one
side, the old pagan culture, for us but a fragment, for him an accomplished yet
present fact, still a living, united, organic whole, in the entirety of its
art, its thought, its religions, its sagacious forms of polity, that so weighty
authority it exercised on every point, being in reality only the measure of its
charm for every one: on the other side, the actual world in all its eager
self-assertion, with Flavian himself, in his boundless animation, there, at the
centre of the situation. From the natural defects, from the pettiness, of his
euphuism, his assiduous cultivation of manner, he was saved by the
consciousness that he had a matter to present, very real, at least to him. That
preoccupation of the dilettante with what might seem mere details of form,
after all, did but serve the purpose of bringing to the surface, sincerely and
in their integrity, certain strong personal intuitions, a certain vision or
apprehension of things as really being, with important results, thus, rather
than thus,—intuitions which the artistic or literary faculty was called upon to
follow, with the exactness of wax or clay, clothing the model within. Flavian
too, with his fine clear mastery of the practically effective, had early laid hold
of the principle, as axiomatic in literature: that to know when one’s self is
interested, is the first condition of interesting other people. It was a
principle, the forcible apprehension of which made him jealous and fastidious
in the selection of his intellectual food; often listless while others read or
gazed diligently; never pretending to be moved out of mere complaisance to
people’s emotions: it served to foster in him a very scrupulous literary
sincerity with himself. And it was this uncompromising demand for a matter, in
all art, derived immediately from lively personal intuition, this constant
appeal to individual judgment, which saved his euphuism, even at its weakest,
from lapsing into mere artifice. Was the magnificent exordium of Lucretius,
addressed to the goddess Venus, the work of his earlier manhood, and designed
originally to open an argument less persistently sombre than that protest
against the whole pagan heaven which actually follows it? It is certainly the
most typical expression of a mood, still incident to the young poet, as a thing
peculiar to his youth, when he feels the sentimental current setting forcibly
along his veins, and so much as a matter of purely physical excitement, that he
can hardly distinguish it from the animation of external nature, the upswelling
of the seed in the earth, and of the sap through the trees. Flavian, to whom,
again, as to his later euphuistic kinsmen, old mythology seemed as full of
untried, unexpressed motives and interest as human life itself, had long been
occupied with a kind of mystic hymn to the vernal principle of life in things;
a composition shaping itself, little by little, out of a thousand dim
perceptions, into singularly definite form (definite and firm as fine-art in
metal, thought Marius) for which, as I said, he had caught his “refrain,” from
the lips of the young men, singing because they could not help it, in the
streets of Pisa. And as oftenest happens also, with natures of genuinely poetic
quality, those piecemeal beginnings came suddenly to harmonious completeness
among the fortunate incidents, the physical heat and light, of one singularly
happy day. It was one of the first hot days of March—“the sacred day”—on
which, from Pisa, as from many another harbour on the Mediterranean, the Ship
of Isis went to sea, and every one walked down to the shore-side to witness the
freighting of the vessel, its launching and final abandonment among the waves,
as an object really devoted to the Great Goddess, that new rival, or “double,”
of ancient Venus, and like her a favourite patroness of sailors. On the evening
next before, all the world had been abroad to view the illumination of the
river; the stately lines of building being wreathed with hundreds of
many-coloured lamps. The young men had poured forth their chorus— Cras
amet qui nunquam amavit, Quique amavit cras amet— as they bore
their torches through the yielding crowd, or rowed their lanterned boats up and
down the stream, till far into the night, when heavy rain-drops had driven the
last lingerers home. Morning broke, however, smiling and serene; and the long
procession started betimes. The river, curving slightly, with the smoothly
paved streets on either side, between its low marble parapet and the fair
dwelling-houses, formed the main highway of the city; and the pageant,
accompanied throughout by innumerable lanterns and wax tapers, took its course
up one of these streets, crossing the water by a bridge up-stream, and down the
other, to the haven, every possible standing-place, out of doors and within,
being crowded with sight-seers, of whom Marius was one of the most eager,
deeply interested in finding the spectacle much as Apuleius had described it in
his famous book. At the head of the procession, the master of ceremonies,
quietly waving back the assistants, made way for a number of women, scattering
perfumes. They were succeeded by a company of musicians, piping and twanging,
on instruments the strangest Marius had ever beheld, the notes of a hymn,
narrating the first origin of this votive rite to a choir of youths, who
marched behind them singing it. The tire-women and other personal attendants of
the great goddess came next, bearing the instruments of their ministry, and
various articles from the sacred wardrobe, wrought of the most precious
material; some of them with long ivory combs, plying their hands in wild yet
graceful concert of movement as they went, in devout mimicry of the toilet.
Placed in their rear were the mirror-bearers of the goddess, carrying large
mirrors of beaten brass or silver, turned in such a way as to reflect to the
great body of worshippers who followed, the face of the mysterious image, as it
moved on its way, and their faces to it, as though they were in fact advancing
to meet the heavenly visitor. They comprehended a multitude of both sexes and
of all ages, already initiated into the divine secret, clad in fair linen, the
females veiled, the males with shining tonsures, and every one carrying a
sistrum—the richer sort of silver, a few very dainty persons of fine
gold—rattling the reeds, with a noise like the jargon of innumerable birds and
insects awakened from torpor and abroad in the spring sun. Then, borne upon a
kind of platform, came the goddess herself, undulating above the heads of the
multitude as the bearers walked, in mystic robe embroidered with the moon and
stars, bordered gracefully with a fringe of real fruit and flowers, and with a
glittering crown upon the head. The train of the procession consisted of the
priests in long white vestments, close from head to foot, distributed into
various groups, each bearing, exposed aloft, one of the sacred symbols of
Isis—the corn-fan, the golden asp, the ivory hand of equity, and among them the
votive ship itself, carved and gilt, and adorned bravely with flags flying.
Last of all walked the high priest; the people kneeling as he passed to kiss
his hand, in which were those well-remembered roses. Marius followed with
the rest to the harbour, where the mystic ship, lowered from the shoulders of
the priests, was loaded with as much as it could carry of the rich spices and
other costly gifts, offered in great profusion by the worshippers, and thus,
launched at last upon the water, left the shore, crossing the harbour-bar in
the wake of a much stouter vessel than itself with a crew of white-robed
mariners, whose function it was, at the appointed moment, finally to desert it
on the open sea. The remainder of the day was spent by most in parties on
the water. Flavian and Marius sailed further than they had ever done before to
a wild spot on the bay, the traditional site of a little Greek colony, which,
having had its eager, stirring life at the time when Etruria was still a power
in Italy, had perished in the age of the civil wars. In the absolute transparency
of the air on this gracious day, an infinitude of detail from sea and shore
reached the eye with sparkling clearness, as the two lads sped rapidly over the
waves—Flavian at work suddenly, from time to time, with his tablets. They
reached land at last. The coral fishers had spread their nets on the sands,
with a tumble-down of quaint, many-hued treasures, below a little shrine of
Venus, fluttering and gay with the scarves and napkins and gilded shells which
these people had offered to the image. Flavian and Marius sat down under the
shadow of a mass of gray rock or ruin, where the sea-gate of the Greek town had
been, and talked of life in those old Greek colonies. Of this place, all that
remained, besides those rude stones, was—a handful of silver coins, each with a
head of pure and archaic beauty, though a little cruel perhaps, supposed to
represent the Siren Ligeia, whose tomb was formerly shown here—only these, and
an ancient song, the very strain which Flavian had recovered in those last
months. They were records which spoke, certainly, of the charm of life within
those walls. How strong must have been the tide of men’s existence in that
little republican town, so small that this circle of gray stones, of service
now only by the moisture they gathered for the blue-flowering gentians among
them, had been the line of its rampart! An epitome of all that was liveliest,
most animated and adventurous, in the old Greek people of which it was an
offshoot, it had enhanced the effect of these gifts by concentration within
narrow limits. The band of “devoted youth,”—hiera neotês.+—of the younger
brothers, devoted to the gods and whatever luck the gods might afford, because
there was no room for them at home—went forth, bearing the sacred flame from
the mother hearth; itself a flame, of power to consume the whole material of
existence in clear light and heat, with no smouldering residue. The life of
those vanished townsmen, so brilliant and revolutionary, applying so abundantly
the personal qualities which alone just then Marius seemed to value, associated
itself with the actual figure of his companion, standing there before him, his
face enthusiastic with the sudden thought of all that; and struck him vividly
as precisely the fitting opportunity for a nature like his, so hungry for
control, for ascendency over men. Marius noticed also, however, as high
spirits flagged at last, on the way home through the heavy dew of the evening,
more than physical fatigue in Flavian, who seemed to find no refreshment in the
coolness. There had been something feverish, perhaps, and like the beginning of
sickness, about his almost forced gaiety, in this sudden spasm of spring; and
by the evening of the next day he was lying with a burning spot on his
forehead, stricken, as was thought from the first, by the terrible new
disease. NOTES 93. +Corrected from the Macmillan edition
misprint “singal.” 98. +Transliteration: es kallos graphein.
Translation: “To write beautifully.” 100. +Iliad 1.432-33, 437.
Transliteration: Hoi d’ hote dê limenos polybentheos entos hikonto,
Histia men steilanto, thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi
phêgmini thalassês. Etext editor’s translation: When
they had safely made deep harbor They took in the sail, laid it in their black
ship... And went ashore just past the breakers. 109.
+Transliteration: hiera neotês. Pater translates the phrase, “devoted
youth.” For the fantastical colleague of the philosophic emperor Marcus
Aurelius, returning in triumph from the East, had brought in his train, among
the enemies of Rome, one by no means a captive. People actually sickened at a
sudden touch of the unsuspected foe, as they watched in dense crowds the
pathetic or grotesque imagery of failure or success in the triumphal procession.
And, as usual, the plague brought with it a power to develop all pre-existent
germs of superstition. It was by dishonour done to Apollo himself, said popular
rumour—to Apollo, the old titular divinity of pestilence, that the
poisonous thing had come abroad. Pent up in a golden coffer consecrated to the
god, it had escaped in the sacrilegious plundering of his temple at Seleucia by
the soldiers of Lucius Verus, after a traitorous surprise of that town and a
cruel massacre. Certainly there was something which baffled all imaginable
precautions and all medical science, in the suddenness with which the disease
broke out simultaneously, here and there, among both soldiers and citizens,
even in places far remote from the main line of its march in the rear of the
victorious army. It seemed to have invaded the whole empire, and some have even
thought that, in a mitigated form, it permanently remained there. In Rome
itself many thousands perished; and old authorities tell of farmsteads, whole
towns, and even entire neighbourhoods, which from that time continued without
inhabitants and lapsed into wildness or ruin. Flavian lay at the open
window of his lodging, with a fiery pang in the brain, fancying no covering
thin or light enough to be applied to his body. His head being relieved after a
while, there was distress at the chest. It was but the fatal course of the
strange new sickness, under many disguises; travelling from the brain to the
feet, like a material resident, weakening one after another of the organic
centres; often, when it did not kill, depositing various degrees of lifelong
infirmity in this member or that; and after such descent, returning upwards
again, now as a mortal coldness, leaving the entrenchments of the fortress of
life overturned, one by one, behind it. Flavian lay there, with the enemy
at his breast now in a painful cough, but relieved from that burning fever in
the head, amid the rich-scented flowers—rare Paestum roses, and the like
—procured by Marius for his solace, in a fancied convalescence; and would, at
intervals, return to labour at his verses, with a great eagerness to
complete and transcribe the work, while Marius sat and wrote at his dictation,
one of the latest but not the poorest specimens of genuine Latin poetry.
It was in fact a kind of nuptial hymn, which, taking its start from the thought
of nature as the universal mother, celebrated the preliminary pairing and
mating together of all fresh things, in the hot and genial spring-time—the
immemorial nuptials of the soul of spring itself and the brown earth; and was
full of a delighted, mystic sense of what passed between them in that fantastic
marriage. That mystic burden was relieved, at intervals, by the familiar
playfulness of the Latin verse-writer in dealing with mythology, which, though
coming at so late a day, had still a wonderful freshness in its old age.—“Amor
has put his weapons by and will keep holiday. He was bidden go without apparel,
that none might be wounded by his bowand arrows. But take care! In truth he is
none the less armed than usual, though he be all unclad.” In the
expression of all this Flavian seemed, while making it his chief aim to retain
the opulent, many-syllabled vocabulary of the Latin genius, at some points even
to have advanced beyond it, in anticipation of wholly new laws of taste as
regards sound, a new range of sound itself. The peculiar resultant note,
associating itself with certain other experiences of his, was to Marius like
the foretaste of an entirely novel world of poetic beauty to come. Flavian had
caught, indeed, something of the rhyming cadence, the sonorous organ-music of
the medieval Latin, and therewithal something of its unction and mysticity of
spirit. There was in his work, along with the last splendour of the
classical language, a touch, almost prophetic, of that transformed life it was
to have in the rhyming middle age, just about to dawn. The impression thus
forced upon Marius connected itself with a feeling, the exact inverse of that,
known to every one, which seems to say, You have been just here, just thus,
before!—a feeling, in his case, not reminiscent but prescient of the future,
which passed over him afterwards many times, as he came across certain places
and people. It was as if he detected there the process of actual change to a
wholly undreamed-of and renewed condition of human body and soul: as if he saw
the heavy yet decrepit old Roman architectureabout him, rebuilding on an
intrinsically better pattern. Could it have been actually on a new musical
instrument that Flavian had first heard the novel accents of his verse? And
still Marius noticed there, amid all its richness of expression and
imagery, that firmness of outline he had always relished so much in the
composition of Flavian. Yes! a firmness like that of some master of noble
metal-work, manipulating tenacious bronze or gold. Even now that haunting
refrain, with its impromptu variations, from the throats of those strong young
men, came floating through the window. Cras amet qui nunquam amavit,
Quique amavit cras amet! —repeated Flavian, tremulously, dictating
yet one stanza more. What he was losing, his freehold of a soul and body
so fortunately endowed, the mere liberty of life above-ground, “those sunny
mornings in the cornfields by the sea,” as he recollected them one day, when
the window was thrown open upon the early freshness—his sense of all this, was
from the first singularly near and distinct, yet rather as of something he was
but debarred the use of for a time than finally bidding farewell to. That was
while he was still with no very grave misgivings as to the issue of his
sickness, and felt the sources of life still springing essentially unadulterate
within him. From time to time, indeed, Marius, labouring eagerly at the poem
from his dictation, was haunted by a feeling of the triviality of such work
just then. The recurrent sense of some obscure danger beyond the mere danger of
death, vaguer than that and by so much the more terrible, like the menace of
some shadowy adversary in the dark with whose mode of attack they had no
acquaintance, disturbed him now and again through those hours of excited
attention to his manuscript, and to the purely physical wants of Flavian.
Still, during these three days there was much hope and cheerfulness, and even
jesting. Half-consciously Marius tried to prolong one or another relieving
circumstance of the day, the preparations for rest and morning refreshment, for
instance; sadly making the most of the little luxury of this or that, with
something of the feigned cheer of the mother who sets her last morsels before
her famished child as for a feast, but really that he “may eat it and
die.” On the afternoon of the seventh day he allowed Marius finally to
put aside the unfinished manuscript. For the enemy, leaving the chest quiet at
length though much exhausted, had made itself felt with full power again in a
painful vomiting, which seemed to shake his body asunder, with great consequent
prostration. From that time the distress increased rapidly downwards. Omnia tum
vero vitai claustra lababant;+ and soon the cold was mounting with sure pace
from the dead feet to the head. And now Marius began more than to suspect
what the issue must be, and henceforward could but watch with a sort of
agonised fascination the rapid but systematic work of the destroyer, faintly
relieving a little the mere accidents of the sharper forms of suffering.
Flavian himself appeared, in full consciousness at last—in clear-sighted,
deliberate estimate of the actual crisis—to be doing battle with his adversary.
His mind surveyed, with great distinctness, the various suggested modes of
relief. He must without fail get better, he would fancy, might he be removed to
a certain place on the hills where as a child he had once recovered from
sickness, but found that he could scarcely raise his head from the pillow
without giddiness. As if now surely foreseeing the end, he would set himself,
with an eager effort, and with that eager and angry look, which is noted as one
of the premonitions of death in this disease, to fashion out, without formal
dictation, still a few more broken verses of his unfinished work, in hard-set
determination, defiant of pain, to arrest this or that little drop at least
from the river of sensuous imagery rushing so quickly past him. But at
length delirium—symptom that the work of the plague was done, and the last
resort of life yielding to the enemy—broke the coherent order of words and
thoughts; and Marius, intent on the coming agony, found his best hope in the
increasing dimness of the patient’s mind. In intervals of clearer consciousness
the visible signs of cold, of sorrow and desolation, were very painful. No
longer battling with the disease, he seemed as it were to place himself at the
disposal of the victorious foe, dying passively, like some dumb creature, in
hopeless acquiescence at last. That old, half-pleading petulance, unamiable,
yet, as it might seem, only needing conditions of life a little happier than
they had actually been, to become refinement of affection, a delicate grace in
its demand on the sympathy of others, had changed in those moments of full
intelligence to a clinging and tremulous gentleness, as he lay—“on the very
threshold of death”—with a sharply contracted hand in the hand of Marius, to
his almost surprised joy, winning him now to an absolutely self-forgetful
devotion. There was a new sort of pleading in the misty eyes, just because they
took such unsteady note of him, which made Marius feel as if guilty;
anticipating thus a form of self-reproach with which even the tenderest
ministrant may be sometimes surprised, when, at death, affectionate labour
suddenly ceasing leaves room for the suspicion of some failure of love perhaps,
at one or another minute point in it. Marius almost longed to take his share in
the suffering, that he might understand so the better how to relieve it.
It seemed that the light of the lamp distressed the patient, and Marius
extinguished it. The thunder which had sounded all day among the hills, with a
heat not unwelcome to Flavian, had given way at nightfall to steady rain; and
in the darkness Marius lay down beside him, faintly shivering now in the sudden
cold, to lend him his own warmth, undeterred by the fear of contagion which had
kept other people from passing near the house. At length about day-break he
perceived that the last effort had come with a revival of mental clearness, as
Marius understood by the contact, light as it was, in recognition of him there.
“Is it a comfort,” he whispered then, “that I shall often come and weep over
you?”—“Not unless I be aware, and hear you weeping!” The sun shone out on
the people going to work for a long hot day, and Marius was standing by the
dead, watching, with deliberate purpose to fix in his memory every detail, that
he might have this picture in reserve, should any hour of forgetfulness
hereafter come to him with the temptation to feel completely happy again. A
feeling of outrage, of resentment against nature itself, mingled with an agony
of pity, as he noted on the now placid features a certain look of humility,
almost abject, like the expression of a smitten child or animal, as of one,
fallen at last, after bewildering struggle, wholly under the power of a
merciless adversary. From mere tenderness of soul he would not forget one
circumstance in all that; as a man might piously stamp on his memory the
death-scene of a brother wrongfully condemned to die, against a time that may
come. The fear of the corpse, which surprised him in his effort to watch
by it through the darkness, was a hint of his own failing strength, just in
time. The first night after the washing of the body, he bore stoutly enough the
tax which affection seemed to demand, throwing the incense from time to time on
the little altar placed beside the bier. It was the recurrence of the thing—that
unchanged outline below the coverlet, amid a silence in which the faintest
rustle seemed to speak—that finally overcame his determination. Surely, here,
in this alienation, this sense of distance between them, which had come over
him before though in minor degree when the mind of Flavian had wandered in his
sickness, was another of the pains of death. Yet he was able to make all due
preparations, and go through the ceremonies, shortened a little because of the
infection, when, on a cloudless evening, the funeral procession went forth;
himself, the flames of the pyre having done their work, carrying away the urn
of the deceased, in the folds of his toga, to its last resting-place in the
cemetery beside the highway, and so turning home to sleep in his own desolate
lodging. Quis desiderio sit pudor aut modus Tam cari
capitis?—+ What thought of others’ thoughts about one could there
be with the regret for “so dear a head” fresh at one’s heart? NOTES
116. +Lucretius, Book VI.1153. 120. +Horace, Odes
I.xxiv.1-2. Animula, vagula, blandula Hospes comesque corporis, Quae nunc
abibis in loca? Pallidula, rigida, nudula. The Emperor Hadrian to
his Soul Flavian was no more. The little marble chest with its dust
and tears lay cold among the faded flowers. For most people the actual
spectacle of death brings out into greater reality, at least for the
imagination, whatever confidence they may entertain of the soul’s survival in
another life. To Marius, greatly agitated by that event, the earthly end of
Flavian came like a final revelation of nothing less than the soul’s
extinction. Flavian had gone out as utterly as the fire among those still
beloved ashes. Even that wistful suspense of judgment expressed by the dying
Hadrian, regarding further stages of being still possible for the soul in some
dim journey hence, seemed wholly untenable, and, with it, almost all that
remained of the religion of his childhood. Future extinction seemed just then
to be what the unforced witness of his own nature pointed to. On the other
hand, there came a novel curiosity as to what the various schools of ancient
philosophy had had to say concerning that strange, fluttering creature; and
that curiosity impelled him to certain severe studies, in which his earlier
religious conscience seemed still to survive, as a principle of hieratic
scrupulousness or integrity of thought, regarding this new service to
intellectual light. At this time, by his poetic and inward temper, he
might have fallen a prey to the enervating mysticism, then in wait for ardent
souls in many a melodramatic revival of old religion or theosophy. From all
this, fascinating as it might actually be to one side of his character, he was
kept by a genuine virility there, effective in him, among other results, as a hatred
of what was theatrical, and the instinctive recognition that in vigorous
intelligence, after all, divinity was most likely to be found a resident. With
this was connected the feeling, increasing with his advance to manhood, of a
poetic beauty in mere clearness of thought, the actually aesthetic charm of a
cold austerity of mind; as if the kinship of that to the clearness of physical
light were something more than a figure of speech. Of all those various
religious fantasies, as so many forms of enthusiasm, he could well appreciate
the picturesque; that was made easy by his natural Epicureanism, already
prompting him to conceive of himself as but the passive spectator of the world
around him. But it was to the severer reasoning, of which such matters as
Epicurean theory are born, that, in effect, he now betook himself.
Instinctively suspicious of those mechanical arcana, those pretended “secrets
unveiled” of the professional mystic, which really bring great and little souls
to one level, for Marius the only possible dilemma lay between that old,
ancestral Roman religion, now become so incredible to him and the honest action
of his own untroubled, unassisted intelligence. Even the Arcana Celestia of
Platonism—what the sons of Plato had had to say regarding the essential
indifference of pure soul to its bodily house and merely occasional
dwelling-place—seemed to him while his heart was there in the urn with the
material ashes of Flavian, or still lingering in memory over his last agony,
wholly inhuman or morose, as tending to alleviate his resentment at nature’s
wrong. It was to the sentiment of the body, and the affections it defined—the
flesh, of whose force and colour that wandering Platonic soul was but so frail
a residue or abstract—he must cling. The various pathetic traits of the
beloved, suffering, perished body of Flavian, so deeply pondered, had made him
a materialist, but with something of the temper of a devotee. As a
consequence it might have seemed at first that his care for poetry had passed
away, to be replaced by the literature of thought. His much-pondered manuscript
verses were laid aside; and what happened now to one, who was certainly to be
something of a poet from first to last, looked at the moment like a change from
poetry to prose. He came of age about this time, his own master though with
beardless face; and at eighteen, an age at which, then as now, many youths of
capacity, who fancied themselves poets, secluded themselves from others chiefly
in affectation and vague dreaming, he secluded himself indeed from others, but
in a severe intellectual meditation, that salt of poetry, without which all the
more serious charm is lacking to the imaginative world. Still with something of
the old religious earnestness of hischildhood, he set himself—Sich im Denken zu
orientiren—to determine his bearings, as by compass, in the world of thought—to
get that precise acquaintance with the creative intelligence itself, its
structure and capacities, its relation to other parts of himself and to other things,
without which, certainly, no poetry can be masterly. Like a young man rich
in this world’s goods coming of age, he must go into affairs, and ascertain his
outlook. There must be no disguises. An exact estimate of realities, as towards
himself, he must have—a delicately measured gradation of certainty in
things—from the distant, haunted horizon of mere surmise or imagination, to the
actual feeling of sorrow in his heart, as he reclined one morning, alone
instead of in pleasant company, to ponder the hard sayings of an imperfect old
Greek manuscript, unrolled beside him. His former gay companions, meeting him
in the streets of the old Italian town, and noting the graver lines coming into
the face of the sombre but enthusiastic student of intellectual structure, who
could hold his own so well in the society of accomplished older men, were half
afraid of him, though proud to have him of their company. Why this
reserve?—they asked, concerning the orderly, self-possessed youth, whose speech
and carriage seemed so carefully measured, who was surely no poet like the
rapt, dishevelled Lupus. Was he secretly in love, perhaps, whose toga was so
daintily folded, and who was always as fresh as the flowers he wore; or bent on
his own line of ambition: or even on riches? Marius, meantime, was
reading freely, in early morning for the most part, those writers chiefly who
had made it their business to know what might be thought concerning that
strange, enigmatic, personal essence, which had seemed to go out altogether,
along with the funeral fires. And the old Greek who more than any other was now
giving form to his thoughts was a very hard master. From Epicurus, from the
thunder and lightning of Lucretius—like thunder and lightning some distance
off, one might recline to enjoy, in a garden of roses—he had gone back to the
writer who was in a ce rtain sense the teacher of both, Heraclitus of
Ionia. His difficult book “Concerning Nature” was even then rare, for people
had long since satisfied themselves by the quotation of certain brilliant,
isolated, oracles only, out of what was at best a taxing kind of lore. But the
difficulty of the early Greek prose did but spur the curiosity of Marius; the
writer, the superior clearness of whose intellectual view had so sequestered
him from other men, who had had so little joy of that superiority, being
avowedly exacting as to the amount of devout attention he required from the
student. “The many,” he said, always thus emphasising the difference between
the many and the few, are “like people heavy with wine,” “led by children,”
“knowing not whither they go;” and yet, “much learning doth not make wise;” and
again, “the ass, after all, would have his thistles rather than fine
gold.” Heraclitus, indeed, had not under-rated the difficulty for “the
many” of the paradox with which his doctrine begins, and the due reception of
which must involve a denial of habitual impressions, as the necessary first
step in the way of truth. His philosophy had been developed in conscious,
outspoken opposition to the current mode of thought, as a matter requiring some
exceptional loyalty to pure reason and its “dry light.” Men are subject to
an illusion, he protests, regarding matters apparent to sense. What the
uncorrected sense gives was a false impression of permanence or fixity in
things, which have really changed their nature in the very moment in which we
see and touch them. And the radical flaw in the current mode of thinking would
lie herein: that, reflecting this false or uncorrected sensation, it attributes
to the phenomena of experience a durability which does not really belong to
them. Imaging forth from those fluid impressions a world of firmly out-lined
objects, it leads one to regard as a thing stark and dead what is in reality
full of animation, of vigour, of the fire of life—that eternal process of
nature, of which at a later time Goethe spoke as the “Living Garment,” whereby
God is seen of us, ever in weaving at the “Loom of Time.” And the appeal
which the old Greek thinker made was, in the first instance, from confused to
unconfused sensation; with a sort of prophetic seriousness, a great claim and
assumption, such as we may understand, if we anticipate in this preliminary
scepticism the ulterior scope of his speculation, according to which the universal
movement of all natural things is but one particular stage, or measure, of that
ceaseless activity wherein the divine reason consists. The one true being—that
constant subject of all early thought—it was his merit to have conceived, not
as sterile and stagnant inaction, but as a perpetual energy, from the restless
stream of which, at certain points, some elements detach themselves, and harden
into non-entity and death, corresponding, as outward objects, to man’s inward
condition of ignorance: that is, to the slowness of his faculties. It is with
this paradox of a subtle, perpetual change in all visible things, that the high
speculation of Heraclitus begins. Hence the scorn he expresses for anything
like a careless, half-conscious, “use-and-wont” reception of our experience,
which took so strong a hold on men’s memories! Hence those many precepts
towards a strenuous self-consciousness in all we think and do, that loyalty to
cool and candid reason, which makes strict attentiveness of mind a kind of religious
duty and service. The negative doctrine, then, that the objects of our
ordinary experience, fixed as they seem, are really in perpetual change, had
been, as originally conceived, but the preliminary step towards a large
positive system of almost religious philosophy. Then as now, the illuminated
philosophic mind might apprehend, in what seemed a mass of lifeless matter, the
movement of that universal life, in which things, and men’s impressions of
them, were ever “coming to be,” alternately consumed and renewed. That
continual change, to be discovered by the attentive understanding where
common opinion found fixed objects, was but the indicator of a subtler but
all-pervading motion—the sleepless, ever-sustained, inexhaustible energy of the
divine reason itself, proceeding always by its own rhythmical logic, and
lendingto all mind and matter, in turn, what life they had. In this “perpetual
flux” of things and of souls, there was, as Heraclitus conceived, a
continuance, if not of their material or spiritual elements, yet of orderly
intelligible relationships, like the harmony of musical notes, wrought out in
and through the series of their mutations—ordinances of the divine reason,
maintained throughout the changes of the phenomenal world; and this harmony in
their mutation and opposition, was, after all, a principle of sanity, of
reality, there. But it happened, that, of all this, the first, merely sceptical
or negative step, that easiest step on the threshold, had alone remained in
general memory; and the “doctrine of motion” seemed to those who had felt its
seduction to make all fixed knowledge impossible. The swift passage of things,
the still swifter passage of those modes of our conscious being which seemed to
reflect them, might indeed be the burning of the divine fire: but what was
ascertained was that they did pass away like a devouring flame, or like the
race of water in the mid-stream—too swiftly for any real knowledge of them to
be attainable. Heracliteanism had grown to be almost identical with the famous
doctrine of the sophist Protagoras, that the momentary, sensible apprehension
of the individual was the only standard of what is or is not, and each one the
measure of all things to himself. The impressive name of Heraclitus had become
but an authority for a philosophy of the despair of knowledge. And as it
had been with his original followers in Greece, so it happened now with the
later Roman disciple. He, too, paused at the apprehension of that constant
motion of things—the drift of flowers, of little or great souls, of ambitious
systems, in the stream around him, the first source, the ultimate issue, of
which, in regions out of sight, must count with him as but a dim problem. The
bold mental flight of the old Greek master from the fleeting, competing objects
of experience to that one universal life, in which the whole sphere of physical
change might be reckoned as but a single pulsation, remained by him as
hypothesis only—the hypothesis he actually preferred, as in itself most
credible, however scantily realisable even by the imagination—yet still as but
one unverified hypothesis, among many others, concerning the first principle of
things. He might reserve it as a fine, high, visionary consideration, very
remote upon the intellectual ladder, just at the point, indeed, where that
ladder seemed to pass into the clouds, but for which there was certainly no
time left just now by his eager interest in the real objects so close to him,
on the lowlier earthy steps nearest the ground. And those childish days of
reverie, when he played at priests, played in many another day-dream, working
his way from the actual present, as far as he might, with a delightful sense of
escape in replacing the outer world of other people by an inward world as
himself really cared to have it, had made him a kind of “idealist.” He was
become aware of the possibility of a large dissidence between an inward and
somewhat exclusive world of vivid personal apprehension, and the unimproved,
unheightened reality of the life of those about him. As a consequence, he was
ready now to concede, somewhat more easily than others, the first point of his
new lesson, that the individual is to himself the measure of all things, and to
rely on the exclusive certainty to himself of his own impressions. To move
afterwards in that outer world of other people, as though taking it at their
estimate, would be possible henceforth only as a kind of irony. And as with the
Vicaire Savoyard, after reflecting on the variations of philosophy, “the first
fruit he drew from that reflection was the lesson of a limitation of his
researches to what immediately interested him; to rest peacefully in a profound
ignorance as to all beside; to disquiet himself only concerning those things
which it was of import for him to know.” At least he would entertain no theory
of conduct which did not allow its due weight to this primary element of
incertitude or negation, in the conditions of man’s life. Just here he joined
company, retracing in his individual mental pilgrimage the historic order of
human thought, with another wayfarer on the journey, another ancient Greek
master, the founder of the Cyrenaic philosophy, whose weighty traditional
utterances (for he had left no writing) served in turn to give effective
outline to the contemplations of Marius. There was something in the doctrine
itself congruous with the place wherein it had its birth; and for a time Marius
lived much, mentally, in the brilliant Greek colony which had given a dubious
name to the philosophy of pleasure. It hung, for his fancy, between the
mountains and the sea, among richer than Italian gardens, on a certain breezy
table-land projecting from the African coast, some hundreds of miles southward
from Greece. There, in a delightful climate, with something of transalpine
temperance amid its luxury, and withal in an inward atmosphere of temperance
which did but further enhance the brilliancy of human life, the school of
Cyrene had maintained itself as almost one with the family of its founder;
certainly as nothing coarse or unclean, and under the influence of accomplished
women. Aristippus of Cyrene too had left off in suspense of judgment as
to what might really lie behind—flammantia moenia mundi: the flaming ramparts
of the world. Those strange, bold, sceptical surmises, which had haunted the
minds of the first Greek enquirers as merely abstract doubt, which had been
present to the mind of Heraclitus as one element only in a system of abstract
philosophy, became with Aristippus a very subtly practical worldly-wisdom. The
difference between him and those obscure earlier thinkers is almost like that
between an ancient thinker generally, and a modern man of the world: it was the
difference between the mystic in his cell, or the prophet in the desert, and
the expert, cosmopolitan, administrator of his dark sayings, translating the
abstract thoughts of the master into terms, first of all, of sentiment. It has
been sometimes seen, in the history of the human mind, that when thus
translated into terms of sentiment—of sentiment, as lying already half-way
towards practice—the abstract ideas of metaphysics for the first time reveal
their true significance. The metaphysical principle, in itself, as it were,
without hands or feet, becomes impressive, fascinating, of effect, when
translated into a precept as to how it were best to feel and act; in other
words, under its sentimental or ethical equivalent. The leading idea of the
great master of Cyrene, his theory that things are but shadows, and that we,
even as they, never continue in one stay, might indeed have taken effect as a
languid, enervating, consumptive nihilism, as a precept of “renunciation,”
which would touch and handle and busy itself with nothing. But in the reception
of metaphysical formulae, all depends, as regards their actual and ulterior
result, on the pre-existent qualities of that soil of human nature into which
they fall—the company they find already present there, on their admission into
the house of thought; there being at least so much truth as this involves in
the theological maxim, that the reception of this or that speculative
conclusion is really a matter of will. The persuasion that all is vanity, with
this happily constituted Greek, who had been a genuine disciple of Socrates and
reflected, presumably, something of his blitheness in the face of the world,
his happy way of taking all chances, generated neither frivolity nor sourness,
but induced, rather, an impression, just serious enough, of the call upon men’s
attention of the crisis in which they find themselves. It became the stimulus
towards every kind of activity, and prompted a perpetual, inextinguishable
thirst after experience. With Marius, then, the influence of the
philosopher of pleasure depended on this, that in him an abstract doctrine, originally
somewhat acrid, had fallen upon a rich and genial nature, well fitted to
transform it into a theory of practice, of considerable stimulative power
towards a fair life. What Marius saw in him was the spectacle of one of the
happiest temperaments coming, so to speak, to an understanding with the most
depressing of theories; accepting the results of a metaphysical system which
seemed to concentrate into itself all the weakening trains of thought in
earlier Greek speculation, and making the best of it; turning its hard, bare
truths, with wonderful tact, into precepts of grace, and delicate wisdom, and a
delicate sense of honour. Given the hardest terms, supposing our days are
indeed but a shadow, even so, we may well adorn and beautify, in scrupulous self-respect,
our souls, and whatever our souls touch upon—these wonderful bodies, these
material dwelling-places through which the shadows pass together for a while,
the very raiment we wear, our very pastimes and the intercourse of society. The
most discerning judges saw in him something like the graceful “humanities” of
the later Roman, and our modern “culture,” as it is termed; while Horace
recalled his sayings as expressing best his own consummate amenity in the
reception of life. In this way, for Marius, under the guidance of that
old master of decorous living, those eternal doubts as to the criteria of truth
reduced themselves to a scepticism almost drily practical, a scepticism which
developed the opposition between things as they are and our impressions and
thoughts concerning them—the possibility, if an outward world does really
exist, of some faultiness in our apprehension of it—the doctrine, in short, of
what is termed “the subjectivity of knowledge.” That is a consideration,
indeed, which lies as an element of weakness, like some admitted fault or flaw,
at the very foundation of every philosophical account of the universe; which
confronts all philosophies at their starting, but with which none have really
dealt conclusively, some perhaps not quite sincerely; which those who are not
philosophers dissipate by “common,” but unphilosophical, sense, or by religious
faith. The peculiar strength of Marius was, to have apprehended this weakness
on the threshold of human knowledge, in the whole range of its consequences.
Our knowledge is limited to what we feel, he reflected: we need no proof that
we feel. But can we be sure that things are at all like our feelings? Mere
peculiarities in the instruments of our cognition, like the little knots and
waves on the surface of a mirror, may distort the matter they seem but to
represent. Of other people we cannot truly know even the feelings, nor how far
they would indicate the same modifications, each one of a personality really
unique, in using the same terms as ourselves; that “common experience,” which
is sometimes proposed as a satisfactory basis of certainty, being after all
only a fixity of language. But our own impressions!—The light and heat of that
blue veil over our heads, the heavens spread out, perhaps not like a curtain
over anything!—How reassuring, after so long a debate about the rival criteria
of truth, to fall back upon direct sensation, to limit one’s aspirations after
knowledge to that! In an age still materially so brilliant, so expert in the
artistic handling of material things, with sensible capacities still in
undiminished vigour, with the whole world of classic art and poetry outspread
before it, and where there was more than eye or ear could well take in—how
natural the determination to rely exclusively upon the phenomena of the senses,
which certainly never deceive us about themselves, about which alone we can
never deceive ourselves! And so the abstract apprehension that the little
point of this present moment alone really is, between a past which has just
ceased to be and a future which may never come, became practical with Marius,
under the form of a resolve, as far as possible, to exclude regret and desire,
and yield himself to the improvement of the present with an absolutely disengaged
mind. America is here and now—here, or nowhere: as Wilhelm Meister finds out
one day, just not too late, after so long looking vaguely across the ocean for
the opportunity of the development of his capacities. It was as if, recognising
in perpetual motion the law of nature, Marius identified his own way of life
cordially with it, “throwing himself into the stream,” so to speak. He too must
maintain a harmony with that soul of motion in things, by constantly renewed
mobility of character. Omnis Aristippum decuit color et status et
res.— Thus Horace had summed up that perfect manner in the
reception of life attained by his old Cyrenaic master; and the first practical
consequence of the metaphysic which lay behind that perfect manner, had been a
strict limitation, almost the renunciation, of metaphysical enquiry itself.
Metaphysic—that art, as it has so often proved, in the words of Michelet, _de
s’égarer avec méthode_, of bewildering oneself methodically:—one must spend
little time upon that! In the school of Cyrene, great as was its mental
incisiveness, logical and physical speculation, theoretic interests generally,
had been valued only so far as they served to give a groundwork, an
intellectual justification, to that exclusive concern with practical ethics which
was a note of the Cyrenaic philosophy. How earnest and enthusiastic, how true
to itself, under how many varieties of character, had been the effort of the
Greeks after Theory—Theôria—that vision of a wholly reasonable world, which,
according to the greatest of them, literally makes man like God: how loyally
they had still persisted in the quest after that, in spite of how many
disappointments! In the Gospel of Saint John, perhaps, some of them might have
found the kind of vision they were seeking for; but not in “doubtful
disputations” concerning “being” and “not being,” knowledge and appearance.
Men’s minds, even young men’s minds, at that late day, might well seem
oppressed by the weariness of systems which had so far outrun positive
knowledge; and in the mind of Marius, as in that old school of Cyrene, this
sense of ennui, combined with appetites so youthfully vigorous, brought about
reaction, a sort of suicide (instances of the like have been seen since) by
which a great metaphysical acumen was devoted to the function of proving
metaphysical speculation impossible, or useless. Abstract theory was to be
valued only just so far as it might serve to clear the tablet of the mind from
suppositions no more than half realisable, or wholly visionary, leaving it in
flawless evenness of surface to the impressions of an experience, concrete and
direct. To be absolutely virgin towards such experience, by ridding
ourselves of such abstractions as are but the ghosts of bygone impressions—to
be rid of the notions we have made for ourselves, and that so often only
misrepresent the experience of which they profess to be the
representation—_idola_, idols, false appearances, as Bacon calls them later—to
neutralise the distorting influence of metaphysical system by an all-accomplished
metaphysic skill: it is this bold, hard, sober recognition, under a very “dry
light,” of its own proper aim, in union with a habit of feeling which on the
practical side may perhaps open a wide doorway to human weakness, that gives to
the Cyrenaic doctrine, to reproductions of this doctrine in the time of Marius
or in our own, their gravity and importance. It was a school to which the young
man might come, eager for truth, expecting much from philosophy, in no ignoble
curiosity, aspiring after nothing less than an “initiation.” He would be sent
back, sooner or later, to experience, to the world of concrete impressions, to
things as they may be seen, heard, felt by him; but with a wonderful machinery
of observation, and free from the tyranny of mere theories. So, in
intervals of repose, after the agitation which followed the death of Flavian,
the thoughts of Marius ran, while he felt himself as if returned to the fine,
clear, peaceful light of that pleasant school of healthfully sensuous wisdom, in
the brilliant old Greek colony, on its fresh upland by the sea. Not pleasure,
but a general completeness of life, was the practical ideal to which this
anti-metaphysical metaphysic really pointed. And towards such a full or
complete life, a life of various yet select sensation, the most direct and
effective auxiliary must be, in a word, Insight. Liberty of soul, freedom from
all partial and misrepresentative doctrine which does but relieve one element
in our experience at the cost of another, freedom from all embarrassment alike
of regret for the past and of calculation on the future: this would be but
preliminary to the real business of education—insight, insight through culture,
into all that the present moment holds in trust for us, as we stand so briefly
in its presence. From that maxim of Life as the end of life, followed, as a
practical consequence, the desirableness of refining all the instruments of
inward and outward intuition, of developing all their capacities, of testing
and exercising one’s self in them, till one’s whole nature became one complex
medium of reception, towards the vision—the “beatific vision,” if we really
cared to make it such—of our actual experience in the world. Not the conveyance
of an abstract body of truths or principles, would be the aim of the right
education of one’s self, or of another, but the conveyance of an art—an art in
some degree peculiar to each individual character; with the modifications, that
is, due to its special constitution, and the peculiar circumstances of its
growth, inasmuch as no one of us is “like another, all in all.” Such were
the practical conclusions drawn for himself by Marius, when somewhat later he
had outgrown the mastery of others, from the principle that “all is vanity.” If
he could but count upon the present, if a life brief at best could not
certainly be shown to conduct one anywhere beyond itself, if men’s highest
curiosity was indeed so persistently baffled—then, with the Cyrenaics of all
ages, he would at least fill up the measure of that present with vivid
sensations, and such intellectual apprehensions, as, in strength and directness
and their immediately realised values at the bar of an actual experience, are
most like sensations. So some have spoken in every age; for, like all theories
which really express a strong natural tendency of the human mind or even one of
its characteristic modes of weakness, this vein of reflection is a constant
tradition in philosophy. Every age of European thought has had its Cyrenaics or
Epicureans, under many disguises: even under the hood of the monk.
But—Let us eat and drink, for to-morrow we die!—is a proposal, the real import
of which differs immensely, according to the natural taste, and the acquired
judgment, of the guests who sit at the table. It may express nothing better
than the instinct of Dante’s Ciacco, the accomplished glutton, in the mud of
the Inferno;+ or, since on no hypothesis does man “live by bread alone,” may
come to be identical with—“My meat is to do what is just and kind;” while the
soul, which can make no sincere claim to have apprehended anything beyond the
veil of immediate experience, yet never loses a sense of happiness in
conforming to the highest moral ideal it can clearly define for itself; and
actually, though but with so faint hope, does the “Father’s business.” In
that age of Marcus Aurelius, so completely disabused of the metaphysical
ambition to pass beyond “the flaming ramparts of the world,” but, on the other
hand, possessed of so vast an accumulation of intellectual treasure, with so
wide a view before it over all varieties of what is powerful or attractive in
man and his works, the thoughts of Marius did but follow the line taken by the
majority of educated persons, though to a different issue. Pitched to a really
high and serious key, the precept—Be perfect in regard to what is here and now:
the precept of “culture,” as it is called, or of a complete education—might at
least save him from the vulgarity and heaviness of a generation, certainly of
no general fineness of temper, though with a material well-being abundant
enough. Conceded that what is secure in our existence is but the sharp apex of
the present moment between two hypothetical eternities, and all that is real in
our experience but a series of fleeting impressions:—so Marius continued the
sceptical argument he had condensed, as the matter to hold by, from his various
philosophical reading:—given, that we are never to get beyond the walls of the
closely shut cell of one’s own personality; that the ideas we are somehow
impelled to form of an outer world, and of other minds akin to our own, are, it
may be, but a day-dream, and the thought of any world beyond, a day-dream
perhaps idler still: then, he, at least, in whom those fleeting
impressions—faces, voices, material sunshine—were very real and imperious,
might well set himself to the consideration, how such actual moments as they
passed might be made to yield their utmost, by the most dexterous training of
capacity. Amid abstract metaphysical doubts, as to what might lie one step only
beyond that experience, reinforcing the deep original materialism or
earthliness of human nature itself, bound so intimately to the sensuous world,
let him at least make the most of what was “here and now.” In the actual dimness
of ways from means to ends—ends in themselves desirable, yet for the most part
distant and for him, certainly, below the visible horizon—he would at all
events be sure that the means, to use the well-worn terminology, should have
something of finality or perfection about them, and themselves partake, in a
measure, of the more excellent nature of ends—that the means should justify the
end. With this view he would demand culture, paideia,+ as the Cyrenaics
said, or, in other words, a wide, a complete, education—an education partly
negative, as ascertaining the true limits of man’s capacities, but for the most
part positive, and directed especially to the expansion and refinement of the
power of reception; of those powers, above all, which are immediately relative
to fleeting phenomena, the powers of emotion and sense. In such an education,
an “aesthetic” education, as it might now be termed, and certainly occupied
very largely with those aspects of things which affect us pleasurably through
sensation, art, of course, including all the finer sorts of literature, would
have a great part to play. The study of music, in that wider Platonic sense,
according to which, music comprehends all those matters over which the Muses of
Greek mythology preside, would conduct one to an exquisite appreciation of all
the finer traits of nature and of man. Nay! the products of the imagination
must themselves be held to present the most perfect forms of life—spirit and
matter alike under their purest and most perfect conditions—the most strictly
appropriate objects of that impassioned contemplation, which, in the world of
intellectual discipline, as in the highest forms of morality and religion, must
be held to be the essential function of the “perfect.” Such manner of life
might come even to seem a kind of religion—an inward, visionary, mystic piety,
or religion, by virtue of its effort to live days “lovely and pleasant” in
themselves, here and now, and with an all-sufficiency of well-being in the
immediate sense of the object contemplated, independently of any faith, or hope
that might be entertained as to their ulterior tendency. In this way, the true
aesthetic culture would be realisable as a new form of the contemplative life,
founding its claim on the intrinsic “blessedness” of “vision”—the vision of
perfect men and things. One’s human nature, indeed, would fain reckon on an
assured and endless future, pleasing itself with the dream of a final home, to
be attained at some still remote date, yet with a conscious, delightful home-coming
at last, as depicted in many an old poetic Elysium. On the other hand, the
world of perfected sensation, intelligence, emotion, is so close to us, and so
attractive, that the most visionary of spirits must needs represent the world
unseen in colours, and under a form really borrowed from it. Let me be sure
then—might he not plausibly say?—that I miss no detail of this life of realised
consciousness in the present! Here at least is a vision, a theory, theôria,+
which reposes on no basis of unverified hypothesis, which makes no call upon a
future after all somewhat problematic; as it would be unaffected by any
discovery of an Empedocles(improving on the old story of Prometheus) as to what
had really been the origin, and course of development, of man’s actually
attained faculties and that seemingly divine particle of reason or spirit in
him. Such a doctrine, at more leisurable moments, would of course have its
precepts to deliver on the embellishment, generally, of what is near at hand,
on the adornment of life, till, in a not impracticable rule of conduct, one’s
existence, from day to day, came to be like a well-executed piece of music;
that “perpetual motion” in things (so Marius figured the matter to himself,
under the old Greek imageries) according itself to a kind of cadence or
harmony. It was intelligible that this “aesthetic” philosophy might find
itself (theoretically, at least, and by way of a curious question in casuistry,
legitimate from its own point of view) weighing the claims of that eager,
concentrated, impassioned realisation of experience, against those of the
received morality. Conceiving its own function in a somewhat desperate temper,
and becoming, as every high-strung form of sentiment, as the religious
sentiment itself, may become, somewhat antinomian, when, in its effort towards
the order of experiences it prefers, it is confronted with the traditional and
popular morality, at points where that morality may look very like a
convention, or a mere stage-property of the world, it would be found, from time
to time, breaking beyond the limits of the actual moral order; perhaps not
without some pleasurable excitement in so bold a venture. With the
possibility of some such hazard as this, in thought or even in practice—that it
might be, though refining, or tonic even, in the case of those strong and in
health, yet, as Pascal says of the kindly and temperate wisdom of Montaigne,
“pernicious for those who have any natural tendency to impiety or vice,” the
line of reflection traced out above, was fairly chargeable.—Not, however, with
“hedonism” and its supposed consequences. The blood, the heart, of Marius were
still pure. He knew that his carefully considered theory of practice braced
him, with the effect of a moral principle duly recurring to mind every morning,
towards the work of a student, for which he might seem intended. Yet there were
some among his acquaintance who jumped to the conclusion that, with the
“Epicurean stye,” he was making pleasure—pleasure, as they so poorly conceived
it—the sole motive of life; and they precluded any exacter estimate of the
situation by covering it with a high-sounding general term, through the
vagueness of which they were enabled to see the severe and laborious youth in
the vulgar company of Lais. Words like “hedonism”— terms of large and vague
comprehension—above all when used for a purpose avowedly controversial, have
ever been the worst examples of what are called “question-begging terms;” and
in that late age in which Marius lived, amid the dust of so many centuries of
philosophical debate, the air was full of them. Yet those who used that
reproachful Greek term for the philosophy of pleasure, were hardly more likely
than the old Greeks themselves (on whom regarding this very subject of the
theory of pleasure, their masters in the art of thinking had so emphatically to
impress the necessity of “making distinctions”) to come to any very delicately
correct ethical conclusions by a reasoning, which began with a general term,
comprehensive enough to cover pleasures so different in quality, in their
causes and effects, as the pleasures of wine and love, of art and science, of
religious enthusiasm and political enterprise, and of that taste or curiosity
which satisfied itself with long days of serious study. Yet, in truth, each of
those pleasurable modes of activity, may, in its turn, fairly become the ideal
of the “hedonistic” doctrine. Really, to the phase of reflection through which
Marius was then passing, the charge of “hedonism,” whatever its true weight might
be, was not properly applicable at all. Not pleasure, but fulness of life, and
“insight” as conducting to that fulness—energy, variety, and choice of
experience, including noble pain and sorrow even, loves such as those in the
exquisite old story of Apuleius, sincere and strenuous forms of the moral life,
such as Seneca and Epictetus—whatever form of human life, in short, might be
heroic, impassioned, ideal: from these the “new Cyrenaicism” of Mariustook its
criterion of values. It was a theory, indeed, which might properly be regarded
as in great degree coincident with the main principle of the Stoics themselves,
and an older version of the precept “Whatsoever thy hand findeth to do, do it
with thy might”—a doctrine so widely acceptable among the nobler spirits of
that time. And, as with that, its mistaken tendency would lie in the direction
of a kind of idolatry of mere life, or natural gift, or strength—l’idôlatrie
des talents. To understand the various forms of ancient art and thought,
the various forms of actual human feeling (the only new thing, in a world
almost too opulent in what was old) to satisfy, with a kind of scrupulous
equity, the claims of these concrete and actual objects on his sympathy, his
intelligence, his senses—to “pluck out the heart of their mystery,” and in turn
become the interpreter of them to others: this had now defined itself for
Marius as a very narrowly practical design: it determined his choice of a
vocation to live by. It was the era of the rhetoricians, or sophists, as they
were sometimes called; of men who came in some instances to great fame and
fortune, by way of a literary cultivation of “science.” That science, it has
been often said, must have been wholly an affair of words. But in a world,
confessedly so opulent in what was old, the work, even of genius, must
necessarily consist very much in criticism; and, in the case of the more
excellent specimens of his class, the rhetorician was, after all, the eloquent
and effective interpreter, for the delighted ears of others, of what
understanding himself had come by, in years of travel and study, of the
beautiful house of art and thought which was the inheritance of the age. The
emperor Marcus Aurelius, to whose service Marius had now been called, was
himself, more or less openly, a “lecturer.” That late world, amid many
curiously vivid modern traits, had this spectacle, so familiar to ourselves, of
the public lecturer or essayist; in some cases adding to his other gifts that
of the Christian preacher, who knows how to touch people’s sensibilities on
behalf of the suffering. To follow in the way of these successes, was the
natural instinct of youthful ambition; and it was with no vulgar egotism that
Marius, at the age of nineteen, determined, like many another young man of parts,
to enter as a student of rhetoric at Rome. Though the manner of his work
was changed formally from poetry to prose, he remained, and must always be, of
the poetic temper: by which, I mean, among other things, that quite
independently of the general habit of that pensive age he lived much, and as it
were by system, in reminiscence. Amid his eager grasping at the sensation, the
consciousness, of the present, he had come to see that, after all, the main
point of economy in the conduct of the present, was the question:—How will it
look to me, at what shall I value it, this day next year?—that in any given day
or month one’s main concern was its impression for the memory. A strange trick
memory sometimes played him; for, with no natural gradation, what was of last
month, or of yesterday, of to-day even, would seem as far off, as entirely
detached from him, as things of ten years ago. Detached from him, yet very
real, there lay certain spaces of his life, in delicate perspective, under a
favourable light; and, somehow, all the less fortunate detail and circumstance
had parted from them. Such hours were oftenest those in which he had been
helped by work of others to the pleasurable apprehension of art, of nature, or
of life. “Not what I do, but what I am, under the power of this vision”—he
would say to himself—“is what were indeed pleasing to the gods!” And yet,
with a kind of inconsistency in one who had taken for his philosophic ideal the
monochronos hêdonê+ of Aristippus—the pleasure of the ideal present, of the
mystic now—there would come, together with that precipitate sinking of things
into the past, a desire, after all, to retain “what was so transitive.” Could
he but arrest, for others also, certain clauses of experience, as the
imaginative memory presented them to himself! In those grand, hot summers, he
would have imprisoned the very perfume of the flowers. To create, to live,
perhaps, a little while beyond the allotted hours, if it were but in a fragment
of perfect expression:—it was thus his longing defined itself for something to
hold by amid the “perpetual flux.” With men of his vocation, people were apt to
say, words were things. Well! with him, words should be indeed things,—the
word, the phrase, valuable in exact proportion to the transparency with which
it conveyed to others the apprehension, the emotion, the mood, so vividly real
within himself. Verbaque provisam rem non invita sequentur:+ Virile
apprehension of the true nature of things, of the true nature of one’s own
impression, first of all!—words would follow that naturally, a true
understanding of one’s self being ever the first condition of genuine style.
Language delicate and measured, the delicate Attic phrase, for instance, in
which the eminent Aristeides could speak, was then a power to which people’s
hearts, and sometimes even their purses, readily responded. And there were many
points, as Marius thought, on which the heart of that age greatly needed to be
touched. He hardly knew how strong that old religious sense of responsibility, the
conscience, as we call it, still was within him—a body of inward impressions,
as real as those so highly valued outward ones—to offend against which, brought
with it a strange feeling of disloyalty, as to a person. And the determination,
adhered to with no misgiving, to add nothing, not so much as a transient sigh,
to the great total of men’s unhappiness, in his way through the world:—that too
was something to rest on, in the drift of mere “appearances.” All this
would involve a life of industry, of industrious study, only possible through
healthy rule, keeping clear the eye alike of body and soul. For the male
element, the logical conscience asserted itself now, with opening
manhood—asserted itself, even in his literary style, by a certain firmness of
outline, that touch of the worker in metal, amid its richness. Already he
blamed instinctively alike in his work and in himself, as youth so seldom does,
all that had not passed a long and liberal process of erasure. The happy phrase
or sentence was really modelled upon a cleanly finished structure of scrupulous
thought. The suggestive force of the one master of his development, who had
battled so hard with imaginative prose; the utterance, the golden utterance, of
the other, so content with its living power of persuasion that he had never
written at all,—in the commixture of these two qualities he set up his literary
ideal, and this rare blending of grace with an intellectual rigour or
astringency, was the secret of a singular expressiveness in it. He
acquired at this time a certain bookish air, the somewhat sombre habitude of
the avowed scholar, which though it never interfered with the perfect tone,
“fresh and serenely disposed,” of the Roman gentleman, yet qualified it as by
an interesting oblique trait, and frightened away some of his equals in age and
rank. The sober discretion of his thoughts, his sustained habit of meditation,
the sense of those negative conclusions enabling him to concentrate himself,
with an absorption so entire, upon what is immediately here and now, gave him a
peculiar manner of intellectual confidence, as of one who had indeed been
initiated into a great secret.—Though with an air so disengaged, he seemed to
be living so intently in the visible world! And now, in revolt against that
pre-occupation with other persons, which had so often perturbed his spirit, his
wistful speculations as to what the real, the greater, experience might be,
determined in him, not as the longing for love—to be with Cynthia, or
Aspasia—but as a thirst for existence in exquisite places. The veil that was to
be lifted for him lay over the works of the old masters of art, in places where
nature also had used her mastery. And it was just at this moment that a summons
to Rome reached him. NOTES 145. +Canto VI. 147.
+Transliteration: paideia. Definition “rearing, education.” 149.
+Transliteration: theôria. Definition “a looking at ... observing ...
contemplation.” 154. +Transliteration: monochronos hêdonê. Pater’s
definition “the pleasure of the ideal present, of the mystic now.” The
definition is fitting; the unusual adjective monokhronos means, literally,
“single or unitary time.” 155. +Horace, Ars Poetica 311. +Etext
editor’s translation: “The subject once foreknown, the words will follow easily.” Mirum
est ut animus agitatione motuque corporis excitetur. Pliny’s Letters.
Many points in that train of thought, its harder and more energetic
practical details especially, at first surmised but vaguely in the intervals of
his visits to the tomb of Flavian, attained the coherence of formal principle
amid the stirring incidents of the journey, which took him, still in all the
buoyancy of his nineteen years and greatly expectant, to Rome. That summons had
come from one of the former friends of his father in the capital, who had kept
himself acquainted with the lad’s progress, and, assured of his parts, his
courtly ways, above all of his beautiful penmanship, now offered him a place,
virtually that of an amanuensis, near the person of the philosophic emperor. The
old town-house of his family on the Caelian hill, so long neglected, might well
require his personal care; and Marius, relieved a little by his preparations
for travelling from a certain over-tension of spirit in which he had lived of
late, was presently on his way, to await introduction to Aurelius, on his
expected return home, after a first success, illusive enough as it was soon to
appear, against the invaders from beyond the Danube. The opening stage of
his journey, through the firm, golden weather, for which he had lingered three
days beyond the appointed time of starting—days brown with the first rains of
autumn—brought him, by the byways among the lower slopes of the Apennines of
Luna, to the town of Luca, a station on the Cassian Way; travelling so far
mainly on foot, while the baggage followed under the care of his attendants. He
wore a broad felt hat, in fashion not unlike a more modern pilgrim’s, the neat
head projecting from the collar of his gray paenula, or travelling mantle,
sewed closely together over the breast, but with its two sides folded up upon
the shoulders, to leave the arms free in walking, and was altogether so trim
and fresh, that, as he climbed the hill from Pisa, by the long steep lane
through the olive-yards, and turned to gaze where he could just discern the
cypresses of the old school garden, like two black lines down the yellow walls,
a little child took possession of his hand, and, looking up at him with entire
confidence, paced on bravely at his side, for the mere pleasure of his company,
to the spot where the road declined again into the valley beyond. From this
point, leaving the servants behind, he surrendered himself, a willing subject,
as he walked, to the impressions of the road, and was almost surprised, both at
the suddenness with which evening came on, and the distance from his old home
at which it found him. And at the little town of Luca, he felt that
indescribable sense of a welcoming in the mere outward appearance of things,
which seems to mark out certain places for the special purpose of evening rest,
and gives them always a peculiar amiability in retrospect. Under the deepening
twilight, the rough-tiled roofs seem to huddle together side by side, like one
continuous shelter over the whole township, spread low and broad above the snug
sleeping-rooms within; and the place one sees for the first time, and must
tarry in but for a night, breathes the very spirit of home. The cottagers
lingered at their doors for a few minutes as the shadows grew larger, and went
to rest early; though there was still a glow along the road through the shorn
corn-fields, and the birds were still awake about the crumbling gray heights of
an old temple. So quiet and air-swept was the place, you could hardly tell
where the country left off in it, and the field-paths became its streets. Next
morning he must needs change the manner of his journey. The light baggage-wagon
returned, and he proceeded now more quickly, travelling a stage or two by post,
along the Cassian Way, where the figures and incidents of the great high-road
seemed already to tell of the capital, the one centre to which all were
hastening, or had lately bidden adieu. That Way lay through the heart of the
old, mysterious and visionary country of Etruria; and what he knew of its
strange religion of the dead, reinforced by the actual sight of the funeral
houses scattered so plentifully among the dwelling-places of the living,
revived in him for a while, in all its strength, his old instinctive yearning
towards those inhabitants of the shadowy land he had known in life. It seemed
to him that he could half divine how time passed in those painted houses on the
hillsides, among the gold and silver ornaments, the wrought armour and
vestments, the drowsy and dead attendants; and the close consciousness of that
vast population gave him no fear, but rather a sense of companionship, as he
climbed the hills on foot behind the horses, through the genial
afternoon. The road, next day, passed below a town not less primitive, it
might seem, than its rocky perch—white rocks, that had long been glistening
before him in the distance. Down the dewy paths the people were descending from
it, to keep a holiday, high and low alike in rough, white-linen smocks. A
homely old play was just begun in an open-air theatre, with seats hollowed out
of the turf-grown slope. Marius caught the terrified expression of a child in
its mother’s arms, as it turned from the yawning mouth of a great mask, for
refuge in her bosom. The way mounted, and descended again, down the steep
street of another place, all resounding with the noise of metal under the
hammer; for every house had its brazier’s workshop, the bright objects of brass
and copper gleaming, like lights in a cave, out of their dark roofs and
corners. Around the anvils the children were watching the work, or ran to fetch
water to the hissing, red-hot metal; and Marius too watched, as he took his
hasty mid-day refreshment, a mess of chestnut-meal and cheese, while the
swelling surface of a great copper water-vessel grew flowered all over with
tiny petals under the skilful strokes. Towards dusk, a frantic woman at the
roadside, stood and cried out the words of some philter, or malison, in verse,
with weird motion of her hands, as the travellers passed, like a wild picture
drawn from Virgil. But all along, accompanying the superficial grace of
these incidents of the way, Marius noted, more and more as he drew nearer to
Rome, marks of the great plague. Under Hadrian and his successors, there had
been many enactments to improve the condition of the slave. The ergastula+ were
abolished. But no system of free labour had as yet succeeded. A whole mendicant
population, artfully exaggerating every symptom and circumstance of misery,
still hung around, or sheltered themselves within, the vast walls of their old,
half-ruined task-houses. And for the most part they had been variously stricken
by the pestilence. For once, the heroic level had been reached in rags,
squints, scars—every caricature of the human type—ravaged beyond what could
have been thought possible if it were to survive at all. Meantime, the farms
were less carefully tended than of old: here and there they were lapsing into
their natural wildness: some villas also were partly fallen into ruin. The
picturesque, romantic Italy of a later time—the Italy of Claude and Salvator
Rosa—was already forming, for the delight of the modern romantic
traveller. And again Marius was aware of a real change in things, on
crossing the Tiber, as if some magic effect lay in that; though here, in truth,
the Tiber was but a modest enough stream of turbid water. Nature, under the
richer sky, seemed readier and more affluent, and man fitter to the conditions
around him: even in people hard at work there appeared to be a less burdensome
sense of the mere business of life. How dreamily the women were passing up
through the broad light and shadow of the steep streets with the great
water-pots resting on their heads, like women of Caryae, set free from slavery
in old Greek temples. With what a fresh, primeval poetry was daily existence
here impressed—all the details of the threshing-floor and the vineyard; the
common farm-life even; the great bakers’ fires aglow upon the road in the
evening. In the presence of all this Marius felt for a moment like those old,
early, unconscious poets, who created the famousGreek myths of Dionysus, and
the Great Mother, out of the imagery of the wine-press and the ploughshare. And
still the motion of the journey was bringing his thoughts to systematic form.
He seemed to have grown to the fulness of intellectual manhood, on his way
hither. The formative and literary stimulus, so to call it, of peaceful
exercise which he had always observed in himself, doing its utmost now, the
form and the matter of thought alike detached themselves clearly and with
readiness from the healthfully excited brain.—“It is wonderful,” says Pliny,
“how the mind is stirred to activity by brisk bodily exercise.” The presentable
aspects of inmost thought and feeling became evident to him: the structure of
all he meant, its order and outline, defined itself: his general sense of a
fitness and beauty in words became effective in daintily pliant sentences, with
all sorts of felicitous linking of figure to abstraction. It seemed just then
as if the desire of the artist in him—that old longing to produce—might be
satisfied by the exact and literal transcript of what was then passing around
him, in simple prose, arresting the desirable moment as it passed, and
prolonging its life a little.—To live in the concrete! To be sure, at least, of
one’s hold upon that!—Again, his philosophic scheme was but the reflection of
the data of sense, and chiefly of sight, a reduction to the abstract, of the
brilliant road he travelled on, through the sunshine. But on the seventh
evening there came a reaction in the cheerful flow of our traveller’s thoughts,
a reaction with which mere bodily fatigue, asserting itself at last over his
curiosity, had much to do; and he fell into a mood, known to all passably sentimental
wayfarers, as night deepens again and again over their path, in which all
journeying, from the known to the unknown, comes suddenly to figure as a mere
foolish truancy—like a child’s running away from home—with the feeling that one
had best return at once, even through the darkness. He had chosen to climb on
foot, at his leisure, the long windings by which the road ascended to the place
where that day’s stage was to end, and found himself alone in the twilight, far
behind the rest of his travelling-companions. Would the last zigzag, round and
round those dark masses, half natural rock, half artificial substructure, ever
bring him within the circuit of the walls above? It was now that a startling
incident turned those misgivings almost into actual fear. From the steep slope
a heavy mass of stone was detached, after some whisperings among the trees
above his head, and rushing down through the stillness fell to pieces in a
cloud of dust across the road just behind him, so that he felt the touch upon
his heel. That was sufficient, just then, to rouse out of its hiding-place his
old vague fear of evil—of one’s “enemies”—a distress, so much a matter of
constitution with him, that at times it would seem that the best pleasures of
life could but be snatched, as it were hastily, in one moment’s forgetfulness
of its dark, besetting influence. A sudden suspicion of hatred against him, of
the nearness of “enemies,” seemed all at once to alter the visible form of
things, as with the child’s hero, when he found the footprint on the sand of
his peaceful, dreamy island. His elaborate philosophy had not put beneath his
feet the terror of mere bodily evil; much less of “inexorable fate, and the
noise of greedy Acheron.” The resting-place to which he presently came,
in the keen, wholesome air of the market-place of the little hill-town, was a
pleasant contrast to that last effort of his journey. The room in which he sat
down to supper, unlike the ordinary Roman inns at that day, was trim and sweet.
The firelight danced cheerfully upon the polished, three-wicked lucernae
burning cleanly with the best oil, upon the white-washed walls, and the bunches
of scarlet carnations set in glass goblets. The white wine of the place put
before him, of the true colour and flavour of the grape, and with a ring of
delicate foam as it mounted in the cup, had a reviving edge or freshness he had
found in no other wine. These things had relieved a little the melancholy of
the hour before; and it was just then that he heard the voice of one, newly
arrived at the inn, making his way to the upper floor—a youthful voice, with a
reassuring clearness of note, which completed his cure. He seemed to hear
that voice again in dreams, uttering his name: then, awake in the full morning
light and gazing from the window, saw the guest of the night before, a very
honourable-looking youth, in the rich habit of a military knight, standing
beside his horse, and already making preparations to depart. It happened that
Marius, too, was to take that day’s journey on horseback. Riding presently from
the inn, he overtook Cornelius—of the Twelfth Legion—advancing carefully down
the steep street; and before they had issued from the gates of Urbs-vetus, the
two young men had broken into talk together. They were passing along the street
of the goldsmiths; and Cornelius must needs enter one of the workshops for the
repair of some button or link of his knightly trappings. Standing in the
doorway, Marius watched the work, as he had watched the brazier’s business a
few days before, wondering most at the simplicity of its processes, a
simplicity, however, on which only genius in that craft could have lighted.—By
what unguessed-at stroke of hand, for instance, had the grains of precious
metal associated themselves with so daintily regular a roughness, over the
surface of the little casket yonder? And the conversation which followed, hence
arising, left the two travellers with sufficient interest in each other to
insure an easy companionship for the remainder of their journey. In time to come,
Marius was to depend very much on the preferences, the personal judgments, of
the comrade who now laid his hand so brotherly on his shoulder, as they left
the workshop. Itineris matutini gratiam capimus,+—observes one of our
scholarly travellers; and their road that day lay through a country,
well-fitted, by the peculiarity of its landscape, to ripen a first acquaintance
into intimacy; its superficial ugliness throwing the wayfarers back upon each
other’s entertainment in a real exchange of ideas, the tension of which,
however, it would relieve, ever and anon, by the unexpected assertion of
something singularly attractive. The immediate aspect of the land was, indeed,
in spite of abundant olive and ilex, unpleasing enough. A river of clay seemed,
“in some old night of time,” to have burst up over valley and hill, and
hardened there into fantastic shelves and slides and angles of cadaverous rock,
up and down among the contorted vegetation; the hoary roots and trunks seeming
to confess some weird kinship with them. But that was long ago; and these
pallid hillsides needed only the declining sun, touching the rock with purple,
and throwing deeper shadow into the immemorial foliage, to put on a peculiar,
because a very grave and austere, kind of beauty; while the graceful outlines
common to volcanic hills asserted themselves in the broader prospect. And, for
sentimental Marius, all this was associated, by some perhaps fantastic
affinity, with a peculiar trait of severity, beyond his guesses as to the
secret of it, which mingled with the blitheness of his new companion.
Concurring, indeed, with the condition of a Roman soldier, it was certainly
something far more than the expression of military hardness, or ascêsis; and
what was earnest, or even austere, in the landscape they had traversed
together, seemed to have been waiting for the passage of this figure to
interpret or inform it. Again, as in his early days with Flavian, a vivid
personal presence broke through the dreamy idealism, which had almost come to
doubt of other men’s reality: reassuringly, indeed, yet not without some sense
of a constraining tyranny over him from without. For Cornelius, returning
from the campaign, to take up his quarters on the Palatine, in the imperial
guard, seemed to carry about with him, in that privileged world of comely usage
to which he belonged, the atmosphere of some still more jealously exclusive
circle. They halted on the morrow at noon, not at an inn, but at the house of
one of the young soldier’s friends, whom they found absent, indeed, in
consequence of the plague in those parts, so that after a mid-day rest only,
they proceeded again on their journey. The great room of the villa, to which
they were admitted, had lain long untouched; and the dust rose, as they
entered, into the slanting bars of sunlight, that fell through the half-closed
shutters. It was here, to while away the time, that Cornelius bethought himself
of displaying to his new friend the various articles and ornaments of his
knightly array—the breastplate, the sandals and cuirass, lacing them on, one by
one, with the assistance of Marius, and finally the great golden bracelet on
the right arm, conferred on him by his general for an act of valour. And as he
gleamed there, amid that odd interchange of light and shade, with the staff of
a silken standard firm in his hand, Marius felt as if he were face to face, for
the first time, with some new knighthood or chivalry, just then coming into the
world. It was soon after they left this place, journeying now by carriage,
that Rome was seen at last, with much excitement on the part of our travellers;
Cornelius, and some others of whom the party then consisted, agreeing, chiefly
for the sake of Marius, to hasten forward, that it might be reached by
daylight, with a cheerful noise of rapid wheels as they passed over the
flagstones. But the highest light upon the mausoleum of Hadrian was quite gone
out, and it was dark, before they reached the Flaminian Gate. The abundant
sound of water was the one thing that impressed Marius, as they passed down a
long street, with many open spaces on either hand: Cornelius to his military
quarters, and Marius to the old dwelling-place of his fathers. . +E-text
editor’s note: ergastula were the Roman agrarian equivalent of prison-workhouses.
168. +Apuleius, The Golden Ass, I.17. Marius awoke early and
passed curiously from room to room, noting for more careful inspection by and
by the rolls of manuscripts. Even greater than his curiosity in gazing for the
first time on this ancient possession, was his eagerness to look out upon Rome
itself, as he pushed back curtain and shutter, and stepped forth in the fresh
morning upon one of the many balconies, with an oft-repeated dream realised at
last. He was certainly fortunate in the time of his coming to Rome. That old
pagan world, of which Rome was the flower, had reached its perfection in the
things of poetry and art—a perfection which indicated only too surely the eve
of decline. As in some vast intellectual museum, all its manifold products were
intact and in their places, and with custodians also still extant, duly
qualified to appreciate and explain them. And at no period of history had the
material Rome itself been better worth seeing—lying there not less consummate
than that world of pagan intellect which it represented in every phase of its
darkness and light. The various work of many ages fell here harmoniously
together, as yet untouched save by time, adding the final grace of a rich
softness to its complex expression. Much which spoke of ages earlier than Nero,
the great re-builder, lingered on, antique, quaint, immeasurably venerable,
like the relics of the medieval city in the Paris of Lewis the Fourteenth: the
work of Nero’s own time had come to have that sort of old world and picturesque
interest which the work of Lewis has for ourselves; while without stretching a
parallel too far we might perhaps liken the architectural finesses of the
archaic Hadrian to the more excellent products of our own Gothic revival. The
temple of Antoninus and Faustina was still fresh in all the majesty of its
closely arrayed columns of cipollino; but, on the whole, little had been added
under the late and present emperors, and during fifty years of public quiet, a
sober brown and gray had grown apace on things. The gilding on the roof of many
a temple had lost its garishness: cornice and capital of polished marble shone
out with all the crisp freshness of real flowers, amid the already mouldering
travertine and brickwork, though the birds had built freely among them. What
Marius then saw was in many respects, after all deduction of difference, more
like the modern Rome than the enumeration of particular losses might lead us to
suppose; the Renaissance, in its most ambitious mood and with amplest
resources, having resumed the ancient classical tradition there, with no break
or obstruction, as it had happened, in any very considerable work of the middle
age. Immediately before him, on the square, steep height, where the earliest
little old Rome had huddled itself together, arose the palace of the Caesars.
Half-veiling the vast substruction of rough, brown stone—line upon line of
successive ages of builders—the trim, old-fashioned garden walks, under their
closely-woven walls of dark glossy foliage, test of long and careful
cultivation, wound gradually, among choice trees, statues and fountains,
distinct and sparkling in the full morning sunlight, to the richly tinted mass
of pavilions and corridors above, centering in the lofty, white-marble
dwelling-place of Apollo himself. How often had Marius looked forward to
that first, free wandering through Rome, to which he now went forth with a heat
in the town sunshine (like a mist of fine gold-dust spread through the air) to
the height of his desire, making the dun coolness of the narrow streets welcome
enough at intervals. He almost feared, descending the stair hastily, lest some
unforeseen accident should snatch the little cup of enjoyment from him ere he
passed the door. In such morning rambles in places new to him, life had always
seemed to come at its fullest: it was then he could feel his youth, that youth
the days of which he had already begun to count jealously, in entire
possession. So the grave, pensive figure, a figure, be it said nevertheless,
fresher far than often came across it now, moved through the old city towards
the lodgings of Cornelius, certainly not by the most direct course, however
eager to rejoin the friend of yesterday. Bent as keenly on seeing as if
his first day in Rome were to be also his last, the two friends descended along
the _Vicus Tuscus_, with its rows of incense-stalls, into the _Via Nova_, where
the fashionable people were busy shopping; and Marius saw with much amusement
the frizzled heads, then _à la mode_. A glimpse of the _Marmorata_, the haven
at the river-side, where specimens of all the precious marbles of the world
were lying amid great white blocks from the quarries of Luna, took his thoughts
for a moment to his distant home. They visited the flower-market, lingering
where the _coronarii_ pressed on them the newest species, and purchased zinias,
now in blossom (like painted flowers, thought Marius), to decorate the folds of
their togas. Loitering to the other side of the Forum, past the great Galen’s
drug-shop, after a glance at the announcements of new poems on sale attached to
the doorpost of a famous bookseller, they entered the curious library of the
Temple of Peace, then a favourite resort of literary men, and read, fixed there
for all to see, the _Diurnal_ or Gazette of the day, which announced, together
with births and deaths, prodigies and accidents, and much mere matter of
business, the date and manner of the philosophic emperor’s joyful return to his
people; and, thereafter, with eminent names faintly disguised, what would carry
that day’s news, in many copies, over the provinces—a certain matter concerning
the great lady, known to be dear to him, whom he had left at home. It was a
story, with the development of which “society” had indeed for some time past
edified or amused itself, rallying sufficiently from the panic of a year ago,
not only to welcome back its ruler, but also to relish a _chronique
scandaleuse;_ and thus, when soon after Marius saw the world’s wonder, he was
already acquainted with the suspicions which have ever since hung about her
name. Twelve o’clock was come before they left the Forum, waiting in a little
crowd to hear the _Accensus_, according to old custom, proclaim the hour of
noonday, at the moment when, from the steps of the Senate-house, the sun could
be seen standing between the _Rostra_ and the _Græcostasis_. He exerted for
this function a strength of voice, which confirmed in Marius a judgment the
modern visitor may share with him, that Roman throats and Roman chests, namely,
must, in some peculiar way, be differently constructed from those of other
people. Such judgment indeed he had formed in part the evening before, noting,
as a religious procession passed him, how much noise a man and a boy could
make, though not without a great deal of real music, of which in truth the
Romans were then as ever passionately fond. Hence the two friends took
their way through the Via Flaminia, almost along the line of the modern Corso,
already bordered with handsome villas, turning presently to the left, into the
Field-of-Mars, still the playground of Rome. But the vast public edifices were
grown to be almost continuous over the grassy expanse, represented now only by
occasional open spaces of verdure and wild-flowers. In one of these a crowd was
standing, to watch a party of athletes stripped for exercise. Marius had been
surprised at the luxurious variety of the litters borne through Rome, where no
carriage horses were allowed; and just then one far more sumptuous than the
rest, with dainty appointments of ivory and gold, was carried by, all the town
pressing with eagerness to get a glimpse of its most beautiful woman, as she
passed rapidly. Yes! there, was the wonder of the world—the empress Faustina
herself: Marius could distinguish, could distinguish clearly, the well-known
profile, between the floating purple curtains. For indeed all Rome was
ready to burst into gaiety again, as it awaited with much real affection,
hopeful and animated, the return of its emperor, for whose ovation various
adornments were preparing along the streets through which the imperial
procession would pass. He had left Rome just twelve months before, amid immense
gloom. The alarm of a barbarian insurrection along the whole line of the Danube
had happened at the moment when Rome was panic-stricken by the great
pestilence. In fifty years of peace, broken only by that conflict in the
East from which Lucius Verus, among other curiosities, brought back the plague,
war had come to seem a merely romantic, superannuated incident of bygone
history. And now it was almost upon Italian soil. Terrible were the reports of
the numbers and audacity of the assailants. Aurelius, as yet untried in war,
and understood by a few only in the whole scope of a really great character,
was known to the majority of his subjects as but a careful administrator,
though a student of philosophy, perhaps, as we say, a dilettante. But he was
also the visible centre of government, towards whom the hearts of a whole
people turned, grateful for fifty years of public happiness—its good genius,
its “Antonine”—whose fragile person might be foreseen speedily giving way under
the trials of military life, with a disaster like that of the slaughter of the
legions by Arminius. Prophecies of the world’s impending conflagration were easily
credited: “the secular fire” would descend from heaven: superstitious fear had
even demanded the sacrifice of a human victim. Marcus Aurelius, always
philosophically considerate of the humours of other people, exercising also
that devout appreciation of every religious claim which was one of his
characteristic habits, had invoked, in aid of the commonwealth, not only all
native gods, but all foreign deities as well, however strange.—“Help! Help! in
the ocean space!” A multitude of foreign priests had been welcomed to Rome,
with their various peculiar religious rites. The sacrifices made on this
occasion were remembered for centuries; and the starving poor, at least, found
some satisfaction in the flesh of those herds of “white bulls,” which came into
the city, day after day, to yield the savour of their blood to the gods.
In spite of all this, the legions had but followed their standards
despondently. But prestige, personal prestige, the name of “Emperor,” still had
its magic power over the nations. The mere approach of the Roman army made an
impression on the barbarians. Aurelius and his colleague had scarcely reached
Aquileia when a deputation arrived to ask for peace. And now the two imperial
“brothers” were returning home at leisure; were waiting, indeed, at a villa
outside the walls, till the capital had made ready to receive them. But
although Rome was thus in genial reaction, with much relief, and hopefulness
against the winter, facing itself industriously in damask of red and gold,
those two enemies were still unmistakably extant: the barbarian army of the
Danube was but over-awed for a season; and the plague, as we saw when Marius
was on his way to Rome, was not to depart till it had done a large part in the
formation of the melancholy picturesque of modern Italy—till it had made, or
prepared for the making of the Roman Campagna. The old, unaffected, really
pagan, peace or gaiety, of Antoninus Pius—that genuine though unconscious
humanist—was gone for ever. And again and again, throughout this day of varied
observation, Marius had been reminded, above all else, that he was not merely
in “the most religious city of the world,” as one had said, but that Rome was
become the romantic home of the wildest superstition. Such superstition
presented itself almost as religious mania in many an incident of his long
ramble,—incidents to which he gave his full attention, though contending in
some measure with a reluctance on the part of his companion, the motive of
which he did not understand till long afterwards. Marius certainly did not
allow this reluctance to deter his own curiosity. Had he not come to Rome
partly under poetic vocation, to receive all those things, the very impress of
life itself, upon the visual, the imaginative, organ, as upon a mirror; to
reflect them; to transmute them into golden words? He must observe that strange
medley of superstition, that centuries’ growth, layer upon layer, of the
curiosities of religion (one faith jostling another out of place) at least for
its picturesque interest, and as an indifferent outsider might, not too deeply
concerned in the question which, if any of them, was to be the survivor.
Superficially, at least, the Roman religion, allying itself with much
diplomatic economy to possible rivals, was in possession, as a vast and complex
system of usage, intertwining itself with every detail of public and private
life, attractively enough for those who had but “the historic temper,” and a
taste for the past, however much a Lucian might depreciate it. Roman religion, as
Marius knew, had, indeed, been always something to be done, rather than
something to be thought, or believed, or loved; something to be done in
minutely detailed manner, at a particular time and place, correctness in which
had long been a matter of laborious learning with a whole school of
ritualists—as also, now and again, a matter of heroic sacrifice with certain
exceptionally devout souls, as when Caius Fabius Dorso, with his life in his
hand, succeeded in passing the sentinels of the invading Gauls to perform a
sacrifice on the Quirinal, and, thanks to the divine protection, had returned
in safety. So jealous was the distinction between sacred and profane, that, in
the matter of the “regarding of days,” it had made more than half the year a
holiday. Aurelius had, indeed, ordained that there should be no more than a
hundred and thirty-five festival days in the year; but in other respects he had
followed in the steps of his predecessor, Antoninus Pius—commended especially
for his “religion,” his conspicuous devotion to its public ceremonies—and whose
coins are remarkable for their reference to the oldest and most hieratic types
of Roman mythology. Aurelius had succeeded in more than healing the old feud
between philosophy and religion, displaying himself, in singular combination,
as at once the most zealous of philosophers and the most devout of polytheists,
and lending himself, with an air of conviction, to all the pageantries of
public worship. To his pious recognition of that one orderly spirit, which, according
to the doctrine of the Stoics, diffuses itself through the world, and animates
it—a recognition taking the form, with him, of a constant effort towards inward
likeness thereto, in the harmonious order of his own soul—he had added a warm
personal devotion towards the whole multitude of the old national gods, and a
great many new foreign ones besides, by him, at least, not ignobly conceived.
If the comparison may be reverently made, there was something here of the
method by which the catholic church has added the cultus of the saints to its
worship of the one Divine Being. And to the view of the majority, though
the emperor, as the personal centre of religion, entertained the hope of
converting his people to philosophic faith, and had even pronounced certain
public discourses for their instruction in it, that polytheistic devotion was
his most striking feature. Philosophers, indeed, had, for the most part,
thought with Seneca, “that a man need not lift his hands to heaven, nor ask the
sacristan’s leave to put his mouth to the ear of an image, that his prayers
might be heard the better.”—Marcus Aurelius, “a master in Israel,” knew all
that well enough. Yet his outward devotion was much more than a concession to
popular sentiment, or a mere result of that sense of fellow-citizenship with
others, which had made him again and again, under most difficult circumstances,
an excellent comrade. Those others, too!—amid all their ignorances, what were
they but instruments in the administration of the Divine Reason, “from end to
end sweetly and strongly disposing all things”? Meantime “Philosophy” itself
had assumed much of what we conceive to be the religious character. It had even
cultivated the habit, the power, of “spiritual direction”; the troubled soul
making recourse in its hour of destitution, or amid the distractions of the
world, to this or that director—philosopho suo—who could really best understand
it. And it had been in vain that the old, grave and discreet religion of
Rome had set itself, according to its proper genius, to prevent or subdue all
trouble and disturbance in men’s souls. In religion, as in other matters,
plebeians, as such, had a taste for movement, for revolution; and it had been
ever in the most populous quarters that religious changes began. To the
apparatus of foreign religion, above all, recourse had been made in times of
public disquietude or sudden terror; and in those great religious celebrations,
before his proceeding against the barbarians, Aurelius had even restored the
solemnities of Isis, prohibited in the capital since the time of Augustus,
making no secret of his worship of that goddess, though her temple had been
actually destroyed by authority in the reign of Tiberius. Her singular and in
many ways beautiful ritual was now popular in Rome. And then—what the
enthusiasm of the swarming plebeian quarters had initiated, was sure to be
adopted, sooner or later, by women of fashion. A blending of all the religions
of the ancient world had been accomplished. The new gods had arrived, had been
welcomed, and found their places; though, certainly, with no real security, in
any adequate ideal of the divine nature itself in the background of men’s
minds, that the presence of the new-comer should be edifying, or even refining.
High and low addressed themselves to all deities alike without scruple;
confusing them together when they prayed, and in the old, authorised, threefold
veneration of their visible images, by flowers, incense, and ceremonial
lights—those beautiful usages, which the church, in her way through the world,
ever making spoil of the world’s goods for the better uses of the human spirit,
took up and sanctified in her service. And certainly “the most religious
city in the world” took no care to veil its devotion, however fantastic. The
humblest house had its little chapel or shrine, its image and lamp; while
almost every one seemed to exercise some religious function and responsibility.
Colleges, composed for the most part of slaves and of the poor, provided for
the service of the Compitalian Lares—the gods who presided, respectively, over
the several quarters of the city. In one street, Marius witnessed an incident
of the festival of the patron deity of that neighbourhood, the way being strewn
with box, the houses tricked out gaily in such poor finery as they possessed,
while the ancient idol was borne through it in procession, arrayed in gaudy
attire the worse for wear. Numerous religious clubs had their stated
anniversaries, on which the members issued with much ceremony from their
guild-hall, or schola, and traversed the thoroughfares of Rome, preceded, like
the confraternities of the present day, by their sacred banners, to offer
sacrifice before some famous image. Black with the perpetual smoke of lamps and
incense, oftenest old and ugly, perhaps on that account the more likely to
listen to the desires of the suffering—had not those sacred effigies sometimes
given sensible tokens that they were aware? The image of the Fortune of
Women—Fortuna Muliebris, in the Latin Way, had spoken (not once only) and
declared; Bene me, Matronae! vidistis riteque dedicastis! The Apollo of Cumae
had wept during three whole nights and days. The images in the temple of Juno
Sospita had been seen to sweat. Nay! there was blood—divine blood—in the hearts
of some of them: the images in the Grove of Feronia had sweated blood!
From one and all Cornelius had turned away: like the “atheist” of whom Apuleius
tells he had never once raised hand to lip in passing image or sanctuary, and
had parted from Marius finally when the latter determined to enter the crowded
doorway of a temple, on their return into the Forum, below the Palatine hill,
where the mothers were pressing in, with a multitude of every sort of children,
to touch the lightning-struck image of the wolf-nurse of Romulus—so tender to
little ones!—just discernible in its dark shrine, amid a blaze of lights.
Marius gazed after his companion of the day, as he mounted the steps to his
lodging, singing to himself, as it seemed. Marius failed precisely to catch the
words. And, as the rich, fresh evening came on, there was heard all
over Rome, far above a whisper, the whole town seeming hushed to catch it
distinctly, the lively, reckless call to “play,” from the sons and daughters of
foolishness, to those in whom their life was still green—Donec virenti canities
abest!—Donec virenti canities abest!+ Marius could hardly doubt how Cornelius
would have taken the call. And as for himself, slight as was the burden of
positive moral obligation with which he had entered Rome, it was to no wasteful
and vagrant affections, such as these, that his Epicureanism had committed
him. NOTES 187. +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So long
as youth is fresh and age is far away.” But ah! Maecenas is yclad in
claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt
in lead, That matter made for poets on to playe.+ Marcus Aurelius
who, though he had little relish for them himself, had ever been willing to
humour the taste of his people for magnificent spectacles, was received back to
Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great
was the public sense of deliverance) with even more than the laxity which had
become its habit under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in
the late achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate,
and with a crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired
walking beside him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn
procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The
victim, a goodly sheep, whose image we may still see between the pig and the ox
of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the
church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests,
clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive
gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great
choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according
as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately
amid the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul
within him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now
restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their
houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of
his country,” to await the procession, the two princes having spent the
preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius,
full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the
world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a
great part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and
punctiliously guarded from profane footsteps. The coming of the pageant
was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the
acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular
time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole
attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in
sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers,
and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was
Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the
folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete
with meaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age,
with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his candour
of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair,
clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought him, between
Chance with meek resignation, and a Providence with boundless possibilities and
hope, being for him at least distinctly defined. That outward serenity,
which he valued so highly as a point of manner or expression not unworthy the
care of a public minister—outward symbol, it might be thought, of the inward
religious serenity it had been his constant purpose to maintain—was increased
to-day by his sense of the gratitude of his people; that his life had been one
of such gifts and blessings as made his person seem in very deed divine to
them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow, passing from time to time
into an expression of fatigue and effort, of loneliness amid the shouting
multitude, might have been detected there by the more observant—as if the sagacious
hint of one of his officers, “The soldiers can’t understand you, they don’t
know Greek,” were applicable always to his relationships with other people. The
nostrils and mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius noted in
them, as in the hands, and in the spare body generally, what was new to his
experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by which,
although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the flesh had
scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the expression of
“the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice of the body
to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to divine in this
assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far beyond the
demands of their very saddest philosophy of life. Dignify thyself with
modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim with this
dainty and high-bred Stoic, who still thought manners a true part of morals,
according to the old sense of the term, and who regrets now and again that he
cannot control his thoughts equally well with his countenance. That outward
composure was deepened during the solemnities of this day by an air of
pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a sort of
humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and to his
whole proceeding, in which every minutest act was considered, the character of
a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or even
philosophic, in Aurelius, who had realised, under more trying conditions
perhaps than any one before, that no element of humanity could be alien from
him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes
discreetly fixed on the ground, veiling his head at times and muttering very
rapidly the words of the “supplications,” the rich, fresh evening
came on, there was heard all over Rome, far above a whisper, the whole town
seeming hushed to catch it distinctly, the lively, reckless call to “play,”
from the sons and daughters of foolishness , to those in whom their life
was still green—Donec virenti canities abest!—Donec virenti canities abest!+
Marius could hardly doubt how Cornelius would have taken the call. And as for
himself, slight as was the burden of positive moral obligation with which he
had entered Rome, it was to no wasteful and vagrant affections, such as these,
that his Epicureanism had committed him. . +Horace, Odes I.ix.17.
Translation: “So long as youth is fresh and age is far away.” But ah!
Maecenas is yclad in claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the
worthies liggen wrapt in lead, That matter made for poets on to playe.+
Marcus Aurelius who, though he had little relish for them himself, had
ever been willing to humour the taste of his people for magnificent spectacles,
was received back to Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by
the Senate (so great was the public sense of deliverance) with even more than
the laxity which had become its habit under imperial rule, for there had been
no actual bloodshed in the late achievement. Clad in the civic dress of the
chief Roman magistrate, and with a crown of myrtle upon his head, his colleague
similarly attired walking beside him, he passed up to the Capitol on foot,
though in solemn procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the
national gods. The victim, a goodly sheep, whose image we may still see between
the pig and the ox of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some
ancient canon of the church, on a sculptured fragment in the Forum, was
conducted by the priests, clad in rich white vestments, and bearing their
sacred utensils of massive gold, immediately behind a company of flute-players,
led by the great choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or
delighted, according as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose,
more or less adequately amid the difficulties of the way, to the dream of
perfect music in the soul within him. The vast crowd, including the soldiers of
the triumphant army, now restored to wives and children, all alike in holiday
whiteness, had left their houses early in the fine, dry morning, in a real
affection for “the father of his country,” to await the procession, the two
princes having spent the preceding night outside the walls, at the old Villa of
the Republic. Marius, full of curiosity, had taken his position with much care;
and stood to see the world’s masters pass by, at an angle from which he could
command the view of a great part of the processional route, sprinkled with fine
yellow sand, and punctiliously guarded from profane footsteps. The coming
of the pageant was announced by the clear sound of the flutes, heard at length
above the acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted
in regular time, over the hills. It was on the central figure, of course, that
the whole attention of Marius was fixed from the moment when the procession
came in sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial
image-bearers, and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among
whom was Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about
in the folds of a richly worked toga, after a manner now long since become
obsolete withmeaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years
of age, with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his
candour of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair,
clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought
him, between Chance with meek resignation, and a Providence with boundless
possibilities and hope, being for him at least distinctly defined. That
outward serenity, which he valued so highly as a point of manner or expression
not unworthy the care of a public minister—outward symbol, it might be thought,
of the inward religious serenity it had been his constant purpose to
maintain—was increased to-day by his sense of the gratitude of his people; that
his life had been one of such gifts and blessings as made his person seem in
very deed divine to them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow,
passing from time to time into an expression of fatigue and effort, of
loneliness amid the shouting multitude, might have been detected there by the
more observant—as if the sagacious hint of one of his officers, “The soldiers
can’t understand you, they don’t know Greek,” were applicable always to his
relationships with other people. The nostrils and mouth seemed capable almost of
peevishness; and Marius noted in them, as in the hands, and in the spare body
generally, what was new to his experience—something of asceticism, as we
say, of a bodily gymnastic, by which, although it told pleasantly in the clear
blue humours of the eye, the flesh had scarcely been an equal gainer with the
spirit. It was hardly the expression of “the healthy mind in the healthy body,”
but rather of a sacrifice of the body to the soul, its needs and
aspirations, that Marius seemed to divine in this assiduous student of the
Greek sages—a sacrifice, in truth, far beyond the demands of their very saddest
philosophy of life. Dignify thyself with modesty and simplicity for thine
ornaments!—had been ever a maxim with this dainty and high -bred Stoic, who
still thought manners a true part of morals, according to the old sense of the
term, and who regrets now and again that he cannot control his thoughts equally
well with his countenance. That outward composure was deepened during the
solemnities of this day by an air of pontifical abstraction; which, though very
far from being pride—nay, a sort of humility rather—yet gave, to himself, an
air of unapproachableness, and to his whole proceeding, in which every minutest
act was considered, the character of a ritual. Certainly, there was no
haughtiness, social, moral, or even philosophic, in Aurelius, who had realised,
under more trying conditions perhaps than any one before, that no element of
humanity could be alien from him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten
thousand observers, with eyes discreetly fixed on the ground, veiling his head
at times and muttering very rapidly the words of the “supplications,” there was
something many spectators may have noted as a thing new in their experience,
for Aurelius, unlike his predecessors, took all this with absolute seriousness.
The doctrine of the sanctity of kings, that, in the words of Tacitus, Princes
are as Gods—Principes instar deorum esse—seemed to have taken a novel, because
a literal, sense. For Aurelius, indeed, the old legend of his descent from
Numa, from Numa who had talked with the gods, meant much. Attached in very
early years to the service of the altars, like many another noble youth, he was
“observed to perform all his sacerdotal functions with a constancy and
exactness unusual at that age; was soon a master of the sacred music; and had
all the forms and ceremonies by heart.” And now, as the emperor, who had not
only a vague divinity about his person, but was actually the chief religious
functionary of the state, recited from time to time the forms of invocation, he
needed not the help of the prompter, or ceremoniarius, who then approached, to
assist him by whispering the appointed words in his ear. It was that pontifical
abstraction which then impressed itself on Marius as the leading outward
characteristic of Aurelius; though to him alone, perhaps, in that vast crowd of
observers, it was no strange thing, but a matter he had understood from of
old. Some fanciful writers have assigned the origin of these triumphal
processions to the mythic pomps of Dionysus, after his conquests in the East;
the very word Triumph being, according to this supposition, only Thriambos-the
Dionysiac Hymn. And certainly the younger of the two imperial “brothers,” who,
with the effect of a strong contrast, walked beside Aurelius, and shared the
honours of the day, might well have reminded people of the delicate Greek god
of flowers and wine. This new conqueror of the East was now about thirty-six
years old, but with his scrupulous care for all the advantages of his person,
and a soft curling beard powdered with gold, looked many years younger. One
result of the more genial element in the wisdom of Aurelius had been that, amid
most difficult circumstances, he had known throughout life how to act in union
with persons of character very alien from his own; to be more than loyal to the
colleague, the younger brother in empire, he had too lightly taken to himself,
five years before, then an uncorrupt youth, “skilled in manly exercises and fitted
for war.” When Aurelius thanks the gods that a brother had fallen to his lot,
whose character was a stimulus to the proper care of his own, one sees that
this could only have happened in the way of an example, putting him on his
guard against insidious faults. But it is with sincere amiability that the
imperial writer, who was indeed little used to be ironical, adds that the
lively respect and affection of the junior had often “gladdened” him. To be
able to make his use of the flower, when the fruit perhaps was useless or
poisonous:—that was one of the practical successes of his philosophy; and his
people noted, with a blessing, “the concord of the two Augusti.” The
younger, certainly, possessed in full measure that charm of a constitutional freshness
of aspect which may defy for a long time extravagant or erring habits of life;
a physiognomy, healthy-looking, cleanly, and firm, which seemed unassociable
with any form of self-torment, and made one think of the muzzle of some young
hound or roe, such as human beings invariably like to stroke—a physiognomy, in
effect, with all the goodliness of animalism of the finer sort, though still
wholly animal. The charm was that of the blond head, the unshrinking gaze, the
warm tints: neither more nor less than one may see every English summer, in
youth, manly enough, and with the stuff which makes brave soldiers, in spite of
the natural kinship it seems to have with playthings and gay flowers. But
innate in Lucius Verus there was that more than womanly fondness for fond
things, which had made the atmosphere of the old city of Antioch, heavy with
centuries of voluptuousness, a poison to him: he had come to love his
delicacies best out of season, and would have gilded the very flowers. But with
a wonderful power of self-obliteration, the elder brother at the capital had
directed his procedure successfully, and allowed him, become now also the
husband of his daughter Lucilla, the credit of a “Conquest,” though Verus had
certainly not returned a conqueror over himself. He had returned, as we know,
with the plague in his company, along with many another strange creature of his
folly; and when the people saw him publicly feeding his favourite horse Fleet
with almonds and sweet grapes, wearing the animal’s image in gold, and finally
building it a tomb, they felt, with some un-sentimental misgiving, that he
might revive the manners of Nero.—What if, in the chances of war, he should
survive the protecting genius of that elder brother? He was all himself
to-day: and it was with much wistful curiosity that Marius regarded him. For
Lucius Verus was, indeed, but the highly expressive type of a class,—the true
son of his father, adopted by Hadrian. Lucius Verus the elder, also, had had
the like strange capacity for misusing the adornments of life, with a masterly
grace; as if such misusing were, in truth, the quite adequate occupation of an
intelligence, powerful, but distorted by cynical philosophy or some
disappointment of the heart. It was almost a sort of genius, of which there had
been instances in the imperial purple: it was to ascend the throne, a few years
later, in the person of one, now a hopeful little lad at home in the palace;
and it had its following, of course, among the wealthy youth at Rome, who
concentrated no inconsiderable force of shrewdness and tact upon minute details
of attire and manner, as upon the one thing needful. Certainly, flowers were
pleasant to the eye. Such things had even their sober use, as making the
outside of human life superficially attractive, and thereby promoting the first
steps towards friendship and social amity. But what precise place could there
be for Verus and his peculiar charm, in that Wisdom, that Order of divine
Reason “reaching from end to end, strongly and sweetly disposing all things,”
from the vision of which Aurelius came down, so tolerant of persons like him?
Into such vision Marius too was certainly well-fitted to enter, yet, noting the
actual perfection of Lucius Verus after his kind, his undeniable achievement of
the select, in all minor things, felt, though with some suspicion of himself,
that he entered into, and could understand, this other so dubious sort of
character also. There was a voice in the theory he had brought to Rome with him
which whispered “nothing is either great nor small;” as there were times when
he could have thought that, as the “grammarian’s” or the artist’s ardour of
soul may be satisfied by the perfecting of the theory of a sentence, or the
adjustment of two colours, so his own life also might have been fulfilled by an
enthusiastic quest after perfection—say, in the flowering and folding of a
toga. The emperors had burned incense before the image of Jupiter,
arrayed in its most gorgeous apparel, amid sudden shouts from the people of
Salve Imperator! turned now from the living princes to the deity, as they
discerned his countenance through the great open doors. The imperial brothers
had deposited their crowns of myrtle on the richly embroidered lapcloth of the
god; and, with their chosen guests, sat down to a public feast in the temple
itself. There followed what was, after all, the great event of the day:—an
appropriate discourse, a discourse almost wholly de contemptu mundi, delivered
in the presence of the assembled Senate, by the emperor Aurelius, who had thus,
on certain rare occasions, condescended to instruct his people, with the double
authority of a chief pontiff and a laborious student of philosophy. In those
lesser honours of the ovation, there had been no attendant slave behind the
emperors, to make mock of their effulgence as they went; and it was as if with
the discretion proper to a philosopher, and in fear of a jealous Nemesis, he
had determined himself to protest in time against the vanity of all outward
success. The Senate was assembled to hear the emperor’s discourse in the
vast hall of the Curia Julia. A crowd of high-bred youths idled around, or on
the steps before the doors, with the marvellous toilets Marius had noticed in
the Via Nova; in attendance, as usual, to learn by observation the minute
points of senatorial procedure. Marius had already some acquaintance with them,
and passing on found himself suddenly in the presence of what was still the
most august assembly the world had seen. Under Aurelius, ever full of
veneration for this ancient traditional guardian of public religion, the Senate
had recovered all its old dignity and independence. Among its members many
hundreds in number, visibly the most distinguished of them all, Marius noted
the great sophists or rhetoricians of the day, in all their magnificence. The
antique character of their attire, and the ancient mode of wearing it, still
surviving with them, added to the imposing character of their persons, while
they sat, with their staves of ivory in their hands, on their curule
chairs—almost the exact pattern of the chair still in use in the Roman church
when a Bishop pontificates at the divine offices—“tranquil and unmoved, with a
majesty that seemed divine,” as Marius thought, like the old Gaul of the
Invasion. The rays of the early November sunset slanted full upon the audience,
and made it necessary for the officers of the Court to draw the purple curtains
over the windows, adding to the solemnity of the scene. In the depth of those
warm shadows, surrounded by her ladies, the empress Faustina was seated to
listen. The beautiful Greek statue of Victory, which since the days of Augustus
had presided over the assemblies of the Senate, had been brought into the hall,
and placed near the chair of the emperor; who, after rising to perform a brief
sacrificial service in its honour, bowing reverently to the assembled fathers
left and right, took his seat and began to speak. There was a certain
melancholy grandeur in the very simplicity or triteness of the theme: as it
were the very quintessence of all the old Roman epitaphs, of all that was
monumental in that city of tombs, layer upon layer of dead things and people.
As if in the very fervour of disillusion, he seemed to be composing—Hôsper
epigraphas chronôn kai holôn ethnôn+—the sepulchral titles of ages and whole
peoples; nay! the very epitaph of the living Rome itself. The grandeur of the
ruins of Rome,—heroism in ruin: it was under the influence of an imaginative
anticipation of this, that he appeared to be speaking. And though the
impression of the actual greatness of Rome on that day was but enhanced by the
strain of contempt, falling with an accent of pathetic conviction from the
emperor himself, and gaining from his pontifical pretensions the authority of a
religious intimation, yet the curious interest of the discourse lay in this,
that Marius, for one, as he listened, seemed to forsee a grass-grown Forum, the
broken ways of the Capitol, and the Palatine hill itself in humble occupation.
That impression connected itself with what he had already noted of an actual
change even then coming over Italian scenery. Throughout, he could trace
something of a humour into which Stoicism at all times tends to fall, the
tendency to cry, Abase yourselves! There was here the almost inhuman impassibility
of one who had thought too closely on the paradoxical aspect of the love of
posthumous fame. With the ascetic pride which lurks under all Platonism,
resultant from its opposition of the seen to the unseen, as falsehood to
truth—the imperial Stoic, like his true descendant, the hermit of the middle
age, was ready, in no friendly humour, to mock, there in its narrow bed, the
corpse which had made so much of itself in life. Marius could but contrast all
that with his own Cyrenaic eagerness, just then, to taste and see and touch;
reflecting on the opposite issues deducible from the same text. “The world,
within me and without, flows away like a river,” he had said; “therefore let me
make the most of what is here and now.”—“The world and the thinker upon it, are
consumed like a flame,” said Aurelius, “therefore will I turn away my eyes from
vanity: renounce: withdraw myself alike from all affections.” He seemed tacitly
to claim as a sort of personal dignity, that he was very familiarly versed in
this view of things, and could discern a death’s-head everywhere. Now and again
Marius was reminded of the saying that “with the Stoics all people are the
vulgar save themselves;” and at times the orator seemed to have forgotten his
audience, and to be speaking only to himself. “Art thou in love with
men’s praises, get thee into the very soul of them, and see!—see what judges
they be, even in those matters which concern themselves. Wouldst thou have
their praise after death, bethink thee, that they who shall come hereafter, and
with whom thou wouldst survive by thy great name, will be but as these, whom
here thou hast found so hard to live with. For of a truth, the soul of him who
is aflutter upon renown after death, presents not this aright to itself, that
of all whose memory he would have each one will likewise very quickly depart,
until memory herself be put out, as she journeys on by means of such as are
themselves on the wing but for a while, and are extinguished in their
turn.—Making so much of those thou wilt never see! It is as if thou wouldst
have had those who were before thee discourse fair things concerning
thee. “To him, indeed, whose wit hath been whetted by true doctrine, that
well-worn sentence of Homer sufficeth, to guard him against regret and
fear.— Like the race of leaves The race of man is:— The wind in
autumn strows The earth with old leaves: then the spring the
woods with new endows.+ Leaves! little leaves!—thy children, thy
flatterers, thine enemies! Leaves in the wind, those who would devote thee to
darkness, who scorn or miscall thee here, even as they also whose great fame
shall outlast them. For all these, and the like of them, are born indeed in the
spring season—Earos epigignetai hôrê+: and soon a wind hath scattered them, and
thereafter the wood peopleth itself again with another generation of leaves.
And what is common to all of them is but the littleness of their lives: and yet
wouldst thou love and hate, as if these things should continue for ever. In a
little while thine eyes also will be closed, and he on whom thou perchance hast
leaned thyself be himself a burden upon another. “Bethink thee often of
the swiftness with which the things that are, or are even now coming to be, are
swept past thee: that the very substance of them is but the perpetual motion of
water: that there is almost nothing which continueth: of that bottomless depth
of time, so close at thy side. Folly! to be lifted up, or sorrowful, or
anxious, by reason of things like these! Think of infinite matter, and thy
portion—how tiny a particle, of it! of infinite time, and thine own brief point
there; of destiny, and the jot thou art in it; and yield thyself readily to the
wheel of Clotho, to spin of thee what web she will. “As one casting a
ball from his hand, the nature of things hath had its aim with every man, not
as to the ending only, but the first beginning of his course, and passage
thither. And hath the ball any profit of its rising, or loss as it descendeth
again, or in its fall? or the bubble, as it groweth or breaketh on the air? or
the flame of the lamp, from the beginning to the end of its brief story?
“All but at this present that future is, in which nature, who disposeth all
things in order, will transform whatsoever thou now seest, fashioning from its
substance somewhat else, and therefrom somewhat else in its turn, lest the
world grow old. We are such stuff as dreams are made of—disturbing dreams.
Awake, then! and see thy dream as it is, in comparison with that erewhile it
seemed to thee. “And for me, especially, it were well to mind those many
mutations of empire in time past; therein peeping also upon the future, which
must needs be of like species with what hath been, continuing ever within the
rhythm and number of things which really are; so that in forty years one may
note of man and of his ways little less than in a thousand. Ah! from this
higher place, look we down upon the ship-wrecks and the calm! Consider, for
example, how the world went, under the emperor Vespasian. They are married and given
in marriage, they breed children; love hath its way with them; they heap up
riches for others or for themselves; they are murmuring at things as then they
are; they are seeking for great place; crafty, flattering, suspicious, waiting
upon the death of others:—festivals, business, war, sickness, dissolution: and
now their whole life isno longer anywhere at all. Pass on to the reign of
Trajan: all things continue the same: and that life also is no longer anywhere
at all. Ah! but look again, and consider, one after another, as it were the
sepulchral inscriptions of all peoples and times, according to one
pattern.—What multitudes, after their utmost striving—a little afterwards! were
dissolved again into their dust. “Think again of life as it was far off
in the ancient world; as it must be when we shall be gone; as it is now among
the wild heathen. How many have never heard your names and mine, or will soon
forget them! How soon may those who shout my name to-day begin to revile it,
because glory, and the memory of men, and all things beside, are but vanity—a
sand-heap under the senseless wind, the barking of dogs, the quarrelling of
children, weeping incontinently upon their laughter. “This hasteth to be;
that other to have been: of that which now cometh to be, even now somewhat hath
been extinguished. And wilt thou make thy treasure of any one of these things?
It were as if one set his love upon the swallow, as it passeth out of sight
through the air! “Bethink thee often, in all contentions public and private,
of those whom men have remembered by reason of their anger and vehement
spirit—those famous rages, and the occasions of them—the great fortunes, and
misfortunes, of men’s strife of old. What are they all now, and the dust of
their battles? Dust and ashes indeed; a fable, a mythus, or not so much as
that. Yes! keep those before thine eyes who took this or that, the like of
which happeneth to thee, so hardly; were so querulous, so agitated. And where
again are they? Wouldst thou have it not otherwise with thee? Consider
how quickly all things vanish away—their bodily structure into the general
substance; the very memory of them into that great gulf and abysm of past
thoughts. Ah! ’tis on a tiny space of earth thou art creeping through life—a
pigmy soul carrying a dead body to its grave. “Let death put thee upon
the consideration both of thy body and thy soul: what an atom of all matter
hath been distributed to thee; what a little particle of the universal mind.
Turn thy body about, and consider what thing it is, and that which old age, and
lust, and the languor of disease can make of it. Or come to its substantial and
causal qualities, its very type: contemplate that in itself, apart from the
accidents of matter, and then measure also the span of time for which the
nature of things, at the longest, will maintain that special type. Nay! in the
very principles and first constituents of things corruption hath its part—so
much dust, humour, stench , and scraps of bone! Consider that thy marbles
are but the earth’s callosities, thy gold and silver its faeces; this silken
robe but a worm’s bedding, and thy purple an unclean fish. Ah! and thy life’s
breath is not otherwise, as it passeth out of matters like these, into the like
of them again. “For the one soul in things, taking matter like wax in the
hands, moulds and remoulds—how hastily!—beast, and plant, and the babe, in
turn: and that which dieth hath not slipped out of the order of nature, but,
remaining therein, hath also its changes there, disparting into those elements
of which nature herself, and thou too, art compacted. She changes without
murmuring. The oaken chest falls to pieces with no more complaining than when
the carpenter fitted it together. If one told thee certainly that on the morrow
thou shouldst die, or at the furthest on the day after, it would be no great
matter to thee to die on the day after to-morrow, rather than to-morrow. Strive
to think it a thing no greater that thou wilt die—not to-morrow, but a year, or
two years, or ten years f rom to-day. “I find that all things are
now as they were in the days of our buried ancestors—all things sordid in their
elements, trite by long usage, and yet ephemeral. How ridiculous, then, how
like a countryman in town, is he, who wonders at aught. Doth the sameness, the
repetition of the public shows, weary thee? Even so doth that likeness of
events in the spectacle of the world. And so must it be with thee to the end.
For the wheel of the world hath ever the same motion, upward and downward, from
generation to generation. When, when, shall time give place to eternity?
“If there be things which trouble thee thou canst put them away, inasmuch as
they have their being but in thine own notion concerning them. Consider what
death is, and how, if one does but detach from it the appearances, the notions,
that hang about it, resting the eye upon it as in itself it really is, it must
be thought of but as an effect of nature, and that man but a child whom an
effect of nature shall affright. Nay! not function and effect of nature, only;
but a thing profitable also to herself. “To cease from action—the ending
of thine effort to think and do: there is no evil in that. Turn thy thought to
the ages of man’s life, boyhood, youth, maturity, old age: the change in every
one of these also is a dying, but evil nowhere. Thou climbedst into the ship,
thou hast made thy voyage and touched the shore. Go forth now! Be it into some
other life: the divine breath is everywhere, even there. Be it into
forgetfulness for ever; at least thou wilt rest from the beating of sensible
images upon thee, from the passions which pluck thee this way and that like an
unfeeling toy, from those long marches of the intellect, from thy toilsome
ministry to the flesh. “Art thou yet more than dust and ashes and bare
bone—a name only, or not so much as that, which, also, is but whispering and a
resonance, kept alive from mouth to mouth of dying abjects who have hardly
known themselves; how much less thee, dead so long ago! “When thou lookest
upon a wise man, a lawyer, a captain of war, think upon another gone. When thou
seest thine own face in the glass, call up there before thee one of thine
ancestors—one of those old Caesars. Lo! everywhere, thy double before thee!
Thereon, let the thought occur to thee: And where are they? anywhere at all,
for ever? And thou, thyself—how long? Art thou blind to that thou art—thy
matter, how temporal; and thy function, the nature of thy business? Yet tarry,
at least, till thou hast assimilated even these things to thine own proper
essence, as a quick fire turneth into heat and light whatsoever be cast upon
it. “As words once in use are antiquated to us, so is it with the names
that were once on all men’s lips: Camillus, Volesus, Leonnatus: then, in a
little while, Scipio and Cato, and then Augustus, and then Hadrian, and then
Antoninus Pius. How many great physicians who lifted wise brows at other men’s
sick-beds, have sickened and died! Those wise Chaldeans, who foretold, as a
great matter, another man’s last hour, have themselves been taken by surprise.
Ay! and all those others, in their pleasant places: those who doated on a
Capreae like Tiberius, on their gardens, on the baths: Pythagoras and Socrates,
who reasoned so closely upon immortality: Alexander, who used the lives of
others as though his own should last for ever—he and his mule-driver alike
now!—one upon another. Well-nigh the whole court of Antoninus is extinct.
Panthea and Pergamus sit no longer beside the sepulchre of their lord. The
watchers over Hadrian’s dust have slipped from his sepulchre.—It were jesting
to stay longer. Did they sit there still, would the dead feel it? or feeling
it, be glad? or glad, hold those watchers for ever? The time must come when
they too shall be aged men and aged women, and decease, and fail from their
places; and what shift were there then for imperial service? This too is but
the breath of the tomb, and a skinful of dead men’s blood. “Think again
of those inscriptions, which belong not to one soul only, but to whole families:
Eschatos tou idiou genous:+ He was the last of his race. Nay! of the burial of
whole cities: Helice, Pompeii: of others, whose very burial place is
unknown. “Thou hast been a citizen in this wide city. Count not for how
long, nor repine; since that which sends thee hence is no unrighteous judge, no
tyrant, but Nature, who brought thee hither; as when a player leaves the stage
at the bidding of the conductor who hired him. Sayest thou, ‘I have not played
five acts’? True! but in human life, three acts only make sometimes an entire
play. That is the composer’s business, not thine. Withdraw thyself with a good
will; for that too hath, perchance, a good will which dismisseth thee from thy
part.” The discourse ended almost in darkness, the evening having set in
somewhat suddenly, with a heavy fall of snow. The torches, made ready to do him
a useless honour, were of real service now, as the emperor was solemnly
conducted home; one man rapidly catching light from another—a long stream of
moving lights across the white Forum, up the great stairs, to the palace. And,
in effect, that night winter began, the hardest that had been known for a
lifetime. The wolves came from the mountains; and, led by the carrion scent,
devoured the dead bodies which had been hastily buried during the plague, and,
emboldened by their meal, crept, before the short day was well past, over the
walls of the farmyards of the Campagna. The eagles were seen driving the flocks
of smaller birds across the dusky sky. Only, in the city itself the winter was
all the brighter for the contrast, among those who could pay for light and
warmth. The habit-makers made a great sale of the spoil of all such furry
creatures as had escaped wolves and eagles, for presents at the Saturnalia; and
at no time had the winter roses from Carthage seemed more lustrously yellow and
red. NOTES 188. +Spenser, Shepheardes Calendar, October,
61-66. 200. +Transliteration: Hôsper epigraphas chronôn kai holôn
ethnôn. Pater’s Translation: “the sepulchral titles of ages and whole
peoples.” 202. +Homer, Iliad VI.146-48. 202.
+Transliteration: Earos epigignetai hôrê. Translation: “born in springtime.”
Homer, Iliad VI.147. 210. +Transliteration: Eschatos tou idiou
genous. Translation: “He was the last of his race.” After that sharp,
brief winter, the sun was already at work, softening leaf and bud, as you might
feel by a faint sweetness in the air; but he did his work behind an evenly
white sky, against which the abode of the Caesars, its cypresses and bronze
roofs, seemed like a picture in beautiful but melancholy colour, as Marius
climbed the long flights of steps to be introduced to the emperor Aurelius.
Attired in the newest mode, his legs wound in dainty fasciae of white leather,
with the heavy gold ring of the ingenuus, and in his toga of ceremony, he still
retained all his country freshness of complexion. The eyes of the “golden
youth” of Rome were upon him as the chosen friend of Cornelius, and the
destined servant of the emperor; but not jealously. In spite of, perhaps partly
because of, his habitual reserve of manner, he had become “the fashion,” even
among those who felt instinctively the irony which lay beneath that remarkable
self-possession, as of one taking all things with a difference from other
people, perceptible in voice, in expression, and even in his dress. It was, in
truth, the air of one who, entering vividly into life, and relishing to the
full the delicacies of its intercourse, yet feels all the while, from the point
of view of an ideal philosophy, that he is but conceding reality to
suppositions, choosing of his own will to walk in a day-dream, of the
illusiveness of which he at least is aware. In the house of the chief
chamberlain Marius waited for the due moment of admission to the emperor’s
presence. He was admiring the peculiar decoration of the walls, coloured like
rich old red leather. In the midst of one of them was depicted, under a trellis
of fruit you might have gathered, the figure of a woman knocking at a door with
wonderful reality of perspective. Then the summons came; and in a few minutes,
the etiquette of the imperial household being still a simple matter, he had
passed the curtains which divided the central hall of the palace into three
parts—three degrees of approach to the sacred person—and was speaking to
Aurelius himself; not in Greek, in which the emperor oftenest conversed with
the learned, but, more familiarly, in Latin, adorned however, or disfigured, by
many a Greek phrase, as now and again French phrases have made the adornment of
fashionable English. It was with real kindliness that Marcus Aurelius looked
upon Marius, as a youth of great attainments in Greek letters and philosophy;
and he liked also his serious expression, being, as we know, a believer in the
doctrine of physiognomy—that, as he puts it, not love only, but every other
affection of man’s soul, looks out very plainly from the window of the
eyes. The apartment in which Marius found himself was of ancient aspect,
and richly decorated with the favourite toys of two or three generations of
imperial collectors, now finally revised by the high connoisseurship of the
Stoic emperor himself, though destined not much longer to remain together
there. It is the repeated boast of Aurelius that he had learned from old
Antoninus Pius to maintain authority without the constant use of guards, in a
robe woven by the handmaids of his own consort, with no processional lights or
images, and “that a prince may shrink himself almost into the figure of a
private gentleman.” And yet, again as at his first sight of him, Marius was
struck by the profound religiousness of the surroundings of the imperial
presence. The effect might have been due in part to the very simplicity, the
discreet and scrupulous simplicity, of the central figure in this splendid
abode; but Marius could not forget that he saw before him not only the head of
the Romanreligion, but one who might actually have claimed something like
divine worship, had he cared to do so. Though the fantastic pretensions of
Caligula had brought some contempt on that claim, which had become almost a
jest under the ungainly Claudius, yet, from Augustus downwards, a vague
divinity had seemed to surround the Caesars even in this life; and the peculiar
character of Aurelius, at once a ceremonious polytheist never forgetful of his
pontifical calling, and a philosopher whose mystic speculation encircled him
with a sort of saintly halo, had restored to his person, without his intending
it, something of that divine prerogative, or prestige. Though he would never
allow the immediate dedication of altars to himself, yet the image of his
Genius—his spirituality or celestial counterpart—was placed among those of the
deified princes of the past; and his family, including Faustina and the young
Commodus, was spoken of as the “holy” or “divine” house. Many a Roman courtier
agreed with the barbarian chief, who, after contemplating a predecessor of
Aurelius, withdrew from his presence with t he exclamation:—“I have seen a
god to-day!” The very roof of his house, rising into a pediment or gable, like
that of the sanctuary of a god, the laurels on either side its doorway, the
chaplet of oak-leaves above, seemed to designate the place for religious
veneration. And notwithstanding all this, the household of Aurelius was
singularly modest, with none of the wasteful expense of palaces after the
fashion of Lewis the Fourteenth; the palatial dignity being felt only in a
peculiar sense of order, the absence of all that was casual, of vulgarity and
discomfort. A merely official residence of his predecessors, the Palatine had
become the favourite dwelling-place of Aurelius; its many-coloured memories
suiting, perhaps, his pensive character, and the crude splendours of Nero and
Hadrian being now subdued by time. The window-less Roman abode must have had
much of what toa modern would be gloom. How did the children, one wonders,
endure houses with so little escape for the eye into the world outside?
Aurelius, who had altered little else, choosing to live there, in a genuine homeliness,
had shifted and made the most of the level lights, and broken out a quite
medieval window here and there, and the clear daylight, fully appreciated by
his youthful visitor, made pleasant shadows among the objects of the imperial
collection. Some of these, indeed, by reason of their Greek simplicity and
grace, themselves shone out like spaces of a purer, early light, amid the
splendours of the Roman manufacture. Though he looked, thought Marius,
like a man who did not sleep enough, he was abounding and bright to-day, after
one of those pitiless headaches, which since boyhood had been the “thorn in his
side,” challenging the pretensions of his philosophy to fortify one in humble
endurances. At the first moment, to Marius, remembering the spectacle of the
emperor in ceremony, it was almost bewildering to be in private conversation
with him. There was much in the philosophy of Aurelius—much consideration of
mankind at large, of great bodies, aggregates and generalities, after the Stoic
manner—which, on a nature less rich than his, might have acted as an inducement
to care for people in inverse proportion to their nearness to him. That has
sometimes been the result of the Stoic cosmopolitanism. Aurelius, however,
determined to beautify by all means, great or little, a doctrine which had in
it some potential sourness, had brought all the quickness of his intelligence,
and long years of observation, to bear on the conditions of social intercourse.
He had early determined “not to make business an excuse to decline the offices
of humanity—not to pretend to be too much occupied with important affairs to
concede what life with others may hourly demand;” and with such success, that,
in an age which made much of the finer points of that intercourse, it was felt
that the mere honesty of his conversation was more pleasing than other men’s
flattery. His agreeableness to his young visitor to-day was, in truth, a
blossom of the same wisdom which had made of Lucius Verus really a brother—the
wisdom of not being exigent with men, any more than with fruit-trees (it is his
own favourite figure) beyond their nature. And there was another person, still
nearer to him, regarding whom this wisdom became a marvel, of equity—of
charity. The centre of a group of princely children, in the same
apartment with Aurelius, amid all the refined intimacies of a modern home, sat
the empress Faustina, warming her hands over a fire. With her long fingers
lighted up red by the glowing coals of the brazier Marius looked close upon the
most beautiful woman in the world, who was also the great paradox of the age,
among her boys and girls. As has been truly said of the numerous
representations of her in art, so in life, she had the air of one curious,
restless, to enter into conversation with the first comer. She had certainly
the power of stimulating a very ambiguous sort of curiosity about herself. And
Marius found this enigmatic point in her expression, that even after seeing her
many times he could never precisely recall her features in absence. The lad of
six years, looking older, who stood beside her, impatiently plucking a rose to
pieces over the hearth, was, in outward appearance, his father—the young
Verissimus—over again; but with a certain feminine length of feature, and with
all his mother’s alertness, or license, of gaze. Yet rumour knocked at
every door and window of the imperial house regarding the adulterers who
knocked at them, or quietly left their lovers’ garlands there. Was not that
likeness of the husband, in the boy beside her, really the effect of a shameful
magic, in which the blood of the murdered gladiator, his true father, had been
an ingredient? Were the tricks for deceiving husbands which the Roman poet
describes, really hers, and her household an efficient school of all the arts
of furtive love? Or, was the husband too aware, like every one beside? Were
certain sudden deaths which happened there, really the work of apoplexy, or the
plague? The man whose ears, whose soul, those rumours were meant to
penetrate, was, however, faithful to his sanguine and optimist philosophy, to
his determination that the world should be to him simply what the higher reason
preferred to conceive it; and the life’s journey Aurelius had made so far,
though involving much moral and intellectual loneliness, had been ever in
affectionate and helpful contact with other wayfarers, very unlike himself.
Since his days of earliest childhood in the Lateran gardens, he seemed to
himself, blessing the gods for it after deliberate survey, to have been always surrounded
by kinsmen, friends, servants, of exceptional virtue. From the great Stoic
idea, that we are all fellow-citizens of one city, he had derived a tenderer, a
more equitable estimate than was common among Stoics, of the eternal
shortcomings of men and women. Considerations that might tend to the sweetening
of his temper it was his daily care to store away, with a kind of philosophic
pride in the thought that no one took more good-naturedly than he the
“oversights” of his neighbours. For had not Plato taught (it was not paradox,
but simple truth of experience) that if people sin, it is because they know no
better, and are “under the necessity of their own ignorance”? Hard to himself,
he seemed at times, doubtless, to decline too softly upon unworthy persons.
Actually, he came thereby upon many a useful instrument. The empress Faustina
he would seem at least to have kept, by a constraining affection, from becoming
altogether what most people have believed her, and won in her (we must take him
at his word in the “Thoughts,” abundantly confirmed by letters, on both sides,
in his correspondence with Cornelius Fronto) a consolation, the more secure,
perhaps, because misknown of others. Was the secret of her actual
blamelessness, after all, with him who has at least screened her name? At all
events, the one thing quite certain about her, besides her extraordinary
beauty, is her sweetness to himself. No! The wise, who had made due
observation on the trees of the garden, would not expect to gather grapes of
thorns or fig-trees: and he was the vine, putting forth his genial fruit, by
natural law, again and again, after his kind, whatever use people might make of
it. Certainly, his actual presence never lost its power, and Faustina was glad
in it to-day, the birthday of one of her children, a boy who stood at her knee
holding in his fingers tenderly a tiny silver trumpet, one of his birthday
gifts.—“For my part, unless I conceive my hurt to be such, I have no hurt at
all,”—boasts the would-be apathetic emperor:—“and how I care to conceive of the
thing rests with me.” Yet when his children fall sick or die, this pretence
breaks down, and he is broken-hearted: and one of the charms of certain of his
letters still extant, is his reference to those childish sicknesses.—“On my
return to Lorium,” he writes, “I found my little lady—domnulam meam—in a
fever;” and again, in a letter to one of the most serious of men, “You will be
glad to hear that our little one is better, and running about the room—parvolam
nostram melius valere et intra cubiculum discurrere.” The young Commodus
had departed from the chamber, anxious to witness the exercises of certain
gladiators, having a native taste for such company, inherited, according to
popular rumour, from his true father—anxious also to escape from the too
impressive company of the gravest and sweetest specimen of old age Marius had
ever seen, the tutor of the imperial children, who had arrived to offer his
birthday congratulations, and now, very familiarly and affectionately, made a
part of the group, falling on the shoulders of the emperor, kissing the empress
Faustina on the face, the little ones on the face and hands. Marcus Cornelius
Fronto, the “Orator,” favourite teacher of the emperor’s youth, afterwards his
most trusted counsellor, and now the undisputed occupant of the sophistic
throne, whose equipage, elegantly mounted with silver, Marius had seen in the
streets of Rome, had certainly turned his many personal gifts to account with a
good fortune, remarkable even in that age, so indulgent to professors or
rhetoricians. The gratitude of the emperor Aurelius, always generous to his
teachers, arranging their very quarrels sometimes, for they were not always
fair to one another, had helped him to a really great place in the world. But
his sumptuous appendages, including the villa and gardens of Maecenas, had been
borne with an air perfectly becoming, by the professor of a philosophy which,
even in its most accomplished and elegant phase, presupposed a gentle contempt
for such things. With an intimate practical knowledge of manners,
physiognomies, smiles, disguises, flatteries, and courtly tricks of every
kind—a whole accomplished rhetoric of daily life—he applied them all to the
promotion of humanity, and especially of men’s family affection. Through a long
life of now eighty years, he had been, as it were, surrounded by the gracious
and soothing air of his own eloquence—the fame, the echoes, of it—like warbling
birds, or murmuring bees. Setting forth in that fine medium the best ideas of
matured pagan philosophy, he had become the favourite “director” of noble
youth. Yes! it was the one instance Marius, always eagerly on the
look-out for such, had yet seen of a perfectly tolerable, perfectly beautiful,
old age—an old age in which there seemed, to one who perhaps habitually
over-valued the expression of youth, nothing to be regretted, nothing
really lost, in what years had taken away. The wise old man, whose blue eyes
and fair skin were so delicate, uncontaminate and clear, would seem to have
replaced carefully and consciously each natural trait of youth, as it departed
from him, by an equivalent grace of culture; and had the blitheness, the placid
cheerfulness, as he had also the infirmity, the claim on stronger people, of a
delightful child. And yet he seemed to be but awaiting his exit from life—that
moment with which the Stoics were almost as much preoccupied as the Christians,
however differently—and set Marius pondering on the contrast between a
placidity like this, at eighty years, and the sort of desperateness he was
aware of in his own manner of entertaining that thought. His infirmities
nevertheless had been painful and long-continued, with losses of children, of
pet grandchildren. What with the crowd, and the wretched streets, it was a sign
of affection which had cost him something, for the old man to leave his own
house at all that day; and he was glad of the emperor’s support, as he moved
from place to place among the children he protests so often to have loved as
his own. For a strange piece of literary good fortune, at the beginning
of the present century, has set freethe long-buried fragrance of this famous
friendship of the old world, from below a valueless later manuscript, in a
series of letters, wherein the two writers exchange, for the most part their
evening thoughts, especially at family anniversaries, and with entire intimacy,
on their children, on the art of speech, on all the various subtleties of the
“science of images”—rhetorical images—above all, of course, on sleep and
matters of health. They are full of mutual admiration of each other’s
eloquence, restless in absence till they see one another again, noting,
characteristically, their very dreams of each other, expecting the day which
will terminate the office, the business or duty, which separates them—“as
superstitious people watch for the star, at the rising of which they may break
their fast.” To one of the writers, to Aurelius, the correspondence was
sincerely of value. We see him once reading his letters with genuine delight on
going to rest. Fronto seeks to deter his pupil from writing in Greek.—Why buy,
at great cost, a foreign wine, inferior to that from one’s own vineyard?
Aurelius, on the other hand, with an extraordinary innate susceptibility to
words—la parole pour la parole, as the French say—despairs, in presence of
Fronto’s rhetorical perfection. Like the modern visitor to the Capitoline
and some other museums, Fronto had been struck, pleasantly struck, by the
family likeness among the Antonines; and it was part of his friendship to make
much of it, in the case of the children of Faustina. “Well! I have seen the
little ones,” he writes to Aurelius, then, apparently, absent from them: “I
have seen the little ones—the pleasantest sight of my life; for they are as
like yourself as could possibly be. It has well repaid me for my journey over
that slippery road, and up those steep rocks; for I beheld you, not simply face
to face before me, but, more generously, whichever way I turned, to my right
and my left. For the rest, I found them, Heaven be thanked! with healthy cheeks
and lusty voices. One was holding a slice of white bread, like a king’s son;
the other a crust of brown bread, as becomes the offspring of a philosopher. I
pray the gods to have both the sower and the seed in their keeping; to watch
over this field wherein the ears of corn are so kindly alike. Ah! I heard too
their pretty voices, so sweet that in the childish prattle of one and the other
I seemed somehow to be listening—yes! in that chirping of your pretty
chickens—to the limpid+ and harmonious notes of your own oratory. Take care!
you will find me growing independent, having those I could love in your
place:—love, on the surety of my eyes and ears.” +“Limpid” is misprinted
“Limped.” “Magistro meo salutem!” replies the Emperor, “I too have
seen my little ones in your sight of them; as, also, I saw yourself in reading
your letter. It is that charming letter forces me to write thus:” with
reiterations of affection, that is, which are continual in these letters, on
both sides, and which may strike a modern reader perhaps as fulsome; or, again,
as having something in common with the old Judaic unction of friendship. They
were certainly sincere. To one of those children Fronto had now brought
the birthday gift of the silver trumpet, upon which he ventured to blow softly
now and again, turning away with eyes delighted at the sound, when he thought
the old man was not listening. It was the well-worn, valetudinarian subject of
sleep, on which Fronto and Aurelius were talking together; Aurelius always
feeling it a burden, Fronto a thing of magic capacities, so that he had written
an encomium in its praise, and often by ingenious arguments recommends his
imperial pupil not to be sparing of it. To-day, with his younger listeners in
mind, he had a story to tell about it:— “They say that our father
Jupiter, when he ordered the world at the beginning, divided time into two
parts exactly equal: the one part he clothed with light, the other with darkness:
he called them Day and Night; and he assigned rest to the night and to day the
work of life. At that time Sleep was not yet born and men passed the whole of
their lives awake: only, the quiet of the night was ordained for them, instead
of sleep. But it came to pass, little by little, being that the minds of men
are restless, that they carried on their business alike by night as by day, and
gave no part at all to repose. And Jupiter, when he perceived that even in the
night-time they ceased not from trouble and disputation, and that even the
courts of law remained open (it was the pride of Aurelius, as Fronto knew, to
be assiduous in those courts till far into the night) resolved to appoint one
of his brothers to be the overseer of the night and have authority over man’s
rest. But Neptune pleaded in excuse the gravity of his constant charge of the
seas, and Father Dis the difficulty of keeping in subjection the spirits below;
and Jupiter, having taken counsel with the other gods, perceived that the
practice of nightly vigils was somewhat in favour. It was then, for the most
part, that Juno gave birth to her children: Minerva, the mistress of all art
and craft, loved the midnight lamp: Mars delighted in the darkness for his
plots and sallies; and the favour of Venus and Bacchus was with those who
roused by night. Then it was that Jupiter formed the design of creating Sleep;
and he added him to the number of the gods, and gave him the charge over night
and rest, putting into his hands the keys of human eyes. With his own hands he
mingled the juices wherewith Sleep should soothe the hearts of mortals—herb of
Enjoyment and herb of Safety, gathered from a grove in Heaven; and, from the
meadows of Acheron, the herb of Death; expressing from it one single drop only,
no bigger than a tear one might hide. ‘With this juice,’ he said, ‘pour slumber
upon the eyelids of mortals. So soon as it hath touched them they will lay
themselves down motionless, under thy power. But be not afraid: they shall
revive, and in a while stand up again upon their feet.’ Thereafter, Jupiter
gave wings to Sleep, attached, not, like Mercury’s, to his heels, but to his
shoulders, like the wings of Love. For he said, ‘It becomes thee not to
approach men’s eyes as with the noise of chariots, and the rushing of a swift
courser, but in placid and merciful flight, as upon the wings of a swallow—nay!
with not so much as the flutter of the dove.’ Besides all this, that he might
be yet pleasanter to men, he committed to him also a multitude of blissful dreams,
according to every man’s desire. One watched his favourite actor; another
listened to the flute, or guided a charioteer in the race: in his dream, the
soldier was victorious, the general was borne in triumph, the wanderer returned
home. Yes!—and sometimes those dreams come true! Just then Aurelius was
summoned to make the birthday offerings to his household gods. A heavy curtain
of tapestry was drawn back; and beyond it Marius gazed for a few moments into
the Lararium, or imperial chapel. A patrician youth, in white habit, was in
waiting, with a little chest in his hand containing incense for the use of the
altar. On richly carved consoles, or side boards, around this narrow chamber,
were arranged the rich apparatus of worship and the golden or gilded images,
adorned to-day with fresh flowers, among them that image of Fortune from the
apartment of Antoninus Pius, and such of the emperor’s own teachers as were
gone to their rest. A dim fresco on the wall commemorated the ancient piety of
Lucius Albinius, who in flight from Rome on the morrow of a great disaster,
overtaking certain priests on foot with their sacred utensils, descended from
the wagon in which he rode and yielded it to the ministers of the gods. As he
ascended into the chapel the emperor paused, and with a grave but friendly look
at his young visitor, delivered a parting sentence, audible to him alone:
_Imitation is the most acceptable part of worship:—the gods had much rather
mankind should resemble than flatter them. Make sure that those to whom you
come nearest be the happier by your presence!_ It was the very spirit of
the scene and the hour—the hour Marius had spent in the imperial house. How
temperate, how tranquillising! what humanity! Yet, as he left the eminent
company concerning whose ways of life at home he had been so youthfully
curious, and sought, after his manner, to determine the main trait in all this,
he had to confess that it was a sentiment of mediocrity, though of a mediocrity
for once really golden. During the Eastern war there came a moment
when schism in the empire had seemed possible through the defection of Lucius
Verus; when to Aurelius it had also seemed possible to confirm his allegiance
by no less a gift than his beautiful daughter Lucilla, the eldest of his
children—the domnula, probably, of those letters. The little lady, grown now to
strong and stately maidenhood, had been ever something of the good genius, the
better soul, to Lucius Verus, by the law of contraries, her somewhat cold and
apathetic modesty acting as counterfoil to the young man’s tigrish fervour.
Conducted to Ephesus, she had become his wife by form of civil marriage, the
more solemn wedding rites being deferred till their return to Rome. The
ceremony of the Confarreation, or religious marriage, in which bride and
bridegroom partook together of a certain mystic bread, was celebrated
accordingly, with due pomp, early in the spring; Aurelius himself assisting,
with much domestic feeling. A crowd of fashionable people filled the space
before the entrance to the apartments of Lucius on the Palatine hill, richly
decorated for the occasion, commenting, not always quite delicately, on the
various details of the rite, which only a favoured few succeeded in actually
witnessing. “She comes!” Marius could hear them say, “escorted by her young
brothers: it is the young Commodus who carries the torch of white-thornwood,
the little basket of work-things, the toys for the children:”—and then, after a
watchful pause, “she is winding the woollen thread round the doorposts. Ah! I
see the marriage-cake: the bridegroom presents the fire and water.” Then, in a
longer pause, was heard the chorus, Thalassie! Thalassie! and for just a few
moments, in the strange light of many wax tapers at noonday, Marius could see
them both, side by side, while the bride was lifted over the doorstep: Lucius
Verus heated and handsome—the pale, impassive Lucilla looking very long and
slender, in her closely folded yellow veil, and high nuptial crown. As
Marius turned away, glad to escape from the pressure of the crowd, he found
himself face to face with Cornelius, an infrequent spectator on occasions such
as this. It was a relief to depart with him—so fresh and quiet he looked,
though in all his splendid equestrian array in honour of the ceremony—from the
garish heat of the marriage scene. The reserve which had puzzled Marius so much
on his first day in Rome, was but an instance of many, to him wholly
unaccountable, avoidances alike of things and persons, which must certainly
mean that an intimate companionship would cost him something in the way of
seemingly indifferent amusements. Some inward standard Marius seemed to detect
there (though wholly unable to estimate its nature) of distinction, selection,
refusal, amid the various elements of the fervid and corrupt life across which
they were moving together:—some secret, constraining motive, ever on the alert
at eye and ear, which carried him through Rome as under a charm, so that Marius
could not but think of that figure of the white bird in the market-place as
undoubtedly made true of him. And Marius was still full of admiration for this
companion, who had known how to make himself very pleasant to him. Here was the
clear, cold corrective, which the fever of his present life demanded. Without
it, he would have felt alternately suffocated and exhausted by an existence, at
once so gaudy and overdone, and yet so intolerably empty; in which people, even
at their best, seemed only to be brooding, like the wise emperor himself, over
a world’s disillusion. For with all the severity of Cornelius, there was such a
breeze of hopefulness—freshness and hopefulness, as of new morning, about him.
For the most part, as I said, those refusals, that reserve of his, seemed
unaccountable. But there were cases where the unknown monitor acted in a
direction with which the judgment, or instinct, of Marius himself wholly
concurred; the effective decision of Cornelius strengthening him further
therein, as by a kind of outwardly embodied conscience. And the entire drift of
his education determined him, on one point at least, to be wholly of the same
mind with this peculiar friend (they two, it might be, together, against the
world!) when, alone of a whole company of brilliant youth, he had withdrawn
from his appointed place in the amphitheatre, at a grand public show, which
after an interval of many months, was presented there, in honour of the
nuptials of Lucius Verus and Lucilla. And it was still to the eye,
through visible movement and aspect, that the character, or genius of Cornelius
made itself felt by Marius; even as on that afternoon when he had girt on his
armour, among the expressive lights and shades of the dim old villa at the
roadside, and every object of his knightly array had seemed to be but sign or
symbol of some other thing far beyond it. For, consistently with his really
poetic temper, all influence reached Marius, even more exclusively than he was
aware, through th e medium of sense. From Flavian in that brief early
summer of his existence, he had derived a powerful impression of the “perpetual
flux”: he had caught there, as in cipher or symbol, or low whispers more
effective than any definite language, his own Cyrenaic philosophy, presented
thus, for the first time, in an image or person, with much attractiveness,
touched also, consequently, with a pathetic sense of personal sorrow:—a
concrete image, the abstract equivalent of which he could recognise afterwards,
when the agitating personal influence had settled down for him, clearly enough,
into a theory of practice. But of what possible intellectual formula could this
mystic Cornelius be the sensible exponent; seeming, as he did, to live ever in
close relationship with, and recognition of, a mental view, a source of
discernment, a light upon his way, which had certainly not yet sprung up for
Marius? Meantime, the discretion of Cornelius, his energetic clearness and
purity, were a charm, rather physical than moral: his exquisite correctness of
spirit, at all events, accorded so perfectly with the regular beauty of his
person, as to seem to depend upon it. And wholly different as was this later
friendship, with its exigency, its warnings, its restraints, from the feverish
attachment to Flavian, which had made him at times like an uneasy slave, still,
like that, it was a reconciliation to the world of sense, the visible world.
From the hopefulness o f this gracious presence, all visible things around
him, even the commonest objects of everyday life—if they but stood together to
warm their hands at the same fire—took for him a new poetry, a delicate fresh
bloom, and interest. It was as if his bodily eyes had been indeed mystically
washed, renewed, strengthened. And how eagerly, with what a light heart,
would Flavian have taken his placein the amphitheatre, among the youth of his
own age! with what an appetite for every detail of the entertainment, and its
various accessories:—the sunshine, filtered into soft gold by the vela, with
their serpentine patterning, spread over the more select part of the company; the
Vestal virgins, taking their privilege of seats near the empress Faustina, who
sat there in a maze of double-coloured gems, changing, as she moved, like the
waves of the sea; the cool circle of shadow, in which the wonderful toilets of
the fashionable told so effectively around the blazing arena, covered again and
again during the many hours’ show, with clean sand for the absorption of
certain great red patches there, by troops of white-shirted boys, for whom the
good-natured audience provided a scramble of nuts and small coin, flung to them
over a trellis-work of silver-gilt and amber, precious gift of Nero, while a
rain of flowers and perfume fell over themselves, as they paused between the
parts of their long feast upon the spectacle of animal suffering. During
his sojourn at Ephesus, Lucius Verus had readily become a patron, patron or
protégé, of the great goddess of Ephesus, the goddess of hunters; and the show,
celebrated by way of a compliment to him to-day, was to present some incidents
of her story, where she figures almost as the genius of madness, in animals, or
in the humanity which comes in contact with them. The entertainment would have
an element of old Greek revival in it, welcome to the taste of a learned and
Hellenising society; and, as Lucius Verus was in some sense a lover of animals,
was to be a display of animals mainly. There would be real wild and domestic
creatures, all of rare species; and a real slaughter. On so happy an occasion,
it was hoped, the elder emperor might even concede a point, and a living
criminal fall into the jaws of the wild beasts. And the spectacle was,
certainly, to end in the destruction, by one mighty shower of arrows, of a
hundred lions, “nobly” provided by Aurelius himself for the amusement of his
people.—Tam magnanimus fuit! The arena, decked and in order for the first
scene, looked delightfully fresh, re-inforcing on the spirits of the audience
the actual freshness of the morning, which at this season still brought the
dew. Along the subterranean ways that led up to it, the sound of an advancing
chorus was heard at last, chanting the words of a sacred song, or hymn to
Diana; for the spectacle of the amphitheatre was, after all, a religious
occasion. To its grim acts of blood-shedding a kind of sacrificial character
still belonged in the view of certain religious casuists, tending conveniently
to soothe the humane sensibilities of so pious an emperor as Aurelius, who, in
his fraternal complacency, had consented to preside over the shows.
Artemis or Diana, as she may be understood in the actual development of her
worship, was, indeed, the symbolical expression of two allied yet contrasted
elements of human temper and experience—man’s amity, and also his enmity,
towards the wild creatures, when they were still, in a certain sense, his
brothers. She is the complete, and therefore highly complex, representative of
a state, in which man was still much occupied with animals, not as his flock,
or as his servants after the pastoral relationship of our later, orderly world,
but rather as his equals, on friendly terms or the reverse,—a state full of
primeval sympathies and antipathies, of rivalries and common wants—while he
watched, and could enter into, the humours of those “younger brothers,” with an
intimacy, the “survivals” of which in a later age seem often to have had a kind
of madness about them. Diana represents alike the bright and the dark side of
such relationship. But the humanities of that relationship were all forgotten
to-day in the excitement of a show, in which mere cruelty to animals, their
useless suffering and death, formed the main point of interest. People watched
their destruction, batch after batch, in a not particularly inventive fashion;
though it was expected that the animals themselves, as living creatures are apt
to do when hard put to it, would become inventive, and make up, by the
fantastic accidents of their agony, for the deficiencies of an age fallen
behind in this matter of manly amusement. It was as a Deity of Slaughter—the
Taurian goddess who demands the sacrifice of the shipwrecked sailors thrown on
her coasts—the cruel, moonstruck huntress, who brings not only sudden death,
but rabies, among the wild creatures that Diana was to be presented, in the
person of a famous courtesan. The aim at an actual theatrical illusion, after
the first introductory scene, was frankly surrendered to the display of the
animals, artificially stimulated and maddened to attack each other. And as
Diana was also a special protectress of new-born creatures, there would be a
certain curious interest in the dexterously contrived escape of the young from
their mother’s torn bosoms; as many pregnant animals as possible being
carefully selected for the purpose. The time had been, and was to come
again, when the pleasures of the amphitheatre centered in a similar practical
joking upon human beings. What more ingenious diversion had stage manager ever
contrived than that incident, itself a practical epigram never to be
forgottten, when a criminal, who, like slaves and animals, had no rights, was
compelled to present the part of Icarus; and, the wings failing him in due
course, had fallen into a pack of hungry bears? For the long shows of the
amphitheatre were, so to speak, the novel-reading of that age—a current help
provided for sluggish imaginations, in regard, for instance, to grisly
accidents, such as might happen to one’s self; but with every facility for
comfortable inspection. Scaevola might watch his own hand, consuming,
crackling, in the fire, in the person of a culprit, willing to redeem his life
by an act so delightful to the eyes, the very ears, of a curious public. If the
part of Marsyas was called for, there was a criminal condemned to lose his
skin. It might be almost edifying to study minutely the expression of his face,
while the assistants corded and pegged him to the bench, cunningly; the servant
of the law waiting by, who, after one short cut with his knife, would slip the
man’s leg from his skin, as neatly as if it were a stocking—a finesse in
providing the due amount of suffering for wrong-doers only brought to its
height in Nero’s living bonfires. But then, by making his suffering ridiculous,
you enlist against the sufferer, some real, and all would-be manliness, and do
much to stifle any false sentiment of compassion. The philosophic emperor,
having no great taste for sport, and asserting here a personal scruple, had
greatly changed all that; had provided that nets should be spread under the
dancers on the tight-rope, and buttons for the swords of the gladiators. But
the gladiators were still there. Their bloody contests had, under the form of a
popular amusement, the efficacy of a human sacrifice; as, indeed, the whole
system of the public shows was understood to possess a religious import. Just
at this point, certainly, the judgment of Lucretius on pagan religion is
without reproach— Tantum religio potuit suadere malorum. And
Marius, weary and indignant, feeling isolated in the great slaughter-house,
could not but observe that, in his habitual complaisance to Lucius Verus, who,
with loud shouts of applause from time to time, lounged beside him, Aurelius
had sat impassibly through all the hours Marius himself had remained there. For
the most part indeed, the emperor had actually averted his eyes from the show,
reading, or writing on matters of public business, but had seemed, after all,
indifferent. He was revolving, perhaps, that old Stoic paradox of the
Imperceptibility of pain; which might serve as an excuse, should those savage
popular humours ever again turn against men and women. Marius remembered well
his very attitude and expression on this day, when, a few years later, certain
things came to pass in Gaul, under his full authority; and that attitude and
expression defined already, even thus early in their so friendly intercourse,
and though he was still full of gratitude for his interest, a permanent point
of difference between the emperor and himself—between himself, with all the
convictions of his life taking centre to-day in his merciful, angry heart, and
Aurelius, as representing all the light, all the apprehensive power there might
be in pagan intellect. There was something in a tolerance such as this, in the
bare fact that he could sit patiently through a scene like this, which seemed
to Marius to mark Aurelius as his inferior now and for ever on the question of
righteousness; to set them on opposite sides, in some great conflict, of which
that difference was but a single presentment. Due, in whatever proportions, to
the abstract principles he had formulated for himself, or in spite of them,
there was the loyal conscience within him, deciding, judging himself and every
one else, with a wonderful sort of authority:—You ought, methinks, to be
something quite different from what you are; here! and here! Surely Aurelius
must be lacking in that decisive conscience at first sight, of the intimations
of which Marius could entertain no doubt—which he looked for in others. He at
least, the humble follower of the bodily eye, was aware of a crisis in life, in
this brief, obscure existence, a fierce opposition of real good and real evil
around him, the issues of which he must by no means compromise or confuse; of
the antagonisms of which the “wise” Marcus Aurelius was unaware. That
long chapter of the cruelty of the Roman public shows may, perhaps, leave with
the children of the modern world a feeling of self-complacency. Yet it might
seem well to ask ourselves—it is always well to do so, when we read of the
slave-trade, for instance, or of great religious persecutions on this side or
on that, or of anything else which raises in us the question, “Is thy servant a
dog, that he should do this thing?”—not merely, what germs of feeling we may
entertain which, under fitting circumstances, would induce us to the like; but,
even more practically, what thoughts, what sort of considerations, may be
actually present to our minds such as might have furnished us, living in
another age, and in the midst of those legal crimes, with plausible excuses for
them: each age in turn, perhaps, having its own peculiar point of blindness,
with its consequent peculiar sin—the touch-stone of an unfailing conscience in
the select few. Those cruel amusements were, certainly, the sin of
blindness, of deadness and stupidity, in the age of Marius; and his light had
not failed him regarding it. Yes! what was needed was the heart that would make
it impossible to witness all this; and the future would be with the forces that
could beget a heart like that. His chosen philosophy had said,—Trust the eye: Strive
to be right always in regard to the concrete experience: Beware of falsifying
your impressions. And its sanction had at least been effective here, in
protesting—“This, and this, is what you may not look upon!” Surely evil was a
real thing, and the wise man wanting in the sense of it, where, not to have
been, by instinctive election, on the right side, was to have failed in
life. The very finest flower of the same company Aurelius with the
gilded fasces borne before him, a crowd of exquisites, the empress
Faustina her- self, and all the elegant blue -stockings of the day,
who maintained, people said, their private " sophists " to
whisper philosophy into their ears winsomely as they performed the duties
of the toilet was assembled again a few months later, in a
different place and for a very different purpose. The temple of Peace, a
" modernis- ing" foundation of Hadrian, enlarged by a
library and lecture-rooms, had grown into an institution like something
between a college and a literary club ; and here Cornelius Pronto was
to pronounce a discourse on the Nature of Morals. There were some,
indeed, who had desired the emperor Aurelius himself to declare his
whole mind on this matter. Rhetoric was become almost a function of
the state : philosophy was upon the throne ; and had from time to time,
by request, delivered an official utterance with well- nigh divine
authority. And it was as the delegate of this authority, under the full
sanction of the philosophic emperor emperor and pontiff, that the
aged Pronto purposed to-day to expound some parts of the Stoic doctrine,
with the view of recommending morals to that refined but perhaps
prejudiced company, as being, in effect, one mode of comeliness in things
as it were music, or a kind of artistic order, in life. And he did
this earnestly, with an outlay of all his science of mind, and that
eloquence of which he was known to be a master. For Stoicism was no
longer a rude a nd unkempt thing. Received at court, it had largely
decorated itself: it was grown persuasive and insinuating, and sought
not only to convince men's intelligence but to allure their souls.
Associated with the beautiful old age of the great rhetorician, and his
winning voice, it was almost Epicurean. And the old man was at his
best on the occasion ; the last on which he ever appeared in this way.
To-day was his own birthday. Early in the morning the imperial
letter of congratulation had reached him ; and all the pleasant animation
it had caused was in his face, when assisted by his daughter Gratia
he took his place on the ivory chair, as president of the Athenaeum of
Rome, wearing with a wonderful grace the philosophic pall, in
reality neither more nor less than the loose woollen cloak of the common
soldier, but fastened on his right shoulder with a magnificent
clasp, the emperor's birthday gift. It was an age, as
abundant evidence shows, whose delight in rhetoric was but one result of
a general susceptibility an age not merely taking pleasure in
words, but experiencing a great moral power in them. Fronto's quaintly
fashionable audience would have wept, and also assisted with their
purses, had his present purpose been, as sometimes happened, the
recommendation of an object of charity. As it was, arranging them-
selves at their ease among the images and flowers, these amateurs of
exquisite language, with their tablets open for careful record of
felicitous word or phrase, were ready to give themselves wholly to
the intellectual treat prepared for them, applauding, blowing loud kisses
through the air sometimes, at the speaker's triumphant exit from
one of his long, skilfully modulated sentences ; while the younger of
them meant to imitate everything about him, down to the inflections
of his voice and the very folds of his mantle. Certainly there was
rhetoric enough : a wealth of imagery ; illustrations from painting,
music, mythology, the experiences of love ; a manage- ment, by which
subtle, unexpected meaning was brought out of familiar terms, like flies
from morsels of amber, to use Fronto's own figure. But with all its
richness, the higher claim of his style was rightly understood to lie in
gravity and self-command, and an especial care for the purities of a
vocabulary which rejected every expression unsanctioned by the authority
of approved ancient models. And it happened with Marius, as
it will sometimes happen, that this general discourse to a general
audience had the effect of an utterance adroitly designed for him. His
conscience still vibrating painfully under the shock of that scene
in the amphitheatre, and full of the ethical charm of Cornelius, he was
questioning himself with much impatience as to the possibility of
an adjustment between his own elaborately thought- / out
intellectual scheme and the " old morality." In that
intellectual scheme indeed the old morality had so far been allowed no
place, as seeming to demand from him the admission of certain first
principles such as might misdirect or retard him in his efforts towards a
complete, many-sided existence ; or distort the revelations of the
experience of life ; or curtail his natural liberty of heart and mind.
But now (his imagination being occupied for the moment with the
noble and resolute air, the gallantry, so to call it, which composed the
outward mien and presentment of his strange friend's inflexible
ethics) he felt already some nascent suspicion of his philosophic
programme, in regard, precisely, to the question of good taste. There was
the taint of a graceless " antinomianism " perceptible in
it, a dissidence, a revolt against accustomed modes, the actual
impression of which on other men might rebound upon himself in some loss
of that personal pride to which it was part of his theory of life
to allow so much. And it was exactly a moral situation such as this that
Pronto appeared to be contemplating. He seemed to have before his
mind the case of one Cyrenaic or Epicurean, as the courtier tends to be,
by habit and instinct, if not on principle who yet experiences,
actually, a strong tendency to moral assents, and a desire, with as
little logical incon- sistency as may be, to find a place for duty
and righteousness in his house of thought. And the Stoic
professor found the key to this problem in the purely aesthetic beauty of
the old morality, as an element in things, fascinating to the
imagination, to good taste in its most highly developed form, through
association a system or order, as a matter of fact, in possession, not
only of the larger world, but of the rare minority of elite
intelligences ; from which, therefore, least of all would the sort of
Epicurean he had in view endure to become, so to speak, an outlaw.
He supposed his hearer to be, with all sincerity, in search after
some principle of conduct (and it was here that he seemed to Marius to be
speaking straight to him) which might give unity of motive to an
actual rectitude, a cleanness and probity of life, determined partly by
natural affection, partly by enlightened self-interest or the
feeling of honour, due in part even to the mere fear of penalties ; no
element of which, however, was distinctively moral in the agent
himself as such, and providing him, therefore, no common ground with a
really moral being like Cornelius, or even like the philosophic
emperor. Performing the same offices ; actually satisfying, even as
they, the external claims of others ; rendering to all their dues one
thus circum- stanced would be wanting, nevertheless, in the secret
of inward adjustment to the moral agents around him. How tenderly more
tenderly than many stricter souls he might yield himself to kindly
instinct ! what fineness of charity in passing judgment on others ! what
an exquisite conscience of other men's susceptibilities ! He knows
for how much the manner, because the heart itself, counts, in doing a
kindness. He goes beyond most people in his care for all weakly
creatures ; judging, instinctively, that to be but sentient is to possess
rights. He con- ceives a hundred duties, though he may not call
them by that name, of the existence of which purely duteous souls may
have no suspicion. He has a kind of pride in doing more than they, in
a way of his own. Sometimes, he may think that those men of line
and rule do not really under- stand their own business. How narrow,
inflex- ible, unintelligent ! what poor guardians (he may reason)
of the inward spirit of righteousness, are some supposed careful walkers
according to its letter and form. And yet all the while he admits,
as such, no moral world at all : no theoretic equivalent to so large
a proportion of the facts of life. But, over and above such
practical rectitude, thus determined by natural affection or
self-love or fear, he may notice that there is a rem- nant of right
conduct, what he does, still more what he abstains from doing, not so
much through his own free election, as from a defer- ence, an
" assent," entire, habitual, unconscious, to custom to the actual
habit or fashion of others, from whom he could not endure to break
away, any more than he would care to be out of agreement with them on
questions of mere manner, or, say, even, of dress. Yes ! there were
the evils, the vices, which he avoided as, essentially, a failure in good
taste. An assent, such as this, to the preferences of others, might
seem to be the weakest of motives, and the rectitude it could determine
the least consider- able element in a moral life. Yet here, accord-
ing to Cornelius Pronto, was in truth the revealing example, albeit
operating upon com- parative trifles, of the general principle
required. There was one great idea associated with which that
determination to conform to precedent was elevated into the clearest, the
fullest, the weightiest principle of moral action ; a principle
under which one might subsume men's most strenuous efforts after
righteousness. And he proceeded to expound the idea of Humanity of
a universal commonwealth of mind, which becomes explicit, and as if
incarnate, in a select communion of just men made perfect. 'O
Koo-fjios axravel 7ro\t9 <rrw the world is as it were a
commonwealth, a city : and there are observances, customs, usages,
actually current in it, things our friends and companions will
expect of us, as the condition of our living there with them at all, as
really their peers or fellow- citizens. Those observances were, indeed,
the creation of a visible or invisible aristocracy in it, whose
actual manners, whose preferences from of old, become now a weighty
tradition as to the way in which things should or should not be
done, are like a music, to which the intercourse of life proceeds such a
music as no one who had once caught its harmonies would willingly
jar. In this way, the becoming, as in Greek TO irpiirov : or T^ rj#?7,
mores, manners, as both Greeks and Romans said, would indeed be a
comprehensive term for duty. Righteous- ness would be, in the words of
" Caesar " himself, of the philosophic Aurelius, but a "
following of the reasonable will of the oldest, the most venerable,
of cities, of polities of the royal, the law-giving element, therein
forasmuch as we are citizens also in that supreme city on high, of
which all other cities beside are but as single habitations." But as
the old man spoke with animation of this supreme city, this
invisible society, whose conscience was become explicit in its
inner circle of inspired souls, of whose common spirit, the trusted
leaders of human conscience had been but the mouthpiece, of whose
successive personal preferences in the conduct of life, the " old
morality " was the sum, Marius felt that his own thoughts were
pass- ing beyond the actual intention of the speaker ; not in the
direction of any clearer theoretic or abstract definition of that ideal
commonwealth, but rather as if in search of its visible locality
and abiding-place, the walls and towers of which, so to speak, he
might really trace and tell, according to his own old, natural habit of
mind. ^ It would be the fabric, the outward fabric, of a system
reaching, certainly, far beyond the great city around him, even if
conceived in all the machinery of its visible and invisible
influences at their grandest as Augustus or Trajan might have conceived
of them however well the visible Rome might pass for a figure of
that new, unseen, Rome on high. At moments, Marius even asked himself
with surprise, whether it might be some vast secret society the
speaker had in view : that august community, to be an outlaw from which,
to be foreign to the manners of which, was a loss so much greater
than to be excluded, into the ends of the earth, from the sovereign Roman
common- wealth. Humanity, a universal order, the great polity, its
aristocracy of elect spirits, the mastery of their example over their
successors these were the ideas, stimulating enough in their way, by
association with which the Stoic professor had attempted to elevate, to
unite under a single principle, men's moral efforts, himself lifted
up with so genuine an enthusiasm. But where might Marius search for
all this, as more than an intellectual abstraction ? Where were
those elect souls in whom the claim of Humanity became so amiable,
winning, persuasive whose footsteps through the world were so
beautiful in the actual order he saw whose faces averted from him,
would be more than he could bear ? Where was that comely order, to which
as a great fact of experience he must give its due ; to which, as
to all other beautiful " phenomena " in life, he must, for his
own peace, adjust himself ? Rome did well to be serious. The
discourse ended somewhat abruptly, as the noise of a great crowd in
motion was heard below the walls ; whereupon, the audience, following the
humour of the younger element in it, poured into the colonnade,
from the steps of which the famous procession, or transvectio y of the
military knights was to be seen passing over the Forum, from their
trysting-place at the temple of Mars, to the temple of the Dioscuri. The
ceremony took place this year, not on the day accustomed-
anniversary of the victory of Lake Regillus, with its pair of celestial
assistants and amid the heat and roses of a Roman July, but, by anticipation,
some months earlier, the almond- trees along the way being still in
leafless flower. Through that light trellis-work, Marius watched
the riders, arrayed in all their gleaming orna- ments, and wearing
wreaths of olive around their helmets, the faces below which, what
with battle and the plague, were almost all youthful. It was a flowery
scene enough, but had to-day its fulness of war-like meaning ; the
return of the army to the North, where the enemy was again upon the move,
being now imminent. Cornelius had ridden along in his place, and,
on the dismissal of the company, passed below the steps where Marius
stood, with | that new song he had heard once before floating from
his lips. And Marius, for his part, was grave enough. The discourse
of Cornelius Pronto, with its wide prospect over the human, the
spiritual, horizon, had set him on a review on a review of the
isolating narrowness, in particular, of his own theoretic scheme. Long
after the very latest roses were faded, when " the town "
had departed to country villas, or the baths, or the war, he
remained behind in Rome ; anxious to try the lastingness of his own
Epicurean rose- garden ; setting to work over again, and deliberately
passing from point to point of his old argument with himself, down to its
practical conclusions. That age and our own have much in common
many difficulties and hopes. Let the reader pardon me if here and there I
seem to be passing from Marius to his modern representa- tives from
Rome, to Paris or London. What really were its claims as a theory
of practice, of the sympathies that determine practice ? It had been
a theory, avowedly, of loss and gain (so to call it) of an economy.
If, therefore, it missed something in the commerce of life, which
some other theory of practice was able to include, if it made a needless
sacrifice, then it must be, in a manner, inconsistent with itself,
and lack theoretic completeness. Did it make such a sacrifice ? What did
it lose, or cause one to lose ? And we may note, as Marius
could hardly have done, that Cyrenaicism is ever the char-
acteristic philosophy of youth, ardent, but narrow in its survey sincere,
but apt to become one- sided, or even fanatical. It is one of those
sub- jective and partial ideals, based on vivid, because limited,
apprehension of the truth of one aspect of experience (in this case, of
the beauty of the world and the brevity of man's life there) which
it may be said to be the special vocation of the young to express. In the
school of Cyrene, in that comparatively fresh Greek world, we see
this philosophy where it is least blase^ as we say , in its most
pleasant, its blithest and yet perhaps its wisest form, youthfully bright
in the youth of European thought. But it grows young again for a
while in almost every youthful soul. It is spoken of sometimes as the
appropriate utterance of jaded men ; but in them it can hardly be
sincere, or, by the nature of the case, an enthusi- asm. " Walk in
the ways of thine heart, and in the sight of thine eyes," is,
indeed, most often, according to the supposition of the book from
which I quote it, the counsel of the young, who feel that the sunshine is
pleasant along their veins, and wintry weather, though in a general
sense foreseen, a long way off. The youthful enthusi- asm or
fanaticism, the self-abandonment to one favourite mode of thought or
taste, which occurs, quite naturally, at the outset of every really
vigorous intellectual career, finds its special opportunity in a theory
such as that so carefully put together by Marius, just because it seems
to call on one to make the sacrifice, accompanied by a vivid
sensation of power and will, of what others value sacrifice of some conviction,
or doctrine, or supposed first principle for the sake of that
clear-eyed intellectual consistency, which is like spotless bodily
cleanliness, or scrupulous personal honour, and has itself for the mind
of the youthful student, when he first comes to appreciate it, the
fascination of an ideal. The Cyrenaic doctrine, then, realised as
a motive of strenuousness or enthusiasm, is not so properly the
utterance of the u jaded Epicurean," as of the strong young man in
all the freshness of thought and feeling, fascinated by the notion
of raising his life to the level of a daring theory, while, in the first
genial heat of existence, the beauty of the physical world strikes
potently upon his wide-open, unwearied senses. He discovers a great
new poem every spring, with a hundred delightful things he too has felt,
but which have never been expressed, or at least never so truly,
before. The workshops of the artists, who can select and set before us
what is really most distinguished in visible life, are open to him.
He thinks that the old Platonic, or the new Baconian philosophy, has been
better explained than by the authors themselves, or with some
striking original development, this very month. In the quiet heat of
early summer, on the dusty gold morning, the music comes, louder at
intervals, above the hum of voices from some neighbouring church, among
the flowering trees, valued now, perhaps, only for the poetically
rapt faces among priests or wor- shippers, or the mere skill and
eloquence, it may be, of its preachers of faith and righteousness.
In his scrupulous idealism, indeed, he too feels himself to be something
of a priest, and that devotion of his days to the contemplation of
what is beautiful, a sort of perpetual religious service. Afar off, how
many fair cities and delicate sea-coasts await him ! At that age,
with minds of a certain constitution, no very choice or exceptional
circumstances are needed to provoke an enthusiasm something like
this. Life in modern London even, in the heavy glow of summer, is
stuff sufficient for the fresh imagination of a youth to build its "
palace of art" of; and the very sense and enjoyment of an
experience in which all is new, are but en- hanced, like that glow of
summer itself, by the thought of its brevity, giving him something
of a gambler's zest, in the apprehension, by dex- terous act or
diligently appreciative thought, of the highly coloured moments which are
to pass away so quickly. At bottom, perhaps, in his elaborately
developed self-consciousness, his sensibilities, his almost fierce grasp
upon the things he values at all, he has, beyond all others, an
inward need of something permanent in its character, to hold by : of
which circumstance, also, he may be partly aware, and that, as with
the brilliant Claudio in Measure for Measure -, it is, in truth, but
darkness he is, " encountering, like a bride." But the
inevitable falling of the curtain is probably distant ; and in the
daylight, at least, it is not often that he really shudders at the
thought of the grave the weight above, the narrow world and its company,
within. When the thought of it does occur to him, he may say to
himself: Well ! and the rude monk, for instance, who has renounced all
this, on the security of some dim world beyond it, really
acquiesces in that " fifth act," amid all the consoling
ministries around him, as little as I should at this moment ; though I
may hope, that, as at the real ending of a play, however well
acted, I may already have had quite enough of it, and find a true
well-being in eternal sleep. And precisely in this circumstance,
that, consistently with the function of youth in general,
Cyrenaicism will always be more or less the special philosophy, or
"prophecy," of the young, when the ideal of a rich
experience comes to them in the ripeness of the receptive, if not
of the reflective, powers precisely in this circumstance, if we rightly
consider it, lies the duly prescribed corrective of that philosophy.
For it is by its exclusiveness, and by negation rather than positively,
that such theories fail to satisfy us permanently ; and what they
really need for their correction, is the complementary influence of
some greater system, in which they may find their due place. That Sturm und
Drang of the spirit, as it has been called, that ardent and special
apprehension of half-truths, in the enthusiastic, and as it were "
prophetic " advocacy of which, devotion to truth, in the case
of the young apprehending but one point at a time in the great circumference
most usually embodies itself, is levelled down, safely enough,
afterwards, as in history so in the individual, by the weakness and mere
weariness, as well as by the maturer wisdom, of our nature. And
though truth indeed, resides, as has been said, " in the whole
" in harmonisings and adjust- ments like this yet those special
apprehen- sions may still owe their full value, in this sense of
" the whole," to that earlier, one-sided but ardent
pre-occupation with them. Cynicism and Cyrenaicism : they are
the earlier Greek forms of Roman Stoicism and Epicureanism, and in
that world of old Greek thought, we may notice with some surprise
that, in a little while, the nobler form of Cyrenaicism
-Cyrenaicism cured of its faults met the nobler form of Cynicism
half-way. Starting from opposed points, they merged, each in its
most refined form, in a single ideal of temperance or moderation.
Something of the same kind may be noticed regarding some later phases
of Cyrenaic theory. If it starts with considerations opposed to the
religious temper, which the religious temper holds it a duty to repress,
it is like it, nevertheless, and very unlike any lower development
of temper, in its stress and earnest- ness, its serious application to
the pursuit of a very unworldly type of perfection. The saint, and
the Cyrenaic lover of beauty, it may be thought, would at least
understand each other | better than either would understand the
mere 1 man of the world. Carry their respective positions a point
further, shift the terms a little, and they might actually touch.
Perhaps all theories of practice tend, as they rise to their best,
as understood by their worthiest representatives, to identification with
each other. For the variety of men's possible reflections on their
experience, as of that experience itself, is not really so great as it
seems ; and as the highest and most disinterested ethical formula,
filtering down into men's everyday existence, reach the same poor
level of vulgar egotism, so, we may fairly suppose that all the highest
spirits, from whatever contrasted points they have started, would
yet be found to entertain, in the moral consciousness realised by
themselves, much the same kind of mental company ; to hold, far
more than might be thought probable, at first sight, the same
personal types of character, and even the same artistic and literary
types, in esteem or aversion ; to convey, all of them alike, the
same savour of unworldliness. And Cyrenaicism or Epicureanism too, new or
old, may be noticed, in proportion to the completeness of its
develop- ment, to approach, as to the nobler form of Cynicism, so
also to the more nobly developed phases of the old, or traditional
morality. In the gravity of its conception of life, in its pursuit
after nothing less than a perfection, in its appre- hension of the value
of time the passion and the seriousness which are like a
consecration la passion et le serieux qui consacrent it may be
conceived, as regards its main drift, to be not so much opposed to the
old morality, as an exaggeration of one special motive in it.
Some cramping, narrowing, costly preference of one part of his own
nature, and of the nature of things, to another, Marius seemed to
have detected in himself, meantime, in himself, as also in those
old masters of the Cyrenaic philo- sophy. If they did realise the
povoxpovo? fiSovij, as it was called the pleasure of the " Ideal Now
" if certain moments of their lives were high- pitched,
passionately coloured, intent with sensation, and a kind of knowledge which, in
its vivid clearness, was like sensation if, now and then, they
apprehended the world in its fulness, and had a vision, almost "
beatific," of ideal person- alities in life and art, yet these
moments were a very costly matter: they paid a great price for
them, in the sacrifice of a thousand possible sympathies, of things only
to be enjoyed through sympathy, from which they detached
themselves, in intellectual pride, in loyalty to a mere theory that
would take nothing for granted, and assent to no approximate or
hypothetical truths. In their unfriendly, repellent attitude towards
the Greek religion, and the old Greek morality, surely, they had
been but faulty economists. The Greek religion was then alive : then,
still more than in its later day of dissolution, the higher view of
it was possible, even for the philosopher. Its story made little or no
demand for a reasoned or formal acceptance. A religion, which had
grown through and through man's life, with so much natural strength ; had
meant so much for so many generations ; which ex- pressed so much
of their hopes, in forms so familiar and so winning ; linked by
associations so manifold to man as he had been and was a religion
like this, one would think, might have had its uses, even for a
philosophic sceptic. Yet those beautiful gods, with the whole round
of their poetic worship, the school of Cyrene definitely
renounced. The old Greek morality, again, with all its
imperfections, was certainly a comely thing. Yes ! a harmony, a music, in
men's ways, one might well hesitate to jar. The merely aesthetic
sense might have had a legitimate satisfaction in the spectacle of that
fair order of choice manners, in those attractive conventions,
enveloping, so gracefully, the whole of life, insuring some
sweetness, some security at least against offence, in the intercourse of
the world. Beyond an obvious utility, it could claim, indeed but
custom use -and -wont, as we say for its sanction. But then, one of
the advantages of that liberty of spirit among the Cyrenaics (in which,
through theory, they had become dead to theory, so that all theory,
as such, was really indifferent to them, and indeed nothing valuable but
in its tangible ministration to life) was precisely this, that it
gave them free play in using as their ministers or servants, things
which, to the uninitiated, must be masters or nothing. Yet, how little
the followers of Aristippus made of that whole comely system of
manners or morals, then actually in possession of life, is shown by the
bold practical consequence, which one of them main- tained (with a
hard, self-opinionated adherence to his peculiar theory of values) in the
not very amiable paradox that friendship and patriotism were things
one could do without ; while another Deaths-advocate^ as he was
called helped so many to self-destruction, by his pessimistic
eloquence on the evils of life, that his lecture-room was closed. That this
was in the range of their consequences that this was a possible, if
remote, deduction from the premisses of the discreet Aristippus was
surely an incon- sistency in a thinker who professed above all
things an economy of the moments of life. And yet those old Cyrenaics
felt their way, as if in the dark, we may be sure, like other men in
the ordinary transactions of life, beyond the narrow limits they
drew of clear and absolutely legitimate knowledge, admitting what was not
of immediate sensation, and drawing upon that " fantastic
" future which might never come. A little more of such
"walking by faith/' a little more of such not unreasonable "
assent," and they might have profited by a hundred services to their
culture, from Greek religion and Greek morality, as they actually
were. The spectacle of their fierce, exclusive, tenacious hold on their
own narrow apprehension, makes one think of a picture with no
relief, no soft shadows nor breadth of space, or of a drama without
proportionate repose. Yet it was of perfection that Marius (to
return to him again from his masters, his intellectual heirs) had
been really thinking all the time : a narrow perfection it might be
objected, the perfection of but one part of his nature his
capacities of feeling, of exquisite physical im- pressions, of an
imaginative sympathy but still, a true perfection of those capacities,
wrought out to their utmost degree, admirable enough in its way. He
too is an economist : he hopes, by that " insight " of which
the old Cyrenaics made so much, by skilful apprehension of the
condi- tions of spiritual success as they really are, the special
circumstances of the occasion with which he has to deal, the special
felicities of his own nature, to make the most, in no mean or
vulgar sense, of the few years of life ; few, indeed, for the
attainment of anything like general perfec- tion ! With the brevity of
that sum of years his mind is exceptionally impressed ; and this
purpose makes him no frivolous dilettante^ but graver than other men :
his scheme is not that of a trifler, but rather of one who gives a
meaning of his own, yet a very real one, to those old words Let us work
while it is day ! He has a strong apprehension, also, of the beauty
of the visible things around him ; their fading, momentary, graces
and attractions. His natural susceptibility in this direction, enlarged
by experience, seems to demand of him an almost exclusive pre- occupation
with the aspects of things ; with their aesthetic character, as it
is called their revelations to the eye and the imagination : not so
much because those aspects of them yield him the largest amount of
enjoy- ment, as because to be occupied, in this way, with the aesthetic
or imaginative side of things, is to be in real contact with those
elements of his own nature, and of theirs, which, for him at least,
are matter of the most real kind of appre- hension. As other men are
concentrated upon truths of number, for instance, or on business,
or it may be on the pleasures of appetite, so he is wholly bent on
living in that full stream of refined sensation. And in the prosecution
of this love of beauty, he claims an entire personal liberty,
liberty of heart and mind, liberty, above all, from what may seem
conventional answers to first questions. But, without him
there is a venerable system of sentiment and idea, widely extended in
time and place, in a kind of impregnable possession of human life a
system, which, like some other great products of the conjoint efforts of
human mind through many generations, is rich in the world's
experience ; so that, in attaching oneself to it, one lets in a great
tide of that experience, and makes, as it were with a single step, a
great experience of one's own, and with great con- sequent increase
to one's sense of colour, variety, and relief, in the spectacle of men
and things. The mere sense that one belongs to a system an imperial
system or organisation has, in itself, the expanding power of a great
experience ; as some have felt who have been admitted from narrower
sects into the communion of the catholic church ; or as the old Roman
citizen felt. It is, we might fancy, what the coming into
possession of a very widely spoken language might be, with a great
literature, which is also the speech of the people we have to live
among. A wonderful order, actually in possession of / human
life ! grown inextricably through and { 7 f through it ; penetrating into
its laws, its very language, its mere habits of decorum, in a
thousand half-conscious ways ; yet still felt to be, in part, an
unfulfilled ideal ; and, as such, awaken- ing hope, and an aim, identical
with the one only consistent aspiration of mankind ! In the
apprehension of that, just then, Marius seemed to have joined company
once more with his own old self; to have overtaken on the road the
pilgrim who had come to Rome, with absolute sincerity, on the
search fo r perfection. It defined not so much a change of practice,
as of sympathy a new departure, an expansion, of sympathy. It in-
volved, certainly, some curtailment of his liberty, in concession to the
actual manner, the distinc- tions, the enactments of that great crowd
of admirable spirits, who have elected so, and not otherwise, in
their conduct of life, and are not here to give one, so to term it, an
" indulgence." But then, under the supposition of their
dis- approval, no roses would ever seem worth plucking again. The
authority they exercised was like that of classic taste an influence
so subtle, yet so real, as defining the loyalty of the scholar ; or
of some beautiful and venerable ritual, in which every observance is
become spontaneous and almost mechanical, yet is found, the more
carefully one considers it, to have a reasonable significance and a
natural history. And Marius saw that he would be but an
inconsistent Cyrenaic, mistaken in his estimate of values, of loss and
gain, and untrue to the well- considered economy of life which he had brought
with him to Rome that some drops of the great cup would fall to the
ground if he did not make that concession, if he did but remain
just there. " Many prophets and kings have desired to see the
things which ye see." The enemy on the Danube was, indeed, but
the vanguard of the mighty invading hosts of the fifth century.
Illusively repressed just now, those confused movements along the
northern boundary of the Empire were destined to unite triumphantly
at last, in the barbarism, which, powerless to destroy the Christian
church, was yet to suppress for a time the achieved culture of the
pagan world. The kingdom of Christ was to grow up in a somewhat false
alienation from the light and beauty of the kingdom of nature, of
the natural man, with a partly mistaken tradition concerning it, and an
incapacity, as it might almost seem at times, for eventual re-
conciliation thereto. Meantime Italy had armed itself once more, in
haste, and the imperial brothers set forth for the Alps.
Whatever misgiving the Roman people may have felt as to the
leadership of the younger was unexpectedly set at rest ; though with
some temporary regret for the loss of what had been, after all, a
popular figure on the world's stage. Travelling fraternally in the same
litter with Aurelius, Lucius Verus was struck with sudden and
mysterious disease, and died as he hastened back to Rome. His death awoke
a swarm of sinister rumours, to settle on Lucilla, jealous, it was
said, of Fabia her sister, perhaps of Faustina on Faustina herself, who
had accompanied the imperial progress, and was anxious now to hide
a crime of her own even on the elder brother, who, beforehand with the
treasonable designs of his colleague, should have helped him at
supper to a favourite morsel, cut with a knife poisoned ingeniously
on one side only. Aurelius, certainly, with sincere distress, his long
irritations, so duti- fully concealed or repressed, turning now into
a single feeling of regret for the human creature, carried the
remains back to Rome, and demanded of the Senate a public funeral, with a
decree for the apotheosis^ or canonisation, of the dead. For
three days the body lay in state in the Forum, enclosed in an open coffin
of cedar-wood, on a bed of ivory and gold, in the centre of a sort
of temporary chapel, representing the temple of his patroness Venus
Genetrix. Armed soldiers kept watch around it, while choirs of
select voices relieved one another in the chanting of hymns or
monologues from the great tragedians. At the head of the couch were
displayed the various personal decorations which had belonged to
Verus in life. Like all the rest of Rome, Marius went to gaze on the face
he had seen last scarcely disguised under the hood of a
travelling-dress, as the wearer hurried, at night- fall, along one of the
streets below the palace, to some amorous appointment. Unfamiliar
as he still was with dead faces, he was taken by surprise, and
touched far beyond what he had reckoned on, by the piteous change there ;
even the skill of Galen having been not wholly successful in the
process of embalming. It was as if a brother of his own were lying low
before him, with that meek and helpless expression it would have
been a sacrilege to treat rudely. Meantime, in the centre of the
Campus Martins^ within the grove of poplars which enclosed the
space where the body of Augustus had been burnt, the great funeral pyre,
stuffed with shavings of various aromatic woods, was built up in
many stages, separated from each other by a light entablature of
woodwork, and adorned abundantly with carved and tapestried images.
Upon this pyramidal or flame-shaped structure lay the corpse, hidden now
under a mountain of flowers and incense brought by the women, who
from the first had had their fond- ness for the wanton graces of the
deceased. The dead body was surmounted by a waxen effigy of great
size, arrayed in the triumphal ornaments. At last the Centurions to whom
that office belonged, drew near, torch in hand, to ignite the pile
at its four corners, while the soldiers, in wild excitement, flung
themselves around it, casting into the flames the decorations they
had received for acts of valour under the dead emperor's command.
It had been a really heroic order, spoiled a little, at the last
moment, through the some- what tawdry artifice, by which an eagle
not a very noble or youthful specimen of its kind was caused to
take flight amid the real or affected awe of the spectators, above the
perishing remains; a court chamberlain, according to ancient
etiquette, subsequently making official declaration before the Senate,
that the imperial " genius " had been seen in this way,
escaping from the fire. And Marius was present when the Fathers,
duly certified of the fact, by "acclamation," muttering their
judgment all together, in a kind of low, rhythmical chant, decreed
Gcelum the privilege of divine rank to the departed. The
actual gathering of the ashes in a white cere-cloth by the widowed Lucilla,
when the last flicker had been extinguished by drops of wine ; and
the conveyance of them to the little cell, already populous, in the
central mass of the sepulchre of Hadrian, still in all the splen-
dour of its statued colonnades, were a matter of private or domestic duty
; after the due accomplishment of which Aurelius was at liberty to
retire for a time into the privacy of his beloved apartments of the
Palatine. And hither, not long afterwards, Marius was sum- moned a
second time, to receive from the imperial hands the great pile of
manuscripts it would be his business to revise and arrange.
One year had passed since his first visit to the palace ; and as he
climbed the stairs to-day, the great cypresses rocked against the sunless
sky, like living creatures in pain. He had to traverse a long
subterranean gallery, once a secret entrance to the imperial apartments,
and in our own day, amid the ruin of all around it, as smooth and
fresh as if the carpets were but just removed from its floor after the
return of the emperor from the shows. It was here, on such an
occasion, that the emperor Caligula, at the age of twenty-nine, had come
by his end, the assassins gliding along it as he lingered a few moments
longer to watch the movements of a party of noble youths at their
exercise in the courtyard below. As Marius waited, a second time,
in that little red room in the house of the chief chamberlain, curious to
look once more upon its painted walls the very place whither the assassins
were said to have turned for refuge after the murder he could all
but see the figure, which in its surrounding light and darkness
seemed to him the most melancholy in the entire history of Rome. He
called to mind the greatness of that popularity and early promise
the stupefying height of irresponsible power, from which, after all, only
men's viler side had been clearly visible the overthrow of reason
the seemingly irredeemable memory ; and still, above all, the beautiful
head in which the noble lines of the race of Augustus were united
to, he knew not what expression of sensibility and fineness, not theirs,
and for the like of which one must pass onward to the Antonines.
Popular hatred had been careful to destroy its semblance wherever it was
to be found ; but one bust, in dark bronze-like basalt of a
wonderful perfection of finish, preserved in the museum of the Capitol,
may have seemed to some visitors there perhaps the finest extant
relic of Roman art. Had the very seal of empire upon those sombre brows,
reflected from his mirror, suggested his insane attempt upon the
liberties, the dignity of men ? " O humanity ! " he seems to
ask, " what hast thou done to me that I should so despise thee
? " And might not this be indeed the true meaning of kingship, if
the world would have one man to reign over it ? The like of this :
or, some incredible, surely never to be realised, height of
disinterestedness, in a king who should be the servant of all, quite at
the other extreme of the practical dilemma involved in such a
position. Not till some while after his death had the body been decently
interred by the piety of the sisters he had driven into exile.
Fraternity of feeling had been no invariable feature in the
incidents of Roman story. One long Vicus Sceleratus^ from its first dim
foundation in fraternal quarrel on the morrow of a common
deliverance so touching had not almost every step in it some gloomy
memory of unnatural violence ? Romans did well to fancy the traitress
Tarpeia still " green in earth," crowned, enthroned, at the
roots of the Capitoline rock. If in truth the religion of Rome was
every- where in it, like that perfume of the funeral incense still
upon the air, so also was the memory of crime prompted by a
hypocritical cruelty, down to the erring, or not erring, Vesta
calmly buried alive there, only eighty years ago, under Domitian.
It was with a sense of relief that Marius found himself in the
presence of Aurelius, whose gesture of friendly intelligence, as he
entered, raised a smile at the gloomy train of his own thoughts just
then, although since his first visit to the palace a great change
had passed over it. The clear daylight found its way now into empty
rooms. To raise funds for the war, Aurelius, his luxurious brother
being no more, had determined to sell by auction the accumulated
treasures of the im- perial household. The works of art, the dainty
furniture, had been removed, and were now " on view " in the
Forum, to be the delight or dismay, for many weeks to come, of
the large public of those who were curious in these things. In such
wise had Aurelius come to the condition of philosophic detachment
he had affected as a boy, hardly persuaded to wear warm clothing, or to
sleep in more luxurious manner than on the bare floor. But, in his
empty house, the man of mind, who had always made so much of the
pleasures of philosophic contemplation, felt freer in thought than
ever. He had been reading, with less self-reproach than usual, in the
Republic of Plato, those passages which describe the life of the
philosopher-kings like that of hired servants in their own house who,
possessed of the " gold undefiled " of intellectual vision,
forgo so cheerfully all other riches. It was one of his happy days : one
of those rare days, when, almost with none of the effort, otherwise
so constant with him, his thoughts came rich and full, and converged in a
mental view, as exhilarating to him as the prospect of some wide
expanse of landscape to another man's bodily eye. He seemed to lie
readier than was his wont to the imaginative influence of the
philosophic reason to its suggestions of a possible open country,
commencing just where all actual experience leaves off, but which
experience, one's own and not another's, may one day occupy. In fact, he
was seeking strength for himself, in his own way, before he started
for that ambiguous earthly warfare which was to occupy the remainder of
his life. " Ever remember this," he writes, " that a
happy life depends, not on many things & o\iyi(TTot,<i
tceiTai." And to-day, committing himself with a steady effort of
volition to the mere silence of the great empty apartments, he might
be said to have escaped, according to Plato's promise to those who live
closely with philosophy, from the evils of the world. In his
"conversations with himself" Marcus Aurelius speaks often of
that City on high^ of which all other cities are but single
habitations. From him in fact Cornelius Pronto, in his late
discourse, had borrowed the expression ; and he certainly meant by it
more than the whole commonwealth of Rome, in any idealisation of
it, however sublime. Incorporate somehow with the actual city whose
goodly stones were lying beneath his gaze, it was also implicate in
that reasonable constitution of nature, by devout contemplation of which
it is possible for man to associate himself to the consciousness of
God. In that New Rome he had taken up his rest for awhile on this day,
deliberately feeding his thoughts on the better air of it, as another
might have gone for mental renewal to a favourite villa.
" Men seek retirement in country-houses," he writes,
" on the sea-coast, on the mountains ; and you have yourself as much
fondness for such places as another. But there is little proof of
culture therein ; since the privilege is yours of retiring into yourself
whensoever you please, into that little farm of one's own mind, where
a silence so profound may be enjoyed." That it could make
these retreats, was a plain con- sequence of the kingly prerogative of
the mind, its dominion over circumstance, its inherent liberty.
" It is in thy power to think as thou wilt : The essence of things
is in thy thoughts about them : All is opinion, conception : No man
can be hindered by another : What is out- side thy circle of thought is
nothing at all to it ; hold to this, and you are safe : One thing
is needful to live close to the divine genius with- in thee, and
minister thereto worthily." And the first point in this true
ministry, this culture, was to maintain one's soul in a condition
of indifference and calm. How continually had public claims, the
claims of other persons, with their rough angularities of character,
broken in upon him, the shepherd of the flock. But after
all he had at least this privilege he could not part with, of thinking as
he would ; and it was well, now and then, by a conscious effort of will,
to indulge it for a while, under systematic direc- tion. The duty
of thus making discreet, systematic use of the power of imaginative
vision for purposes of spiritual culture, " since the soul
takes colour from its fantasies," is a point he has frequently insisted
on. The influence of these seasonable meditations a symbol,
or sacrament, because an intensified condition, of the soul's own ordinary
and natural life would remain upon it, perhaps for many days. There
were experiences he could not for- get, intuitions beyond price, he had
come by in this way, which were almost like the breaking of a
physical light upon his mind ; as the great Augustus was said to have
seen a mysterious physical splendour, yonder, upon the summit of
the Capitol, where the altar of the Sibyl now stood. With a prayer,
therefore, for inward quiet, for conformity to the divine reason,
he read some select passages of Plato, which bear upon the harmony
of the reason, in all its forms, with itself. "Could there be
Cosmos, that wonderful, reasonable order, in him, and nothing but
disorder in the world without ? " It was from this question he had
passed on to the vision of a reasonable, a divine, order, not in nature,
but in the condition of human affairs that unseen Celestial City,
Uranopolis, Callipolis, Urbs Eeata in which, a consciousness of the
divine will being everywhere realised, there would be, among other
felicitous differences from this lower visible world, no more quite
hopeless death, of men, or children, or of their affections. He had
tried to-day, as never before, to make the most of this vision of a New
Rome, to realise it as distinctly as he could, and, as it were, find
his way along its streets, ere he went down into a world so
irksomely different, to make his practical effort towards it, with a soul
full of compassion for men as they were. However distinct the
mental image might have been to him, with the descent of but one flight
of steps into the market-place below, it must have retreated again,
as if at touch of some malign magic wand, beyond the utmost verge of
the horizon. But it had been actually, in his clearest vision of
it, a confused place, with but a recognisable entry, a tower or fountain,
here or there, and haunted by strange faces, whose novel expression
he, the great physiognomist, could by no means read. Plato, indeed, had
been able to articulate, to see, at least in thought, his ideal
city. But just because Aurelius had passed beyond Plato, in the scope of
the gracious charities he pre-supposed there, he had been unable
really to track his way about it. Ah ! after all, according to Plato
himself, all vision was but reminiscence, and this, his heart's
desire, no place his soul could ever have visited in any region of
the old world's achievements. He had but divined, by a kind of generosity
of spirit, the void place, which another experience than his must
fill. Yet Marius noted the wonderful expression of peace, of
quiet pleasure, on the countenance of Aurelius, as he received from him
the rolls of fine clear manuscript, fancying the thoughts of the
emperor occupied at the moment with the famous prospect towards the Alban
hills, from those lofty windows. The ideas of Stoicism, so precious
to Marcus Aurelius, ideas of large generalisation, have sometimes
induced, in those over whose in- tellects they have had real power, a
coldness of heart. It was the distinction of Aurelius that he was
able to harmonise them with the kindness, one might almost say the
amenities, of a humourist, as also with the popular religion and
its many gods. Those vasty conceptions of the later Greek philosophy had
in them, in truth, the germ of a sort of austerely opinion- ative
"natural theology," and how often has that led to religious
dryness a hard contempt of everything in religion, which touches
the senses, or charms the fancy, or really concerns the affections.
Aurelius had made his own the secret of passing, naturally, and with no
violence to his thought, to and fro, between the richly coloured
and romantic religion of those old gods who had still been human beings,
and a very abstract speculation upon the impassive, I universal soul
that circle whose centre everywhere, the circumference nowhere of
which a series of purely logical necessities had evolved the formula. As
in many another instance, those traditional pieties of the place
and the hour had been derived by him from his mother : frapci rrfc Mrpbs
TO Oeoo-eftes. Puri- fied, as all such religion of concrete time
and place needs to be, by frequent confronting with the ideal of
godhead as revealed to that innate religious sense in the possession of
which Aurelius differed from the people around him, it was the
ground of many a sociability with their simpler souls, and for himself,
certainly, a consolation, whenever the wings of his own soul
flagged in the trying atmosphere of purely intellectual vision. A host of
companions, guides, helpers, about him from of old time, " the
very court and company of heaven," objects for him of personal
reverence and affection the supposed presence of the ancient
popular gods determined the character of much of his daily life, and
might prove the last stay of human nature at its weakest. " In
every time and place," he had said, " it rests with
thyself to use the event of the hour religiously : , at all seasons
worship the gods." And when he said " Worship the gods ! "
he did it, as strenuously as everything else. Yet here again,
how often must he have experienced disillusion, or even some revolt
of feeling, at that contact with coarser natures to which his
religious conclusions exposed him. At the beginning of the year one
hundred and seventy -three public anxiety was as great as ever ;
and as before it brought people's supersti- tion into unreserved play.
For seven days the images of the old gods, and some of the graver
new ones, lay solemnly exposed in the open air, arrayed in all their
ornaments, each in his separate resting-place, amid lights and
burning incense, while the crowd, following the imperial example,
daily visited them, with offerings of flowers to this or that particular
divinity, according to the devotion of each. But
supplementing these older official observ- ances, the very wildest gods
had their share of worship, strange creatures with strange secrets
startled abroad into open daylight. The deliri- ous sort of religion of
which Marius was a spectator in the streets of Rome, during the
seven days of the Lectisternium, reminded him now and again of an
observation of Apuleius : it was " as if the presence of the gods
did not do men good, but disordered or weakened them." Some
jaded women of fashion, especi- ally, found in certain oriental
devotions, at once relief for their religiously tearful souls and
an opportunity for personal display ; preferring this or that
"mystery," chiefly because the attire required in it was
suitable to their peculiar manner of beauty. And one morning
Marius encountered an extraordinary crimson object, borne in a
litter through an excited crowd -the famous courtesan Benedicta, still
fresh from the bath of blood, to which she had submitted herself,
sitting below the scaffold where the victims provided for that
purpose were slaughtered by the priests. Even on the last day of
the solemnity, when the emperor himself performed one of the oldest
ceremonies of the Roman religion, this fantastic piety had asserted
itself. There were victims enough certainly, brought from the choice
pastures of the Sabine mountains, and conducted around the city
they were to die for, in almost con- tinuous procession, covered with
flowers and well-nigh worried to death before the time by the
crowds of people superstitiously pressing to touch them. But certain
old-fashioned Romans, in these exceptional circumstances, demanded
something more than this, in the way of a human sacrifice after the
ancient pattern ; as when, not so long since, some Greeks or Gauls
had been buried alive in the Forum. At least, human blood should be
shed ; and it was through a wild multitude of fanatics, cutting their
flesh with knives and whips and licking up ardently the crimson
stream, that the emperor repaired to the temple of Bellona, and in solemn
symbolic act cast the bloodstained spear, or " dart," carefully
pre- served there, towards the enemy's country towards that unknown
world of German homes, still warm, as some believed under the faint
northern twilight, with those innocent affections of which Romans had
lost the sense. And this at least was clear, amid all doubts of
abstract right or wrong on either side, that the ruin of those
homes was involved in what Aurelius was then preparing for, with, Yes !
the gods be thanked for that achievement of an invigorat- ing
philosophy ! almost with a light heart. For, in truth, that
departure, really so difficult to him, for which Marcus Aurelius
had needed to brace himself so strenuously, came to test the power of a
long-studied theory of practice ; and it was the development of
this theory a theoria^ literally a view, an intuition, of the most
important facts, and still more im- portant possibilities, concerning man
in the world, that Marius now discovered, almost as if by accident,
below the dry surface of the manuscripts entrusted to him. The great
purple rolls contained, first of all, statistics, a general
historical account of the writer's own time, and an exact diary ; all
alike, though in three different degrees of nearness to the writer's
own personal experience, laborious, formal, self- suppressing. This
was for the instruction of the public ; and part of it has, perhaps,
found its way into the Augustan Histories. But it was for the
especial guidance of his son Commodus that he had permitted himself to
break out, here and there, into reflections upon what was pass- ing,
into conversations with the reader. And then, as though he were put off
his guard in this way, there had escaped into the heavy
matter-of-fact, of which the main portion was composed, morsels of his
conversation with him- self. It was the romance of a soul (to be
traced only in hints, wayside notes, quotations from older
masters), as it were in lifelong, and often baffled search after some
vanished or elusive golden fleece, or Hesperidean fruit-trees, or
some mysterious light of doctrine, ever retreat- ing before him. A man,
he had seemed to Marius from the first, of two lives, as we say. Of
what nature, he had sometimes wondered, on the day, for instance, when he
had inter- rupted the emperor's musings in the empty palace, might
be that placid inward guest or inhabitant, who from amid the
pre-occupations of the man of practical affairs looked out, as if
surprised, at the things and faces around. Here, then, under the tame
surface of what was meant for a life of business, Marius dis-
covered, welcoming a brother, the spontaneous self-revelation of a soul
as delicate as his own, a soul for which conversation with itself
was a necessity of existence. Marius, indeed, had always suspected
that the sense of such necessity was a peculiarity of his. But here,
certainly, was another, in this respect like himself; and again he
seemed to detect the advent of some new or changed spirit into the world,
mystic, inward, hardly to be satisfied with that wholly external
and objective habit of life, which had been sufficient for the old
classic soul. His purely literary curiosity was greatly stimulated
by this example of a book of self-portraiture. It was in fact the position
of the modern essayist, creature of efforts rather than of
achievements, in the matter of apprehending truth, but at least conscious
of lights by the way, which he must needs record, acknowledge. What
seemed to underlie that position was the desire to make the most of every
experience that might come, outwardly or from within : to
perpetuate, to display, what was so fleeting, f in a kind of instinctive,
pathetic protest against the imperial writer's own theory that
theory of the " perpetual flux " of all things to Marius
himself, so plausible from of old. There was, besides, a special
moral or doctrinal significance in the making of such conversation
with one's self at all. The Logos, the reasonable spark, in man, is
common to him with the gods KOWO? at 77/309 roi>$ 0eov9 cum diis
communis. That might seem but the truism of a certain school of
philosophy ; but in Aurelius was clearly an original and lively ap-
prehension. There could be no inward conver- sation with one's self such as
this, unless there were indeed some one else, aware of our actual
thoughts and feelings, pleased or displeased at one's disposition of one's
self. Cornelius Front* too could enounce that theory of the
reasonable community between men and God, in many different ways.
But then, he was a cheerful man, and Aurelius a singularly sad one ;
and what to Pronto was but a doctrine, or a motive of mere
rhetoric, was to the other a consolation. He walks and talks, for a
spiritual refreshment lacking which he would faint by the way, with
what to the learned professor is but matter of philosophic
eloquence. In performing his public religious functions
Marcus Aurelius had ever seemed like one who took part in some great process,
a great thing really done, with more than the actually visible
assistants about him. Here, in these manu- scripts, in a hundred marginal
flowers of thought or language, in happy new phrases of his own
like the impromptus of an actual conversation, in quotations from other
older masters of the inward life, taking new significance from the
chances of such intercourse, was the record of his communion with that
eternal reason, which was also his own proper self, with the divine
companion, whose tabernacle was in the intelli- gence of men the journal
of his daily commerce with that. Chance : or Providence !
Chance : or Wis- dom, one with nature and man, reaching from end to
end, through all time and all exist- ence, orderly disposing all things,
according to fixed periods, as he describes it, in terms very like
certain well-known words of the book of Wisdom: those are the
"fenced opposites " of the speculative dilemma, the tragic
embarras^ of which Aurelius cannot too often remind himself as the
summary of man's situation in the world. If there be, however, a
provident soul like this " behind the veil," truly, even to
him, even in the most intimate of those conversations, it has never
yet spoken with any quite irresistible assertion of its presence. Yet
one's choice in that speculative dilemma, as he has found it, is on
the whole a matter of will. "'Tis in thy power," here too,
again, "to think as thou wilt." For his part he has asserted
his will, and has the courage of his opinion. " To the better
of two things, if thou findest that, turn with thy whole heart :
eat and drink ever of the best before thee." "Wisdom,"
says that other disciple of the Sapiential philosophy, " hath
mingled Her wine, she hath also prepared Herself a table." ToO
apurTov aTroXaue : "Partake ever of Her best ! " And what
Marius, peeping now very closely upon the intimacies of that
singular mind, found a thing actually * pathetic and affecting, was the
manner of the writer's bearing as in the presence of this supposed
guest ; so elusive, so jealous of any palpable manifestation of himself,
so taxing to one's faith, never allowing one to lean frankly upon
him and feel wholly at rest. Only, he would do his part, at least, in
maintaining the constant fitness, the sweetness and quiet, of the
guest-chamber. Seeming to vary with the in- tellectual fortune of the
hour, from the plainest account of experience, to a sheer fantasy,
only "believed because it was impossible/' that one hope was,
at all events, sufficient to make men's common pleasures and their common
ambition, above all their commonest vices, seem very petty indeed,
too petty to know of. It bred in him a kind of magnificence of character,
in the old Greek sense of the term ; a temper incompatible with any
merely plausible advocacy of his convic- tions, or merely superficial
thoughts about any- thing whatever, or talk about other people, or
speculation as to what was passing in their so visibly little souls, or
much talking of any kind, however clever or graceful. A soul thus
disposed had " already entered into the better life": was
indeed in some sort "a priest, a minister of the gods." Hence
his constant " re- collection " ; a close watching of his soul,
of a kind almost unique in the ancient world. Before all things
examine into thyself: strive to be at home 'with thyself ! Marius, a
sympathetic witness of all this, might almost seem to have had a
foresight of monasticism itself in the prophetic future. With this mystic
companion he had gone a step onward out of the merely objective
pagan existence. Here was already a master in that craft of
self-direction, which was about to So play so large a part in
the forming of human mind, under the sanction of the Christian
church. Yet it was in truth a somewhat melancholy service, a
service on which one must needs move about, solemn, serious, depressed,
with the hushed footsteps of those who move about the house where a
dead body is lying. Such was the impression which occurred to Marius
again and again as he read, with a growing sense of some profound
dissidence from his author. By certain quite traceable links of
association he was reminded, in spite of the moral beauty of the
philosophic emperor's ideas, how he had sat, essentially unconcerned, at
the public shows. For, actually, his contemplations had made him of
a sad heart, inducing in him that melancholy Tristitia which even the
monastic moralists have held to be of the nature of deadly sin,
akin to the sin of Desidia or Inactivity. Resignation, a sombre
resignation, a sad heart, patient bearing of the burden of a sad heart :
Yes ! this be- longed doubtless to the situation of an honest
thinker upon the world. Only, in this case there seemed to be too much of
a complacent acquiescence in the world as it is. And there could be
no true Theodicee in that ; no real accommodation of the world as it is,
to the divine pattern of the Logos y the eternal reason, over
against it. It amounted to a tolerance of evil. The soul of good,
though it moveth upon a way thou canst but little understand, yet
prospereth on the journey: If thou sufferest nothing contrary to nature,
there can be nought of evil with thee therein : If thou hast
done aught in harmony with that reason in which men are communicant
with the gods, there also can be nothing of evil with thee nothing
to be afraid of : Whatever is, is right ; as from the hand of one
dispensing to every man according to his desert : If
reason fulfil its part in things, what more dost thou require ? Dost thou
take it ill that thy stature is but of four cubits ? That which happeneth
to each of us is for the profit of the whole : The profit of
the whole, that was sufficient ! Links, in a train of thought
really generous ! of which, nevertheless, the forced and yet facile
optimism, refusing to see evil anywhere, might lack, after all, the
secret of genuine cheerfulness. It left in truth a weight upon the
spirits ; and with that weight unlifted, there could be no real
justification of the ways of Heaven to man. " Let thine air be
cheerful," he had said ; and, with an effort, did himself at times
attain to that serenity of aspect, which surely ought to accompany,
as their outward flower and favour, hopeful assumptions like those.
Still, what in Aurelius was but a passing expression, was with
Cornelius (Marius could but note the contrast) nature, and a veritable
physiognomy. With Cornelius, in fact, it was nothing less than the
joy which Dante apprehended in the blessed spirits of the perfect, the
outward semblance of which, like a reflex of physical light upon
human faces from " the land which is very far off," we
may trace from Giotto onward to its consumma- tion in the work of Raphael
the serenity, the durable cheerfulness, of those who have been
indeed delivered from death, and of which the utmost degree of that famed
" blitheness " of the Greeks had been but a transitory gleam,
as in careless and wholly superficial youth. And yet, in Cornelius,
it was certainly united with the bold recognition of evil as a fact in
the world ; real as an aching in the head or heart, which one
instinctively desires to have cured ; an enemy with whom no terms could
be made, visible, hatefully visible, in a thousand forms the ap-
parent waste of men's gifts in an early, or even in a late grave ; the
death, as such, of men, and even of animals ; the disease and pain of the
body. And there was another point of dissidence between Aurelius and
his reader. The philo- sophic emperor was a despiser of the body.
Since it is " the peculiar privilege of reason to move within
herself, and to be proof against corporeal impressions, suffering neither
sensation nor passion to break in upon her," it follows that
the true interest of the spirit must ever be to treat the body Well ! as
a corpse attached thereto, rather than as a living companion nay,
actually to promote its dissolution. In counter- poise to the inhumanity
of this, presenting itself to the young reader as nothing less than a
sin against nature, the very person of Cornelius was nothing less
than a sanction of that reverent delight Marius had always had in the
visible body of man. Such delight indeed had been but a natural
consequence of the sensuous or material- istic character of the
philosophy of his choice. } Now to Cornelius the body of man was
unmis- takeably, as a later seer terms it, the one true I
temple in the world ; or rather itself the proper object of worship, of a
sacred service, in which the very finest gold might have its
seemliness and due symbolic use : Ah ! and of what awe- stricken
pity also, in its dejection, in the perish- ing gray bones of a poor
man's grave ! Some flaw of vision, thought Marius, must be
involved in the philosopher's contempt for it- some diseased point of
thought, or moral dulness, leading logically to what seemed to him
the strangest of all the emperor's inhumanities, the temper of the
suicide ; for which there was just then, indeed, a sort of mania in the
world. " 'Tis part of the business of life," he read, "
to lose it handsomely." On due occasion, " one might give
life the slip." The moral or mental powers might fail one ; and then
it were a fair question, precisely, whether the time for taking
leave was not come : " Thou canst leave this prison when thou wilt.
Go forth boldly ! " Just there, in the bare capacity to entertain
such question at all, there was what Marius, with a soul which must
always leap up in loyal gratitude for mere physical sunshine,
touching him as it touched the flies in the air, could not away
with. There, surely, was a sign of some crookedness in the natural
power of apprehension. It was the attitude, the melancholy
intellectual attitude, of one who might be greatly mistaken in
things who might make the greatest of mistakes. A heart that
could forget itself in the mis- fortune, or even in the weakness of
others : of this Marius had certainly found the trace, as a confidant
of the emperor's conversations with himself, in spite of those jarring
inhumanities, of that pretension to a stoical indifference, and the
many difficulties of his manner of writing. He found it again not long
afterwards, in still stronger evidence, in this way. As he read one morning
early, there slipped from the rolls of manuscript a sealed letter with
the emperor's superscription, which might well be of importance, and he
felt bound to deliver it at once in person ; Aurelius being then
absent from Rome in one of his favourite retreats, at Praeneste, taking a
few days of quiet with his young children, before his departure for
the war. A whole day passed as Marius crossed the Gampagna on
horseback, pleased by the random autumn lights bringing out in the
distance the sheep at pasture, the shepherds in their picturesque dress,
the golden elms, tower and villa ; and it was after dark that he
mounted the steep street of the little hill-town to the imperial
residence. He was struck by an odd mixture of stillness and excitement
about the place. Lights burned at the windows. It seemed that
numerous visitors were within, for the courtyard was crowded with litters
and horses in waiting. For the moment, indeed, all larger cares,
even the cares of war, of late so heavy a pressure, had been forgotten in
what was passing with the little Annius Verus ; who for his part
had forgotten his toys, lying all day across the knees of his mother, as
a mere child's ear-ache grew rapidly to alarming sickness with great
and manifest agony, only suspended a little, from time to time,
when from very weariness he passed into a few moments of
unconsciousness. The country surgeon called in, had removed the
imposthume with the knife. There had been a great effort to bear this
operation, for the terrified child, hardly persuaded to submit him-
self, when his pain was at its worst, and even more for the parents. At
length, amid a company of pupils pressing in with him, as the
custom was, to watch the proceedings in the sick-room, the eminent Galen
had arrived, only to pronounce the thing done visibly useless, the
patient falling now into longer intervals of delirium. And thus, thrust
on one side by the crowd of departing visitors, Marius was forced
into the privacy of a grief, the desolate face of which went deep into
his memory, as he saw the emperor carry the child away quite
conscious at last, but with a touching expression upon it of
weakness and defeat pressed close to his bosom, as if he yearned just
then for one thing only, to be united, to be absolutely one with it, in
its obscure distress. Paratum cor meum deus ! paratum cor meum
! THE emperor demanded a senatorial decree for the erection
of images in memory of the dead prince ; that a golden one should be carried,
together with the other images, in the great procession of the Circus,
and the addition of the child's name to the Hymn of the Salian Priests
: and so, stifling private grief, without further delay set forth
for the war. True kingship, as Plato, the old master of
Aurelius, had understood it, was essentially of the nature of a service.
If so be, you can discover a mode of life more desirable than the being
a king, for those who shall be kings ; then, the true Ideal of the
State will become a possibility; but not otherwise. And if the life of
Beatific Vision be indeed possible, if philosophy really "
concludes in an ecstasy/' affording full fruition to the entire nature of
man ; then, for certain elect souls at least, a mode of life will have
been discovered more desirable than to be a king. By love or fear
you might induce such persons to forgo their privilege ; to take upon
them the distasteful task of governing other men, or even of
leading them to victory in battle. But, by the very conditions of its
tenure, their dominion would be wholly a ministry to others : they
would have taken upon them " the form of a servant ": they
would be reigning for the well- being of others rather than their own. The
true king, the righteous king, would be Saint Lewis, exiling
himself from the better land and its perfected company so real a thing to
him, definite and real as the pictured scenes of his psalter to
take part in or to arbitrate men's quarrels, about the transitory
appearances of things. In a lower degree (lower, in proportion as
the highest Platonic dream is lower than any Christian vision) the true
king would be Marcus Aurelius, drawn from the meditation of books,
to be the ruler of the Roman people in peace, and still more, in
war. To Aurelius, certainly, the philosophic mood, the
visions, however dim, which this mood brought with it, were sufficiently
pleasant to him, together with the endearments of his home, to make
public rule nothing less than a sacrifice of himself according to Plato's
requirement, now consummated in his setting forth for the cam-
paign on the Danube. That it was such a sacrifice was to Marius visible
fact, as he saw hirn ceremoniously lifted into the saddle amid all the
pageantry of an imperial departure, yet with the air less of a sanguine
and self-reliant leader than of one in some way or other already
defeated. Through the fortune of the subsequent years, passing and
repassing so inexplicably from side to side, the rumour of which reached
him amid his own quiet studies, Marius seemed always to see that
central figure, with its habitually dejected hue grown now to an
expression of positive suffering, all the stranger from its contrast
with the magnificent armour worn by the emperor on this occasion,
as it had been worn by his pre- decessor Hadrian. Totus et
argento contextus et auro : clothed in its gold and silver, dainty
as that old divinely constructed armour of which Homer tells, but
without its miraculous lightsomeness he looked out baffled, labouring,
moribund ; a mere comfortless shadow taking part in some shadowy
reproduction of the labours of Hercules, through those northern,
mist-laden confines of the civilised world. It was as if the
familiar soul which had been so friendly disposed towards him were
actually departed to Hades ; and when he read the Conversations
afterwards, though his judgment of them underwent no material
change, it was nevertheless with the allowance we make for the
dead. The memory of that suffering image, while it certainly strengthened
his adhesion to what he could accept at all in the philo- sophy of
Aurelius, added a strange pathos to what must seem the writer's mistakes.
What, after all, had been the meaning of that incident, observed as
so fortunate an omen long since, when the prince, then a little child
much younger than was usual, had stood in ceremony among the
priests of Mars and flung his crown of flowers with the rest at the
sacred image reclin- ing on the Pulvinar ? The other crowns lodged
themselves here or there ; when, Lo ! the crown thrown by Aurelius, the
youngest of them all, alighted upon the very brows of the god, as
if placed there by a careful hand ! He was still young, also, when on the
day of his adoption by Antoninus Pius he saw himself in a dream,
with as it were shoulders of ivory, like the images of the gods,
and found them more capable than shoulders of flesh. Yet he was now
well-nigh fifty years of age, setting out with two-thirds of life
behind him, upon a labour which would fill the remainder of it with
anxious cares a labour for which he had perhaps no capacity, and
certainly no taste. That ancient suit of armour was almost
the only object Aurelius now possessed from all those much
cherished articles of vertu collected by the Caesars, making the imperial
residence like a magnificent museum. Not men alone were needed for
the war, so that it became necessary, to the great disgust alike of timid
persons and of thelovers of sport, to arm the gladiators, but money
also was lacking. Accordingly, at the sole motion of Aurelius himself,
unwilling that the public burden should be further increased,
especially on the part of the poor, the whole of the imperial ornaments
and furniture, a sump- tuous collection of gems formed by Hadrian,
with many works of the most famous painters and sculptors, even the
precious ornaments of the emperor's chapel or Lararium, and the
ward- robe of the empress Faustina, who seems to have borne the
loss without a murmur, were exposed for public auction. u These
treasures," said Aurelius, " like all else that I possess,
belong by right to the Senate and People." Was it not a
characteristic of the true kings in Plato that they had in their houses
nothing they could call their own ? Connoisseurs had a keen delight
in the mere reading of the Prtetor's list of the property for sale.
For two months the learned in these matters were daily occupied in
the appraising of the embroidered hangings, the choice articles of
personal use selected for pre- servation by each succeeding age, the
great out- landish pearls from Hadrian's favourite cabinet, the
marvellous plate lying safe behind the pretty iron wicker-work of the
shops in the goldsmiths' quarter. Meantime ordinary persons might
have an interest in the inspection of objects which had been as
daily companions to people so far above and remote from them things so
fine also in workmanship and material as to seem, with their antique
and delicate air, a worthy survival of the grand bygone eras, like select
thoughts or utterances embodying the very spirit of the vanished
past. The town became more pensive than ever over old fashions.
The welcome amusement of this last act of preparation for the great
war being now over, all Rome seemed to settle down into a singular
quiet, likely to last long, as though bent only on watching from afar the
languid, somewhat un- eventful course of the contest itself. Marius
took advantage of it as an opportunity for still closer study than of
old, only now and then going out to one of his favourite spots on the
Sabine or Alban hills for a quiet even greater than that of Rome in
the country air. On one of these occasions, as if by favour of an
invisible power withdrawing some unknown cause of dejection from
around him, he enjoyed a quite unusual sense of self-possession the
possession of his own best and happiest self. After some gloomy thoughts
over-night, he awoke under the full tide of the rising sun, himself full,
in his entire refreshment, of that almost religious appreciation of
sleep, the graciousness of its influence on men's spirits, which had made
the old Greeks conceive of it as a god. It was like one of those old
joyful wakings of childhood, now becoming rarer and rarer with him,
and looked back upon with much regret as a measure of advancing age. In
fact, the last bequest of this serene sleep had been a dream, in
which, as once before, he overheard those he loved best pronouncing his
name very pleasantly, as they passed through the rich light and
shadow of a summer morning, along the pavement of a city Ah ! fairer far
than Rome ! In a moment, as he arose, a certain oppression of late
setting very heavily upon him was lifted away, as though by some physical
motion in the air. That flawless serenity, better than the
most pleasurable excitement, yet so easily ruffled by chance
collision even with the things and persons he had come to value as the
greatest treasure in life, was to be wholly his to-day, he thought,
as he rode towards Tibur, under the early sunshine ; the marble of
its villas glistening all the way before him on the hillside. And why
could he not hold such serenity of spirit ever at command ? he
asked, expert as he was at last become in the art of setting the house of
his thoughts in order. " 'Tis in thy power to think as thou wilt :
" he repeated to himself : it was the most serviceable of all
the lessons enforced on him by those imperial conversations. " 'Tis
in thy power to think as thou wilt." And were the cheerful,
sociable, restorative beliefs, of which he had there read so much, that
bold adhesion, for instance, to the hypothesis of an eternal friend
to man, just hidden behind the veil of a mechanical and material
order, but only just behind it, ready perhaps even now to break through
: were they, after all, really a matter of choice, dependent on
some deliberate act of volition on his part ? Were they doctrines one
might take for granted, generously take for granted, and led on by
them, at first as but well-defined objects of hope, come at last into the
region of a corre- sponding certitude of the intellect ? " It is
the truth I seek," he had read, " the truth, by which no
one," gray and depressing though it might seem, "was ever
really injured." And yet, on the other hand, the imperial wayfarer,
he had been able to go along with so far on his intel- lectual
pilgrimage, let fall many things con- cerning the practicability of a
methodical and self-forced assent to certain principles or pre-
suppositions " one could not do without." Were there, as the
expression " one could not do 'without " seemed to hint,
beliefs, without which life itself must be almost impossible, principles
which had their sufficient ground of evidence in that very fact?
Experience certainly taught that, as regarding the sensible world he
could attend or not, almost at will, to this or that colour, this
or that train of sounds, in the whole tumultuous concourse of colour and
sound, so it was also, for the well-trained intelligence, in regard
to that hum of voices which besiege the inward no less than the
outward ear. Might it be not otherwise with those various and
competing hypotheses, the permissible hypotheses, which, in that
open field for hypothesis one's own actual ignorance of the origin and
tendency of our being present themselves so importunately, some of
them with so emphatic a reiteration, through all the mental changes of
successive ages ? Might the will itself be an org an of
knowledge, of vision ? On this day truly no mysterious light,
no irresistibly leading hand from afar reached him ; only the
peculiarly tranquil influence of its first hour increased steadily upon
him, in a manner with which, as he conceived, the aspects of the
place he was then visiting hadsomething to do. The air there, air
supposed to possess the singular property of restoring the whiteness of
ivory, was pure and thin. An even veil of lawn-like white cloud had
now drawn over the sky; and under its broad, shadowless light every hue
and tone of time came out upon the yellow old temples, the elegant
pillared circle of the shrine of the patronal Sibyl, the houses seemingly
of a piece with the ancient fundamental rock. Some half- conscious
motive of poetic grace would appear to have determined their grouping ;
in part resisting, partly going along with the natural wildness and
harshness of the place, its floods and precipices. An air of immense
age possessed, above all, the vegetation around a world of
evergreen trees the olives especially, older than how many generations of
men's lives ! fretted and twisted by the combining forces of life
and death, intoevery conceivable caprice of form. In the windless weather
all seemed to be listening to the roar of the immemorial waterfall,
plunging down so unassociably among these human habitations, and with a
motion so un- changing from age to age as to count, even in this
time-worn place, as an image of unalterable rest. Yet the clear sky all
but broke to let through the ray which was silently quickening
everything in the late February afternoon, and the unseen violet refined
itself through the air. / It was as if the spirit of life in nature were
but withholding any too precipitate revelation of itself, in its
slow, wise, maturing work. Through some accident to the trappings
of his horse at the inn where he rested, Marius had an unexpected
delay. He sat down in an olive- garden, and, all around him and within
still turning to reverie, the course of his own life hitherto
seemed to withdraw itself into some other world, disparted from this
spectacular point where he was now placed to survey it, like that
distant road below, along which he had travelled this morning across the
Campagna. Through a dreamy land he could see himself moving, as if
in another life, and like another person, through all his fortunes and
misfortunes, passing from point to point, weeping, delighted,
escaping from various dangers. That prospect brought him, first of
all, an impulse of lively gratitude : it was as if he must look round for
some one else to share his joy with : for some one to whom he might
tell the thing, for his own relief. Companionship, indeed, familiarity
with others, gifted in this way or that, or at least pleasant to
him, had been, through one or another long span of it, the chief delight
of the journey. And was it only the resultant general sense of such
familiarity, diffused through his memory, that in a while suggested the
question whether there had not been besides Flavian, besides
Cornelius even, and amid the solitude which in spite of ardent friendship
he had perhaps loved best of all things some other companion, an
unfailing companion, ever at his side throughout ; doubling his pleasure
in the roses by the way, patient of his peevishness or depression,
sympathetic above all with his grate- ful recognition, onward from his
earliest days, of the fact that he was there at all ? Must not the
whole world around have faded away for him altogether, had he been left
for one moment really alone in it f In his deepest apparent
solitude there had been rich entertainment. It was as if there were not
one only, but two way- farers, side by side, visible there across the
plain, as he indulged his fancy. A bird came and sang among the
wattled hedge-roses : an animal feed- ing crept nearer : the child who
kept it was gazing quietly : and the scene and the hours still
conspiring, he passed from that mere fantasy of a self not himself,
beside him in his coming and going, to those divinations of a living and
com- panionable spirit at work in all things, of which he had
become aware from time to time in his old philosophic readings in Plato
and others, , last but not least, in Aurelius. Through one
reflection upon another, he passed from such instinctive divinations, to
the thoughts which give them logical consistency, formulating at
last, as the necessary exponent of our own and the world's life, that
reasonable Ideal to which the Old Testament gives the name of
Creator, which for the philosophers of Greece is the Eternal
Reason, and in the New Testament the Father of Men even as one builds up
from act and word and expression of the friend actually visible at
one's side, an ideal of the spirit within him. In this
peculiar and privileged hour, his bodily frame, as he could recognise, although
just then, in the whole sum of its capacities, so entirely possessed by
him Nay ! actually his very self was yet determined by a
far-reaching system of material forces external to it, a thousand
combining currents from earth and sky. Its seemingly active powers of
appre- hension were, in fact, but susceptibilities to ,
influence. The perfection of its capacity might be said to depend on its
passive surrender, as of a leaf on the wind, to the motions of the
great stream of physical energy without it. And might not the
intellectual frame also, still more intimately himself as in truth it was,
after the analogy of the bodily life, be a moment only, an impulse
or series of impulses, a single process, in an intellectual or spiritual
system external to it, diffused through all time and place that
great stream of spiritual energy, of which his own imperfect thoughts,
yesterday or to-day, would be but the remote, and therefore im-
perfect pulsations ? It was the hypothesis (boldest, though in reality
the most conceivable of all hypotheses) which had dawned on the
contemplations of the two opposed great masters of the old Greek thought,
alike: the "World of Ideas," existent only because, and in so
far as, they are known, as Plato conceived ; the " creative,
incorruptible, informing mind, " sup- posed by Aristotle, so
sober-minded, yet as regards this matter left something of a mystic
after all. Might not this entire material world," the very scene
around him, the immemorial rocks, the firm marble, the olive-gardens,
the falling water, be themselves but reflections in, or a creation
of, that one indefectible mind, wherein he too became conscious, for an
hour, a day, for so many years ? Upon what other hypothesis could
he so well understand the persistency of all these things for his
own intermittent consciousness of them, for the intermittent
consciousness of so many generations, fleeting away one after another ?
It was easier to conceive of the material fabric of things as but an
element in a world of thought as a thought in a mind, than of mind as an
element, or accident, or passing condition in a world of matter,
because mind was really nearer to him- self : it was an explanation of
what was less known by what was known better. The purely material
world, that close, impassable prison- wall, seemed just then the unreal
thing, to be actually dissolving away all around him : and he felt
a quiet hope, a quiet joy dawning faintly, in the dawning of this
doctrine upon him as a really credible opinion. It was like the
break of day over some vast prospect with the " new
city," as it were some celestial New Rome, in the midst of it. That
divine companion figured no longer as but an occasional wayfarer
beside him ; but rather as the unfailing " assist- ant,"
without whose inspiration and concurrence he could not breathe or see,
instrumenting his bodily senses, rounding, supporting his imperfect
thoughts. How often had the thought of their brevity spoiled for him the
most natural pleasures of life, confusing even his present sense of
them by the suggestion of disease, of death, of a coming end, in
everything ! How had he longed, sometimes, that there were indeed
one to whose boundless power of memory he could commit his own most
fortunate moments, his admiration, his love, Ay ! the very sorrows
of which he could not bear quite to lose the sense : one strong to retain
them even though he forgot, in whose more vigorous consciousness
they might subsist for ever, beyond that mere quickening of capacity
which was all that remained of them in himself ! " Oh ! that
they might live before Thee " To-day at least, in the peculiar
clearness of one privileged hour, he seemed to have apprehended that in
which the experiences he valued most might find, one by one, an
abiding-place. And again, the result- ant sense of companionship, of a
person beside him, evoked the faculty of conscience of conscience,
as of old and when he had been at his best, in the form, not of fear, nor
of ] self-reproach even, but of a certain lively gratitude.
Himself his sensations and ideas never fell again precisely into
focus as on that day, | yet he was the richer by its experience.
But for once only to have come under the power of that peculiar mood,
to have felt the train of reflections which belong to it really
forcible and conclusive, to have been led by them to a conclusion,
to have apprehended the Great \ Ideal) so palpably that it defined
personal * gratitude and the sense of a friendly hand laid upon him
amid the shadows of the world, left this one particular hour a marked
point in life never to be forgotten. It gave him a definitely
ascertained measure of his moral or intellectual need, of the demand his
soul must make upon the powers, whatsoever they might be, which had
brought him, as he was, into the world at all. And again, would he be
faithful to himself, to his own habits of mind, his leading
suppositions, if he did but remain just there ? Must not all that
remained of life be but a search for the equivalent of that Ideal,
among so-called actual things a gathering together of every trace
or token of it, which his actual experience might present ? "
Your old men shall dream dreams." A nature like that of
Marius, composed, in about equal parts, of instincts almost
physical, and of slowly accumulated intellectual judg- ments, was
perhaps even less susceptible than other men's characters of essential
change. And yet the experience of that fortunate hour, seeming to
gather into one central act of vision ; all the deeper impressions his
mind had ever, received, did not leave him quite as he had been.
For his mental view, at least, it changed measurably the world about him,
of which he was still indeed a curious spectator, but which looked
further off, was weaker in its hold, and, in a sense, less real to him
than ever. It was as if he viewed it through a diminishing glass.
And the permanency of this change he could note, some years later, when
it happened that he was a guest at a feast, in which the various
exciting elements of Roman life, its physical and intellectual
accomplish- ments, its frivolity and far-fetched elegances, its
strange, mystic essays after the unseen, were elaborately combined. The
great Apuleius> the literary ideal of his boyhood, had arrived
in Rome, was now visiting Tusculum, at the house of their common friend,
a certain aristo- cratic poet who loved every sort of superiorities
; and Marius was favoured with an invitation to a supper given in
his honour. It was with a feeling of half-humorous concession
to his own early boyish hero-worship, yet with some sense of superiority
in himself, seeing his old curiosity grown now almost to
indifference when on the point of satisfaction at last, and upon a juster
estimate of its object, that he mounted to the little town on the
hillside, the foot -ways of which were so many flights of
easy-going steps gathered round a single great house under shadow of the
"haunted" ruins of Cicero's villa on the wooded heights.
He found a touch of weirdness in the cir- cumstance that in so romantic a
place he had been bidden to meet the writer who was come to seem
almost like one of the personages in his own fiction. As he turned now
and then to gaze at the evening scene through the tall narrow
openings of the street, up which the cattle were going home slowly from
the pastures below, the Alban mountains, stretched between the great
walls of the ancient houses, seemed close at hand a screen of vaporous
dun purple against the setting sun with those waves of surpassing
softness in the boundary lines which indicate volcanic formation. The
cool- ness of the little brown market-place, for profit of which
even the working-people, in long file through the olive- gardens, were
leaving the plain for the night, was grateful, after the heats of
Rome. Those wild country figures, clad in every kind of fantastic
patchwork, stained by wind and weather fortunately enough for the
eye, under that significant light inclined him to poetry. And it was a
very delicate poetry of its kind that seemed to enfold him, \ as
passing into the poet's house he paused for; a moment to glance back
towards the heights above ; whereupon, the numerous cascades of the
precipitous garden of the villa, framed in the doorway of the hall, fell
into a harmless picture, in its place among the pictures within,
and scarcely more real than they a landscape- piece, in which the power
of water (plunging into what unseen depths !) done to the life, was
pleasant, and without its natural terrors. At the further end of
this bland apartment, fragrant with the rare woods of the old
inlaid panelling, the falling of aromatic oil from the
ready-lighted lamps, the iris-root clinging to the dresses of the guests,
as with odours from the altars of the gods, the supper-table was
spread, in all the daintiness characteristic of the agree- able
petit-maitrC) who entertained. He was already most carefully dressed,
but, like Martial's Stella, perhaps consciously, meant to change
his attire once and again during the banquet ; in the last
instance, for an ancient vesture (object of much rivalry among the young
men of fashion, at that great sale of the imperial wardrobes) a
toga, of altogether lost hue and texture. He wore it with a grace which
became the leader of a thrilling movement then on foot for the
restora- tion of that disused garment, in which, laying aside the
customary evening dress, all the visitors were requested to appear,
setting off the delicate sinuosities and well-disposed " golden
ways" of its folds, with harmoniously tinted flowers. The
opulent sunset, blending pleasan tly with artificial light, fell
across the quiet ancestral effigies of old consular dignitaries, along
the wide floor strewn with sawdust of sandal -wood, and lost itself
in the heap of cool coronals, lying ready for the foreheads of the guests
on a sideboard of old citron. The crystal vessels darkened with old
wine, the hues of the early autumn fruit mulberries, pomegranates, and
grapes that had long been hanging under careful protection upon the
vines, were almost as much a feast for the eye, as the dusky fires of the
rare twelve-petalled roses. A favourite animal, white as snow,
brought by one of the visitors, purred its way gracefully among the
wine-cups, coaxed onward from place to place by those at table, as
they reclined easily on their cushions of German eider-down, spread
over the long-legged, carved couches. A highly refined
modification of the acroama a musical performance during supper for
the diversion of the guests was presently heard hovering round the
place, soothingly, and so unobtrusively that the company could not
guess, and did not like to ask, whether or not it had been designed
by their entertainer. They inclined on the whole to think it some
wonderful peasant- music peculiar to that wild neighbourhood, turn-
ing, as it did now and then, to a solitary reed- note, like a bird's,
while it wandered into the distance. It wandered quite away at last,
as darkness with a bolder lamplight came on, and made way for
another sort of entertainment. An odd, rapid, phantasmal glitter,
advancing from the garden by torchlight, defined itself, as it came
nearer, into a dance of young men in armour. Arrived at length in a
portico, open to the supper-chamber, they contrived that their
mechanical march-movement should fall out into a kind of highly
expressive dramatic action ; and with the utmost possible emphasis of
dumb motion, their long swords weaving a silvery network in the
air, they danced the Death of Paris. The young Commodus, already an
adept in these matters, who had condescended to welcome the eminent
Apuleius at the banquet, had mysteriously dropped from his place to
take his share in the performance ; and at its con- clusion
reappeared, still wearing the dainty accoutrements of Paris, including a
breastplate, composed entirely of overlapping tigers' claws, skilfully
gilt. The youthful prince had lately assumed the dress of manhood, on the
return of the emperor for a brief visit from the North ; putting up
his hair, in imitation of Nero, in a golden box dedicated to Capitoline
Jupiter. His likeness to Aurelius, his father, was become, in
consequence, more striking than ever ; and he had one source of genuine
interest in the great literary guest of the occasion, in that the
latter was the fortunate possessor of a monopoly for the exhibition
of wild beasts and gladiatorial shows in the province of Carthage, where
he resided. Still, after all complaisance to the perhaps
somewhat crude tastes of the emperor's son, it was felt that with a guest
like Apuleius whom they had come prepared to entertain as veritable
connoisseurs, the conversation should be learned and superior, and the
host at last deftly led his company round to literature, by the way of
bind- ings. Elegant rolls of manuscript from his fine library of
ancient Greek books passed from hand to hand about the table. It was a
sign for the visitors themselves to draw their own choicest
literary curiosities from their bags, as their con- tribution to the
banquet ; and one of them, a famous reader, choosing his lucky
moment, delivered in tenor voice the piece which follows, with a
preliminary query as to whether it could indeed be the composition of
Lucian of Samosata, understood to be the great mocker of that day
: " What sound was that, Socrates ? " asked
Chaerephon. " It came from the beach under the cliff yonder, and
seemed a long way off. And how melodious it was ! Was it a bird, I
wonder. I thought all sea-birds were songless." "Aye! a
sea-bird," answered Socrates, "a bird called the Halcyon, and
has a note full of plaining and tears. There is an old story people
tell of it. It was a mortal woman once, daughter of ^Eolus, god of the
winds. Ceyx, the son of the morning-star, wedded her in her early
maidenhood. The son was not less fair than the father; and when it came
to pass that he died, the crying of the girl as she lamented his
sweet usage, was, Just that ! And some while after, as Heaven
willed, she was changed into a bird. Floating now on bird's wings over
the sea she seeks her lost Ceyx there ; since she was not able to
find him after long wandering over the land." "
That then is the Halcyon the kingfisher," said Chaerephon. " I
never heard a bird like it before. It has truly a plaintive note.
What kind of a bird is it, Socrates f " " Not a
large bird, though she has received large honour from the gods on account
of her singular conjugal affection. For whensoever she makes her
nest, a law of nature brings round what is called Halcyon's weather, days
distinguish- able among all others for their serenity, though they
come sometimes amid the storms of winter days like to-day ! See how
transparent is the sky above us, and how motionless the sea ! like
a smooth mirror." " True ! A Halcyon day, indeed ! and
yester- day was the same. But tell me, Socrates, what is one to
think of those stories which have been told from the beginning, of birds
changed into mortals and mortals into birds ? To me nothing seems
more incredible." "Dear Chaerephon," said Socrates,
"methinks we are but half-blind judges of the impossible and
the possible. We try the question by the standard of our human faculty,
which avails neither for true knowledge, nor for faith, nor vision.
Therefore many things seem to us impossible which are really easy, many
things unattainable which are within our reach ; partly through
inexperience, partly through the child- ishness of our minds. For in
truth, every man, even the oldest of us, is like a little child, so
brief and babyish are the years of our life in comparison of eternity.
Then, how can we, who comprehend not the faculties of gods and of
the heavenly host, tell whether aught of that kind be possible or no f
What a tempest you saw three days ago ! One trembles but to think of
the lightning, the thunderclaps, the violence of the wind ! You might
have thought the whole world was going to ruin. And then, after a
little, came this wonderful serenity of weather, which has continued till
to-day. Which do you think the greater and more difficult thing to do
: to exchange the disorder of that irresistible whirlwind to a
clarity like this, and becalm the whole world again, or to refashion the
form of a woman into that of a bird ? We can teach even little
children to do something of that sort, to take wax or clay, and mould out
of the same material many kinds of form, one after another, without
difficulty. And it may be that to the Deity, whose power is too vast for
comparison with ours, all processes of that kind are manage- able
and easy. How much wider is the whole circle of heaven than thyself?
Wider than thou canst express. "Among ourselves also,
how vast the differ- ence we may observe in men's degrees of power
! To you and me, and many another like us, many things are impossible
which are quite easy to others. For those who are un- musical, to play
on the flute ; to read or write, for those who have not yet learned ; is
no easier than to make birds of women, or women of birds. From the
dumb and lifeless egg Nature moulds her swarms of winged creatures,
aided, as some will have it, by a divine and secret art in the wide
air around us. She takes from the honeycomb a little memberless live
thing ; she brings it wings and feet, brightens and beautifies it
with quaint variety of colour : and Lo ! the bee in her wisdom, making
honey worthy of the gods. "It follows, that we mortals,
being alto- gether of little account, able wholly to discern no
great matter, sometimes not even a little one, for the most part at a
loss regarding what happens even with ourselves, may hardly speak
with security as to what may be the powers of the immortal gods
concerning Kingfisher, or Nightingale. Yet the glory of thy mythus,
as my fathers bequeathed it to me, O tearful songstress ! that will I too
hand on to my children, and tell it often to my wives, Xanthippe
and Myrto : the story of thy pious love to Ceyx, and of thy melodious
hymns ; and, above all, of the honour thou hast with the gods !
" The reader's well-turned periods seemed to stimulate,
almost uncontrollably, the eloquent stirrings of the eminent man of
letters then present. The impulse to speak masterfully was visible,
before the recital was well over, in the moving lines about his mouth, by
no means designed, as detractors were wont to say, simply to
display the beauty of his teeth. One of the company, expert in his
humours, made ready to transcribe what he would say, the sort
of things of which a collection was then forming, the " Florida
" or Flowers, so to call them, he was apt to let fall by the way no
impromptu ventures at random ; but rather elaborate, carved
ivories of speech, drawn, at length, out of the rich treasure-house of a
memory stored with such, and as with a fine savour of old musk about
them. Certainly in this case, as Marius thought, it was worth while to
hear a charming writer speak. Discussing, quite in our modern way,
the peculiarities of those sub- urban views, especially the sea-views, of
which he was a professed lover, he was also every inch a priest of
Aesculapius, patronal god of Carthage. There was a piquancy in his
rococo^ very African, and as it were perfumed person- ality, though
he was now well-nigh sixty years old, a mixture there of that sort of
Platonic spiritualism which can speak of the soul of man as but a
sojourner in the prison of the body a blending of that with such a
relish for merely bodily graces as availed to set the fashion in
matters of dress, deportment, accent, and the like, nay ! with something
also which reminded Marius of the vein of coarseness he had found
in the "Golden Book/' All this made the total impression he conveyed
a very uncommon one. Marius did not wonder, as he watched him
speaking, that people freely attributed to him many of the marvellous
adven- tures he had recounted in that famous romance, over and above
the wildest version of his own actual story his extraordinary marriage,
his religious initiations, his acts of mad generosity, his trial as
a sorcerer. But a sign came from the imperial prince that it
was time for the company to separate. He was entertaining his immediate
neighbours at the table with a trick from the streets ; tossing his
olives in rapid succession into the air, and catching them, as they fell,
between his lips. His dexterity in this performance made the mirth
around him noisy, disturbing the sleep of the furry visitor : the learned
party broke up ; and Marius withdrew, glad to escape into the open
air. The courtesans in their large wigs of false blond hair, were lurking
for the guests, with groups of curious idlers. A great con-
flagration was visible in the distance. Was it in Rome ; or in one of the
villages of the country ? Pausing for a few minutes on the terrace
to watch it, Marius was for the first time able to converse
intimately with Apuleius ; and in this moment of confidence the "
illuminist," himself with locks so carefully arranged, and
seemingly so full of affectations, almost like one of those light
women there, dropped a veil as it were, and appeared, though still
permitting the play of a certain element of theatrical interest in
hi s bizarre tenets, to be ready to explain and defend his
position reasonably. For a moment his fantastic foppishness and his
pretensions to ideal vision seemed to fall into some intelligible
con- gruity with each other. In truth, it was the Platonic
Idealism, as he conceived it, which for him literally animated, and gave
him so livelyan interest in, this world of the purely outward aspects of
men and things. Did material things, such things as they had had around
them all that evening, really need apology for being there, to
interest one, at all ? Were not all visible objects the whole material
world indeed, according to the consistent testimony of philosophy in
many forms "full of souls"? embarrassed perhaps, partly
imprisoned, but still eloquent souls ? Certainly, the contemplative
philosophy of Plato, with its figurative imagery and apologue, its
mani- fold aesthetic colouring, its measured eloquence, its music
for the outward ear, had been, like Plato's old master himself, a
two-sided or two- coloured thing. Apuleius was a Platonist : only,
for him, the Ideas of Plato were no creatures of logical abstraction, but
in very truth informing souls, in every type and variety of sensible
things. Those noises in the house all supper- time, sounding through the
tables and along the walls : were they only startings in the old
rafters, at the impact of the music and laughter ; or rather
importunities of the secondary selves, the true unseen selves, of the
persons, nay ! of the very things around, essaying to break through
their frivolous, merely transitory surfaces, to remind one of abiding
essentials beyond them, which might have their say, their judgment
to give, by and by, when the shifting of the meats and drinks at
life's table would be over ? And was not this the true significance of
the Platonic doctrine ? a hierarchy of divine beings, associ- ating
themselves with particular things and places, for the purpose of
mediating between God and man man, who does but need due attention
on his part to become aware of his celestial company, filling the air
about him, thick as motes in the sunbeam, for the glance of sympathetic
intelligence he casts through it. " Two kinds there are, of
animated beings," he exclaimed : " Gods, entirely differing
from men in the infinite distance of their abode, since one part of
them only is seen by our blunted vision those mysterious stars! in the
eternity of their existence, in the perfection of their nature,
infected by no contact with ourselves : and men, dwelling on the earth,
with frivolous and anxious minds, with infirm and mortal members,
with variable fortunes ; labouring in vain ; taken altogether and in
their whole species perhaps, eternal ; but, severally, quitting the
scene in irresistible succession. " What then ? Has nature
connected itself together by no bond, allowed itself to be thus
crippled, and split into the divine and human elements ? And you will say
to me : If so it be, that man is thus entirely exiled from the
immortal gods, that all communication is denied him, that not one of them
occasionally visits us, as a shepherd his sheep to whom shall I
address my prayers ? Whom, shall I invoke as the helper of the
unfortunate, the protector of the good ? " Well ! there
are certain divine powers of a middle nature, through whom our
aspirations are conveyed to the gods, and theirs to us. Passing
between the inhabitants of earth and heaven, they carry from one to the
other prayers and bounties, supplication and assistance, being a
kind of interpreters. This interval of the air is full of them ! Through
them, all revelations, miracles, magic processes, are effected.
For, specially appointed members of this order have their special
provinces, with a ministry according to the disposition of each. They go
to and fro without fixed habitation : or dwell in men's houses
" Just then a companion's hand laid in the dark- ness on
the shoulder of the speaker carried him away, and the discourse broke off
suddenly. Its singular intimations, however, were sufficient to
throw back on this strange evening, in all its detail the dance, the readings,
the distant fire a kind of allegoric expression : gave it the
character of one of those famous Platonic figures or apologues which had
then been in fact under discussion. When Marius recalled its
circum- stances he seemed to hear once more that voice of genuine
conviction, pleading, from amidst a scene at best of elegant frivolity,
for so boldly mystical a view of man and his position in the world.
For a moment, but only for a moment, as he listened, the trees had
seemed, as of old, to be growing " close against the sky." Yes
! the reception of theory, of hypothesis, of beliefs, did depend a
great deal on temperament. They were, so to speak, mere equivalents of
tempera- ment. A celestial ladder, a ladder from heaven to earth:
that was the assumption which the experience of Apuleius had suggested to
him : it was what, in different forms, certain persons in every age
had instinctively supposed : they would be glad to find their supposition
accredited by the authority of a grave philosophy. Marius, however,
yearning not less than they, in that hard world of Rome, and below its
unpeopled sky, for the trace of some celestial wing across it, must
still object that they assumed the thing with too much facility, too much
of self-com- placency. And his second thought was, that to indulge
but for an hour fantasies, fantastic visions of that sort, only left the
actual world more lonely than ever. For him certainly, and for his
solace, the little godship for whom the rude countryman, an unconscious
Platonist, trimmed his twinkling lamp, would never slip from the
bark of these immemorial olive-trees. No ! not even in the wildest
moonlight. For himself, it was clear, he must still hold by what his
eyes really saw. Only, he had to concede also, that the very
boldness of such theory bore witness, at least, to a variety of human
disposition and a consequent variety of mental view, which might
who can tell ? be correspondent to, be defined by and define, varieties
of facts, of truths, just " behind the veil," regarding the
world all alike had actually before them as their original premiss
or starting-point ; a world, wider, perhaps, in its possibilities than
all possible fancies concernng it. " Your old men shall dream dreams,
and your young men shall see visions." Cornelius had
certain friends in or near Rome, whose household, to Marius, as he
pondered now and again what might be the determining influ- ences
of that peculiar character, presented itself as possibly its main secret
the hidden source from which the beauty and strength of a nature,
so persistently fresh in the midst of a somewhat jaded world, might be
derived. But Marius had never yet seen these friends; and it was
almost by accident that the veil of reserve was at last lifted,
and, with strange contrast to his visit to the poet's villa at Tusculum,
he entered another curious house. "The house in which
she lives," says that mystical German writer quoted once before,
" is for the orderly soul, which does not live on blindly
before her, but is ever, out of her passing experiences, building and
adorning the parts of a many-roomed abode for herself, only an
expansion of the body ; as the body, according to the philosophy of
Swedenborg, is but a process, an expansion, of the soul. For such an
orderly soul, as life proceeds, all sorts of delicate affinities
establish themselves, between herself and the doors and passage-ways, the
lights and shadows, of her outward dwelling-place, until she may
seem incorporate with it until at last, in the entire expressiveness of
what is outward, there is for her, to speak properly, between
outward and inward, no longer any distinction at all ; and the
light which creeps at a particular hour on a particular picture or space
upon the wall, the scent of flowers in the air at a particular
window, become to her, not so much apprehended objects, as
themselves powers of apprehension and door- ways to things beyond the
germ or rudiment of certain new faculties, by which she, dimly yet
surely, apprehends a matter lying beyond her actually attained capacities
of spirit and sense." So it must needs be in a world which is
itself, we may think, together with that bodily " tent "
or " tabernacle," only one of many vestures for the clothing of
the pilgrim soul, to be left by her, surely, as if on the wayside,
worn-out one by one, as it was from her, indeed, they borrowed what
momentary value or significance they had. The two friends were returning
to Rome from a visit to a country-house, where again a mixed
company of guests had been assembled ; Marius, for his part, a little
weary of gossip, and those sparks of ill-tempered rivalry, which
would seem sometimes to be the only sort of fire the intercourse of
people in general society can strike out of them. A mere reaction upon
this, as they started in the clear morning, made their com-
panionship, at least for one of them, hardly less tranquillising than the
solitude he so much valued. Something in the south-west wind,
combining with their own intention, favoured increasingly, as the hours
wore on, a serenity like that Marius had felt once before in
journeying over the great plain towards Tibur a serenity that was
to-day brotherly amity also, and seemed to draw into its own charmed
circle whatever was then present to eye or ear, while they talked
or were silent together, and all petty irritations, and the like, shrank
out of existence, or kept certainly beyond its limits. The natural
fatigue of the long journey overcame them quite suddenly at last,
when they were still about two miles distant from Rome. The seemingly
end- less line of tombs and cypresses had been visible for hours
against the sky towards the west ; and it was just where a cross-road
from the Latin Way fell into the Appian, that Cornelius halted at a
doorway in a long, low wall the outer wall of some villa courtyard, it
might be supposed as if at liberty to enter, and rest there awhile.
He held the door open for his companion to enter also, if he would ; with
an expression, as he lifted the latch, which seemed to ask Marius,
apparently shrinking from a possible intrusion : " Would you like to
see it ? " Was he willing to look upon that, the seeing of which
might define yes ! define the critical turning-point in his days
? The little doorway in this long, low wall admitted them, in
fact, into the court or garden of a villa, disposed in one of those
abrupt natural hollows, which give its character to the country in
this place ; the house itself, with all its dependent buildings, the
spaciousness of which surprised Marius as he entered, being thus
wholly concealed from passengers along the road. All around, in those
well-ordered precincts, were the quiet signs of wealth, and of a noble
taste a taste, indeed, chiefly evidenced in the selection and
juxtaposition of the material it had to deal with, consisting almost
exclusively of the remains of older art, here arranged and harmonised,
with effects, both as regards colour and form, so delicate as to
seem really derivative from some finer intelligence in these matters than
lay within the resources of the ancient world. It was the \ old way
of true Renaissance being indeed the way of nature with her roses, the
divine way with the body of man, perhaps with his soul conceiving
the new organism by no sudden and abrupt creation, but rather by the
action of a new I principle upon elements, all of which had in
truth already lived and died many times. The fragments of older
architecture, the mosaics, the spiral columns, the precious corner-stones
of im- memorial building, had put on, by such juxta- position, a
new and singular expressiveness, an air of grave thought, of an
intellectual purpose, in itself, aesthetically, very seductive.
Lastly, herb and tree had taken possession, spreading their
seed-bells and light branches, just astir in the trembling air, above the
ancient garden-wall, against the wide realms of sunset. And from
the first they could hear singing, the singing of children mainly, it
would seem, and of a new kind ; so novel indeed in its effect, as to
bring suddenly to the recollection of Marius, Flavian's early
essays towards a new world of poetic sound. It was the expression not
altogether of mirth, yet of some wonderful sort of happiness the
blithe self-expansion of a joyful soul in people upon whom some
all-subduing experience had wrought heroically, and who still remembered,
on this bland afternoon, the hour of a great deliverance. His old
native susceptibility to the spirit, the special sympathies, of places,
above all, to any hieratic or religious significance they might
have, was at its liveliest, as Marius, still encompassed by that
peculiar singing, and still amid the evidences of a grave discretion all
around him, passed into the house. That intelligent seriousness about
life, the absence of which had ever seemed to remove those who lacked it
into some strange species wholly alien from himself, ac- cumulating
all the lessons of his experience since those first days at White-nights,
was as it were translated here, as if in designed congruity with
his favourite precepts of the power of physical vision, into an actual
picture. If the true value of souls is in proportion to what they can
admire, Marius was just then an acceptable soul. As he passed
through the various chambers, great and small, one dominant thought
increased upon him, the thought of chaste women and their children
of all the various affections of family life under its most natural
conditions, yet developed, as if in devout imitation of some sublime new
type of it, into large controlling passions. There reigned
throughout, an order and purity, an orderly dis- position, as if by way
of making ready for some gracious spousals. The place itself was like
a bride adorned for her husband ; and its singular cheerfulness,
the abundant light everywhere, the sense of peaceful industry, of which
he received a deep impression though without precisely reckoning
wherein it resided, as he moved on rapidly, were in forcible contrast
just at first to the place to which he was next conducted by
Cornelius still with a sort of eager, hurried, half- troubled reluctance,
and as if he forbore the explanation which might well be looked for by
his companion. An old flower-garden in the rear of the house, set
here and there with a venerable olive-tree a picture in pensive shade and
fiery blossom, as transparent, under that afternoon light, as the
old miniature-painters' work on the walls of the chambers within was
bounded towards the west by a low, grass-grown hill. A narrow
opening cut in its steep side, like a solid black- ness there, admitted
Marius and his gleaming leader into a hollow cavern or crypt,
neither more nor less in fact than the family burial- place of the
Cecilii, to whom this residence belonged, brought thus, after an
arrangement then becoming not unusual, into immediate connexion
with the abode of the living, in bold assertion of that instinct of
family life, which the sanction of the Holy Family was, hereafter,
more and more to reinforce. Here, in truth, was the centre of the
peculiar religious expres- siveness, of the sanctity, of the entire
scene. That "any person may, at his own election, constitute
the place which belongs to him a religious place, by the carrying of his
dead into it": had been a maxim of old Roman law, which it was
reserved for the early Christian societies, like that established here by
the piety of a wealthy Roman matron, to realise in all its consequences.
Yet this was certainly unlike any cemetery Marius had ever before seen
; most obviously in this, that these people had returned to the
older fashion of disposing of their dead by burial instead of burning.
Origin- ally a family sepulchre, it was growing to a vast
necropolis^ a whole township of the deceased, by means of some free
expansion of the family interest beyond its amplest natural limits.
That air of venerable beauty which characterised the house and its
precincts above, was maintained also here. It was certainly with a great
outlay of labour that these long, apparently endless, yet
elaborately designed galleries, were increasing so rapidly, with their
layers of beds or berths, one above another, cut, on either side the
path- way, in the porous tufa^ through which all the moisture
filters downwards, leaving the parts above dry and wholesome. All alike
were care- fully closed, and with all the delicate costliness at
command ; some with simple tiles of baked clay, many with slabs of
marble, enriched by fair inscriptions : marble taken, in some
cases, from older pagan tombs the inscription some- times a
palimpsest^ the new epitaph being woven into the faded letters of an
earlier one. As in an ordinary Roman cemetery, an abundance
of utensils for the worship or com memoration of the departed was disposed around incense,
lights, flowers, their flame or their freshness being relieved to the
utmost by contrast with the coal-like blackness of the soil itself,
a volcanic sandstone, cinder of burnt- out fires. Would they ever kindle
again ? possess, transform, the place ? Turning to an ashen pallor
where, at regular intervals, an air-hole or luminare let in a hard beam
of clear but sunless light, with the heavy sleepers, row upon row
within, leaving a passage so narrow that only one visitor at a time could
move along, cheek to cheek with them, the high walls seemed to shut
one in into the great company of the dead. Only the long straight
pathway lay before him ; opening, however, here and there, into a small
chamber, around a broad, table-like coffin or " altar-tomb,"
adorned even more profusely than the rest as if for some
anniversary observance. Clearly, these people, concurring in this with
the special sympathies of Marius himself, had adopted the practice
of burial from some peculiar feeling of hope they entertained
concerning the body ; a feeling which, in no irreverent curiosity, he
would fain have penetrated. The complete and irreparable
disappearance of the dead in the funeral fire, so crushing to the
spirits, as he for one had found it, had long since induced in him a
preference for that other mode of settlement to the last sleep, as
having something about it more home- like and hopeful, at least in
outward seeming. But whence the strange confidence that these
"handfuls of white dust" would hereafter re- compose themselves
once more into exulting human creatures ? By what heavenly alchemy,
what reviving dew from above, such as was certainly never again to reach
the dead violets ? Januarius, Agapetus^ Felicitas ; Martyrs !
refresh, I pray you, the soul of Cecil, of Cornelius ! said an
inscription, one of many, scratched, like a passing sigh, when it was
still fresh in the mortar that had closed up the prison-door. All
critical estimate of this bold hope, as sincere apparently as it was
audacious in its claim, being set aside, here at least, carried
further than ever before, was that pious, systematic commemoration
of the dead, which, in its chivalrous refusal to forget or finally desert
the helpless, had ever counted with Marius as the central exponent
or symbol of all natural duty. The stern soul of the excellent
Jonathan Edwards, applying the faulty theology of John Calvin,
afforded him, we know, the vision of infants not a span long, on the
floor of hell. Every visitor to the Catacombs must have observed,
in a very different theological con- nexion, the numerous children's
graves there beds of infants, but a span long indeed, lowly
"prisoners of hope," on these sacred floors. It was with great
curiosity, certainly, that Marius considered them, decked in some
in- stances with the favourite toys of their tiny occupants
toy-soldiers, little chariot-wheels, the entire paraphernalia of a
baby-house ; and when he saw afterwards the living children, who
sang and were busy above sang their psalm Laudate Pueri Dominumf
their very faces caught for him a sort of quaint unreality from the
memory of those others, the children of the Catacombs, but a little
way below them. Here and there, mingling with the record of
merely natural decease, and sometimes even at these children's graves,
were the signs of violent death or " martyrdom," proofs
that some " had loved not their lives unto the death " in
the little red phial of blood, the palm-branch, the red flowers for their
heavenly " birthday." About one sepulchre in particular,
distinguished in this way, and devoutly arrayed for what, by a bold
paradox, was thus treated as, natalitia a birthday, the peculiar
arrangements of the whole place visibly centered. And it was with a
singular novelty of feeling, like the dawn- ing of a fresh order of
experiences upon him, that, standing beside those mournful relics,
snatched in haste from the common place of execution not many years
before, Marius be- came, as by some gleam of foresight, aware of
the whole force of evidence for a certain strange, new hope, defining in
its turn some new and weighty motive of action, which lay in deaths
so tragic for the " Christian superstition." Something of them
he had heard indeed already. They had seemed to him but one savagery
the more, savagery self- provoked, in a cruel and stupid world.
And yet these poignant memorials seemed also to draw him onwards
to-day, as if towards an image of some still more pathetic
suffering, in the remote background. Yes ! the interest, the
expression, of the entire neighbourhood was instinct with it, as with the
savour of some priceless incense. Penetrating the whole atmosphere,
touching everything around with its peculiar sentiment, it seemed to make
all this visible mortality, death's very self Ah ! lovelier than
any fable of old mythology had ever thought to render it, in the utmost
limits i of fantasy ; and this, in simple candour of feeling about
a supposed fact. Peace! Pax! Pax tecuml the word, the thought was
put forth everywhere, with images of hope, snatched sometimes from
that jaded pagan world which had really afforded men so little of it from
first to last ; the various consoling images it had thrown off, of
succour, of regeneration, of escape from the grave Hercules wrestling
with Death for possession of Alcestis, Orpheus taming the wild beasts,
the Shepherd with his sheep, the Shepherd carrying the sick lamb upon
his shoulders. Yet these imageries after all, it must be confessed,
formed but a slight contribution to the dominant effect of tranquil hope
there a kind of heroic cheerfulness and grateful ex- i pansion of
heart, as with the sense, again, of some real deliverance, which seemed
to deepen the longer one lingered through these strange and awful
passages. A figure, partly pagan in character, yet most frequently
repeated of all these visible parables the figure of one
just escaped from the sea, still clinging as for life to the shore
in surprised joy, together with the inscription beneath it, seemed best
to express the prevailing sentiment of the place. And it was just
as he had puzzled out this inscription / went down to the bottom of
the mountains. The earth with her bars was about me for ever : Yet
hast Thou brought up my life from corruption ! that with no feeling
of suddenness or change Marius found himself emerging again, like a
later mystic traveller through similar dark places " quieted by
hope," into the daylight. They were still within the precincts
of the house, still in possession of that wonderful sing- ing,
although almost in the open country, with a great view of the Campagna
before them, and the hills beyond. The orchard or meadow, through
which their path lay, was already gray with twilight, though the western
sky, where the greater stars were visible, was still afloat in
crimson splendour. The colour of all earthly things seemed repressed by
the contrast, yet with a sense of great richness lingering in their
shadows. At that moment the voice of the singers, a " voice of joy
and health," concen- trated itself with solemn antistrophic
movement, into an evening, or " candle " hymn.
" Hail ! Heavenly Light, from his pure glory poured, Who is
the Almighty Father, heavenly, blest : Worthiest art Thou, at all times
to be sung With undefiled tongue." It was like the evening
itself made audible, its hopes and fears, with the stars shining in
the midst of it. Half above, half below the level white mist,
dividing the light from the dark- ness, came now the mistress of this
place, the wealthy Roman matron, left early a widow a,i few years
before, by Cecilius " Confessor and [ Saint." With a certain
antique severity in the I gathering of the long mantle, and with coif
or veil folded decorously below the chin, " gray within
gray," to the mind of Marius her temperate beauty brought
reminiscences of the serious and virile character of the best
female statuary of Greece. Quite foreign, however, to any Greek
statuary was the expression of pathetic care, with which she carried a
little child at rest in her arms. Another, a year or two older,
walked beside, the fingers of one hand within her girdle. She paused for
a moment with a greeting for Cornelius. That visionary scene
was the close, the fit- ting close, of the afternoon's strange
experiences. A few minutes later, passing forward on his way along
the public road, he could have fancied it a dream. The house of Cecilia
grouped itself beside that other curious house he had lately
visited at Tusculum. And what a contrast was presented by the former, in
its suggestions of hopeful industry, of immaculate cleanness, of
responsive affection ! all alike determined by that transporting
discovery of some fact, or series of facts, in which the old puzzle of
life had found its solution. In truth, one of his most
characteristic and constant traits had ever been a certain longing for
escape for some sudden, relieving interchange, across the very spaces
of life, it might be, along which he had lingered most pleasantly
for a lifting, from time to time, of the actual horizon. It was like
the necessity under which the painter finds himself, to set a
window or open doorway in the back- ground of his picture ; or like a
sick man's longing for northern coolness, and the whisper- ing
willow-trees, amid the breathless evergreen forests of the south. To some
such effect had this visit occurred to him, and through so slight
an accident. Rome and Roman life, just then, were come to seem like some
stifling forest of bronze -work, transformed, as if by malign en-
chantment, out of the generations of living trees, yet with roots in a
deep, down-trodden soil of poignant human susceptibilities. In the
midst of its suffocation, that old longing for escape had been
satisfied by this vision of the church in Cecilia's house, as never before.
It was still, indeed, according to the unchangeable law of his
temperament, to the eye, to the visual faculty of mind, that those
experiences appealed the peaceful light and shade, the boys whose
very faces seemed to sing, the virginal beauty of the mother and her
children. But, in his case, what was thus visible constituted a
moral or spiritual influence, of a somewhat exigent and controlling
character, added anew to life, a new element therein, with which,
consistently with his own chosen maxim, he must make terms.
The thirst for every kind of experience, encouraged by a philosophy
which taught that nothing was intrinsically great or small, good or
evil, had ever been at strife in him with a hieratic refinement, in which
the boy -priest survived, prompting always the selection of what
was perfect of its kind, with subsequent loyal adherence of his soul
thereto. This had carried him along in a continuous communion with
ideals, certainly realised in part, either in the conditions of his own
being, or in the actual company about him, above all, in Cornelius.
Surely, in this strange new society he had touched upon for the first
time to-day in this strange family, like "a garden enclosed "
was the fulfilment of all trie preferences, the judg- ments, of that
half-understood friend, which of late years had been his protection so
often amid the perplexities of life. Here, it might be, was, if not
the cure, yet the solace or anodyne of his great sorrows of that
constitutional sorrowfulness, not peculiar to himself perhaps, but
which had made his life certainly like one long " disease of the
spirit." Merciful intention made itself known remedially here, in
the mere contact of the air, like a soft touch upon aching flesh. On
the other hand, he was aware that new responsibilities also might be
awakened new and untried responsibilities a demand for something
from him in return. Might this new vision, like the malignant beauty of
pagan Medusa, be exclusive of any admiring gaze upon anything but
itself? At least he suspected that, after the beholding of it, he could
never again be altogether as he had been before. Faithful to the
spirit of his early Epicurean philosophy and the impulse to surrender
himself, in perfectly liberal inquiry about it, to anything that,
as a matter of fact, attracted or impressed him strongly, Marius informed
himself with much pains concerning the church in Cecilia's house ;
inclining at first to explain the peculi- arities of that place by the
establishment there of the schola or common hall of one of those
burial- guilds, which then covered so much of the unofficial, and,
as it might be called, subterranean enterprise of Roman society.
And what he found, thus looking, literally, for the dead among the
living, was the vision of a natural, a scrupulously natural, love,
transform- ing, by some new gift of insight into the truth of human
relationships, and under the urgency of some new motive by him so far
unfathomable, all the conditions of life. He saw, in all its primi-
tive freshness and amid the lively facts of its! actual coming into the
world, as a reality of experience, that regenerate type of humanity,
which, centuries later, Giotto and his successors, down to the best and
purest days of the young Raphael, working under conditions very
friendly to the imagination, were to conceive as an artistic ideal.
He felt there, felt amid the stirring of some wonderful new hope within
himself, the genius, the unique power of Christianity; in exercise
then, as it has been exercised ever since, in spite of many hindrances,
and under the most inopportune circumstances. Chastity, as he
seemed to understand the chastity of men and women, amid all the
conditions, and with the results, proper to such chastity, is the
most beautiful thing in the world and the truest con- servation of
that creative energy by which men and women were first brought into it.
The nature of the family, for which the better genius of old Rome
itself had sincerely cared, of the family and its appropriate affections
all that love of one's kindred by which obviously one does triumph
in some degree over death had never been so felt before. Here, surely! in
its genial warmth, its jealous exclusion of all that was opposed to
it, to its own immaculate naturalness, in the hedge set around the sacred
thing on every side, this development of the family did but carry
forward, and give effect to, the purposes, the kindness, of nature
itself, friendly to man. As if by way of a due recognition of some
im- measurable divine condescension manifest in a certain historic
fact, its influence was felt more especially at those points which
demanded some sacrifice of one's self, for the weak, for the aged,
for little children, and even for the dead. And % then, for its constant
outward token, its significant manner or index, it issued in a certain
debonair grace, and a certain mystic attractiveness, a courtesy,
which made Marius doubt whether that famed Greek " blitheness,"
or gaiety, or grace, in the handling of life, had been, after all,
an unrivalled success. Contrasting with the in- curable insipidity even
of what was most exquisite in the higher Roman life, of what was still
truest to the primitive soul of goodness amid its evil, the new
creation he now looked on as it were a picture beyond the craft of any
master of old pagan beauty had indeed all the appropriate freshness
of a " bride adorned for her husband." Things new and old
seemed to be coming as if out of some goodly treasure-house, the brain
full of science, the heart rich with various sentiment, possessing
withal this surprising healthfulness, this reality of heart.
" You would hardly believe," writes Pliny to his own wife
! "what a longing for you possesses me. Habit that we have not
been used to be apart adds herein to the primary force of
affection. It is this keeps me awake at night fancying I see you beside
me. That is why my feet take me unconsciously to your sitting-room
at those hours when I was wont to visit you there. That is why I turn from
the door of the empty chamber, sad and ill-at-ease, like an
excluded lover." There, is a real idyll from that family
life, the protection of which had been the motive of so large a
part of the religion of the Romans, still surviving among them ; as it
survived also in Aurelius, his disposition and aims, and, spite of
slanderous tongues, in the attained sweetness of his interior life. What
Marius had been per- mitted to see was a realisation of such life
higher still : and with Yes ! with a more effective sanction and
motive than it had ever possessed before, in that fact, or series of
facts, to be ascer- tained by those who would. The central
glory of the reign of the Anto- nines was that society had attained in
it, though very imperfectly, and for the most part by cumbrous
effort of law, many of those ends to which Christianity went straight,
with the sufficiency, the success, of a direct and appro- priate
instinct. Pagan Rome, too, had its touch- ing charity-sermons on
occasions of great public distress ; its charity-children in long file,
in memory of the elder empress Faustina ; its prototype, under
patronage of Aesculapius, of the modern hospital for the sick on the
island of Saint Bartholomew. But what pagan charity was doing
tardily, and as if with the painful cal- culation of old age, the church
was doing, almost without thinking about it, with all the
liberal enterprise of youth, because it was her very being thus to
do. " You fail to realise your own good intentions," she seems
to say, to pagan virtue, pagan kindness. She identified herself
with those intentions and advanced them with an un- paralleled
freedom and largeness. The gentle Seneca would have reverent burial
provided even for the dead body of a criminal. Yet when a certain
woman collected for interment the insulted remains of Nero, the pagan
world surmised that she must be a Christian: only a Christian would
have been likely to conceive so chivalrous a devotion towards mere
wretchedness. "We refuse to be witnesses even of a homicide
com- manded by the law," boasts the dainty consciena of a
Christian apologist, " we take no part ii your cruel sports nor in
the spectacles of the amphitheatre, and we hold that to witness a
murder is the same thing as to commit one." And there was another
duty almost forgotten, the sense of which Rousseau brought back to
the degenerate society of a later age. In an im- passioned discourse
the sophist Favorinus counsels mothers to suckle their own infants ; and
there are Roman epitaphs erected to mothers, which gratefully
record this proof of natural affection as a thing then unusual. In this
matter too, what a sanction, what a provocative to natural duty,
lay in that image discovered to Augustus by the Tiburtine Sibyl, amid the
aurora of a new age, the image of the Divine Mother and the Child,
just then rising upon the world like the dawn ! Christian
belief, again, had presented itself as a great inspirer of chastity.
Chastity, in turn, realised in the whole scope of its conditions,
fortified that rehabilitation of peaceful labour, after the mind, the
pattern, of the workman of Galilee, which was another of the natural
in- stincts of the catholic church, as being indeed the
long-desired initiator of a religion of cheerfulness, as a true lover of
the industry so to term it the labour, the creation, of God.
And this severe yet genial assertion of the ideal of woman, of the
family, of industry, of man's work in life, so close to the truth of
nature, was also, in that charmed hour of the minor " Peace of
the church," realised as an influence tending to beauty, to the
adornment of life and the world. The sword in the world, the right
eye plucked out, the right hand cut off*, the spirit of reproach which
those images express, and of which monasticism is the fulfilment, reflect
one side only of the nature of the divine missionary of the New
Testament. Opposed to, yet blent with, this ascetic or militant
character, is the function of the Good Shepherd, serene, blithe and
debonair, beyond the gentlest shepherd of Greek mythology; of a king
under whom the beatific vision is realised of a reign of peace--
peace of heart among men. Such aspect of the divine character of Christ,
rightly understood, is indeed the final consummation of that bold
and brilliant hopefulness in man's nature, which had sustained him
so far through his immense labours, his immense sorrows, and of which
pagan gaiety in the handling of life, is but a minor achieve- ment.
Sometimes one, sometimes the other, of those two contrasted aspects of
its Founder, have, in different ages and under the urgency of
different human needs, been at work also in the Christian Church.
Certainly, in that brief " Peace of the church " under the
Antonines, the spirit of a pastoral security and happiness seems to
have been largely expanded. There, in the early church of Rome, was
to be seen, and on sufficiently reasonable grounds, that
satisfaction and serenity on a dispassionate survey of the facts of
life, which all hearts had desired, though for the most part in vain,
contrasting itself for Marius, in particular, very forcibly, with
the imperial philosopher's so heavy burden of un- relieved
melancholy. It was Christianity in its humanity, or even its humanism, in
its generous hopes for man, its common sense and alacrity of
cheerful service, its sympathy with all creatures, its appreciation of beauty
and daylight. " The angel of righteousness," says the
Shep- herd of Hermas, the most characteristic religious book of
that age, its Pilgrim's Progress "the angel of righteousness is
modest and delicate and meek and quiet. Take from thyself grief,
for (as Hamlet will one day discover) 'tis the sister of doubt and
ill-temper. Grief is more evil than any other spirit of evil, and is most
dread- ful to the servants of God, and beyond all spirits
destroyeth man. For, as when good news is come to one in grief,
straightway he forgetteth his former grief, and no longer attendeth to
any- thing except the good news which he hath heard, so do ye, also
! having received a renewal of your soul through the beholding of these
good things. Put on therefore gladness that hath always favour
before God, and is acceptable unto Him, and delight thyself in it ; for
every man that is glad doeth the things that are good, and thinketh
good thoughts, despising grief." Such were the commonplaces of this
new people, among whom so much of what Marius had valued most in
the old world seemed to be under renewal and further promotion. Some
trans- forming spirit was at work to harmonise con- trasts, to
deepen expression a spirit which, in its dealing with the elements of
ancient life, was guided by a wonderful tact of selection, exclu-
sion, juxtaposition, begetting thereby a unique effect of freshness, a
grave yet wholesome beauty, because the world of sense, the whole
outward world was understood to set forth the veritable unction and
royalty of a certain priesthood and kingship of the soul within, among
the preroga- tives of which was a delightful sense of freedom. The
reader may think perhaps, that Marius, who, Epicurean as he was, had his
visionary aptitudes, by an inversion of one of Plato's peculiarities
with which he was of course familiar, must have descended, \>j
foresight, upon a later age than his own, and anticipated Chris-
tian poetry and art as they came to be under the influence of Saint
Francis of Assisi. But if he dreamed on one of those nights of the
beautiful house of Cecilia, its lights and flowers, of Cecilia
herself moving among the lilies, with an en- hanced grace as happens
sometimes in healthy dreams, it was indeed hardly an anticipation.
He had lighted, by one of the peculiar in- ) tellectual good-fortunes of
his life, upon a period when, even more than in the days of austere
ascesis which had preceded and were to follow it, the church was true for
a moment, truer perhaps than she would ever be again, to that
element of profound serenity in the soul of her Founder, which reflected
the eternal goodwill of God to man, " in whom," according to
the oldest version of the angelic message, " He is well-
pleased." For what Christianity did many centuries
afterwards in the way of informing an art, a poetry, of graver and higher
beauty, we may think, than that of Greek art and poetry at their
best, was in truth conformable to the original tendency of its genius. The
genuine capacity of the catholic church in this direction,
discover- able from the first in the New Testament, was also really
at work, in that earlier " Peace," under the Antonines the minor
"Peace of the church," as we might call it, in distinction
from the final " Peace of the church," commonly so
called, under Constantine. Saint Francis, with his following in the
sphere of poetry and of the arts the voice of Dante, the hand of
Giotto giving visible feature and colour, and a palpable place
among men, to the regenerate race, did but re-establish a continuity,
only suspended in part by those troublous intervening centuries the
"dark ages," properly thus named with the gracious spirit
of the primitive church, as manifested in that first early springtide of
her success. The greater " Peace " of Constantine, on the
other hand, in many ways, does but establish the ex- clusiveness,
the puritanism, the ascetic gloom which, in the period between Aurelius
and the first Christian emperor, characterised a church under
misunderstanding or oppression, driven back, in a world of tasteless
controversy, inwards upon herself. Already, in the reign of
Antoninus Pius, the time was gone by when men became Christians
under some sudden and overpowering impression, and with all the
disturbing results of such a crisis. At this period the larger number,
perhaps, had been born Christians, had been ever with peaceful
hearts in their " Father's house." That earlier belief in the
speedy coming of judgment and of the end of the world, with the
con- sequences it so naturally involved in the temper of men's
minds, was dying out. Every day the contrast between the church and the
world was becoming less pronounced. And now also, as the church
rested awhile from opposition, that rapid self-development outward from
within, proper to times of peace, was in progress. Antoninus Pius,
it might seem, more truly even than Marcus Aurelius himself, was of that
group of pagan saints for whom Dante, like Augustine, has provided
in his scheme of the house with many mansions. A sincere old Roman
piety had urged his fortunately constituted nature to no mistakes,
no offences against humanity. And of his entire freedom from guile one
reward had been this singular happiness, that under his rule there
was no shedding of Christian blood. To him belonged that half-humorous
placidity of soul, of a kind illustrated later very effectively by
Montaigne, which, starting with an instinct of mere fairness towards
human nature and the world, seems at last actually to qualify its
possessor to be almost the friend of the people of Christ. Amiable, in
its own nature, and full of a reasonable gaiety, Christianity has often
had its advantage of characters such as that. The geni- ality of
Antoninus Pius, like the geniality of the earth itself, had permitted the
church, as being in truth no alien from that old mother earth, to
expand and thrive for a season as by natural process. And that charmed
period under the Antonines, extending to the later years of
the reign of Aurelius (beautiful, brief, chapter of ecclesiastical
history !), contains, as one of its motives of interest, the earliest
development of Christian ritual under the presidence of the church
of Rome. Again as in one of those mystical, quaint visions of
the Shepherd of Hernias, "the aged woman was become by degrees more
and more youthful. And in the third vision she was quite young, and
radiant with beauty : only her hair was that of an aged woman. And at the
last she was joyous, and seated upon a throne seated upon a throne,
because her position is a strong one." The subterranean worship of
the church belonged properly to those years of her early history in
which it was illegal for her to worship at all. But, hiding herself for
awhile as con- flict grew violent, she resumed, when there was felt
to be no more than ordinary risk, her natural freedom. And the kind of
outward prosperity she was enjoying in those moments of her first
" Peace," her modes of worship now blossoming freely
above-ground, was re-inforced by the deci- sion at this point of a crisis
in her internal history. In the history of the church, as
throughout the moral history of mankind, there are two distinct
ideals, either of which it is possible to maintain two conceptions, under
one or the other of which we may represent to ourselves men's
efforts towards a better life corresponding to those two contrasted
aspects, noted above, as discernible in the picture afforded by the
New Testament itself of the character of Christ. The ideal of
asceticism represents moral effort as essentially a sacrifice, the
sacrifice of one part of human nature to another, that it may live
the more completely in what survives of it ; while the ideal of
culture represents it as a harmonious development of all the parts of
human nature, in just proportion to each other. It was to the
latter order of ideas that the church, and' especially the church of Rome
in the age of the Antonines, freely lent herself. In that earlier
" Peace " she had set up for herself the ideal of spiritual
development, under the guidance of an instinct by which, in those serene
moments, she was absolutely true to the peaceful soul of her
Founder. " Goodwill to men," she said, " in whom God
Himself is well -pleased ! " For a little while, at least, there was
no forced opposi- tion between the soul and the body, the world and
the spirit, and the grace of graciousness itself was pre-eminently with
the people of Christ. Tact, good sense, ever the note of a true
ortho- doxy, the merciful compromises of the church, indicative of
her imperial vocation in regard to all the varieties of human kind, with
a universal- ity of which the old Roman pastorship she was
superseding is but a prototype, was already become conspicuous, in spite
of a discredited, irritating, vindictive society, all around her.
Against that divine urbanity and moderation the old error of Montanus we
read of dimly, was a fanatical revolt sour, falsely anti-mun- dane,
ever with an air of ascetic affectation, and a bigoted distaste in
particular for all the peculiar graces of womanhood. By it the
desire to please was understood to come of the author of evil. In
this interval of quietness, it was perhaps inevitable, by the law of
reaction, that some such extravagances of the religious temper
should arise. But again the church of Rome, now becoming every day more
and more com- pletely the capital of the Christian world, checked
the nascent Montanism, or puritanism of the moment, vindicating for all
Christian people a cheerful liberty of heart, against many a narrow
group of sectaries, all alike, in their different ways, accusers of the
genial creation of God. With her full, fresh faith in the Evange/e
in a veritable regeneration of the earth and the body, in the dignity of
man's entire personal being for a season, at least, at that
critical period in the development of Christianity, she was for
reason, for common sense, for fairness to human nature, and generally for
what may be called the naturalness of Christianity. As also for its
comely order: she would be "brought to her king in raiment of
needlework." It was by the bishops of Rome, diligently
transforming themselves, in the true catholic sense, into universal
pastors, that the path of what we must call humanism was thus
defined. And then, in this hour of expansion, as if now at last the
catholic church might venture to show her outward lineaments as they
really were, worship "the beauty of holiness," nay! the
elegance of sanctity was developed, with a bold and confident gladness,
the like of which has hardly been the ideal of worship in any later
age. The tables in fact were turned : the prize of a cheerful temper on a
candid survey of life was no longer with the pagan world. The
aesthetic charm of the catholic church, her evoca- tive power over all
that is eloquent and expres- sive in the better mind of man, her
outward comeliness, her dignifying convictions about human nature :
all this, as abundantly realised centuries later by Dante and Giotto, by
the great medieval church-builders, by the great ritualists like
Saint Gregory, and the masters of sacred music in the middle age we may
see already, in dim anticipation, in those charmed moments towards
the end of the second century. Dissi- pated or turned aside, partly
through the fatal mistake of Marcus Aurelius himself, for a brief
space of time we may discern that influence clearly predominant there.
What might seem harsh as dogma was already justifying itself as
worship ; according to the sound rule : Lex orandi^ lex credendi Our
Creeds are but the brief abstract of our prayer and song. The
wonderful liturgical spirit of the church, her wholly unparalleled genius
for worship, being thus awake, she was rapidly re-organising both
pagan and Jewish elements of ritual, for the expanding therein of her own
new heart of devotion. Like the institutions of monasticism, like
the Gothic style of architecture, the ritual system of the church, as we
see it in historic retrospect, ranks as one of the great, conjoint,
and (so to term them) necessary, products of human mind. Destined for
ages to come, to direct with so deep a fascination men's religious
instincts, it was then already recognisable as a new and precious fact in
the sum of things. What has been on the whole the method of the
church, as " a power of sweetness and patience," in dealing
with matters like pagan art, pagan literature was even then manifest ;
and has the character of the moderation, the divine modera- tion of
Christ himself. It was only among the ignorant, indeed, only in the
" villages," that Christianity, even in conscious triumph
over paganism, was really betrayed into iconoclasm. In the final
" Peace " of the Church under Constantine, while there was
plenty of destruc- tive fanaticism in the country, the revolution
was accomplished in the larger towns, in a manner more orderly and discreet
in the Roman manner. The faithful were bent less on the destruction
of the old pagan temples than on their conversion to a new and higher use
; and, with much beautiful furniture ready to hand, they became
Christian sanctuaries. Already, in accordance with such maturer
wisdom, the church of the " Minor Peace " had adopted many of
the graces of pagan feeling and pagan custom ; as being indeed a living
creature, taking up, transforming, accommodating still more closely
to the human heart what of right belonged to it. In this way an obscure
syna- gogue was expanded into the catholic church. Gathering, from
a richer and more varied field of sound than had remained for him, those
old Roman harmonies, some notes of which Gregory the Great,
centuries later, and after generations of interrupted development, formed
into the Gregorian music, she was already, as we have heard, the
house of song of a wonderful new music and poesy. As if in anticipation
of the sixteenth century, the church was becoming! "humanistic,"
in an earlier, and unimpeachable/ Renaissance. Singing there had been in
abund-j ance from the first ; though often it dared only be "
of the heart." And it burst forth, when it might, into the beginnings
of a true ecclesiastical music; the Jewish psalter, inherited from
the synagogue, turning now, gradually, from Greek into Latin broken
Latin, into Italian, as the ritual use of the rich, fresh, expressive
vernacular superseded the earlier authorised language of the
Church. Through certain surviving remnants of Greek in the later Latin
liturgies, we may still discern a highly interesting intermediate
phase of ritual development, when the Greek and the Latin were in
combination; the poor, surely ! the poor and the children of that
liberal Roman church responding already in their own " vulgar
tongue," to an office said in the original, liturgical Greek. That
hymn sung in the early morning, of which Pliny had heard, was
kindling into the service of the Mass. The Mass, indeed, would
appear to have been said continuously from the Apostolic age. Its
details, as one by one they become visible in later history, have already
the character of what is ancient and venerable. "We are very old,
and ye are young ! " they seem to protest, to those who fail to understand
them. Ritual, in fact, like all other elements of religion, must
grow and cannot be made grow by the same law of development which
prevails everywhere else, in the moral as in the physical world. As
regards this special phase of the religious life, however, such
development seems to have been unusually rapid in the subterranean age
which preceded Constantine ; and in the very first days j of the
final triumph of the church the Mass emerges to general view already
substantially complete. " Wisdom " was dealing, as with
the dust of creeds and philosophies, so also with the dust of
outworn religious usage, like the very spirit of life itself, organising
soul and body out of the lime and clay of the earth. In a generous
eclecticism, within the bounds of her liberty, and as by some
providential power within her, she gathers and serviceably adopts, as in
other matters so in ritual, one thing here, another there, from
various sources Gnostic, Jewish, Pagan to adorn and beautify the greatest
act of worship the world has seen. It was thus the liturgy of the
church came to be full of con- solations for the human soul, and
destined, surely ! one day, under the sanction of so many ages of
human experience, to take exclusive possession of the religious
consciousness. TANTUM ERGO SACRAMENTUM VENEREMUR
CERNUI : ET ANTIQUUM DOCUMENTUM NOVO CEDAT RITUI.
" Wisdom hath builded herselt a house : she hath mingled hex
wine : she hath also prepared for herself a table." The more
highly favoured ages of imaginative art present instances of the summing
up of an entire world of complex associations under some single
form, like the Zeus of Olympia, or the series of frescoes which
commemorate The Acts of Saint Francis, at Assisi, or like the play
of Hamlet or Faust. It was not in an image, or series of images,
yet still in a sort of dramatic action, and with the unity of a single
appeal to eye and ear, that Marius about this time found all his
new impressions set forth, regarding what he had already recognised,
intellectually, as for him at least the most beautiful thing in the
world. To understand the influence upon him of what follows
the reader must remember that it was an experience which came amid a
deep sense of vacuity in life. The fairest products of the
earth seemed to be dropping to pieces, as if in men's very hands, around
him. How real was their sorrow, and his ! " His observation of
life " had come to be like the constant telling of a sorrowful
rosary, day after day ; till, as if taking infection from the cloudy
sorrow of the mind, the eye also, the very senses, were grown faint
and sick. And now it happened as with the actual morning on which he
found himself a spectator of this new thing. The long winter had
been a season of unvarying sullenness. At last, on this day he awoke with
a sharp flash of lightning in the earliest twilight : in a little
while the heavy rain had filtered the air: the clear light was abroad ;
and, as though the spring had set in with a sudden leap in the
heart of things, the whole scene around him lay like some untarnished
picture beneath a sky of delicate blue. Under the spell of his late
de- pression, Marius had suddenly determined to leave Rome for a
while. But desiring first to advertise Cornelius of his movements, and
failing to find him in his lodgings, he had ventured, still early
in the day, to seek him in the Cecilian villa. Passing through its silent
and empty court-yard he loitered for a moment, to admire. Under the
clear but immature light of winter morning after a storm, all the details
of form and colour in the old marbles were dis- tinctly visible,
and with a kind of severity or sadness so it struck him amid their beauty
: in them, and in all other details of the scene the cypresses, the
bunches of pale daffodils in the grass, the curves of the purple hills
of Tusculum, with the drifts of virgin snow still lying in their
hollows. The little open door, through which he passed from
the court-yard, admitted him into what was plainly the vast Lararium^ or
domestic sanctuary, of the Cecilian family, transformed in many
particulars, but still richly decorated, and retaining much of its
ancient furniture in metal- work and costly stone. The peculiar
half-light of dawn seemed to be lingering beyond its hour upon the
solemn marble walls ; and here, though at that moment in absolute
silence, a great company of people was assembled. In that brief
period of peace, during which the church emerged for awhile from her
jealously- guarded subterranean life, the rigour of an earlier rule
of exclusion had been relaxed. And so it came to pass that, on this
morning Marius saw for the first time the wonderful spectacle -
wonderful, especially, in its evidential power over himself, over his own
thoughts of those who believe. There were noticeable, among
those present, great varieties of rank, of age, of personal type.
The Roman ingenuus^ with the white toga and gold ring, stood side by side
with his slave ; and the air of the whole company was, above all, a
grave one, an air of recollection. Coming thus unexpectedly upon this
large assembly, so entirely united, in a silence so profound, for
purposes unknown to him, Marius felt for a moment as if he had stumbled
by chance upon some great conspiracy. Yet that could scarcely be,
for the peoplehere collected might have figured as the earliest handsel,
or pattern, of a new world, from the very face of which dis-
content had passed away. Corresponding to the variety of human type there
present, was the various expression of every form of human sorrow
assuaged. What desire, what fulfilment of desire, had wrought so
pathetically on the features of these ranks of aged men and women of
humble condition ? Those young men, bent down so j discreetly on
the details of their sacred service, had faced life and were glad, by
some science, or light of knowledge they had, to which there had
certainly been no parallel in the older world. Was some credible message
from beyond " the flaming rampart of the world " a message
of hope, regarding the place of men's souls and theirinterest in
the sum of things already moulding anew their very bodies, and
looks, and voices, now and here ? At least, there was a cleansing
and kindling flame at work in them, which seemed to make everything else
Marius had ever known look comparatively vulgar and mean. There
were the children, above all troops of children reminding him of
those pathetic children's graves, like cradles or garden-beds, he had
noticed in his first visit to these places; and they more than satisfied
the odd curiosity he had then conceived about them, wondering in
what quaintly expressive forms they might come forth into the daylight,
if awakened from sleep. Children of the Cata- combs, some but
"a span long," with features not so much beautiful as heroic
(that world of new, refining sentiment having set its seal even on
phildhood), they retained certainly no stain or trace of anything
subterranean this morning, in the alacrity of their worship as ready as
if they had been at play stretching forth their hands, crying,
chanting in a resonant voice, and with boldly upturned faces, Christe
Eleison ! For the silence silence, amid those lights of early
morning to which Marius had always been constitutionally impressible, as
having in them a certain reproachful austerity was broken suddenly
by resounding cries of Kyrie Eleison ! Christe Eleison! repeated
alternately, again and again, until the bishop, rising from his
chair, made sign that this prayer should cease. But the voices
burst out once more presently, in richer and more varied melody, though
still of an antiphonal character ; the men, the women and children,
the deacons, the people, answering one another, somewhat after the manner
of a Greek chorus. But again with what a novelty of poetic accent ;
what a genuine expansion of heart ; what profound intimations for the intellect,
as the meaning of the words grew upon him ! Cum grandi affectu et
compunctione dicatur says an ancient eucharistic order ; and
certainly, the mystic tone of this praying and singing was one with
the expression of deliverance, of grate- ful assurance and sincerity,
upon the faces of those assembled. As if some searching correc-
tion, a regeneration of the body by the spirit, \ had begun, and was
already gone a great way, the countenances of men, women, and
children alike had a brightness on them which he could fancy
reflected upon himself an amenity, a mystic amiability and unction, which
found its way most readily of all to the hearts of children
themselves. The religious poetry of those Hebrew psalms Benedixisti
Domine terram tuam: Dixit Dominus Domino meo^ sede a dextris meis
was certainly in marvellous accord with the lyrical instinct of his own
character. Those august hymns, he thought, must thereafter ever
remain by him as among the well-tested powers in things to soothe and
fortify the soul. One could never grow tired of them ! In the
old pagan worship there had been little to call the understanding into
play. Here, on the other hand, the utterance, the eloquence, the
music of worship conveyed, as Marius readily understood, a fact or series
of facts, for intellectual reception. That became evident, more
especially, in those lessons, or sacred readings, which, like the
singing, in broken vernacular Latin, occurred at certain intervals,
amid the silence of the assembly. There were readings, again with bursts
of chanted invocation between for fuller light on a difficult path,
in which many a vagrant voice of human philo- sophy, haunting men's
minds from of old, recurred with clearer accent than had ever
belonged to it before, as if lifted, above its first intention, into the
harmonies of some supreme system of knowledge or doctrine, at
length complete. And last of all came a narrative which, with a
thousand tender memories, every one appeared to know by heart,
displaying, in all the vividness of a picture for the eye, the
mournful figure of him towards whom this whole act of worship still
consistently turned a figure which seemed to have absorbed, like
some rich tincture in his garment, all that was deep-felt and impassioned
in the experiences of the past. It was the anniversary of his
birth as a little child they celebrated to-day. Astiterunt reges
terra : so the Gradual, the " Song of Degrees," proceeded, the
young men on the steps of the altar responding in deep, clear, antiphon
or chorus Astiterunt reges terrae Adversus
sanctum puerum tuum, Jesum : Nunc, Domine, da servis tuis loqui
verbum tuum Et signa fieri, per nomen sancti pueri Jesu.
And the proper action of the rite itself, like a half-opened book to
be read by the duly initi- ated mind took up those suggestions, and
carried them forward into the present, as having refer- ence to a
power still efficacious, still after some mystic sense even now in action
among the people there assembled. The entire office, in- deed, with
its interchange of lessons, hymns, prayer, silence, was itself like a
single piece j of highly composite, dramatic music ; a " song
j of degrees," rising steadily to a climax. Not- |
withstanding the absence of any central image visible to the eye, the
entire ceremonial process, / like the place in which it was enacted,
was weighty with symbolic significance, seemed to express a single
leading motive. The mystery, if such in fact it was, centered indeed in
the actions of one visible person, distinguished among the
assistants, who stood ranged in semicircle around him, by the extreme
fineness of his white vestments, and the pointed cap with the
golden ornaments upon his head. Nor had Marius ever seen the
pontifical character, as he conceived it sicut unguentum in capite^
descendens in oram vestimenti so fully real- ised, as in the expression,
the manner and voice, of this novel pontiff, as he took his seat on
the white chair placed for him by the young men, and received his
long staff into his hand, or moved his hands hands which seemed
endowed in very deed with some mysterious power at the Lavabo, or
at the various benedictions, or to bless certain objects on the table before
him, chanting in cadence of a grave sweetness the leading parts of
the rite. What profound unction and mysticity ! The solemn
character of the singing was at its height when he opened his lips.
Like some new sort of rhapsodos, it was for the moment as if he alone
possessed the words of the office, and they flowed anew from some
permanent source of inspiration within him. The table or altar at which
he presided, below a canopy on delicate spiral columns, was in fact
the tomb of a youthful " witness," of the family of the
Cecilii, who had shed his blood not many years before, and whose relics
were still in this place. It was for his sake the bishop put his
lips so often to the surface before him ; the regretful memory of that
death entwining itself, though not without certain notes of
triumph, as a matter of special inward significance, throughout a
service, which was, before all else, from first to last, a commemoration
of the dead. A sacrifice also, a sacrifice, it might
seem, like the most primitive, the most natural and enduringly
significant of old pagan sacrifices, of the simplest fruits of the earth.
And in con- nexion with this circumstance again, as in the actual
stones of the building so in the rite itself, what Marius observed was
not so much new matter as a new spirit, moulding, informing, with a
new intention, many observances not witnessed for the first time to-day.
Men and women came to the altar successively, in perfect order, and
deposited below the lattice-work 01 pierced white marble, their baskets
of wheat and grapes, incense, oil for the sanctuary lamps ; bread
and wine especially pure wheaten bread, the pure white wine of the
Tusculan vineyards. There was here a veritable consecration,
hopeful and animating, of the earth's gifts, of old dead and dark
matter itself, now in some way re- deemed at last, of all that we can
touch or see, in the midst of a jaded world that had lost the true
sense of such things, and in strong contrast to the wise emperor's
renunciant and impassive attitude towards them. Certain portions of
that bread and wine were taken into the bishop's hands ; and
thereafter, with an increasing mysti- city and effusion the rite
proceeded. Still in a strain of inspired supplication, the
antiphonal singing developed, from this point, into a kind of
dialogue between the chief minister and the whole assisting company
SURSUM CORDA ! HABEMUS AD DOMINUM. GRATIAS AGAMUS
DOMINO DEO NOSTRO ! It might have been thought the business,
the duty or service of young men more particularly, as they stood
there in long ranks, and in severe and simple vesture of the purest white
a service in which they would seem to be flying for refuge, as with
their precious, their treacher- ous and critical youth in their hands, to
one- Yes ! one like themselves, who yet claimed their worship, a
worship, above all, in the way of Aurelius, in the way of imitation.
Adoramus te Christe^ quia per crucem tuam redemisti mundum ! they
cry together. So deep is the emotion that at moments it seems to Marius
as if some there present apprehend that prayer prevails, that the
very object of this pathetic crying him- self draws near. From the first
there had been the sense, an increasing assurance, of one coming :
actually with them now, according to the oft- repeated affirmation or
petition, e Dominus vobis- cum ! Some at least were quite sure of it ;
and the confidence of this remnant fired the hearts, and gave
meaning to the bold, ecstatic worship, of all the rest about them.
Prompted especially by the suggestions of that mysterious old
Jewish psalmody, so new to him lesson and hymn and catching there-
with a portion of the enthusiasm of those beside him, Marius could
discern dimly, behind the solemn recitation which now followed, at
once a narrative and a prayer, the most touching image truly that
had ever come within the scope of his mental or physical gaze. It
was the image of a young man giving up voluntarily, one by one, for
the greatest of ends, the greatest gifts ; actually parting with himself,
above all, with the serenity, the divine serenity, of his own soul ;
yet from the midst of his desolation crying out upon the greatness of his
success, as if foreseeing this very worship. 1 As centre of the
supposed facts which for these people were become so constraining a
motive of hopefulness, of activity, that image seemed to display itself
with an overwhelming claim on human grati- tude. What Saint Lewis of
France discerned, and found so irresistibly touching, across the
dimness of many centuries, as a painful thing done for love of him by one
he had never seen, was to them almost as a thing of yesterday ; and
their hearts were whole with it. It had the force, among their interests,
of an almost recent event in the career of one whom their fathers'
fathers might have known. From memories so sublime, yet so close at hand,
had the narra- tive descended in which these acts of worship
centered ; though again the names of some more recently dead were mingled
in it. And it seemed as if the very dead were aware; to be stirring
beneath the slabs of the sepulchres which lay so near, that they might
associate themselves to this enthusiasm to this exalted worship of
Jesus. One by one, at last, the faithful approach to receive
from the chief minister morsels of the great, white, wheaten cake, he had
taken into his hands Perducat vos ad vitarn ceternam ! he prays,
half-silently, as they depart again, after 1 Psalm xxii.
22-31. discreet embraces. The Eucharist of those early days was,
even more entirely than at any later or happier time, an act of
thanksgiving ; and while the remnants of the feast are borne away for
the reception of the sick, the sustained gladness of the rite
reaches its highest point in the sing- ing of a hymn : a hymn like the
spontaneous product of two opposed militant companies, contending
accordantly together, heightening, accumulating, their witness, provoking
one an- other's worship, in a kind of sacred rivalry. Ite !
Missa esf ! cried the young deacons : and Marius departed from that
strange scene along with the rest. What was it ? Was it this made
the way of Cornelius so pleasant through the world ? As for Marius
himself, the natural soul of worship in him had at last been
satisfied as never before. He felt, as he left that place, that he must
hereafter experience often a longing memory, a kind of thirst, for
all this, over again. And it seemed moreover to define what he must
require of the powers, whatsoever they might be, that had brought
him into the world at all, to make him not unhappy in it. In cheerfulness
is the success of our studies, says Pliny studia hilaritate proveniunt.
It was still the habit of Marius, encouraged by his experi- ence
that sleep is not only a sedative but the best of stimulants, to seize
the morning hours for creation, making profit when he might of the
wholesome serenity which followed a dreamless night. " The morning
for creation," he would say; "the afternoon for the perfecting
labour of the file ; the evening for reception the reception of
matter from without one, of other men's words and thoughts matter for our
own dreams, or the merely mechanic exercise of the brain, brooding
thereon silently, in its dark chambers." To leave home early in the
day was therefore a rare thing for him. He was induced so to do on
the occasion of a visit to Rome of the famous writer Lucian, whom he had
been bidden to meet. The breakfast over, he walked away with the
learned guest, having offered to be his guide to the lecture-room of a
well-known Greek rhetorician and expositor of the Stoic philosophy,
a teacher then much in fashion among the studious youth of Rome. On
reaching the place, however, they found the doors closed, with a
slip of writing attached, which proclaimed " a holiday " ; and
the morning being a fine one, they walked further, along the Appian
Way. Mortality, with which the Queen of Ways in reality the
favourite cemetery of Rome was so closely crowded, in every imaginable
form of sepulchre, from the tiniest baby-house, to the massive
monument out of which the Middle Age would adapt a fortress-tower, might
seem, on a morning like this, to be " smiling through
tears." The flower-stalls just beyond the city gates pre-
sented to view an array of posies and garlands, fresh enough for a
wedding. At one and another of them groups of persons, gravely clad,
were making their bargains before starting for some perhaps distant
spot on the highway, to keep a dies rosationis, this being the time of
roses, at the grave of a deceased relation. Here and there, a
funeral procession was slowly on its way, in weird contrast to the gaiety
of the hour. The two companions, of course, read the epitaphs
as they strolled along. In one, remind- ing them of the poet's Si lacrima
prosunt, visis te ostende videri ! a woman prayed that her lost
husband might visit her dreams. Their charac- teristic note, indeed, was
an imploring cry, still to be sought after by the living. "While
I live," such was the promise of a lover to his dead mistress,
" you will receive this homage : after my death, who can tell ? "
post mortem nescio. " If ghosts, my sons, do feel anything after
death, my sorrow will be lessened by your frequent coming to me
here ! " " This is a privileged tomb ; to my family and
descendants has been conceded the right of visiting this place as
often as they please." -"This is an eternal habita- tion
; here lie I ; here I shall lie for ever." " Reader ! if you
doubt that the soul survives, make your oblation and a prayer for me;
and you shall understand ! " The elder of the two
readers, certainly, was little affected by those pathetic suggestions.
It was long ago that after visiting the banks of the Padus, where
he had sought in vain for the poplars (sisters of Phaethon erewhile)
whose tears became amber, he had once for all arranged for himself
a view of the world exclusive of all reference to what might lie beyond
its " flaming barriers." And at the age of sixty he had
no misgivings. His elegant and self-complacent but far
fromunamiable scepticism, long since brought to perfection, never failed
him. It sur- rounded him, as some are surrounded by a magic ring of
fine aristocratic manners, with " a ram- part," through which
he himself never broke, nor permitted any thing or person to break upon
him. Gay, animated, content with his old age as it was, the aged student
still took a lively interest in studious youth. Could Marius inform
him of any such, now known to him in Rome ? What did the young men learn,
just then? and how? In answer, Marius became fluent
concerning the promise of one young student, the son, as it
presently appeared, of parents of whom Lucian himself knew something: and
soon afterwards the lad was seen coming along briskly a lad with
gait and figure well enough expressive of the sane mind in the healthy
body, though a little slim and worn of feature, and with a pair of
eyes expressly designed, it might seem, for fine glancings at the stars.
At the sight of Marius he paused suddenly, and with a modest blush
on recognising his companion, who straightway took with the youth, so
prettily enthusiastic, the freedom of an old friend. In a few
moments the three were seated together, immediately above the fragrant
borders of a rose-farm, on the marble bench of one of the exhedra
for the use of foot-passengers at the roadside, from which they could
overlook the grand, earnest prospect of the Campagna^ and enjoy the
air. Fancying that the lad's plainly written enthusiasm had induced in
the elder speaker somewhat more fervour than was usual with him,
Marius listened to the conversation which follows. " Ah
! Hermotimus ! Hurrying to lecture ! if I may judge by your pace, and that
volume in your hand. You were thinking hard as you came along,
moving your lips and waving your arms. Some fine speech you were
pondering, some knotty question, some viewy doctrine not to be idle
for a moment, to be making progress in philosophy, even on your way to
the schools. To-day, however, you need go no further. We read a
notice at the schools that there would be no lecture. Stay therefore, and
talk awhile with us. -With pleasure, Lucian. Yes ! I was
rumin- ating yesterday's conference. One must not lose a moment.
Life is short and art is long ! And it was of the art of medicine, that
was first said a thing so much easier than divine philo- sophy, to
which one can hardly attain in a life- time, unless one be ever wakeful,
ever on the watch. And here the hazard is no little one : By the
attainment of a true philosophy to attain happiness ; or, having missed
both, to perish, as one of the vulgar herd. The prize is a
great one, Hermotimus ! and you must needs be near it, after these months
of toil, and with that scholarly pallor of yours. Unless, indeed,
you have already laid hold upon it, and kept us in the dark.
How could that be, Lucian? Happiness, as Hesiod says, abides very
far hence; and the way to it is long and steep and rough. I see
myself still at the beginning of my journey ; still but at the mountain's
foot. I am trying with all my might to get forward. What I need is
a hand, stretched out to help me. And is not the master
sufficient for that ? Could he not, like Zeus in Homer, let down to
you, from that high place, a golden cord, to draw you up thither, to
himself and to that Happiness, to which he ascended so long ago ?
The very point, Lucian ! Had it depended on him I should long ago
have been caught up. 'Tis I, am wanting. Well ! keep your eye
fixed on the journey's end, and that happiness there above, with con-
fidence in his goodwill. Ah ! there are many who start
cheerfully on the journey and proceed a certain distance, but lose
heart when they light on the obstacles of the way. Only, those who endure
to the end do come to the mountain's top, and thereafter live in
Happiness : live a wonderful manner of life, seeing all other people from
that great height no bigger than tiny ants. What little
fellows you make of us less than the pygmies down in the dust here.
Well ! we, * the vulgar herd,' as we creep along, will not forget you in
our prayers, when you are seated up there above the clouds, whither
you have been so long hastening. But tell me, Hermotimus ! when do
you expect to arrive there ? Ah ! that I know not. In twenty
years, perhaps, I shall be really on the summit. A great while ! you
think. But then, again, the prize I contend for is a great one.
Perhaps ! But as to those twenty years that you will live so long.
Has the master assured you of that ? Is he a prophet as well as a
philosopher? For I suppose you would not endure all this, upon a mere
chance toiling day and night, though it might happen that just ere
the last step, Destiny seized you by the foot and plucked you thence,
with your hope still unfulfilled. Hence, with these
ill-omened words, Lucian ! Were I to survive but for a day, I
should be happy, having once attained wisdom. Howf Satisfied with a
single day, after all those labours ? Yes ! one blessed
moment were enough ! But again, as you have never been, how
know you that happiness is to be had up there, at all the happiness that
is to make all this worth while ? I believe what the master
tells me. Of a certainty he knows, being now far above all others.
And what was it he told you about it ? Is it riches, or glory, or
some indescribable pleasure ? Hush ! my friend ! All those
are nothing in comparison of the life there. What, then,
shall those who come to the end of this discipline what excellent
thing shall they receive, if not these ? Wisdom, the absolute
goodness and the absolute beauty, with the sure and certain
knowledge of all things how they are. Riches and glory and pleasure
whatsoever belongs to the body they have cast from them : stripped
bare of all that, they mount up, even as Hercules, consumed in the fire,
became a god. He too cast aside all that he had of his earthly
mother, and bearing with him the divine element, pure and undefiled,
winged his way to heaven from the discerning flame. Even so do
they, detached from all that others prize, by the burning fire of a true
philosophy, ascend to the highest degree of happiness.
Strange ! And do they never come down again from the heights to
help those whom they left below ? Must they, when they be once come
thither, there remain for ever, laughing, as you say, at what other men
prize ? More than that ! They whose initiation is entire are
subject no longer to anger, fear, desire, regret. Nay ! They scarcely
feel at all. -Well ! as you have leisure to-day, why not tell
an old friend in what way you first started on your philosophic journey ?
For, if I might, I should like to join company with you from this
very day. If you be really willing, Lucian ! you will learn
in no long time your advantage over all other people. They will seem
but as children, so far above them will be your thoughts.
Well ! Be you my guide ! It is but fair. But tell me Do you allow
learners to contra- dict, if anything is said which they don't
think right ? No, indeed ! Still, if you wish, oppose
your questions. In that way you will learn more easily. Let
me know, then Is there one only way which leads to a true philosophy
your own way the way of the Stoics : or is it true, as I have
heard, that there are many ways of approaching it ? -Yes ! Many
ways ! There are the Stoics, and the Peripatetics, and those who call
them- selves after Plato : there are the enthusiasts for Diogenes,
and Antisthenes, and the followers of Pythagoras, besides others.
It was true, then. But again, is what they say the same or
different ? Very different. -Yet the truth, I conceive, would
be one and the same, from all of them. Answer me then In what, or
in whom, did you confide when you first betook yourself to
philosophy, and seeing so many doors open to you, passed them all
by and went in to the Stoics, as if there alone lay the way of truth ?
What token had you ? Forget, please, all you are to-day- half-way,
or more, on the philosophic journey : answer me as you would have done
then, a mere outsider as I am now. Willingly ! It was there
the great ma- jority went ! 'Twas by that I judged it to be the
better way. A majority how much greater than the Epicureans,
the Platonists, the Peripatetics f You, doubtless, counted them
respectively, as with the votes in a scrutiny. No ! But this
was not my only motive. I heard it said by every one that the
Epicureans were soft and voluptuous, the Peripatetics ava- ricious
and quarrelsome, and Plato's followers puffed up with pride. But of the
Stoics, not a few pronounced that they were true men, that they
knew everything, that theirs was the royal road, the one road, to wealth,
to wisdom, to all that can be desired. Of course those who
said this were not themselves Stoics : you would not have believed
them still less their opponents. They were the vulgar, therefore.
True ! But you must know that I did not trust to others
exclusively. I trusted also to myself to what I saw. I saw the Stoics
going through the world after a seemly manner, neatly clad, never
in excess, always collected, ever faithful to the mean which all
pronounce ' golden.' You are trying an experiment on
me. You would fain see how far you can mislead me as to your real
ground. The kind of pro- bation you describe is applicable, indeed,
to works of art, which are rightly judged by their appearance to
the eye. There is something in the comely form, the graceful drapery,
which tells surely of the hand of Pheidias or Alcamenes. But if philosophy
is to be judged by outward appearances, what would become of the
blind man, for instance, unable to observe the attire and gait of
your friends the Stoics ? It was not of the blind I was
thinking. -Yet there must needs be some common criterion in a
matter so important to all. Put the blind, if you will, beyond the
privileges of philosophy ; though they perhaps need that inward
vision more than all others. But can those who are not blind, be they as
keen-sighted as you will, collect a single fact of mind from a
man's attire, from anything outward ? Under- stand me ! You attached
yourself to these men did you not ? because of a certain love you
had for the mind in them, the thoughts they possessed desiring the mind
in you to be im- proved thereby ? Assuredly ! How,
then, did you find it possible, by the sort of signs you just now spoke
of, to distinguish the true philosopher from the false ? Matters of
that kind are not wont so to reveal themselves. They are but hidden mysteries,
hardly to be guessed at through the words and acts which may in some
sort be conformable to them. You, however, it would seem, can look
straight into the heart in men's bosoms, and acquaint yourself with
what really passes there. You are making sport of me, Lucian !
In truth, it was with God's help I made my choice, and I don't
repent it. And still you refuse to tell me, to save me from
perishing in that ' vulgar herd.' Because nothing I can tell you
would satisfy you. You are mistaken, my friend ! But
since you deliberately conceal the thing, grudging me, as I
suppose, that true philosophy which would make me equal to you, I will
try, if it may be, to find out for myself the exact criterion in
these matters how to make a perfectly safe choice. And, do you listen.
I will ; there may be something worth knowing in what you will
say. Well ! only don't laugh if I seem a little fumbling in
my efforts. The fault is yours, in refusing to share your lights with
me. Let Philosophy, then, be like a city --a city whose citizens
within it are a happy people, as your master would tell you, having
lately come thence, as we suppose. All the virtues are theirs, and
they are little less than gods. Those acts of violence which happen among
us are not to be seen in their streets. They live together in one
mind, very seemly ; the things which beyond everything else cause men to
contend against each other, having no place upon them. Gold and
silver, pleasure, vainglory, they have long since banished, as being
unprofitable to the commonwealth ; and their life is an unbroken
calm, in liberty, equality, an equal happiness. And is it not
reasonable that all men should desire to be of a city such as that, and
take no account of the length and difficulty of the way thither, so
only they may one day become its freemen ? It might well be
the business of life : leaving all else, forgetting one's native
country here, unmoved by the tears, the restraining hands, of
parents or children, if one had them only bidding them follow the same
road ; and if they would not or could not, shaking them off,
leaving one's very garment in their hands if they took hold on us, to
start off straightway for that happy place ! For there is no fear,
I suppose, of being shut out if one came thither naked. I remember,
indeed, long ago an aged man related to me how things passed there,
offering himself to be my leader, and enrol me on my arrival in the
number of the citizens. I was but fifteen certainly very foolish:
and it may be that I was then actually within the suburbs, or at
the very gates, of the city. Well, this aged man told me, among other
things, that all the citizens were wayfarers from afar. Among them
were barbarians and slaves, poor men aye ! and cripples all indeed who
truly desired that citizenship. For the only legal conditions of
enrolment were not wealth, nor bodily beauty, nor noble ancestry things
not named among them but intelligence, and the desire for moral
beauty, and earnest labour. The last comer, thus qualified, was made
equal to the rest : master and slave, patrician, plebe- ian, were
words they had not in that blissful place. And believe me, if that
blissful, that beautiful place, were set on a hill visible to all
the world, I should long ago have journeyed thither. But, as you say, it
is far off: and one must needs find out for oneself the road to it,
and the best possible guide. And I find a multi- tude of guides, who
press on me their services, and protest, all alike, that they have
themselves come thence. Only, the roads they propose are many, and
towards adverse quarters. And one of them is steep and stony, and through
the beating sun ; and the other is through green meadows, and under
grateful shade, and by many a fountain of water. But howsoever the
road may be, at each one of them stands a credible guide ; he puts out
his hand and would have you come his way. All other ways are wrong,
all other guides false. Hence my diffi- culty ! The number and variety of
the ways ! For you know, There is but one road that leads to
Corinth. Well ! If you go the whole round, you will find no
better guides than those. If you wish to get to Corinth, you will follow
the traces of Zeno and Chrysippus. It is impossible
otherwise. Yes ! The old, familiar language ! Were one of
Plato's fellow-pilgrims here, or a follower of Epicurus or fifty others
each would tell me that I should never get to Corinth except in his
company. One must therefore credit all alike, which would be absurd ; or,
what is far safer, distrust all alike, until one has discovered the
truth. Suppose now, that, being as I am, ignorant which of all
philosophers is really in possession of truth, I choose your sect,
relying on yourself my friend, indeed, yet still ac- quainted only
with the way of the Stoics ; and that then some divine power brought
Plato, and Aristotle, and Pythagoras, and the others, back to life
again. Well ! They would come round about me, and put me on my trial
for my presumption, and say : c In whom was it you confided when
you preferred Zeno and Chrysippus to me? and me? masters of far
more venerable age than those, who are but of yesterday ; and though you
have never held any discussion with us, nor made trial of our
doctrine ? It is not thus that the law would have judges do listen to one
party and refuse to let the other speak for himself. If judges act
thus, there may be an appeal to another tribunal.' What should I answer?
Would it be enough to say : ' I trusted my friend Her- motimus ? ' c
We know not Hermotimus, nor he us/ they would tell me ; adding, with
a smile, 'your friend thinks he may believe all our adversaries say
of us whether in ignorance or in malice. Yet if he were umpire in
the games, and if he happened to see one of our wrestlers, by way
of a preliminary exercise, knock to pieces an antagonist of mere empty
air, he would not thereupon pronounce him a victor. Well ! don't
let your friend Hermotimus sup- pose, in like manner, that his teachers
have really prevailed over us in those battles of theirs, fought
with our mere shadows. That, again, were to be like children, lightly
overthrowing their own card-castles ; or like boy-archers, who cry
out when they hit the target of straw. The Persian and Scythian bowmen,
as they speed along, can pierce a bird on the wing.' Let us
leave Plato and the others at rest. It is not for me to contend against
them. Let us rather search out together if the truth of Philosophy
be as I say. Why summon the athletes, and archers from Persia ?
Yes ! let them go, if you think them in the way. And now do you
speak ! You really look as if you had something wonderful to
deliver. -Well then, Lucian ! to me it seems quite possible
for one who has learned the doctrines of the Stoics only, to attain from
those a knowledge of the truth, without proceeding to inquire into all
the various tenets of the others. Look at the question in this way. If
one told you that twice two make four, would it be necessary for
you to go the whole round of the arithme- ticians, to see whether any one
of them will say that twice two make five, or seven ? Would you not
see at once that the man tells the truth ? At once. Why
then do you find it impossible that one who has fallen in with the Stoics
only, in their enunciation of what is true, should adhere to them,
and seek after no others ; assured that four could never be five, even if
fifty Platos, fifty Aristotles said so ? f-You are beside the
point, Hermotimus ! You are likening open questions to principles
universally received. Have you ever met any one who said that twice two
make five, or seven ? No ! only a madman would say
that. And have you ever met, on the other hand, a Stoic and an
Epicurean who were agreed upon the beginning and the end, the
principle and the final cause, of things ? Never ! Then your
parallel is false. We are inquiring to which of the sects philosophic
truth belongs, and you seize on it by anticipation, and assign it
to the Stoics, alleging, what is by no means clear, that itis they for
whom twice two make four. But the Epicureans, or the
Platonists, might say that it is they, in truth, who make two and
two equal four, while you make them five or seven. Is it not so, when you
think virtue the only good, and the Epicureans plea- sure; when you
hold all things to be material^ while the Platonists admit something
immaterial? As I said, you resolve offhand, in favour of the
Stoics, the very point which needs a critical decision. If it is clear
beforehand that the Stoics alone make two and two equal four,
then the others must hold their peace. But so long as that is the
very point of debate, we must listen to all sects alike, or be well-
assured that we shall seem but partial in our judgment. I
think, Lucian ! that you do not alto- gether understand my meaning. To
make it clear, then, let us suppose that two men had entered a
temple, of Aesculapius, say ! or Bacchus : and that afterwards one of the
sacred vessels is found to be missing. And the two men must be
searched to see which of them has hidden it under his garment. For it is
certainly in the possession of one or the other of them. Well ! if
it be found on the first there will be no need to search the second ; if
it is not found on the first, then the other must have it ; and
again, there will be no need to search him. Yes ! So let it
be. And we too, Lucian ! if we have found the holy vessel in
possession of the Stoics, shall no longer have need to search other
philosophers, having attained that we were seeking. Why trouble
ourselves further ? No need, if something had indeed been
found, and you knew it to be that lost thing : if, at the least, you
could recognise the sacred object when you saw it. But truly, as
the matter now stands, not two persons only have entered the
temple, one or the other of whom must needs have taken the golden cup,
but a whole crowd of persons. And then, it is not clear what the lost
object really is cup, or flagon, or diadem ; for one of the priests
avers this, another that ; they are not even in agree- ment as to
its material : some will have it to be of brass, others of silver, or
gold. It thus becomes necessary to search the garments of all
persons who have entered the temple, if the lost vessel is to be
recovered. And if you find a golden cup on the first of them, it will
still be necessary to proceed in searching the garments of the
others ; for it is not certain that this cup really belonged to the
temple. Might there not be many such golden vessels ? No ! we must
go on to every one of them, placing all that we find in the midst
together, and then make our guess which of all those things may fairly
be supposed to be the property of the god. For, again, this
circumstance adds greatly to our difficulty, that without exception every
one searched is found to have something upon him cup, or flagon, or
diadem, of brass, of silver, of gold : and still, all the while, it is not
ascer- tained which of all these is the sacred thing. And you must
still hesitate to pronounce any one of them guilty of the sacrilege
those objects may be their own lawful property: one cause of all
this obscurity being, as I think, that there was no inscription on the
lost cup, if cup it was. Had the name of the god, or even that of
the donor, been upon it, at least we should have had less trouble, and
having detected the inscription, should have ceased to trouble any
one else by our search. I have nothing to reply to
that. Hardly anything plausible. So that if we wish to find
who it is has the sacred vessel, or who will be our best guide to
Corinth, we must needs proceed to every one and examinehim with the
utmost care, stripping off his garment and considering him closely.
Scarcely, even so, shall we come at the truth. And if we are to
have a credible adviser regarding this question of philosophy which of
all philosophies one ought to follow he alone who is acquainted with the
dicta of every one of them can be such a guide : all others must be
inadequate. I would give no credence to them if they lacked information
as to one only. If somebody introduced a fair person and told us he
was the fairest of all men, we should not believe that, unless we knew
that he had seen all the people in the world. Fair he might be;
but, fairest of all none could know, unless he had seen all. And we
too desire, not a fair one, but the fairest of all. Unless we find
him, we shall think we have failed. It is no casual beauty that will
content us; what we are seeking after is that supreme beauty which
must of necessity be unique. -What then is one to do, if the matter
be really thus ? Perhaps you know better than I. All I see is that
very few of us would have time to examine all the various sects of
philosophy in turn, even if we began in early life. I know not how
it is ; but though you seem to me to speak reasonably, yet (I must
confess it) you have distressed me not a little by this exact ex-
position of yours. I was unlucky in coming out to-day, and in my falling
in with you, who have thrown me into utter perplexity by your proof
that the discovery of truth is impossible, just as I seemed to be on the
point of attaining my hope. Blame your parents, my child, not
me ! Or rather, blame mother Nature herself, for giving us but
seventy or eighty years instead of making us as long-lived as Tithonus.
For my part, I have but led you from premise to conclusion.
Nay ! you are a mocker ! I know not wherefore, but you have a
grudge against philosophy ; and it is your entertainment to make a
jest of her lovers. Ah ! Hermotimus ! what the Truth may be,
you philosophers may be able to tell better than I. But so much at least
I know of her, that she is one by no means pleasant to those who
hear her speak : in the matter of pleasant- ness , she is far
surpassed by Falsehood : and Falsehood has the pleasanter countenance.
She, nevertheless, being conscious of no alloy within, discourses
with boldness to all men, who there- fore have little love for her. See
how angry you are now because I have stated the truth about certain
things of which we are both alike enamoured that they are hard to come
by. It is as if you had fallen in love with a statue and hoped to
win its favour, thinking it a human creature; and I, understanding it to
be but an image of brass or stone, had shown you, as a friend, that
your love was impossible, and there- upon you had conceived that I bore
you some ill-will. But still, does it not follow from what
you said, that we must renounce philosophy and pass our days in
idleness? When did you hear me say that? I did but assert
that if we are to seek after philo- sophy, whereas there are many ways
professing to lead thereto, we must with much exactness distinguish
them. Well, Lucian ! that we must go to all the schools in
turn, and test what they say, if we are to choose the right one, is
perhaps reasonable; but surely ridiculous, unless we are to live
as many years as the Phoenix, to be so lengthy in the trial of each
; as if it were not possible to learn the whole by the part! They say
that Pheidias, when he was shown one of the talons of a lion,
computed the stature and age of the animal it belonged to, modelling a
complete lion upon the standard of a single part of it. You too
would recognise a human hand were the rest of the body concealed. Even so
with the schools of philosophy : the leading doctrines of each might
be learned in an afternoon. That over-exactness of yours, which required
so long a time, is by no means necessary for making the better
choice. -You are forcible, Hermotimus ! with this theory of
The Whole by the Part. Yet, methinks, I heard you but now propound the
contrary. But tell me; would Pheidias when he saw the lion's talon
have known that it was a lion's, if he had never seen the animal ?
Surely, the cause of his recognising the part was his knowledge of
the whole. There is a way of choosing one's philosophy even less
troublesome than yours. Put the names of all the philo- sophers
into an urn. Then call a little child, and let him draw the name of the
philosopher you shall follow all the rest of your days. Nay !
be serious with me. Tell me ; did you ever buy wine ?
Surely. And did you first go the whole round of the
wine-merchants, tasting and comparing their wines ? By no
means. No ! You were contented to order the first good wine
you found at your price. By tasting a little you were ascertained of
the quality of the whole cask. How if you had gone to each of the
merchants in turn, and said, ' I wish to buy a cotyle of wine. Let me
drink out the whole cask. Then I shall be able to tell which is
best, and where I ought to buy.' Yet this is what you would do with the
philo- sophies. Why drain the cask when you might taste, and see
? How slippery you are; how you escape from one's fingers !
Still, you have given me an advantage, and are in your own trap.
How so ? Thus ! You take a common object known to every
one, and make wine the figure of a thing which presents the greatest
variety in itself, and about which all men are at variance, because
it is an unseen and difficult thing. I hardly know wherein philosophy and
wine are alike unless it be in this, that the philosophers exchange
their ware for money, like the wine- merchants; some of them with a
mixture of water or worse, or giving short measure. How- ever, let
us consider your parallel. The wine in the cask, you say, is of one kind
through- out. But have the philosophers has your own master even but
one and the same thing only to tell you, every day and all days, on a
subject so manifold? Otherwise, how can you know the whole by the
tasting of one part? The whole is not the same Ah ! and it may be
that God has hidden the good wine of philosophy at the bottom of
the cask. You must drain it to the end if you are to find those drops
of divine sweetness you seem so much to thirst for ! Yourself,
after drinking so deeply, are still but at the beginning, as you said.
But is not philosophy rather like this? Keep the figure of the
merchant and the cask : but let it be filled, not with wine, but with
every sort of grain. You come to buy. The merchant hands you a little
of the wheat which lies at the top. Could you tell by looking at that,
whether the chick-peas were clean, the lentils tender, the beans
full ? And then, whereas in selecting our wine we risk only our money ;
in selecting our philosophy we risk ourselves, as you told me might
ourselves sink into the dregs of * the vulgar herd.' Moreover, while you
may not drain the whole cask of wine by way of tasting, Wisdom
grows no less by the depth of your drinking. Nay ! if you take of her,
she is in- creased thereby. And then I have another
similitude to pro- pose, as regards this tasting of philosophy.
Don't think I blaspheme her if I say that it may be with her as with some
deadly poison, hemlock or aconite. These too, though they cause
death, yet kill not if one tastes but a minute portion. You would suppose
that the tiniest particle must be sufficient. Be it as you
will, Lucian! One must live a hundred years : one must sustain all
this labour ; otherwise philosophy is unattainable. Not so !
Though there were nothing strange in that, if it be true, as you said at
first, that Life is short and art is long. But now you take it hard
that we are not to see you this very day, before the sun goes down, a
Chrysippus, a Pythagoras, a Plato. You overtake me, Lucian !
and drive me into a corner; in jealousy of heart, I believe,
because I have made some progress in doctrine whereas you have neglected
yourself. Well ! Don't attend to me ! Treat me as a Corybant,
a fanatic : and do you go forward on this road of yours. Finish the
journey in accordance with the view you had of these matters at the
beginning of it. Only, be assured that my judgment on it will remain
unchanged. Reason still says, that without criticism, with- out a
clear, exact, unbiassed intelligence to try them, all those theories all
things will have been seen but in vain. c To that end,' she tells
us, 'much time is necessary, many delays of judgment, a cautious gait;
repeated inspection.' And we are not to regard the outward appear-
ance, or the reputation of wisdom, in any of the speakers; but like the
judges of Areopagus, who try their causes in the darkness of the
night, look only to what they say. Philosophy, then, is impossible,
or possible only in another life ! Hermotimus ! I grieve to
tell you that all this even, may be in truth insufficient. After
all, we may deceive ourselves in the belief that we have found something
: like the fishermen ! Again and again they let down the net. At
last they feel something heavy, and with vast labour draw up, not a
load of fish, but only a pot full of sand, or a great stone.
I don't understand what you mean by the net. It is plain that you
have caught me in it. Try to get out ! You can swim as well
as another. We may go to all philosophers in turn and make trial of
them. Still, I, for my part, hold it by no mean certain that any one of
them really possesses what we seek. The truth may be a thing that
not one of them has yet found. You have twenty beans in your hand, and
you bid ten persons guess how many : one says five, another fifteen
; it is possible that one of them may tell the true number ; but it is
not im- possible that all may be wrong. So it is with the philosophers.
All alike are in search of Happiness what kind of thing it is. One
says one thing, one another : it is pleasure ; it is virtue ; what not ?
And Happiness may indeed be one of those things. But it is
possible also that it may be still something else, different and distinct
from them all. What is this? There is something, I know not
how, very sad and disheartening in what you say. We seem to have come
round in a circle to the spot whence we started, and to our first
incertitude. Ah ! Lucian, what have you done to me ? You have proved my
priceless pearl to be but ashes, and all my past labour to have
been in vain. Reflect, my friend, that you are not the first
person who has thus failed of the good thing he hoped for. All
philosophers, so to speak, are but fighting about the c ass's
shadow.' To me you seem like one who should weep, and reproach
fortune because he is not able to climb up into heaven, or go down into
the sea by Sicily and come up at Cyprus, or sail on wings in one
day from Greece to India. And the true cause of his trouble is that he
has based his hope on what he has seen in a dream, or his own fancy
has put together ; without previous thought whether what he desires is in
itself attainable and within the compass of human nature. Even so,
methinks, has it happened with you. As you dreamed, so largely, of
those wonderful things, came Reason, and woke you up from sleep, a
little roughly : and then you are angry with Reason, your eyes being
still but half open, and find it hard to shake off sleep for the
pleasure of what you saw therein. Only, don't be angry with me, because,
as a friend, I would not suffer you to pass your life in a dream,
pleasant perhaps, but still only a dream because I wake you up and demand
that you should busy yourself with the proper business of life, and
send you to it possessed of common sense. What your soul was full of just
now is not very different from those Gorgons and Chimaeras and the
like, which the poets and the painters con- struct for us, fancy-free:
things which never were, and never will be, though many believe in
them, and all like to see and hear of them, just because they are so
strange and odd. And you too, methinks, having heard from
some such maker of marvels of a certain woman of a fairness beyond nature
beyond the Graces, beyond Venus Urania herself asked not if he
spoke truth, and whether this woman be really alive in the world, but
straightway fell in love with her ; as they say that Medea was en-
amoured of Jason in a dream. And what more than anything else seduced
you, and others like you, into that passion, for a vain idol of the
fancy, is, that he who told you about that fair woman, from the very
moment when you first believed that what he said was true, brought
for- ward all the rest in consequent order. Upon her alone your
eyes were fixed ; by her he led you along, when once you had given him a
hold upon you led you along the straight road, as he said, to the
beloved one. All was easy after that. None of you asked again whether it
was the true way ; following one after another, like sheep led by
the green bough in the hand of the shepherd. He moved you hither and
thither with his finger, as easily as water spilt on a table !
My friend ! Be not so lengthy in preparing the banquet, lest you
die of hunger ! I saw one who poured water into a mortar, and ground
it with all his might with a pestle of iron, fancy- ing he did a
thing useful and necessary; but it remained water only, none the
less." Just there the conversation broke off suddenly,
and the disputants parted. The horses were come for Lucian. The boy went
on his way, and Marius onward, to visit a friend whose abode lay further.
As he returned to Rome towards evening the melancholy aspect,
natural to a city of the dead, had triumphed over the superficial
gaudiness of the early day. He could almost have fancied Canidia there,
picking her way among the rickety lamps, to rifle some neglected or
ruined tomb ; for these tombs were not all equally well cared for (Post
mortem nescio /) and it had been one of the pieties of Aurelius to
frame a severe law to prevent the defacing of such monuments. To Marius
there seemed to be some new meaning in that terror of isolation, of
being left alone in these places, of which the sepulchral inscriptions
were so full. A blood- red sunset was dying angrily, and its wild
glare upon the shadowy objects around helped to combine the associations
of this famous way, its deeply graven marks of immemorial travel,
together with the earnest questions of the morning as to the true
way of that other sort of travelling, around an image, almost ghastly in
the traces of its great sorrows bearing along for ever, on bleeding
feet, the instrument of its punishment which was all Marius could recall
distinctly of a certain Christian legend he had heard. The legend
told of an encounter at this very spot, of two wayfarers on the Appian
Way, as also upon some very dimly discerned mental journey,
altogether different from himself and his late companions an encounter
between Love, liter- ally fainting by the road, and Love
"travelling in the greatness of his strength," Love
itself, suddenly appearing to sustain that other. A strange
contrast to anything actually presented in that morning's conversation,
it seemed neverthe- less to echo its very words " Do they
never come down again," he heard once more the well- modulated
voice : " Do they never come down again from the heights, to help
those whom they left here below?" "And we too desire, not
a fair one, but the fairest of all. Unless we find him, we shall think we
have failed." It was become a habit with Marius one of his
modernisms developed by his assistance at the Emperor's
"conversations with himself," to keep a register of the
movements of his own private thoughts and humours ; not
continuously indeed, yet sometimes for lengthy intervals, dur- ing
which it was no idle self-indulgence, but a necessity of his intellectual
life, to " confess himself," with an intimacy, seemingly
rare among the ancients ; ancient writers, at all evtiits, having
been jealous, for the most part, of affording us so much as a glimpse of
that interior self, which in many cases would have actually doubled
the interest of their objective informations. " If a
particular tutelary or genius" writes Marius, " according to
old belief, walks through life beside each one of us, mine is very
certainly a capricious creature. He fills one with wayward,
unaccountable, yet quite irresistible humours, and seems always to be in
collusion with some outward circumstance, often trivial enough in
itself the condition of the weather, forsooth ! the people one meets by
chance the things one happens to overhear them say, veritable
evofaoi, o-vfjL@o\oi 9 or omens by the wayside, as the old Greeks fancied
to push on the unreason- able prepossessions of the moment into
weighty motives. It was doubtless a quite explicable, physical
fatigue that presented me to myself, on awaking this morning, so
lack-lustre and trite. But I must needs take my petulance,
contrasting it with my accustomed morning hopefulness, as a sign of
the ageing of appetite, of a decay in the very capacity of enjoyment. We
need some imaginative stimulus, some not impossible ideal such as
may shape vague hope, and transform it into effective desire, to carry us
year after year, without disgust, through the routine-work which is
so large a part of life. "Then, how if appetite, be it for
real or ideal, should itself fail one after awhile ? /^h, yes ! is
it of cold always that men die ; and on some of us it creeps very
gradually. In truth, I can remember just such a lack-lustre condition
of feeling once or twice before. But I note, that it was
accompanied then by an odd indifference, as the thought of them occurred
to me, in regard to the sufferings of others a kind of callousness,
so unusual with me, as at once to mark the humour it accompanied as a
palpably morbid one that could not last. Were those sufferings, great or
little, I asked myself then, of more real conse- quence to them than mine
to me, as I remind myself that 'nothing that will end is really
long '--long enough to be thought of import- ance f But to-day, my own
sense of fatigue, the pity I conceive for myself, disposed me
strongly to a tenderness for others. For a moment the whole world
seemed to present itself as a hospital of sick persons ; many of them
sick in mind; all of whom it would be a brutality not to humour,
not to indulge. "Why, when I went out to walk off my
wayward fancies, did I confront the very sort of incident (my unfortunate
genius had surely beckoned it from afar to vex me) likely to
irritate them further ? A party of men were coming down the street. They
were leading a fine race-horse; a handsome beast, but badly hurt
somewhere, in the circus, and useless. They were taking him to slaughter
; and I think the animal knew it : he cast such looks, as if of mad
appeal, to those who passed him, as he went among the strangers to whom
his former owner had committed him, to die, in his beauty and
pride, for just that one mischance or fault ; although the morning air
was still so animating, and pleasant to snuff. I could have fancied
a human soul in the creature, swelling against its luck. And I had
come across the incident just when it would figure to me as the very
symbol of our poor humanity, in its capacities for pain, its
wretched accidents, and those imperfect sym- pathies, which can never
quite identify us with one another ; the very power of utterance
and appeal to others seeming to fail us, in propor- tion as our
sorrows come home to ourselves, are really our own. We are constructed
for suffer- ing ! What proofs of it does but one day afford, if we
care to note them, as we go a whole long chaplet of sorrowful mysteries !
Sunt lacrimtf rerum et mentem mortalia tangunt. " Men's
fortunes touch us ! The little chil- dren of one of those institutions
for the support of orphans, now become fashionable among us by way
of memorial of eminent persons deceased, are going, in long file, along
the street, on their way to a holiday in the country. They halt,
and count themselves with an air of triumph, to show that they are all
there. Their gay chatter has disturbed a little group of peasants ; a
young woman and her husband, who have brought the old mother, now
past work and witless, to place her in a house provided for such
afflicted people. They are fairly affectionate, but anxious how the
thing they have to do may go hope only she may permit them to leave her
there behind quietly. And the poor old soul is excited by the noise
made by the children, and partly aware of what is going to happen with
her. She too begins to count one, two, three, five on her trembling
fingers, misshapen by a life of toil. ' Yes ! yes ! and twice five
make ten ' they say, to pacify her. It is her last appeal to be
taken home again ; her proof that all is not yet up with her ; that
she is, at all events, still as capable as those joyous children.
"At the baths, a party of labourers are at work upon one of
the great brick furnaces, in a cloud of black dust. A frail young child
has brought food for one of them, and sits apart, waiting till his
father comes watching the labour, but with a sorrowful distaste for the
din and dirt. He is regarding wistfully his own place in the world,
there before him. His mind, as he watches, is grown up for a moment ; and
he foresees, as it were, in that moment, all the long tale of days, of
early awakings, of his own coming life of drudgery at work like
this. " A man comes along carrying a boy whose rough
work has already begun the only child whose presence beside him sweetened
the father's toil a little. The boy has been badly injured by a
fall of brick-work, yet, with an effort, he rides boldly on his father's
shoulders. It will be the way of natural affection to keep him
alive as long as possible, though with that miserably shattered body ' Ah
! with us still, and feeling our care beside him ! ' and yet surely
not without a heartbreaking sigh of relief, alike from him and them, when
the end comes. " On the alert for incidents like these, yet
of necessity passing them by on the other side, I find it hard to
get rid of a sense that I, for one, have failed in love. I could yield to
the humour till I seemed to have had my share in those great public
cruelties, the shocking legal crimes which are on record, like that
cold-blooded slaughter, according to law, of the four hundred slaves
in the reign of Nero, because one of their number was thought to
have murdered his master. The reproach of that, together with the kind of
facile apologies those who had no share in the deed may have made
for it, as they went about quietly on their own affairs that day, seems
to come very close to me, as I think upon it. And to how many of
those now actually around me, whose life is a sore one, must I be
indifferent, if I ever become aware of their soreness at all ? To
some, perhaps, the necessary conditions of my own life may cause me
to be opposed, in a kind of natural conflict, regarding those interests
which actually determine the happiness of theirs. I \ would that a
stronger love might arise in my \ heart ! " Yet there is
plenty of charity in the world. My patron, the Stoic emperor, has made
it even fashionable. To celebrate one of his brief returns to Rome
lately from the war, over and above a largess of gold pieces to all who
would, the public debts were forgiven. He made a nice show of it :
for once, the Romans enter- tained themselves with a good-natured
spectacle, and the whole town came to see the great bonfire in the Forum,
into which all bonds and evidence of debt were thrown on delivery,
by the emperor himself; many private creditors following his
example. That was done well enough ! But still the feeling returns to
me, that no charity of ours can get at a certain natural unkindness
which I find in things them- selves. "When I first came
to Rome, eager to observe its religion, especially its antiquities
of religious usage, I assisted at the most curious, perhaps, of
them all, the most distinctly marked with that immobility which is a sort
of ideal in the Roman religion. The ceremony took place at a
singular spot some miles distant from the city, among the low hills on
the bank of the Tiber, beyond the Aurelian Gate. There, in a little
wood of venerable trees, piously allowed their own way, age after age
ilex and cypress remaining where they fell at last, one over the
other, and all caught, in that early May-time, under a riotous tangle of
wild clematis was to be found a magnificent sanctuary, in which the
members of the Arval College assembled them- selves on certain days. The
axe never touched those trees Nay ! it was forbidden to introduce
any iron thing whatsoever within the precincts ; not only because the
deities of these quiet places hate to be disturbed by the harsh noise of
metal, but also in memory of that better age the lost Golden Age
the homely age of the potters, of which the central act of the festival
was a com- memoration. " The preliminary ceremonies were
long and fe complicated, but of a character familiar enough.
Peculiar to the time and place was the solemn exposition, after lavation
of hands, processions backwards and forwards, and certain changes
of vestments, of the identical earthen vessels veritable relics of
the old religion of Numa ! the vessels from which the holy Numa
himself had eaten and drunk, set forth above a kind of altar, amid
a cloud of flowers and incense, and many lights, for the veneration of
the credulous or the faithful. " They were, in fact,
cups or vases of burnt clay, rude in form : and the religious
veneration thus offered to them expressed men's desire to give
honour to a simpler age, before iron had found place in human life : the
persuasion that that age was worth remembering : a hope that it might
come again. " That a Numa, and his age of gold, would
return, has been the hope or the dream of some, in every period. Yet if
he did come back, or any equivalent of his presence, he could but
weaken, and by no means smite through, that root of evil, certainly of
sorrow, of outraged human sense, in things, which one must care-
fully distinguish from all preventible accidents. Death, and the little
perpetual daily dyings, which have something of its sting, he
must necessarily leave untouched. And, methinks, that were all the
rest of man's life framed entirely to his liking, he would
straightway begin to sadden himself, over the fate say, of the
flowers ! For there is, there has come to be since Numa lived perhaps, a
capacity for sorrow in his heart, which grows with all the growth,
alike of the individual and of the race, in intel- lectual delicacy and
power, and which 'will find its aliment. " Of that sort
of golden age, indeed, one discerns even now a trace, here and there.
Often have I maintained that, in this generous southern country at least,
Epicureanism is the special philosophy of the poor. How little I
myself really need, when people leave me alone, with the intellectual
powers at work serenely. The drops of falling water, a few wild
flowers with their priceless fragrance, a few tufts even of
half-dead leaves, changing colour in the quiet of a room that has but
light and shadow in it; these, for a susceptible mind, might well do
duty for all the glory of Augustus. I notice some- times what I
conceive to be the precise character of the fondness of the roughest
working-people for their young children, a fine appreciation, not
only of their serviceable affection, but of their visible graces : and
indeed, in this country, the children are almost always worth looking at.
I see daily, in fine weather, a child like a delicate nosegay,
running to meet the rudest of brick-makers as he comes from work. She is not
at all afraid to hang upon his rough hand : and through her, he
reaches out to, he makes his own, something from that strange region, so
dis- tant from him yet so real, of the world's refine- ment. What
is of finer soul, or of finer stuff in things, and demands delicate
touching to him the delicacy of the little child represents that :
it initiates him into that. There, surely, is a touch of the secular
gold, of a perpetual age of gold. But then again, think for a
moment, with what a hard humour at the nature of things, his
struggle for bare life will go on, if the child should happen to die. I
observed to-day, under one of the archways of the baths, two
children at play, a little seriously a fair girl and her crippled younger
brother. Two toy chairs and a little table, and sprigs of fir set
upright in the sand for a garden ! They played at housekeeping. Well !
the girl thinks her life a perfectly good thing in the service of
this crippled brother. But she will have a jealous lover in time:
and the boy, though his face is not altogether unpleasant, is after all a
hopeless cripple. " For there is a certain grief in
things as they are, in man as he has come to be, as he certainly
is, over and above those griefs of circumstance which are in a measure removable
some inex- plicable shortcoming, or misadventure, on the part of
nature itself death, and old age as it must needs be, and that watching
for their ap- proach, which makes every stage of life like a dying
over and over again. Almost all death is painful, and in every thing that
comes to an end a touch of death, and therefore of wretched
coldness struck home to one, of remorse, of loss and parting, of outraged
attachments. Given faultless men and women, given a perfect state
of society which should have no need to practise on men's
susceptibilities for its own selfish ends, adding one turn more to the
wheel of the great rack for its own interest or amusement, there
would still be this evil in the world, of a certain necessary sorrow and
desolation, felt, just in pro- portion to the moral, or nervous
perfection men have attained to. And what we need in the world,
over against that, is a certain permanent and general power of compassion
humanity's standing force of self-pity as an elementary ingredient
of our social atmosphere, if we are to live in it at all. I wonder,
sometimes, in what way man has cajoled himself into the bearing of
his burden thus far, seeing how every step in the capacity of
apprehension his labour has won for him, from age to age, must needs
increase his dejection. It is as if the increase of know- ledge
were but an increasing revelation of the radical hopelessness of his
position : and I would that there were one even as I, behind this
vain show of things ! " At all events, the actual
conditions of our life being as they are, and the capacity for
suffering so large a principle in things since the only principle,
perhaps, to which we may always safely trust is a ready sympathy
with the pain one actually sees it follows that the ' practical and
effective difference between men will lie in their power of insight into
those con- ditions, their power of sympathy. The future 1 will be
with those who have most of it ; while for the present, as I persuade
myself, those who have much of it, have something to hold by, even
in the dissolution of a world, or in that dissolution of self, which is,
for every one, no less than the dissolution of the world it repre-
sents for him. Nearly all of us, I suppose, have had our moments, in
which any effective sym- pathy for us on the part of others has
seemed impossible ; in which our pain has seemed a stupid outrage
upon us, like some overwhelming physical violence, from which we could
take refuge, at best, only in some mere general sense of goodwill
somewhere in the world perhaps. And then, to one's surprise, the
discovery of that goodwill, if it were only in a not unfriendly
animal, may seem to have explained, to have actually justified to us, the
fact of our pain. There have been occasions, certainly, when I have
felt that if others cared for me as I cared for them, it would be, not so
much a consola- tion, as an equivalent, for what one has lost or
suffered : a realised profit on the summing up of one's accounts : a
touching of that absolute ground amid all the changes of phenomena,
such as our philosophers have of late confessed them- selves quite
unable to discover. In the mere clinging of human creatures to each
other, nay ! in one's own solitary self-pity, amid the effects even
of what might appear irredeemable loss, I seem to touch the eternal.
Something in that pitiful contact, something new and true, fact or
apprehension of fact, is educed, which, on a review of all the
perplexities of life, satisfies our moral sense, and removes that appearance
of unkindness in the soul of things themselves, and assures us that
not everything has been in vain. " And I know not how,
but in the thought thus suggested, I seem to take up, and re-knit
'myself to, a well-remembered hour, when by some gracious accident it was
on a journey- all things about me fell into a more perfect har-
mony than is their wont. Everything seemed to be, for a moment, after
all, almost for the best. Through the train of my thoughts, one
against another, it was as if I became aware of the dominant power of
another person in contro- versy, wrestling with me. I seem to be
come round to the point at which I left off then. The antagonist
has closed with me again. A protest comes, out of the very depths of
man's radically hopeless condition in the world, with the energy of
one of those suffering yet prevailing deities, of which old poetry tells.
Dared one hope that there is a heart, even as ours, in that divine
e Assistant ' of one's thoughts a heart even as mine, behind this vain
show of things!" " Ah ! voila les ames qu'il falloit
a la miennc ! " Rousseau. The charm of its poetry,
a poetry of the affec- tions, wonderfully fresh in the midst of a
thread- bare world, would have led Marius, if nothing else had done
so, again and again, to Cecilia's house. He found a range of intellectual
plea- sures, altogether new to him, in the sympathy of that pure
and elevated soul. Elevation of soul, generosity, humanity little by
little it came to seem to him as if these existed nowhere else. The
sentiment of maternity, above all, as it might be understood there, its
claims, with the claims of all natural feeling everywhere, down to
the sheep bleating on the hills, nay ! even to the mother-wolf, in her
hungry cave seemed to have been vindicated, to have been enforced
anew, by the sanction of some divine pattern thereof. He saw its
legitimate place in the world given at last to the bare capacity
for suffering in any creature, however feeble or apparently useless.
In this chivalry, seeming to leave the world's heroism a mere property
of the stage, in this so scrupulous fidelity to what could not help
itself, could scarcely claim not to be forgotten, what a contrast to
the hard contempt of one's own or other's pain, of death, of glory
even, in those discourses of Aurelius ! But if Marius thought
at times that some long - cherished desires were now about to
blossom for him, in the sort of home he had sometimes pictured to
himself, the very charm of which would lie in its contrast to any
random affections : that in this woman, to whom children instinctively
clung, he might find such a sister, at least, as he had always longed for
; there were also circumstances which reminded him that a certain
rule forbidding second marriages, was among these people still in force
; ominous incidents, moreover, warning a suscep- tible conscience
not to mix together the spirit and the flesh, nor make the matter of a
heavenly banquet serve for earthly meat and drink. One day he
found Cecilia occupied with the burial of one of the children of her
household. It was from the tiny brow of such a child, as he now
heard, that the new light had first shone forth upon them through the
light of mere physical life, glowing there again, when the child
was dead, or supposed to be dead. The aged servant of Christ had arrived
in the midst of their noisy grief; and mounting to the little
chamber where it lay, had returned, not long afterwards, with the child
stirring in his arms as he descended the stair rapidly ; bursting
open the closely-wound folds of the shroud and scattering the
funeral flowers from them, as the soul kindled once more through its
limbs. Old Roman common-sense had taught people to occupy
their thoughts as little as might be with children who died young. Here,
to-day, however, in this curious house, all thoughts were tenderly
bent on the little waxen figure, yet with a kind of exultation and joy,
notwith- standing the loud weeping of the mother. The other
children, its late companions, broke with it, suddenly, into the place
where the deep black bed lay open to receive it. Pushing away the
grim fossores, the grave-diggers, they ranged themselves around it in order,
and chanted that old psalm of theirs Laudate pueri dominum ! Dead
children, children's graves Marius had been always half aware of an old
superstitious fancy in his mind concerning them; as if in coming
near them he came near the failure of some lately-born hope or purpose of
his own. And now, perusing intently the expression with which
Cecilia assisted, directed, returned after- wards to her house, he felt
that he too had had to-day his funeral of a little child. But it
had always been his policy, through all his pursuit of "
experience/' to take flight in time from any too disturbing passion, from
any sort of affection likely to quicken his pulses beyond the point
at which the quiet work of life was practicable. Had he, after all,
been taken unawares, so that it was no longer possible for him to fly ?
At least, during the journey he took, by way of test- ing the
existence of any chain about him, he found a certain disappointment at
his heart, greater than he could have anticipated; and as he passed
over the crisp leaves, nipped off in multitudes by the first sudden cold
of winter, he felt that the mental atmosphere within himself was
perceptibly colder. Yet it was, finally, a quite successful resigna-
tion which he achieved, on a review, after his manner, during that
absence, of loss or gain. The image of Cecilia, it would seem, was
already become for him like some matter of poetry, or of another
man's story, or a picture on the wall. And on his return to Rome there
had been a rumour in that singular company, of things which spoke
certainly not of any merely tranquil loving : hinted rather that he had
come across a world, the lightest contact with which might make
appropriate to himself also the precept that " They which have wives
be as they that have none." This was brought home to
him, when, in early spring, he ventured once more to listen to the
sweet singing of the Eucharist. It breathed more than ever the spirit of a
wonderful hop* of hopes more daring than poor, labouring humanity
had ever seriously entertained before, though it was plain that a great
calamity was befallen. Amid stifled sobbing, even as the pathetic
words of the psalter relieved the tension of their hearts, the people
around him still wore upon their faces their habitual gleam of joy,
of placid satisfaction. They were still under the influence of an
immense gratitude in thinking. even amid their present distress, of the
hour or a great deliverance. As he followed again that mystical
dialogue, he felt also again, like a mighty spirit about him, the
potency, the half- realised presence, of a great multitude, as if
thronging along those awful passages, to hear the sentence of its release
from prison; a company which represented nothing less than orbis ter-
rarum the whole company of mankind. And the special note of the day
expressed that relief a sound new to him, drawn deep from some old
Hebrew source, as he conjectured, Alleluia! repeated over and over again,
Alleluia! Alleluia! at every pause and movement of the long Easter
ceremonies. And then, in its place, by way of sacred lection,
although in shocking contrast with the peaceful dignity of all around,
came the Epistle of the churches of Lyons and Vienne^ to "
their sister,'' the church of Rome. For the "Peace" of
the church had been broken broken, as Marius could not but acknowledge, on
the responsibility of the emperor Aurelius himself, following
tamely, and as a matter of course, the traces of his predecessors,
gratuitously enlisting, against the good as well as the evil of that
great pagan world, the strange new heroism of which this singular
message was full. The greatness of it certainly lifted away all merely
private regret, inclining one, at last, actually to draw sword for
the oppressed, as if in some new order of knighthood "
The pains which our brethren have endured we have no power fully to tell,
for the enemy came upon us with his whole strength. But the grace
of God fought for us, set free the weak, and made ready those who, like
pillars, were able to bear the weight. These, coming now into close
strife with the foe, bore every kind of pang and shame. At the time of
the fair which is held here with a great crowd, the governor led
forth the Martyrs as a show. Holding what was thought great but little,
and that the pains of to-day are not deserving to be measured
against the glory that shall be made known, these worthy wrestlers went
joyfully on their way; their delight and the sweet favour of God
mingling in their faces, so that their bonds seemed but a goodly array,
or like the golden bracelets of a bride. Filled with the fragrance
of Christ, to some they seemed to have been touched with earthly perfumes.
" Vettius Epagathus, though he was vei young, because he would not
endure to see unjust judgment given against us, vented his anger,
and sought to be heard for the brethren, for he was a youth of high
place. Whereupon the governor asked him whether he also were a Christian.
He confessed in a clear voice, and was added to the number of the
Martyrs. But he had the Paraclete within him ; as, in truth, he
showed by the fulness of his love; glorying in the defence of his
brethren, and to give his life for theirs. " Then was
fulfilled the saying of the Lord that the day should come, When he that
slayeth you 'will think that he doeth God service. Most madly did
the mob, the governor and the soldiers, rage against the handmaiden
Blandina, in whom Christ showed that what seems mean among men is
of price with Him. For whilst we all, and her earthly mistress, who was
herself one of the contending Martyrs, were fearful lest through
the weakness of the flesh she should be unable to profess the faith,
Blandina was filled with such power that her tormentors, following
upon each other from morning until night, owned that they were overcome,
and had no more that they could do to her ; admiring that she still
breathed after her whole body was torn asunder. " But
this blessed one, in the very midst of her c witness,' renewed her
strength ; and to repeat, / am Christ's ! was to her rest, refresh-
ment, and relief from pain. As for Alexander, he neither uttered a groan
nor any sound at all, but in his heart talked with God. Sanctus,
the deacon, also, having borne beyond all measure pains devised by
them, hoping that they would get something from him, did not so much as
tell his name ; but to all questions answered only, / am Chrises !
For this he confessed instead of his name, his race, and everything
beside. Whence also a strife in torturing him arose between the
governor and those tormentors, so that when they had nothing else they
could do they set red-hot plates of brass to the most tender parts
of his body. But he stood firm in his profession, cooled and fortified by
that stream of living water which flows from Christ. His corpse, a
single wound, having wholly lost the form of man, was the measure of his
pain. But Christ, paining in him, set forth an en- sample to the
rest that there is nothing fearful, nothing painful, where the love of
the Father overcomes. And as all those cruelties were made null
through the patience of the Martyrs, they bethought them of other things
; among which was their imprisonment in a dark and most sorrowful
place, where many were privily strangled. But destitute of man's aid,
they were filled with power from the Lord, both in body and mind,
and strengthened their brethren. Also, much joy was in our virgin mother,
the Church ; for, by means of these, such as were fallen away
retraced their steps were again con- ceived, were filled again with
lively heat, and hastened to make the profession of their faith.
"The holy bishop Pothinus, who was now past ninety years old
and weak in body, yet in his heat of soul and longing for
martyrdom, roused what strength he had, and was also cruelly
dragged to judgment, and gave witness. Thereupon he suffered many
stripes, all thinking it would be a wickedness if they fell short
in cruelty towards him, for that thus their own gods would be
avenged. Hardly drawing breath, he was thrown into prison, and after two
days there died. "After these things their martyrdom
was parted into divers manners. Plaiting as it were one crown of
many colours and every sort of flowers, they offered it to God. Maturus,
there- fore, Sanctus and Blandina, were led to the wild beasts. And
Maturus and Sanctus passed through all the pains of the amphitheatre, as
if they had suffered nothing before : or rather, as having in many
trials overcome, and now contending for the prize itself, were at last
dismissed. " But Blandina was bound and hung upon a
stake, and set forth as food for the assault of the wild beasts. And as
she thus seemed to be hung upon the Cross, by her fiery prayers she
imparted much alacrity to those contending Witnesses. For as they
looked upon her with the eye of flesh, through her, they saw Him that was
cruci- fied. But as none of the beasts would then touch her, she
was taken down from the Cross, and sent back to prison for another day :
that, though weak and mean, yet clothed with the mighty wrestler,
Christ Jesus, she might by many con- quests give heart to her brethren.
" On the last day, therefore, of the shows, she was brought
forth again, together with Ponticus, a lad of about fifteen years old.
They were brought in day by day to behold the pains of the rest.
And when they wavered not, the mob was full of rage ; pitying neither the
youth of the lad, nor the sex of the maiden. Hence, they drave them
through the whole round of pain. And Ponticus, taking heart from
Blandina, hav- ing borne well the whole of those torments, gave up
his life. Last of all, the blessed Blandina herself, as a mother that had
given life to her children, and sent them like conquerors to the
great King, hastened to them, with joy at the end, as to a
marriage-feast; the enemy himself confessing that no woman had ever borne
pain so manifold and great as hers. " Nor even so was
their anger appeased ; some among them seeking for us pains, if it might
be, yet greater; that the saying might be fulfilled, He that is
unjust, let him be unjust still. And their rage against the Martyrs took
a new form, insomuch that we were in great sorrow for lack of
freedom to entrust their bodies to the earth, Neither did the night-time,
nor the offer of money, avail us for this matter; but they set
watch with much carefulness, as though it were a great gain to hinder their
burial. Therefore, after the bodies had been displayed to view for
many days, they were at last burned to ashes, and cast into the river
Rhone, which flows by this place, that not a vestige of them might
be left upon the earth. For they said, Now shall we see whether
they will rise again, and whether their God can save them out of our
hands" Not many months after the date of that epistle, Marius, then
expecting to leave Rome for a long time, and in fact about to leave it
for ever, stood to witness the triumphal entry of Marcus Aurelius,
almost at the exact spot from which he had watched the emperor's solemn
return to the capital on his own first coming thither. His triumph
was now a " full " one Justus Triumphus justified, by far more
than the due amount of bloodshed in those Northern wars, at length,
it might seem, happily at an end. Among the captives, amid the laughter
of the crowds at his blowsy upper garment, his trousered legs and
conical wolf-skin cap, walked our own ancestor, representative of subject
Germany, under a figure very familiar in later Roman sculpture;
and, though certainly with none of the grace of the Dying Gau/, yet with
plenty of uncouth pathos in his misshapen features, and the pale,
servile, yet angry eyes. His children, white-skinned and golden-haired
" as angels," trudged beside him. His brothers, of the
animal world, the ibex, the wild-cat, and the reindeer, stalking
and trumpeting grandly, found their due place in the procession; and
among the spoil, set forth on a portable frame that it might be
distinctly seen (no mere model, but the very house he had lived in), a
wattled cottage, in all the simplicity of its snug contrivances
against the cold, and well-calculated to give a moment's delight to
his new, sophisticated masters. Andrea Mantegna, working at the end
of the fifteenth century, for a society full of antiquarian fervour
at the sight of the earthy relics of the old Roman people, day by day
returning to light out of the clay childish still, moreover, and
with no more suspicion of pasteboard than the old Romans themselves, in
its unabashed love of open-air pageantries, has invested this, the
great- est, and alas ! the most characteristic, of the splendours
of imperial Rome, with a reality livelier than any description. The
homely senti- ments for which he has found place in his learned
paintings are hardly more lifelike than the great public incidents of the
show, there depicted. And then, with all that vivid realism, how refined,
how dignified, how select in type, is this reflection of the old Roman
world ! now especially, in its time-mellowed red and gold, for the
modern visitor to the old English palace. It was under no such
selected types that the great procession presented itself to Marius
; though, in effect, he found something there pro- phetic, so to
speak, and evocative of ghosts, as susceptible minds will do, upon a
repetition after long interval of some notable incident, which may
yet perhaps have no direct concern for themselves. In truth, he had been
so closely bent of late on certain very personal interests that the
broad current of the world's doings seemed to have withdrawn into the
distance, but now, as he witnessed this procession, to return once
more into evidence for him. The world, certainly, had been holding on its
old way, and was all its old self, as it thus passed by dramatic-
ally, accentuating, in this favourite spectacle, its mode of viewing
things. And even apart from the contrast of a very different scene, he
would have found it, just now, a somewhat vulgar spectacle. The
temples, wide open, with their ropes of roses flapping in the wind
against the rich, reflecting marble, their startling draperies and
heavy cloud of incense, were but the centres of a great banquet spread
through all the gaudily coloured streets of Rome, for which the
carnivo- rous appetite of those who thronged them in the glare of
the mid -day sun was frankly enough asserted. At best, they were but
calling their gods to share with them the cooked, sacrificial, and
other meats, reeking to the sky. The child, who was concerned for the
sorrows of one of those Northern captives as he passed by, and
explained to his comrade "There's feeling in that hand, you know !
" benumbed and lifeless as it looked in the chain, seemed, in a
moment, to transform the entire show into its own proper tinsel.
Yes ! these Romans were a coarse, a vulgar people; and their vulgarities
of soul in full evidence here. And Aurelius himself seemed to have
undergone the world's coinage, and fallen to the level of his reward, in
a medi- ocrity no longer golden. Yet if, as he passed by,
almost filling the quaint old circular chariot with his magnificent
golden-flowered attire, he presented himself to Marius, chiefly as one
who had made the great mistake ; to the multitude he came as a more
than magnanimous conqueror. That he had " forgiven " the
innocent wife and children of the dashing and almost successful rebel
Avidius Cassius, now no more, was a recent circumstance still in
memory. As the children went past not among those who, ere the emperor
ascended the steps of the Capitol, would be detached from the great
progress for execution, happy rather, and radiant, as adopted members of
the imperial family the crowd actually enjoyed an exhibi- tion of
the moral order, such as might become perhaps the fashion. And it was in
considera- tion of some possible touch of a heroism herein that
might really have cost him something, that Marius resolved to seek the
emperor once more, with an appeal for common-sense, for reason and
justice. He had set out at last to revisit his old home ; and
knowing that Aurelius was then in retreat at a favourite villa, which lay
almost on his way thither, determined there to present himself.
Although the great plain was dying steadily, a new race of wild birds
establishing itself there, as he knew enough of their habits to
understand, and the idle contadino^ with his never-ending ditty of
decay and death, replacing the lusty Roman labourer, never had that
poetic region between Rome and the sea more deeply im- pressed him
than on this sunless day of early autumn, under which all that fell
within the immense horizon was presented in one uniform tone of a
clear, penitential blue. Stimulating to the fancy as was that range of
low hills to the northwards, already troubled with the upbreak- ing
of the Apennines, yet a want of quiet in their outline, the record of
wild fracture there, of sudden upheaval and depression, marked them
as but the ruins of nature ; while at every little descent and ascent of
the road might be noted traces of the abandoned work of man. From
time to time, the way was still redolent of the floral relics of summer,
daphne and myrtle- blossom, sheltered in the little hollows and
ravines. At last, amid rocks here and there piercing the soil, as those
descents became steeper, and the main line of the Apennines, now
visible, gave a higher accent to the scene, he espied over the plateau^
almost like one of those broken hills, cutting the horizon towards
the sea, the old brown villa itself, rich in memories of one after
another of the family of the Antonines. As he approached it, such
remi- niscences crowded upon him, above all of the life there of
the aged Antoninus Pius, in its wonderful mansuetude and calm. Death
had overtaken him here at the precise moment when the tribune of
the watch had received from his lips the word Aequanimitas! as the
watchword of the night. To see their emperor living there like one
of his simplest subjects, his hands red at vintage-time with the juice of
the grapes, hunt- ing, teaching his children, starting betimes,
with all who cared to join him, for long days of anti- quarian research
in the country around : this, and the like of this, had seemed to mean
the peace of mankind. Upon that had come like a stain ! it
seemed to Marius just then the more intimate life of Faustina, the
life of Faustina at home. Surely, that marvellous but malign beauty must
still haunt those rooms, like an unquiet, dead goddess, who might
have perhaps, after all, something reassuring to tell surviving mortals
about her ambiguous self. When, two years since, the news had
reached Rome that those eyes, always so persistently turned to vanity,
had suddenly closed for ever, a strong desire to pray had come over
Marius, as he followed in fancy on its wild way the soul of one he had
spoken with now and again, and whose presence in it for a time the
world of art could so ill have spared. Certainly, the honours freely
accorded to embalm her memory were poetic enough the rich temple
left among those wild villagers at the spot, now it was hoped sacred for
ever, where she had breathed her last ; the golden image, in her
old place at the amphitheatre ; the altar at which the newly
married might make their sacrifice ; above all, the great foundation for
orphan girls, to be called after her name. The latter, precisely,
was the cause why Marius failed in fact to see Aurelius again, and
make the chivalrous effort at enlightenment he had proposed to himself.
Entering the villa, he learned from an usher, at the door of the
long gallery, famous still for its grand prospect in the memory of many a
visitor, and then lead- ing to the imperial apartments, that the
emperor was already in audience : Marius must wait his turn he knew
not how long it might be. An odd audience it seemed ; for at that
moment, through the closed door, came shouts of laughter, the
laughter of a great crowd of children the " Faustinian Children
" themselves, as he after- wards learned happy and at their ease, in
the imperial presence. Uncertain, then, of the time for which so
pleasant a reception might last, so pleasant that he would hardly have
wished to shorten it, Marius finally determined to proceed, as it
was necessary that he should accomplish the first stage of his journey on
this day. The thing was not to be Vale ! anima infelicissima ! He
might at least carry away that sound of the laughing orphan children, as
a not unamiable last impression of kings and their houses.
The place he was now about to visit, especi- ally as the
resting-place of his dead, had never been forgotten. Only, the first
eager period of his life in Rome had slipped on rapidly ; and,
almost on a sudden, that old time had come to seem very long ago. An
almost burdensome solemnity had grown about his memory of the
place, so that to revisit it seemed a thing that needed preparation : it
was what he could not have done hastily. He half feared to lessen,
or disturb, its value for himself. And then, as he travelled
leisurely towards it, and so far with quite tranquil mind, interested
also in many another place by the way, he discovered a shorter road
to the end of his journey, and found himself indeed approaching the spot
that was to him like no other. Dreaming now only of the dead before
him, he journeyed on rapidly through the night ; the thought of them
increasing on him, in the darkness. It was as if they had been
waiting for him there through all those years, and felt his footsteps
approaching now, and understood his devotion, quite gratefully, in
that lowliness of theirs, in spite of its tardy fulfilment. As morning
came, his late tran- quillity of mind had given way to a grief
which surprised him by its freshness. He was moved more than he
could have thought possible by so distant a sorrow. " To-day !
" they seemed to be saying as the hard dawn broke, " To-day,
he will come ! " At last, amid all his distractions, they were
become the main purpose of what he was then doing. The world around it,
when he actually reached the place later in the day, was in a mood
very different from his : so work- a-day, it seemed, on that fine
afternoon, and the villages he passed through so silent ; the
inhabitants being, for the most part, at their labour in the country.
Then, at length, above the tiled outbuildings, were the walls of the old
villa itself, with the tower for the pigeons ; and, not among cypresses,
but half-hidden by aged poplar-trees, their leaves like golden fruit,
the birds floating around it, the conical roof of the tomb itself.
In the presence of an old servant who remembered him, the great seals
were broken, the rusty key turned at last in the lock, the door was
forced out among the weeds grown thickly about it, and Marius was
actually in the place which had been so often in his thoughts.
He was struck, not however without a touch of remorse thereupon,
chiefly by an odd air of neglect, the neglect of a place allowed to
remain as when it was last used, and left in a hurry, till long
years had covered all alike with thick dust the faded flowers, the
burnt-out lamps, the tools and hardened mortar of the workmen who
had had something to do there. A heavy fragment of woodwork had fallen
and chipped open one of the oldest of the mortuary urns, many
hundreds in number ranged around the walls. It was not properly an urn,
but a minute coffin of stone, and the fracture had revealed a
piteous spectacle of the mouldering, unburned remains within ; the bones
of a child, as he understood, which might have died, in ripe age,
three times over, since it slipped away from among his great-grandfathers,
so far up in the line. Yet the protruding baby hand seemed to stir
up in him feelings vivid enough, bringing him intimately within the scope
of dead people's grievances. He noticed, side by side with the urn
of his mother, that of a boy of about his own age one of the serving-boys
of the household who had descended hither, from the lightsome world
of childhood, almost at the same time with her. It seemed as if this boy
of his own age had taken filial place beside her there, in his stead.
That hard feeling, again, which had always lingered in his mind with the
thought of the father he had scarcely known, melted wholly away, as
he read the precise number of his years, and reflected suddenly He was
of my own present age ; no hard old man, but with interests, as he
looked round him on the world for the last time, even as mine
to-day! And with that came a blinding rush of kindness, as if two
alienated friends had come to under- stand each other at last. There was
weakness in all this ; as there is in all care for dead persons, to
which nevertheless people will always yield in proportion as they really
care for one another. With a vain yearning, as he stood there, still
to be able to do something for them, he reflected that such doing
must be, after all, in the nature of things, mainly for himself. His own
epitaph might be that old one "Eo-^aTo? TOV ISlov yevov? He
was the last of his race ! Of those who might come hither after himself
probably no one would ever again come quite as he had done to-day ;
and it was under the influence of this thought that he determined to bury
all that, deep below the surface, to be remembered only by him, and
in a way which would claim no sentiment from the indifferent. That took
many days was like a renewal of lengthy old burial rites as he
himself watched the work, early and late ; coming on the last day very
early, and anticipating, by stealth, the last touches, while the
workmen were absent ; one young lad only, finally smoothing down the
earthy bed, greatly surprised at the seriousness with which Marius
flung in his flowers, one by one, to mingle with the dark mould. Those
eight days at his old home, so mournfully occupied, had been for Marius
in some sort a forcible disruption from the world and the roots of
his life in it. He had been carried out of himself as never before ; and
when the time was over, it was as if the claim over him of the
earth below had been vindicated, over against the interests of that
living world around. Dead, yet sentient and caressing hands seemed to
reach out of the ground and to be clinging about him. Looking back
sometimes now, from about the midway of life the age, as he conceived,
at which one begins to re-descend one's life though antedating it a
little, in his sad humour, he would note, almost with surprise, the
un- broken placidity of the contemplation in which it had been
passed. His own temper, his early theoretic scheme of things, would have
pushed him on to movement and adventure. Actually, as circumstances
had determined, all its movement had been inward ; movement of observa-
tion only, or even of pure meditation ; in part, perhaps, because
throughout it had been some- thing of a meditatio mortis^ ever facing
towards the act of final detachment. Death, however, as he
reflected, must be for every one nothing ( less than the fifth or last
act of a drama, and, as 1 such, was likely to have something of the
stirring ! character of a denouement. And, in fact, it was in form
tragic enough that his end not long after- ' wards came to him.
In the midst of the extreme weariness and depression which had
followed those last days, Cornelius, then, as it happened, on a journey
and travelling near the place, finding traces of him, had become
his guest at Whitenights. It was just then that Marius felt, as he had
never done before, the value to himself, the overpowering charm, of
his friendship. " More than brother ! " he felt " like a
son also ! " contrasting the fatigue of soul which made himself in
effect an older man, with the irrepressible youth of his companion.
For it was still the marvellous hopefulness of Cornelius, his seeming
prerogative over the future, that determined, and kept alive, all
other sentiment concerning him. A new hope had sprung up in the world of
which he, Cornelius, was a depositary, which he was to bear onward
in it. Identifying himself with Cornelius in so dear a friendship,
through him, Marius seemed to touch, to ally himself to, actually to
become a possessor of the coming world ; even as happy parents reach out,
and take possession of it, in and through the survival of their
children. For in these days their intimacy had grown very close, as they
moved hither and thither, leisurely, among the country-places thereabout,
Cornelius being on his way back to Rome, till they came one evening to
a little town (Marius remembered that he had been there on his
first journey to Rome) which had even then its church and legend the legend
and holy relics of the martyr Hyacinthus, a young Roman soldier, whose
blood had stained the soil of this place in the reign of the
emperor Trajan. The thought of that so recent death,
haunted Marius through the night, as if with audible crying and
sighs above the restless wind, which came and went around their lodging.
But towards dawn he slept heavily ; and awaking in broad daylight,
and finding Cornelius absent, set forth to seek him. The plague was still
in the place had indeed just broken out afresh ; with an outbreak
also of cruel superstition among its wild and miserable inhabitants.
Surely, the old gods were wroth at the presence of this new enemy
among them ! And it was no ordinary morning into which Marius stepped
forth. There was a menace in the dark masses of hill, and
motionless wood, against the gray, although apparently unclouded sky.
Under this sunless heaven the earth itself seemed to fret and fume
with a heat of its own, in spite of the strong night-wind. And now the
wind had fallen. Marius felt that he breathed some strange heavy
fluid, denser than any common air. He could have fancied that the world
had sunken in the night, far below its proper level, into some
close, thick abysm of its own atmosphere. The Christian people of the
town, hardly less terrified and overwrought by the haunting sick-
ness about them than their pagan neighbours, were at prayer before the
tomb of the martyr ; and even as Marius pressed among them to a
place beside Cornelius, on a sudden the hills seemed to roll like a sea
in motion, around the whole compass of the horizon. For a moment
Marius supposed himself attacked with some sudden sickness of brain, till
the fall of a great mass of building convinced him that not himself
but the earth under his feet was giddy. A few moments later the little
market- place was alive with the rush of the distracted inhabitants
from their tottering houses ; and as they waited anxiously for the second
shock of earthquake, a long -smouldering suspicion leapt
precipitately into well-defined purpose, and the whole body of people was
carried forward towards the band of worshippers below. An hour
later, in the wild tumult which followed, the earth had been stained
afresh with the blood of the martyrs Felix and Faustinus F
lores apparuerunt in terra nostra ! and their brethren, together
with Cornelius and Marius, thus, as it had happened, taken among them,
were prisoners, reserved for the action of the law. Marius and his
friend, with certain others, exercising the privilege of their rank, made
claim to be tried in Rome, or at least in the chief town of the
district; where, indeed, in the troublous days that had now begun, a
legal process had been already instituted. Under the care of a
military guard the captives were removed on the same day, one stage
of their journey ; sleeping, for security, during the night, side by side
with their keepers, in the rooms of a shepherd's deserted house by
the wayside. It was surmised that one of the prisoners was
not a Christian : the guards were forward to make the utmost pecuniary
profit of this circum- stance, and in the night, Marius, taking
advan- tage of the loose charge kept over them, and by means partly
of a large bribe, had contrived that Cornelius, as the really innocent
person, should be dismissed in safety on his way, to procure, as
Marius explained, the proper means of defence for himself, when the time
of trial came. And in the morning Cornelius in fact set forth
alone, from their miserable place of deten- tion. Marius believed that
Cornelius was to be the husband of Cecilia; and that, perhaps
strangely, had but added to the desire to get him away safely. We wait
for the great crisis which is to try what is in us : we can hardly bear
the pressure of our hearts, as we think of it : the lonely
wrestler, or victim, which imagination foreshadows to us, can hardly be
one's self; it seems an outrage of our destiny that we should be
led along so gently and imperceptibly, to so terrible a leaping-place in
the dark, for more perhaps than life or death. At last, the great
act, the critical moment itself comes, easily, almost unconsciously.
Another motion of the clock, and our fatal line the " great
climacteric point " has been passed, which changes our- selves
or our lives. In one quarter of an hour, under a sudden, uncontrollable
impulse, hardly weighing what he did, almost as a matter of course and
as lightly as one hires a bed for one's ; night's rest on a journey,
Marius had taken upon himself all the heavy risk of the position in
which Cornelius had then been the long and wearisome delays of judgment,
which were possible ; the danger and wretchedness of a long journey
in this manner ; possibly the danger of death. He had delivered his
brother, after the \ manner he had sometimes vaguely anticipated as
a kind of distinction in his destiny; though indeed always with wistful
calculation as to what it might cost him : and in the first moment
after the thing was actually done, he felt only satisfac- tion at
his courage, at the discovery of his possession of "
nerve." Yet he was, as we know, no hero, no heroic martyr
had indeed no right to be ; and when he had seen Cornelius depart, on his
blithe and hopeful way, as he believed, to become the husband of
Cecilia ; actually, as it had hap- pened, without a word of farewell,
supposing Marius was almost immediately afterwards to follow
(Marius indeed having avoided the moment of leave-taking with its
possible call for an explanation of the circumstances), the re-
action came. He could only guess, of course, at what might really happen.
So far, he had but taken upon himself, in the stead of Cornelius, a
certain amount of personal risk ; though he hardly supposed himself to be
facing the danger of death. Still, especially for one such as he,
with all the sensibilities of which his whole manner of life had been but
a promotion, the situation of a person under trial on a criminal
charge was actually full of distress. To him, in truth, a death such as
the recent death of those saintly brothers, seemed no glorious end. In
his case, at least, the Martyrdom, as it was called the
overpowering act of testimony that Heaven had come down among men would
be but a common execution : from the drops of his blood there would
spring no miraculous, poetic flowers ; no eternal aroma would indicate
the place of his burial ; no plenary grace, overflowing for ever
upon those who might stand around it. Had there been one to listen just
then, there would have come, from the very depth of his
desolation, an eloquent utterance at last, on the irony of men's
fates, on the singular accidents of life and death. The guards, now safely
in possession of what- ever money and other valuables the prisoners
had had on them, pressed them forward, over the rough mountain
paths, altogether careless of their sufferings. The great autumn rains
were falling. At night the soldiers lighted a fire ; but it was
impossible to keep warm. From time to time they stopped to roast portions
of the meat they carried with them, making their captives sit round
the fire, and pressing it upon them. But weariness and depression of
spirits had deprived Marius of appetite, even if the food had been
more attractive, and for some days he partook of nothing but bad bread
and water. All through the dark mornings they dragged over boggy
plains, up and down hills, wet through some- times with the heavy rain.
Even in those de- plorable circumstances, he could but notice the
wild, dark beauty of those regions the stormy sunrise, and placid spaces
of evening. One of the keepers, a very young soldier, won him at
times, by his simple kindness, to talk a little, with wonder at the lad's
half-conscious, poetic delight in the adventures of the journey. At
times, the whole company would lie down for rest at the roadside, hardly
sheltered from the storm ; and in the deep fatigue of his spirit,
his old longing for inopportune sleep overpowered him. Sleep
anywhere, and under any conditions, seemed just then a thing one might
well ex- change the remnants of one's life for. It must have
been about the fifth night, as he afterwards conjectured, that the
soldiers, believing him likely to die, had finally left him unable
to proceed further, under the care of some country people, who to
the extent of their power certainly treated him kindly in his sickness.
He awoke to consciousness after a severe attack of fever, lying
alone on a rough bed, in a kind of hut. It seemed a remote, mysterious
place, as he looked around in the silence ; but so fresh lying, in
fact, in a high pasture-land among the mountains that he felt he should
recover, if he might but just lie there in quiet long enough. Even
during those nights of delirium he had felt the scent of the
new-mown hay pleasantly, with a dim sense for a moment that he was lying
safe in his old home. The sunlight lay clear beyond the open door ;
and the sounds of the cattle reached him softly from the green places
around. Recalling confusedly the torturing hurry of his late
journeys, he dreaded, as his consciousness of the whole situation
returned, the coming of the guards. But the place remained in
absolute stillness. He was, in fact, at liberty, but for his own
disabled condition. And it was certainly a genuine clinging to life that
he felt just then, at the very bottom of his mind. So it had been,
obscurely, even through all the wild fancies of his delirium, from the
moment which followed his decision against himself, in favour of
Cornelius. The occupants of the place were to be heard
presently, coming and going about him on their business : and it was as
if the approach of death brought out in all their force the merely
human sentiments. There is that in death which certainly makes
indifferent persons anxious to forget the dead : to put them those
aliens away out of their thoughts altogether, as soon as may be.
Conversely, in the deep isolation of spirit which was now creeping upon
Marius, the faces of these people, casually visible, took a strange
hold on his affections ; the link of general brotherhood, the feeling of
human kin- ship, asserting itself most strongly when it was about
to be severed for ever. At nights he would find this face or that
impressed deeply on his fancy ; and, in a troubled sort of manner,
his mind would follow them onwards, on the ways of their simple,
humdrum, everyday life, with a peculiar yearning to share it with them,
envying the calm, earthy cheerfulness of all their days to be,
still under the sun, though so indifferent, of course, to him ! as if
these rude people had been suddenly lifted into some height of
earthly good-fortune, which must needs isolate them from
himself. Tristem neminem fecit he repeated to himself; his
old prayer shaping itself now almost as his epitaph. Yes ! so much the
very hardest judge must concede to him. And the sense of satis-
faction which that thought left with him dis- posed him to a conscious
effort of recollection, while he lay there, unable now even to raise
his head, as he discovered on attempting to reach a .pitcher of
water which stood near. Revelation, vision, the discovery of a vision,
the seeing of a perfect humanity, in a perfect world through all
his alternations of mind, by some dominant instinct, determined by the
original necessities of his own nature and character, he had always
set that above the having, or even the doing, of any- thing. For,
such vision, if received with due attitude on his part, was, in reality,
the being something, and as such was surely a pleasant offering or
sacrifice to whatever gods there might be, observant of him. And how
goodly had the vision been ! one long unfolding of beauty and
energy in things, upon the closing of which he might gratefully utter his
" Vixi ! ' Even then, just ere his eyes were to be shut for
ever, the things they had seen seemed a veritable possession in hand ;
the persons, the places, above all, the touching image of Jesus,
apprehended dimly through the expressive faces, the crying of the
children, in that mysterious drama, with a sudden sense of peace and
satisfaction now, which he could not explain to himself. Surely, he
had prospered in life ! And again, as of old, the sense of gratitude
seemed to bring with it the sense also of a living person at his
side. For still, in a shadowy world, his deeper wisdom had ever
been, with a sense of economy, with a jealous estimate of gain and loss,
to use life, not as the means to some problematic end, but, as far
as might be, from dying hour to dying hour, an end in itself a kind of
music, all- sufficing to the duly trained ear, even as it died out
on the air. Yet now, aware still in that suffering body of such vivid
powers of mind and sense, as he anticipated from time to time how
his sickness, practically without aid as he must be in this rude place,
was likely to end, and that the moment of taking final account was
drawing very near, a consciousness of waste would come, with
half-angry tears of self-pity, in his great weakness a blind, outraged,
angry feeling of wasted power, such as he might have experienced
himself standing by the deathbed of another, in condition like his
own. And yet it was the fact, again, that the vision of men
and things, actually revealed to him on his way through the world, had
developed, with a wonderful largeness, the faculties to which it
addressed itself, his general capacity of vision ; and in that too was a
success, in the view of certain, very definite, well-considered,
undeni- able possibilities. Throughout that elaborate and lifelong
education of his receptive powers, he had ever kept in view the purpose
of pre- paring himself towards possible further revelation some day
towards some ampler vision, which should take up into itself and explain
this world's delightful shows, as the scattered frag- / ments of a
poetry, till then but half-understood, might be taken up into the text of
a lost epic, recovered at last. At this moment, his un- clouded
receptivity of soul, grown so steadily through all those years, from
experience to ex- perience, was at its height ; the house ready for
the possible guest ; the tablet of the mind white and smooth, for
whatsoever divine fingers might choose to write there. And was not this
pre- cisely the condition, the attitude of mind, to which something
higher than he, yet akin to him, would be likely to reveal itself ; to
which that influence he had felt now and again like a friendly hand
upon his shoulder, amid the actual obscurities of the world, would be
likely to make a further explanation ? Surely, the aim of a true
philosophy must lie, not in futile efforts towards the complete
accommodation of man to the circumstances in which he chances to
find himself, but in the maintenance of a kind of candid
discontent, in the face of the very highest achievement; the unclouded
and receptive soul quitting the world finally, with the same fresh
wonder with which it had entered the world still unimpaired, and going on
its blind way at last with the consciousness of some profound
enigma in things, as but a pledge of something further to come. Marius
seemed to understand how one might look back upon life here, and
its excellent visions, as but the portion of a race- course left
behind him by a runner still swift of foot : for a moment he experienced
a singular curiosity, almost an ardent desire to enter upon a
future, the possibilities of which seemed so large. And just
then, again amid the memory of certain touching actual words and images,
came the thought of the great hope, that hope against hope, which,
as he conceived, had arisen Lux sedentibus in tenebris upon the aged
world ; the hope Cornelius had seemed to bear away upon him in his
strength, with a buoyancy which had caused Marius to feel, not so much
that by a caprice of destiny, he had been left to die in his place,
as that Cornelius was gone on a mission to deliver him also from death.
There had been a permanent protest established in the world, a
plea, a perpetual after-thought, which humanity henceforth would ever
possess in reserve, against any wholly mechanical and disheartening
theory of itself and its conditions. That was a thought which
relieved for him the iron outline of the horizon about him, touching it
as if with soft light from beyond ; filling the shadowy, hollow
places to which he was on his way with the warmth of definite affections
; confirming also certain considerations by which he seemed to link
himself to the generations to come in the world he was leaving. Yes !
through the sur- vival of their children, happy parents are able
to think calmly, and with a very practical affection, of a world in
which they are to have no direct share; planting with a cheerful
good-humour, the acorns they carry about with them, that their
grand-children may be shaded from the sun by the broad oak-trees of the
future. That is nature's way of easing death to us. It was thus
too, surprised, delighted, that Marius, under the power of that new hope
among men, could think of the generations to come after him.
Without it, dim in truth as it was, he could hardly have dared to ponder
the world which limited all he really knew, as it would be when he should
have departed from it. A strange lonesomeness, like physical
darkness, seemed to settle upon the thought of it ; as if its business
hereafter must be, as far as he was concerned, carried on in some
inhabited, but distant and alien, star. Contrari- wise, with the sense of
that hope warm about him, he seemed to anticipate some kindly care
for himself, never to fail even on earth, a care for his very body that
dear sister and companion of his soul, outworn, suffering, and in the
very article of death, as it was now. For the weariness came
back tenfold ; and he had finally to abstain from thoughts like these,
as from what caused physical pain. And then, as before in the
wretched, sleepless nights of those forced marches, he would try to fix
his mind, as it were impassively, and like a child thinking over
the toys it loves, one after another, that it may fall asleep thus, and
forget all about them the sooner, on all the persons he had loved
in life on his love for them, dead or living, grate- ful for his
love or not, rather than on theirs for him letting their images pass away
again, or rest with him, as they would. In the bare sense of having
loved he seemed to find, even amid this foundering of the ship, that on
which his soul might "assuredly rest and depend." One
after another, he suffered those faces and voices to come and go, as in
some mechanical exercise, as he might have repeated all the verses
he knew by heart, or like the telling of beads one by one, with many a
sleepy nod between- whiles. For there remained also, for the
old earthy creature still within him, that great blessedness of
physical slumber. To sleep, to lose one's self in sleep that, as he had
always recognised, was a good thing. And it was after a space of
deep sleep that he awoke amid the murmuring voices of the people
who had kept and tended him so carefully through his sickness, now
kneeling around his bed : and what he heard confirmed, in the then
perfect clearness of his soul, the in- evitable suggestion of his own
bodily feelings. He had often dreamt he was condemned to die, that
the hour, with wild thoughts of escape, was arrived; and waking, with the
sun all around him, in complete liberty of life, had been full of
gratitude for his place there, alive still, in the land of the living. He
read surely, now, in the manner, the doings, of these people, some
of whom were passing out through the doorway, where the heavy
sunlight in very deed lay, that his last morning was come, and turned to
think once more of the beloved. Often had he fancied of old that
not to die on a dark or rainy day might itself have a little alleviating
grace or favour about it. The people around his bed were praying
fervently Abi! Abi! Anima Christiana! In the moments of his extreme
helplessness their mystic bread had been placed, had descended like a
snow-flake from the sky, between his lips. Gentle fingers had applied
to hands and feet, to all those old passage-ways of the senses,
through which the world had come and gone for him, now so dim and
obstructed, a medicinable oil. It was the same people who, in the
gray, austere evening of that day, took up his remains, and buried them
secretly, with their accustomed prayers ; but with joy also,
holding his death, according to their generous view in this matter,
to have been of the nature of a martyrdom ; and martyrdom, as the church
had always said, a kind of sacrament with plenary grace.P Corrado Curcio. Curcio. Keywords: esistenti -- Lucrezio,
Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian philosophy. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Curi: l’implicatura conversazionale
dei figli di Marte -- passione e compassione, senso e consenso – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo italiano. Grice:
“I like Curi; unlike me, we would call him a prolific philosopher; my favourite
are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and bello, but he has also written on
various topics related to maleness -- Si
laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi
alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra Cacciari. A partire da quel
topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e fecondo, all'insegna di
una comune ricerca del nuovo, e di un impegno teoretico rigoroso, che va oltre
il piano strettamente della speculazione, in direzione di una pratica civile. Filosofa
sul nesso politica-civilita e guerra e sul concetto di ‘polemos’ – cf. Grice
epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --, lungo la linea che congiunge Eraclito
a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia intesa come mythos, sia concepita come
opera cinematografica. Medita su alcuni temi fondamentali dell'interrogazione
filosofica, quali l'amore e la morte, il dolore e il destino. Altre
opere: “Endiadi: figure della dualità” (Feltrinelli, Milano); “La filosofia
come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri, Torino); “La forza dello sguardo” – Lat.
vereor – warten: to see --; “Meglio non essere nati: la condizione umana” – cf.
la condition humaine”, Malraux); “Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore,
Milano); “Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo,
ma ha soltanto una verniciatura di casi umani, come il maschio abbronzato dal
sole, vedendo quante cose si devono imparare, quante fatiche bisogna
sopportare, come si convenga, a seguire tale studio, la vita regolata di ogni
giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile per lui. A questo maschio
bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e quante difficoltà presenta,
e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera settima). La libertà non è
soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto l'esser-divenuti-liberi
PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è essere-liberatori DA il buio. La
ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto
"libero" possa concedersi così per svago, magari per curiosita. E esser-ci
dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico del divenire liberi. Heidegger,
L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne “La brama dell'avere” si ha un
attento e puntuale riesame sia storico-filosofico che critico-filologico della
fondamentale categoria esistenziale dell'”avere” – “the have and have-nots” -- alla luce dell'odierno assetto
socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H y” Curi focuses on ‘ekhein’ which would then
correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare,
manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità
del sapere nel comportamentismo” (MILANI, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo”
(MILANI, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli,
Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (MILANI, Padova); “Anti-conformismo
e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) –
cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani,
Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del
mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa.
Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De
Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) –
cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex
bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein”
(Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo,
Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano,
Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco
Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra
nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli,
Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica
che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza,
Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale”
(Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo,
Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo,
Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra
della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei»,
Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito
moderno, Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici
della politica, Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati
Boringhieri, Torino); “Skenos. Il Don Giovanni nella società dello spettacolo”
(Milano); “Libidine” (Milano). Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio
non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati
Boringhieri, Torino); Miti d'amore. Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare
con la propria testa” (Mimesis, Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore,
Milano); “Passione” (Raffaello Cortina Editore, Milano. La porta stretta. Come
diventare maggiorenni” (Bollati Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra
infinita e terrorismo, Castelvecchi, Roma. La brama dell'avere; Il Margine,
Trento); “Il mito di Narciso sul Wikipedia
Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui
Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il
dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del
tuono, della pioggia e della fertilità[3]. Simile alla divinità greca Ares, col
tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente
identificato con esso. Statua colossale di Marte: "Pirro"
nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. Culto. Venere e Marte,
affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia etrusca[4] che
italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione romana (dove era
considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero per eccellenza, in
parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il fulmine. Assieme a
Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica", che
in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove,
Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto
figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto mitologico
ellenizzato. Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher, Hermann Usner,
e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte anche nei termini
di divinità "agraria", legata all'agricoltura, soprattutto sulla
scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri cultura di Catone, che
lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia. Secondo
Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte e l'ambito campestre non
farebbe di lui una divinità legata alla terra, in quanto il suo ruolo sarebbe
esclusivamente di difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali,
senza diversificazione dalla sua natura intrinsecamente guerresca. Il
dio, inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù,
che nei tempi antichi era dedita alla pratica militare. In questo senso era
posto in relazione con l'antica pratica italica del uer sacrum, la Primavera
Sacra: in una situazione difficile, i cittadini prendevano la decisione sacra
di allontanare dal territorio la nuova generazione, non appena fosse divenuta
adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani
espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero
fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri
occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i
sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini,
un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome
direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la legio sacrata,
cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era bianca.[senza
fonte] Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante
della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre
del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte, accoppiatosi con
la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono Roma.[6] Di conseguenza
Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si chiamavano tra
loro Figli di Marte. I suoi più importanti discendenti, oltre a Romolo e Remo,
furono Pico e Fauno. Marte comparve spesso sulla monetazione romana, sia
repubblicana che imperiale, con vari titoli: Marti conservatori (protettore),
Marti patri (padre), Mars ultor (vendicatore), Marti pacifero (portatore di
pace), Marti propugnatori (difensore), Mars victor (vincitore). Il mese
di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta
Marte, il popolo dei Marsie il loro territorio Martia Antica (la contemporanea
Marsica) devono a lui il loro nome. Leggenda sulla nascita di
MarteModifica Secondo il mito, Giunone era invidiosa del fatto che Giove avesse
concepito da solo Minerva senza la sua partecipazione. Chiese quindi aiuto a
Flora che le indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etoliache
permetteva di concepire al solo contatto. Così diventò madre di Marte, che fece
allevare da Priapo, il quale gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di
tradizione tarda come dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca
il mito greco. Flora, al contrario, testimonia una tradizione più antica:
l'equivalente norreno Thor nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità
elleniche. NomiModifica Statua di Marte nudo in un affrescodi
Pompei. Marte era venerato con numerosi nomi dagli stessi latini, dagli
Etruschi e da altri popoli italici: Maris, nome Etrusco da cui deriva il
nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui
era venerato dai popoli italicidi stirpe osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors.
EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel
Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in
battaglia', ma può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che
guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente',
'dio della luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua caratteristica
di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De agri cultura,
83 Marte viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi aspetti legati
alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato da Augusto in
onore della vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris: vendicatore).
RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti rappresentano il dio Marte in
maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è raffigurato con indosso
l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con uno scettro talvolta è
ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un mantello sulle spalle.
A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior parte dei casi, è
sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due cavalli imbizzarriti,
ma ha sempre un aspetto combattivo. Gli antichi Sabini lo adoravano sotto
l'effigie di una lancia chiamata "Quiris" da cui si racconta derivi
il nome del dio Quirino, spesso identificato con Romolo. Bisogna dire che il
nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da *co-uiria, cioè assemblea del
popolo e indicava il popolo in quanto corpus di cittadini, da distinguere con
Populus (dal verbo populari = devastare), che indica il popolo in armi.
Il ruolo di Marte a RomaModifica Venere e Marte, affresco romano da
Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo particolare. A partire
dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di sacerdoti, scelti
tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su dodici scudi sacri, gli
Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Questi sacerdoti erano
riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica purpurea. I sacerdoti
Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di Numa Pompilio,
risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di Marte,
costituendo così i primi culti iniziatici latini. Nella capitale
dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai
cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto
che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia
popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di
salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio. FestivitàModifica
Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario
romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che
portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale,
Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e
in ottobre. Gli Equirria si tenevano il 27 febbraio e il 14 marzo. Erano
giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano molta
enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti
tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel
Campo Marzio. Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo.
Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in
processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e
fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii
eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico
e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il
quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium,
dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione
delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti
nel sacrario della Regia. L'October Equus si teneva alle idi di ottobre
(15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il
cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine
marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della
Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che
volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che
la volevano per la Regia. Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium,
dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per
l'inverno. Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia,
dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da
un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una
pecora. Luoghi di cultoModifica Marte e Venere, copia settecentesca
da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si sa di un
antico tempio dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e
di un oracolo del dio, nella città aborigena di Tiora.[9] Animali e
oggetti sacriModifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per eccellenza
è la lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è l'uccello del
tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme alla lupa
Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria) Toro: altro
animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i popoli italici Hastae
Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso di gravi pericoli,
tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della pioggia, in
quanto dio della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come vittime
sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e, più
raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano
consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del
mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il
primo dell'anno. Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator:
Fusione con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates:
Fusione con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico
Barrex, di cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus:
Fusione con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in
cinque iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il
dio celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione
con il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio
celtico gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars
Cocidius: Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio
celtico Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius:
Fusione con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico
Mullo Mars Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con
il dio celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars
Segomo: Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio
celtico Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di Diego
Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo Veronese
Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva protegge
la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di Sandro
Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani,
enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30;
Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies
in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John
F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan
Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986),
p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^
Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5.
BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi. (L'archeologo
Andrea Carandini dà la definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del
Ponte, Dei e miti italici, Genova, ECIG, Dumézil, La religione romana arcaica,
Milano, Rizzoli, Libro del grande storico delle religioni, che per primo
rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a divinità più originale e
importante). James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi,
Un libro che dimostra come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee).
Jacqueline Champeux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, Ares Divinità
della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia)
Hachiman Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Marte Collegamenti esterniModifica Fano di
Marmar [collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Portale Antica
Roma Portale Mitologia Salii collegio sacerdotale romano per il
culto di Marte Mamuralia festività Triade arcaica Wikipedia Il
contenuto Umberto Curi. Keywords: passione, have, habere, habitus,
comportamentismo, behaviourism. La brama dell’avere, anticonformismo, guerra e
pace – Eirene – cosmologia anthropologia – l’orto di Zenone – lo scudo
d’Achille – I figli di Marte -- il
mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cusani: l’implicatura conversazionale
del primo hegelista – lo stato italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Solopaca).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cusani; for one, I was born at Harborne, but
nobody cares; Cuasani was born in Solopaca, and there’s a ‘corso Cusani’, and a
‘Biblioteca Cusani’.” Grice: “Cusani would have been friend with Bosanquet;
both are Hegelians – Italians, after SOME Germans, were the first to endorse
the philosophy of the absolute spirit inmanent to dialectic – Cusani does
attempt to respond to a criticism on the ‘assoluto’ brought up by Hamilton (of
all people), and consdtantly refers to the ‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’
he humply titles it!” Figlio di Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo
distrettuale e di comprensorio del Regno delle Due Sicilie. Membro dei
Pontaniani. Frequenta il circolo del marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis
e Gatti. Punto di partenza della sua
filosofia, comune a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli,
dei quali e un esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia
filosofica”. Insegna a Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu
affiancato da Spaventa, chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel
proprio studio privato. I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso
delle scienze, delle lettere e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda
fu da lui stesso fondata. Molti dei saggi di filosofia più impegnati furono
pubblicati in L’Antologia, di Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel
periodico l'Omnibus e nella Rivista napolitana.
Molte delle sue opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano
Cusani" di Solopaca. Idealista
hegeliano ed esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della
fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”;
“Storia dei sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo
procedimento a poterlo raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia
drammatica”; “L’assoluto – l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica
trascendentale”; “Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata
nel suo svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di
poesia”; “Economia politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli
esseri: disegno di una metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di
Solapaca è stato indetto nel un anno di
celebrazione in occasione del centenario della nascita nel comune di Solopaca.
Il corso Stefano Cusani gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita
nella autobiografia. Cusani dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del
superbissimo Gatti, ed e mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori
con tale fervore dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G.
Giucci, Degli scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli
nell'autunno del 1845: notizie biografiche, Napoli. L'amico coetaneo Cesare Correnti, patriota
milanese legato ai circoli Napoli, insegnante nella Scuola di lingua italiana
da lui fondata, gli dedicò un necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita
speranza di questa nostra Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi
a un tratto, poiché la sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La
filosofia specialmente nol sedussero, in modo che a più severi studi non
volgesse l'acuto e fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero
nell'anima sua. Rivista europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani,
Roma). «Rivista europea», ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani,
Forzani, Roma, Dizionario biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso",
"Il Lucifero","Omnibus"; "Rivista napolitana", Sanctis,
La letteratura ital. nel sec. XIX, II, La scuola liberale e la scuola
democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. A. Vera e
la corrente "ortodossa" (Milano); F. Zerella, Filosofia italiana meridionale”;
“Dall'eclettismo all'hegelismo in Italia”. Cusani e la filosofia italiana:
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Nasceva
in Solopaca, una volta Distretto di Caserta, oggi Circondario di Cerreto
Sannite (Benevento) il 23 dicembre 1816, Stefano Cusani da Filippo e Caterina
Cardillo. Suo padre, insigne avvocato, fu sollecito della educazione di questo
come di altri quattro suoi figliuoli, che, affidati alle cure di un suo
fratello germano a nome Matteo, sacerdote, mandolli in tenera età a
imcominciare e compiere i loro studî in Napoli. Ivi Stefano, ch'era il
secondogenito di cinque fratelli, frequentava i più rinomati Istituti privati
di quel tempo (che allora l'insegnamento pubblico esisteva sol di nome),
si distingueva fra gli altri condiscepoli in ognuno di questi, così che in
breve, compiuti gli studi letterarî fu giocoforza mettersi a studiare le scienze
della facoltà che doveva seguire. Fu questo il solo brutto periodo di sua vita.
Suo padre voleva fare di lui un Avvocato civile, come suol dirsi, e quindi fu
obbligato a studiare leggi e pandette, per le quali discipline non si sentiva
la benchè minima inclinazione, anzi, a dir vero, sentiva per esse la più
marcata avversiono; ma buon figlio e docile essendo, per non dispiacere al
padre, che tanti sacrifizî avea fatti e faceva per lui, come per gli altri
fratelli, a malincuore sempre, ma sempre tacendo, giunse fino ad esser
Avvocato, ed a fare la pratica presso uno de'luminari del Foro Napoletano. Da
questo momento incomincia il suo grande sviluppo intellettuale. Non potendone
più, la rompe col padre, dicendosi avverso ai processi, ed allo studio di essi,
e ad ogni altro artifizio da causidico. La rompe con quella pratica noiosa, che
tralascia ed abbandona; ed ottiene dal padre stesso, che ragionevole e savio
uomo era, di poter attendere a quegli studi che più alla sua indole si
affacevano. Fioriva in quel tempo, a Napoli, la scuola del Marchese Basilio
Puoti, ed egli, incontratosi con Stanislao Gatti che fu poi indivisibile amico
e compagno, vi si getto a capofitto, e fu in poco tempo il più caro e pregiato
discepolo del Marchese, come l'amico e compagno del De Sanctis, del Mirabelli,
e di tutta quella pleiade che in quel tempo arricchirono Napoli di filosofi
insigni. Ma a quell'ingegno che s'andava ogni giorno più sviluppando e
fortificando di sani e severi studî, parve angusto oramai quest'orizzonte, o
volse l'ala, e la di instese con intensità ed ardore allo studio della
filosofia. Ben cinque anni decorsero di volontaria prigionia nel suo
studiolo, ovo ridottosi, o giorno e notte indefessa mente attendeva a'
prediletti studî, e si beava di leggere Platone nel testo, chè familiare la
lingua gli era; come pure si fece a studiare la lingua alemanna per
mettersi al corrente dei progressi della filosofia, e per meditare e studiare
le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo filosofo tedesco di quella epoca.
Uscito dopo questa epoca a nuova vita incominciò a scrivere sul Progresso, una
Rivista di scienze e letteratura, diretta dal Baldacchini, articoli su
questioni filosofiche; e, dopo un anno, era già conosciuto in tutta la Napoli
pensante. In questo torno di tempo si apri un concorso per la Cattedra di
filosofia e matematica, nel Collegio Tulliano di Arpino, e lui fu prescelto per
titoli ad occuparla. Vi andò e vi trovò il suo amico Emmanuele Rocco, che
v'insegnava letteratura. Vi stette un anno e vedendosi in una cerchia troppo
angusta alla sua attività, si dimise, e fece ritorno in Napoli, conducendo con
sè anche l'amico Rocco. Quivi apri studio privato unitamente al Gatti di
filosofia, e dal bel principio quello studio fioriva per numerosa gioventù, che
accorreva a udire le sue lezioni. In breve fu lo studio più affollato di
Napoli. Le ore che aveva libere dallo insegnamento le occupava a scrivere
articoli di filosofia che si pubblicavano sulle Riviste Napoletane di quel
tempo, il Progresso che usciva in fascicoli voluminosi, la Rivista Napoletana
di Scienze, Lettere ed Arti, il Museo di Scienza e Letteratura, ove
collaboravano per la lor parte Antonio Tari, Francesco Trinchera, ed altri; e
sul Progresso il Colecchi ed altri. Non andò guari e s'incontrò col
Mamiani in quistioni di alta Metafisica, o ne usci onorato dell'amicizia e
della riverenza dell'insigno filosofo. Il suo intelletto altamente speculativo
destava ammirazione perchè si elevava ad altezze tali filosofiche che non gli
si potevano contrastare. In quel tempo si agitò una polemica tra V.
Cousin, filosofo francese, ed un insigne filosofo inglese, il cui nome ora non
mi sovviene; dopo varî articoli scambiatisi parea che l'inglese avesse preso il
di sopra, ed il Cousin, che lui credeva più dell'altro stare nel vero, avesse
dovuto soccomberé. Allora senza frapporre tempo in mezzo egli entrò terzo nella
quistione e scrisse epubblico una serie di articoli che costrinse l'inglese a
desistere dalla polemica, ed il Cousin a scrivergli una lettera di ringraziamenti
e di felicitazioni, e con la quale lo chiamava, e si firmava suo cugino.
Si radunava il Congresso dei Filosofi in Napoli nell'ottobre del 1845, o lui ne
dovea far parte; ma non sapendosi se il Borbone lo avesse permesso, o meno,
erasi ridotto in patria a villeggiare con la moglie e due piccini, l'uno
lattante e l'altro di due anni. Il Congresso fu permesso, i filosofi si
riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente a farvi ritorno; che anzi
il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a cui egli apparteneva, non
volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato. Cosi corse in Napoli solo,
lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe andato a rilevare, dopo finito
e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della sua morte! Arrivato in Napoli
vede gli amici - con essi si intrattiene passeggiando -- suda; è l'ora già che
s'apre la Sessione -- essi ve lo accompagnano a piedi per goderselo di più --
vi si arriva. Egli era sudatissimo -- entra e n'esce dopo quattro lunghe ore di
discussione; quel sudore lo avea già colpito a morte. Si riduce a casa, si
ricambia le mutande - la camicia era troppo tardi! Incomincia dopo poco
tempo una tosse secca, stizzosa, ch'egli non cura, perchè forte e robusto era;
e questo fu il peggiore dei divisamenti. Ritorna in patria per ripigliare la
famiglia e ridursi in Napoli, poiché si era alla vigilia del novembre. Si
riapre lo studio, si riprendono le lezioni; il maggior numero degli alunni
affluito gli rinfocola l'ardore, ch'ei metteva in esse, e parla dalla cattedra
per lunghe ore, e poi agli alunni più provetti che gli propongono dubbi o
problemi a risolvere, parla pure ad alta voce, e quella tosse insidiosa non lo
lascia, anzi invida della sua noncuranza lo avverte spesso del suo malefico
potere, interrompendogli il discorso, e forzandolo per poco a tacere. Le cose
durarono ancora così per altri 10, o 12 giorni, e finalmente la emottisi tenne
dietro a quella tosse funesta, e fu giuocoforza sottomettersi a quanto l'arte
salutare poteva e sapeva consigliare, ma invano tutto! Chè una tisi florida si
svolse, ed in meno di due mesi si spense la robusta complessione di S. Cusani!
Tale fu quest'uomo, che a 30 anni la morte rapiva a'suoi, alla scienza, alla
patria. Nato a 23 dicembre 1816, moriva a 2 gennaio 1816. Dissi rapito alla
patria, e giustamente, poichè egli da giovanissimo appartenne alla Giovine
Italia, e in Napoli fu sempre il più ardente fra i patrioti. Egli con altri
preparò e cooperò con ardore al movimento del '18 che poi non potė vedere! La
sua casa era il convegno di Carlo Poerio, L. Settembrini, S. Spaventa, P.
Mancini, e di tutti gli altri illustri compromessi politici di quel tempo, con
i quali si congiurava, si faceva propaganda, e si organizzava la
rivoluzione. Fu cosi caro a questi tutti che se un giorno solo nol vedeano, si
tenea por certo la visita loro in sua casa; ed il Poerio, addoloratissimo della
sua malattia, volle ed ottenne che fosse stato medicato, curato ed assistito
infino all'ultimo istante di sua vita dal fido o dotto medico Alessandro Lo
Piccolo. L'esequie furono imponenti pel concorso di amici,
che formavano tutte le notabilità scientifiche, patriottiche e
letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito generalmente per Napoli, che
in lui salutava la giovine scienza, e che per lui si metteva a paro di altre
città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni ed insigni filosofi, come
il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se quella vita non si fosse
spenta nel mezzo del cammino! La cura della filosofia di Cusani
d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una figura di rilievo
della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché scomparso in
giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815, o forse del
1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda,
testimoniata dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da
Sanctis, o dalla valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può
essere inserito - come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione
nell'ambito dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale
dell'eclettismo alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel
costituisce per Cusani un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo
fondamentale. In realtà si può forse con fondamento aggiungere, pur senza
ricorrere ad una indagine falsamente sottile, che resta in ombra, nellepur
autorevoli e acute analisi dedicate alle ascendenze cousiniane ed hegeliane di
Cusani, un filosofo fondamentale che sicuramente ispira la filosofia piú
significativa di Cusani: Vico. La costruzione del sistema eclettico cui Cusani
dichiara di dedicarsi segna una fase già tarda dell'eclettismo napoletano e
giungeva al termine di un decennio assai ricco di suggestioni in questa
direzione negli ambienti culturali napoletani. È sicuramente da condividere
l'affermazione del curatore secondo il quale il sincretismo avvertibile in
Cusani non impedisce però l'emergere di un nucleo speculativo che deborda dalla
semplice trama delle affermazioni altrui. In questo senso il problema del
metodo filosofico e il connesso problema della storia italiana segnano sin
dall’inizio lo sforzo speculativo di Cusani, la cui originalità trova subito
sulla sua strada Vico. Collaboratore della Temi napoletana, dell'Omnibus letterario,
scrive prevalentemente sul “Progresso.” Sin dalprimo scritto, Filosofia in
Italia, il tema della storia italiana appare questione teorica centrale. Non a
caso una ricerca storica da l'occasione a Cusani di porre il problema che gli
sta acuore, sin dalla citazione tratta da Guizot che apre la nota. I fatti
sonomeme affermazioni al problema della storia trova subito sumanibus
letterario ma are i grandiuti al fatto che risguardato, en per il pensiero, ciò
che le regole della morale sono per la volontà. Egli è tenuto di conoscerli, e
di portarne il peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a questo dovere, e ne ha
misurato e percorso tutta l’estensione, che gliè permesso di montare verso i
risultamenti razional. Il rinnovato interesseper la storia italiana che si
registra-- che né l'Antichità, né i tempi di poco anteriori a questi che
viviamo avevano mai risguardato -- non sembrano a Cusani casuali, ma dovuti al
fatto che l'intendimento si rivolge a indagare i grandi ordini di fenomeni per
scoprire e prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni, una storia ed una
filosofia. Il bisogno di comprendere e giudicare il fatto, piuttosto che
esserne solo spettatore (e dunque di verificare una diversa attitudine della
storia italiana), esalta questa parte immortale della Storia, cioè il conoscere
il legamento fatalista della causa e dell’effetto, le ragioni, i fatti
generali, le idee da ultimo ch'essi celano sotto il manto della loro
esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo sceverar con chiarezza e con precisione la
differenza di queste due parti della storia italiana che sono per cosí dire il
corpo e l'anima, la parte materiale, e la parte spirituale di tutti gli
avvenimenti esterni e visibili, che compongono la nazione italiana, secondo che
dice Vico. Il rifiuto, che Cusani trae dalla lezione vichiana, di affidarsi a
pre-mature generalità, e con formole metafisiche per soddisfare il mero bisogno
intellettivo, è una traccia decisiva per comprendere il suo pensiero.
L'annotazione di Gentile, secondo il quale l'osservazione storica non è piú
l'integrazione della psicologia, bensí la costruzione stessa della filosofia,
può commentare l'intero itinerario filosofico di Cusani, che si consuma
nell'arco di pochissimi anni. Il discorso sul metodo che Cusani compie si basas
in dall'inizio su una acquisizione precisa: un sistema o una filosofia
consistono nel loro stesso metodo. Nel primo saggio veramente organico (Del
metodo filosofico e d'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia
che sono si veduri uscir fuori in Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin)
Cusani parla addirittura di un metodo generale, il quale presiede
all'investigazione dell'unica e universal verità. La filosofia è dunque la
regina scientiarum che consente di ricondurre ad “unità” il sapere, e a tal pro-posito
l'assimilazione dei termini è dichiarata apertamente, a proposito dell’analisi
psicologica, la quale segna il punto di partenza della riflessione, ed è la
base unica dell'immenso edificio filosofico, il solo solido fondamento, il suo
atrio e il suo vestibolo. E nel saggio, “Del reale obbietto di ogni filosofia”
(Il Progresso) ribadisce e chiarisce che lo studio de’ fatti della natura
umana, o de’ fenomeni psicologici, vuoto del tutto riuscirebbe, se invece di
tenerlo come base d'ogni ulteriore investigazione, si volesse considerare come
il termine stesso della filosofia. Il secolo decimottavo si è trovato dunque di
fronte al centrale problema del metodo filosofico. Se è vero che nella storia
italiana è tutta quanta la filosofia italiana, occorre riconoscere il merito
insuperabile di quella mente divinatrice e profonda che avea posta nel mondo la
nazione italiana. Vico, definito – nella nota sul Nuovo Dizionario de sinonimi
della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, quell'altissimo lume d'Italia, con
una locuzione che introduce un discorso, ingiustamente trascurato, sulla
tradizione filosofica meridionale, piú volte ripreso dal Cusani. Lo studio di
Vico qui esaminato è appunto il “De antiquissima Italorum sapientia”; nel quale
potentemente convinto della relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il
segnato) e la parola (il segno), fecesi ad investigar quello degli antichi
romani e italici nostri maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua
italiana ch'era nelle bocche volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità
e riflessione, che tanta parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno
di Vico. Si ponga mente alle affermazioni che seguono il passo già citato,
allorché Cusani insiste sul fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto
l'antico (antichissimo) pensiero o sapienza italiana era in quella lingua
italiana ch'egli disamina, e dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se
la lingua italiana non e opera di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo
delle facoltà nell'uomo italiano, se innanzi che venissero adoperate nella
costruzione e nel concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il
necessario strumento espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’
popolo italiano. Insomma, quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del
Cusani, va valutata alla luce di una ispirazione legittimamente riferibile a
Vico. Si veda il Saggio su la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il
Progresso), già sul crinale della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta
all'inizio ritorna sul problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina
l'originale ricerca. Ci ha due spezie di filosofie. La prima spezie di
filosofia studia il fatto, lo disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le
loro differenze o somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia
“elementare” o immanente. L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la
prima, investigando la *natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro
ragione, la loro origine, il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia
trascendente, o filosofia prima. La citazione dai Frammenti filosofici serve in
realtà a Cusani pergiungere alla fondamentale affermazione secondo cui,
esaurita nel secolo precedente la filosofia elementare, e necessario che si
cominciasse asentire il bisogno di nuovi problemi, e che l'ontologia
ricomparisse nel dominio della speculazione filosofica. Insomma la disamina del
fatto immanente elementare (il segno) deve servire a rintracciarne la natura,
le origini, le relazioni, che è il vero fine supremo della filosofia prima. Ma
questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani si dimostra non mero sincretismo,
ma sapiente innesto di elementi concorrenti a rafforzare le personali ipotesi
speculative) soprattutto all’italiano, chi può vantare una tradizione
filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate supremo. Il bisogno
dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la filosofia trova terreno
fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione ontologica de’ filosofi
italiani, e il predominio costante della filosofia prima o trascendente in
Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi che era cagione
universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché fortemente altrove
ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri e quell'indole
elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque quell'indole speculativa
che si è sempre accordata in genere al filosofo italiano, anche quando
discendevano alla pratica ed all'applicazione de’ principi. É di vero se si pon
mente alla Storia, e si consideri che dalla scuola italica di Crotone o da
Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi di Velia (Senone), arrivando
fino all’apparizione di quella meraviglia del Vico, si troverà che la verità da
noi accennata apparisce luminosa e in tutta la sua pienezza. Dunque continuità
della tradizione, rivendicazione della propria originalità speculativa, e
soprattutto applicazione esemplare del metodo storico come proprio della storia
della filosofia. Già affrontando il problema della fenomenologia semiotica,
Cusani non manca di annotare, con una affermazione che resta sostanzialmente
immutata nella sua produzione, a riprova del vichismo naturale della sua
ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente incluso intutta la morale che ne
forma il subbietto perenne, e non si può farne astrazione senza far crollare
tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio Del reale obbietto d'ogni
filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De constantia Philosophiae”
fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana intelligenza, di cui si
ricerca e scopre una storia naturale, una volta esaurita l’investigazione della
natura, ripiega progressivamente verso il subbietto stesso di quelle
investigazioni, e rientrando dall'esterno nell'interno, fa se stessa obbietto
della sua conoscenza. La morale nasconode questo percorso, allorché il filosofo
ritorna sopra se stesso dopo indagare il mondo esterno. La svolta hegeliana può
a questo punto arrivare, ma a sua volta innestandosi su questa ricerca di una
legge onde si regge il mondo. Il dilemma su un oggetto immutabile della
conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso del fatto che il pensiero
trascendente va indagando, diventatra la questione centrale. Spesso Cusani
torna nella sua opera, che riesce difficile in questa sede indagare in
dettaglio, sulle permanenze della storia italiana e sulle variazioni. Nel
Saggio analitico sul diritto e sulla scienza ed istruzione politico-legale
d’Albini, significativamente impostato il tema, e sempre ricorrendo a Vico. In
Italia fu primo tra tutti Vico che intende ala ricerca d'un principio
universale ed immutabile del diritto e che questo ponesse nella ragione, unica
fonte dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il diritto universale,
o filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della cultura filosofica
italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il cui esempio non
frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue teorie
accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori all'intelligenza
comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua particolare
fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di Hegel con la
sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente diciamo fu molto
piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che perfettissimi seguitatori
dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto all'ipotesi del Contratto sociale,
che in il vichismo dunque, se accolto, avrebbe garantito la continuità e
originalità della filosofia italiana. Infatti la cultura napoletana da in
questo senso testimonianza della continuità speculativa della filosofia proprio
attraverso la tradizione vichiana. Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero
l'elemento tradizionale italiano, che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche
quando nel Museo di letteratura e filosofia soprattutto, e la Rivista
napoletana, piú evidente si coglie la lettura di Hegel, Cusani testimonia la
persistenza sicura della lezione vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le
tematiche e gli interessi, nel saggio Della lirica considerata nel suo
svolgimento storico, ove – come ha notato Oldrinisi incontra un esplicito
richiamo alle lezioni hegeliane di filosofia della storia, Cusani riprende con
vigore la questione fondamentale. Ora poiché l'uomo è il subbietto storico per
eccellenza a volere istabilire lal egge che governa tutte le accidentalità
variabili delle vicende umane, la filosofia non puo che cercarla nelle
modificazioni della stessa umanita. Questo punto di partenza, che il Vico, per
il primo, prescrisse alla filosofia della storia, facendo che le sue ricerche
rientrassero nella coscienza psicologica dell’italiano, e si cercasse di
spiegar questo per mezzo della sua propria natura, ma eziandio tutti i fatti di
cui egli è causa, ingenera tanto vantaggio, che da un lato tolse la specie
umana dall'esser considerata come mezzo da servire ad altri fini, e dall'altro
la rialza sopra la natura, di cui vuole sene fare prodotto o artificio. In che
misura l'hegelismo, rintracciabile nella preoccupazione di garantire l'unità
del sistema attraverso l'unità della filosofia, deve tener con toda un lato
della matrice vichiana del pensiero di Cusani e dall'altro dello sforzo di
costruire l'edificio eclettico della filosofia in modo originale? Andrebbe qui
indagato, con cura e minuziosità che questa sede non consente, il tema del
senso comune in piú luoghi richiamato da Cusani. Sipensi al saggio apparso sul
« Museo », Idea d'una storia compendiata della filosofia, proprio dove il tema
della filosofia assume intonazioni sicuramente hegeliane. Purtuttavia, sebbene
l'uomo sia conscio nell'intimo della sua coscienza della sua libertà, e
riconosca in sé stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli è
causa; ciò nondimeno non può non iscorgere eziandio, che la sua volontà è posta
sotto il dominio e la soggezione d'una legge, che diversamente vien denominata
secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica,
contrassegnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora comesenso
comune. L'indipendenza speculativa che Cusani manifesta nel rimeditare tutti i
contributi all'interno della sua riflessione è evidente, e su questo tema
operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando la questione del fatalism
e della libertà (giustamente si ricorda come sia questa la questione piú
importante che si possa scontrare nella filosofia della storia, dai primi agli
ultimi scritti presente inche di sua volone causar in Cusani), nell'Idea d'una
storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa da rimproverare a Vico
stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli storici fatalisti --
cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e sebbene Livio da maggiore
influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano nella storia; ciò nondimeno
non si è data che ai secondi, a cominciar da Machiavello, la nota del storico
fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca nell'italiano il principio e la
legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe però il torto di essere
esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza della natura italiana
sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi studi si affacci il
dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come condizionato: se una legge
governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia è da intendersi
fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa del pensiero? Del
resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due volumi degli Scritti,
forse perché firmata — come del resto altre note raccolte da Ottonello — con la
sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di meteorologia di M.
Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla accostabilità tra
scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della natura e sottoposta
nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana intelligenza punto da
quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue investigazioni, i progressi
rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi invisibili dell'antichità. Il
successo di queste scienze — come di ogni scienza — è nel metodo, cosi che da
meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in questa special branca delle
sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi, contanta certezza de' suoi
risultamenti, che nissun'altra scienza per avventurapuò con questa venire al
paragone. Si badi, le scienze fisiche non costituiscono altro che una special
branca delle conoscenze dello spirito umano. Dunque occorre applicare anche
alle altre branche metodi certie sicuri, come è possibile dal momento che la
storia universale dell'Umanità, che pone la Storia al centro
dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto lo svolgimento
intellettivo della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica, a proposito
della legge della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso storico, Cusani
nota che questo è di proprio particolar dominio di quella scienza, che sorta
gigante in Italia per opera di quella maraviglia del Vico, costituisce ora il
centro intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del secolo. Simili le
espressioni usate nella recensione agli Elementi di Fisica sperimentale,
allorché della storia universale dell'Umanità nota che forma a questi nostri
tempi il punto di mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto il processo
del lavori del secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia compendiata della
filosofia” è a questo punto da considerare fondamentale. La connessione che la
storia ci rivelatra libertà e necessità, ci consente di rintracciare la legge
necessaria del progresso storico. Noi sappiamo che la filosofia del popolo
italiano non è altra cosa se non lo spirito del popolo italianom non già
come si manifesta nella sua religione
spontanea, nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso aveva, artea, un
concertelli avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione politica, nelle
sue leggi e costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile del pensiero
puro, che riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso elevarsi. Cusani
ha, a tal proposito, filosofato nel saggio “Della poesia drammatica” un
concetto che poi si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto la varietà
degli avvenimenti del fatto e della vita stessa della società italiana è
nascosa la legge suprema e metafisica che li governa,e che il filosofo tenta di
scoprire, e ne fa l'obbietto principale delle sue ricerche, ma all’italiano,
ch'é, come dice quell'altissimo ingegno di Vico, il senso della nazione
italiana e dato tutto al piú di sentirla, ma non deve essere suo scopo di
manifestarla, dove all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga, insinuandosi,
una suggestione hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani ribadisce
l'argomento. Se la filosofia non deve fat suo scopo, come altrove dicemmo,
parlando della poesia drammatica, la rivelazione di essa legge secondo la quale
l'umanità si svolge nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà certo
cansarla nella sua manifestazione storica, cioè nel suo progresso attraverso
delle nazio ultima recension Felice Roman son sottoposti alla legge storica in
generale, la quale le impronta quasi una seconda indole, ed è questa poi, che
fa che i filosofi sieno, come diceVico, il senso della nazione italiana.
Sorprendentemente, nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista napolitana
», Liriche del Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura, Cusani
ripete. Vico innanzi tuttia veva formolata questa solenne verità, proclamando
che il filosofo e ilblematica sblata
questa sojeni filosofi ne sinnestare Hegedea d'uneinnanzi Qui l'eclettismo
cusaniano ha voluto innestare Hegel sulla tradizione italiana custodita e
proclamata, specie allorché, nella idea d'una storia, riprende il tema di una
ragione fondamentale, di una idea filosofica fondante le manifestazioni della
vita umana, per cui la religione e soprattutto la filosofia già ricordata sono
riconducibili ad una legge razionale. Un'altra citazione, non giustificata in
questa sede, si rende necessaria per la sintesi che riesce a conseguire, in
specie sul tema del senso comune. Allorché il movimento filosofico o riflessivo
passa dalla fede alla scienza,e dalle credenze popolari alle idee della
ragione, e si trova d'essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima
sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduce nell’istituzione, nella costume, nella
filosofia e e nelle industria, egli fatto quasi banditore della verità
scoperta, l'annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero
potuto pervenire sino a quel segno che tardi e lentamente. È in questo senso
che il filosofo accelera il movimento delle masse, e da qui nasce ancora che
egli stesso e indugiato nel movimento che è loro proprio. Dappoiché se le masse
accettano la nuova luce che loro arreca il filosofo, sono d'altra parte lente e
ritenute nell'abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha rese abituali, e
bisogna innanzitutto che esse comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo
comprendanoa loro modo, cioè facendo che discenda in certa guisa dalle forme
astratte della scienza alle forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo
comprende e spiega nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli
crede istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del
senso comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato
Vico e Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a
tuttaprima poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo
dell’istituzione, in quanto che queste venivano considerate come cose non
procedenti dall’italiano stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none
che la manifestazione esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del
popolo italiano, libertà umana nella creazione degli avvenimenti del mondo.
Come si risolve pertanto il problema della libertà? Si pone inquesti termini
l'interrogativo. La ragione è dunque il fondamento della libertà; ma ragione e
libertà sono da intendersi esclusivamente riferitisare appunto che il problema
della libertà investa soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o
collettiva) che ha per teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia
visuale che egli propone della storia globalmente intesa, la libertà non è solo
quella dell'individuo o soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti
dell'istinti -- vità, ma anche quella che costituisce la linea intelligibile di
tutto lohere nelle pella sciente quella con il. La soluzione che si può
intravedere in Cusani, concorde ed omogenea allo sviluppo della questione della
scienza e del metodo nell'intera,
intensa elaborazione culturale di Cusani è forse quella contenuta nella Idea
d'una storia. Resta certo il rammarico del mancato approfondimento delle tante
tematiche che a questa risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica
e sulla estetica. Ma la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo
significativa. L'ordine adunque degli avvenimenti, la provvidenza, o legge
dell'intelligenza umana, è quella legge che Iddio stesso ha imposta al mondo morale, e che non
differisce dalle leggi della natura, se non per questo, cioè che la legge imposta
al mondo morale non distrugge punto la libertà individuale, essendo ché è
permezzo della libertà che si compiono i destini della intelligenza, laddovele
legge della natura e compita senza il concorso della libera volontà.
SCIENZA MORALE E FILOSOFIA CIVILE. “Quando gia la stagione eclettica andava
verso il tramonto”. 1. Cusani si volgeva al metodo storico per tracciare la via
sicura che consentisse, come scrisse nel 1842, all’idea filosofica di “elevarsi
al grado di scienza che si dimostri per se stessa” 2. Giacche se evero che “la
decomposizione (...), o l’analisi psicologica del fatto primitivo della
coscienza e la condizione necessaria d’ogni riflessione, che ritorna sul
proprio pensiero; il che e dire ch’e la condizione necessaria d’ogni
filosofia”, ancor piu essenziale e comprendere che “se l’osservazione minuta, e
l’analisi profonda di tutte le singole parti di quella sintesi primitiva della
coscienza e il punto donde bisogna muovere, perche si possa riuscire a bene
nelle speculazioni filosofiche, essa non e certo al termine; perocche dopo aver
esattamente analizzato tutte quelle parti, ed osservatele da tutti i lati, egli
e mestiere procedere alla cognizione de’ riferimenti che l’une hanno colle
altre, perche si possa risalire a quella ricomposizione del tutto primitivo,
che e lo scopo ultimo della filosofia” 3. E questo il contributo essenziale che
la storia fornisce e senza il quale ogni itinerario verso la conoscenza e
condannato a restare monco, e la scienza filosofica e destinata ar estare
preclusa. Infatti 1. F. Tessitore, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia
napoletana nel primo Ottocento, Napoli, 1988, p. 58. 2 Della scienza
assoluta (Discorso I), in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II, n. 8, vol.
IV, 1842, p. 116. Al Discorso I non seguirono altre parti. 3. Del metodo
filosofico ed'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia che sonosi
veduti uscir fuori in Germania ed in Francia, in “Progresso”,
XXII, 1839, p. 178. Sul pensiero filosofico del
Cusani cfr. G. G, Storia della
filosofia italiana , Firenze, 1969, vol. II, pp.
557-563; S. Mastellone, Victor Cousin e il Risorgimento italiano,
Firenze, 1955, pp. 194-210; S. Landucci, Cultura e ideologia
in Francesco De Sanctis , Milano, 1964, pp.
70-74; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli, Milano, 1964,
pp.32ss; ID., Il primo hegelismo italiano, Firenze, 1969, pp. 40-64 (della
Introduzione) e pp.125-127; F. Ottonello, Introduzione a S. Cusani, Scritti,
Genova, 1979, voll. 2; F. Tessitore, Op. cit., pp. 64-65.2 “ne e a dire che la
psicologia potrebbe far da se, e proseguire il suo lavoro senza punto brigarsi
della storia; perciocche oltre i danni che potrebbero scaturirne eche noi piu
sopra dicemmo, si eviterebbero i vantaggi che a lei verrebbero dalla storia,
sarebbero infiniti”4. Proprio in relazione a questa fase del pensiero del
giovane napoletano, Giovanni Gentile annota che “pel Cusani, l’osservazione
psicologica diventa la riflessione che rifa la storia dello spirito, una
fenomenologia; el’osservazione storica non e piu l’integrazione della
psicologia, bensi la costruzione stessa
della filosofia” 5. L’eclettismo non poteva piu,
a questo punto, rispondere all’orizzonte intravisto, cosicche “il Cusani,
dopo il 1840, staccatosi dall’eclettismo si diede allo studio della filosofia
hegeiiana” 6. 4 Del metodo filosofico e d'una sua storia, cit., p.183.
Poche righe piu sopra Cusani aveva annotato che “dare una ripruova e un
confronto all’osservazione psicologica, che sia capace di ritrarla
dall’errore, allorche per manco d’esperimento essa cada nell’incompleto,
sarebbe per avventura il regalo piu sicuro, e una norma certissima del metodo
per ben filosofare. E questa ripruova adunque che ci viene insegnata dal metodo
storico, la cui importanza non e certo minore dell’altro, e l’esito altrettanto
giusto e sicuro. (...) Certo che dall’aver dimenticala Storia
ne son proceduti due ordini di mali:
il primo, perche si e rotta quella legge di continuita nel
progresso de’ lavori dell’intelligenza, e si e terminato donde si sarebbe
dovuto cominciare; l’altro perche lo Spirito Umano non si e potuto correggere
delle sue deviazioni nello svolgimento intellettivo, mancandogli la cognizione
de’ suoi passati travisamenti. Nella storia adunque e tutta quanta la
filosofia, e riconoscerla nella storia econdizione non evitabile d’ogni
filosofia” (pp. 182-183). 5 G. Gentile, Op. cit., vol.I, p.639. Lo sforzo di
costruire “l’edificio eclettico della scienza” e condotto da Cusani negli
scritti pubblicati tra il 1839 ed il 1840. In particolare, oltre che nel citato
Del metodo filosofico (pp. 176-215), nei saggi Del reale obbietto di ogni
filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII,
1839, pp.27-60; Della scienza fenomenologica e dello studio
dei fatti di coscienza, in “Progresso”, XXIV, 1839, pp.
28-83 (I), e XXV, 1840, pp.16-37(II) e 187-247 (III); D'un'obbiezione
dell'Hamilton intorno alla filosofia dell’Assoluto, in “Progresso”, XXVI, 1840,
pp. 5-31; Della logica trascendentale, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 161-187.
6 S. Mastellone, Op. cit., p. 210. Sulla cosiddetta “svolta hegeiiana”, oltre
alle valutazioni degli autori le cui opere sono state in precedenza indicate
(nella nota 2), cfr. ancora S. Mastellone, Op. cit., p. 202: “Cusani, che pure
era stato un divulgatore di Cousin, in un articolo apparso nella Rivista
napolitana (1841) dal titolo Del modo da trattare la scienza degli esseri
(ontologia), disegno di una metafisica, alludendo ai rapporti tra l’eclettismo
francese e l’ontologismo tedesco, ossia allapolemica tra Cousin e Schelling,
poneva alcune limitazioni al suo eclettismo (...) Si prepara quel fermento
spirituale che prendera forma coll’hegelismo, il quale, se trasse la prima
radice dal pensieroco usiniano, si rivolgera poi contro di questo”. Infine mi
permetto di rinviare a G. Acocella, Vico e la storia in Cusani, in
“Bollettino del Centro di studi vichiani”, XI,
1981, pp. 214-221, in specie pp. 217-218. Gia nel 1839, in pieno periodo
“eclettico”, Cusani aveva sottolineato il ruoio unificante della
filosofia, e aveva concluso che “la storia della filosofia, la quale disegna
come in una tela tutto lo svolgimento progressivo dello Spirito Umano, non e
che la manifestazione di quel potentissimo bisogno che ha Cuomo di conoscere e
di sapere” 7. In questa direzione, dopo che lo Spirito Umano ha rivolto il
primo scopo della sua investigazione nel “mondo degli obbietti”, ed una volta
esaurita la “investigazione della natura lo Spirito “si viene gradatamente
ripiegando inverso il subbietto stesso di quelle investigazioni, erientrando
dall’esterno nell’interno, fa se stesso obbietto della sua conoscenza”. E cost
“di qui nascono, come da una comune radice, tutte le scienze morali” 8. La
conclusione “eclettica” di Cusani si arricchisce di motivi che preparano
l’accoglimento della lezione hegeliana, la quale di sicuro influenzera gli
scritti successivi al 1840, senza liquidare gli altri elementi che
costituiscono l’originalita del filosofo. L’immenso bisogno di conoscere che
tormenta e percorre la “storia naturale dell’intelligenza” anela alla
ricomposizione unitaria che costituisce la scienza: “Questi tre grandi obbietti
adunque, Dio, l’Universo e l’Umanita; l’assoluto, il non me, e il me, che
racchiudono tutto il campo delle speculazioni, costituiscono l’obietto di tutta
la scienza umana. (...) E si potrebbe da’ tentativi diversi, e da’ diversi
risultamenti ottenuti intorno a questo problema, cercar di fare un ordinamento
compiuto di tutte le scuole filosofiche che dall’antichita insino a’ giorni nostri
sonosi succedute nella Storia dello svolgimento naturale dell’intelligenza” 9.
Rispetto a questo proponimento la lettura di Hegel - del quale pur si doveva
denunciare che fosse partito “da cid che ci ha di piu astratto nella ragione, e
di piu indeterminato, cioe dal pensiero dispogliato di tutte
le cose, e ridotto a pensiero puro, a idea” - offriva contributi rispetto ai
quali Cusani gia dichiarava il suo esplicito interesse: “Ponendo come base del
suo edificio filosofico l’identita dell’idea e dell’essere, del pensiero
e della realta, del subbiettivo e dell’obbiettivo (...) ne procede che cid
che evero del pensiero, evero eziandio della realta, e che le leggi della
logica sono le leggi ontologiche, ed essa stessa si converte in una vera
ontologia” 10. 7. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento
a poterlo raggiungere, cit., p. 27. 8. Ibidem, pp. 28-29. “Giunto a
quest’altezza, lo Spirito Umano tenta d’impadronirsi quasi dell’infinito,
cacciarsi nel seno stesso di Dio, e discoprire nella loro
sorgente le leggi onde si regge il mondo” (p. 29). 9. Ibidem, p. 30. 10. Del
metodo filosofico, cit., pp. 210-211. In queste pagine Cusani fornisce una 4 II
principio di una idea filosofica capace di fondare le manifestazioni della vita
umana, dunque una ragione “non dispogliata delle cose”, diviene per Cusani
l’efficace punto di equilibrio del suo itinerario tra eclettismo ed hegelismo,
in grado di assicurare gli orientamenti etici di ciascuna eta della storia. Nel
1841 Cusani, nel saggio sulle relazioni tra economia e morale, scrive
significativamente che “Ora non ci ha e non puo esserci scienza morale senza un
principio assoluto e necessario, perche l’assoluto e il necessario e lo scopo
ultimo e il termine degli sforzi del pensiero, e1’ideale della scienza” 51.
Nella stessa prospettiva spiegava, in un corposo saggio pubblicato l’anno
successive 12, il valore filosofico che assumeva la ricerca dei fondamenti
etici della societa, asserendo che “di fatto non si puo concepire una societa
che non abbia un pensro generale, cioe a dire un insieme d’idee acquistate
senza ricercare senza scopo, e che informino tutta la sua vita; perciocche
bisognerebbe allora supporre che possa esserci una societa senza religione,
senza istituzioni politiche, senza costumi e senza industria, non essendo altra
cosa le istituzioni, la religione naturale, l’industria e i costumi, che
effetti naturali delle idee e delle credenze comuni” 53. La filosofia di un
popolo, pertanto, e il pensiero di quello stesso popolo, non nelle semplici
forme nelle quali si manifesta nella religione o nelle istituzioni o nelle
stesse arti, o nel diritto e nei costumi, ma con quei caratteri interpretazione
della filosofia tedesca, in sintonia con il tentativo di rintracciare l’unita
del pensiero perseguita dall’eclettismo. E un’ interpretazione che,
nata in terra di Francia, trovo piu generosa fortuna nell’hegelismo napoletano
da B. Spaventa in avanti. Ecco la pagina del Cusani: “Dappoicche la filosofia
del Fichte, che non era che la filosofia stessa del Kant, risguardata dal punto
di vista subbiettivo, e quella dello Schelling, che nelle sue conseguenze non
fu che il criticismo risguardato dal punto di vista obbiettivo, doveano essere
entrambe porzioni di quel medesimo tutto, che Hegel abbraccio nella sua
filosofia dell’idealismo assoluto. Egli parti dalla ragione, e dal pensiero, ma
da cio che ci ha di piu astratto nella ragione, e di piu
indeterminato, cioe dal pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a
pensiero puro, a idea” (p. 210). 11. Dell'economia politica considerata
nel suo principio, e nelle sue relazioni colle scienze morale in “Museo di
letteratura e filosofia”, a.I, n.1, vol. I, settembre
1841, p. 54. Cfr. G. Oldrini, ll primo
hegelismo italiano, cit., pp. 48-49. In nota scrive l’Oldrini che
“il saggio parafrasa e riadatta, per molta parte, concetti delle lezioni
sull’economia smithiana di Victor Cousin” (p.48n.). 12. Idea d’una storia
compendiata della filosofia, in “Museo di letteratura e filosofia”, a, I, n. 2,
vol.I, novembre 1841, pp.113-135 (parti I-II); a I, n. 3, vol. II, gennaio-
febbraio 1842, pp.3-8 (III); a. I. n. 4, vol. II, marzo-aprile 1842, pp. 97-120
(IV, V.VI). 13 Ibidem, p. 119. “lo svolgimento adunque spontaneo e istintivo; e
l’altro filosofico riflesso, che entrambi non si effettuano che sotto le leggi
del pensiero umano, costituiscono il meccanismo, se possiamo cost dire, della
vita sociale dei popoli” (p.121). general del pensiero che di quelle forme
costituiscono la fonte; eppure il “progresso” e reso possibile solo
dall’incontro tra due diverse componenti “Allorche il movimento filosofico o
riflessivo passa dalla fede alla scienza, ed alle credenze popolari alle idee
della ragione, e si trova d’essere giunto a scoprire il pensiero celato
dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduceva nelle Istituzioni, nei
costumi, nelle Arti e nelle Industrie, egli fatto quasi banditore della verita
scoperta, l’annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero
potuto pervenire a quel segno che tardi e lentamente” 14. Il debito nei
confronti di Vico appare evidente, tanto piu che - indirizzandosi l’interesse
di Cusani verso le esperienze umane del diritto e dell’economia - le influenze
hegeliane si rivelano in realta filtrate dalla tradizione della filosofia
meridionale, da Vico a Filangieri a Pagano 15. La filosofia e la scienza
compongono insieme la trama che segna l'itinerario travagliato e non lineare
della storia verso il “vero”: “i filosofi accelerano il movimento delle masse,
ed a qui nasce ancora che essi stessi sono indugiati nel movimento che e loro
proprio. Dappoicche se le masse accettano la nuova luce che loro arrecano i
filosofi, sono d’altra parte lente e ritenute nell’abbandonare le vecchie
opinioni, che il tempo ha reso abituali, e bisogna innanzi tutto che esse
comprendano cio che loro vien rivelato, e lo comprendano a loro modo, cioe
facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza, alle
forme pratiche del senso comune” 16. Il tema del senso comune - cosi
tipicamente vichiano e tanto frequentemente richiamato in piu punti dell’opera
cusaniana - costituisce un elemento fondamentale dell’itinerario che il
filosofo napoletano svolge, rivelandosi capace di svelare la trama della
ragione nella storia. Cosi come nella vita sociale le “branche dell’attivita
umana” precedono la filosofia e la storia [14 Ibidem, p. 121. 15 Cfr. G.
Acocella, Op. cit., pp.216 e 217-218. 16 Idea d’una storia compendiata, cit.,
pp. 121-122. “Insomma non eche dalla combinazione di questi due movimenti che
progrediscono le idee umane, edal progresso delle idee umane nasce la
trasformazione e il miglioramento successivo delle leggi, dei
costumi e delle istituzioni, che sono altrettanti elementi costitutivi della
condizione umana”. Sul senso comune cfr. p. 128: “Purtuttavia, sebbene 1’uomo
sia conscio nell’intimo della sua coscienza della sua liberta, e riconosca in
se stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli e causa; cio
nondimeno non puo non iscorgere eziandio, che la sua volonta e posta sotto il
dominio ela soggezione d’una legge, che diversamente vien denominata secondo
che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica, contrasse-gnandosi
ora come legge morale, ora come ragione, ed ora come senso comune”] ria di
quelle precede la storia di questa 17, cosi “l’istoria non si realizza che dopo
un lungo proceder della scienza; perocche se prima non si sono osser-vate molte
variabilita successive, non si sente il bisogno di una storia qualunque; ma
quando non si vuol considerar altro che l’essenza stessa, ola materia di che
componesi la storia della filosofia, si puo dire che essa comincia colla
scienza” 18. Cosl per esempio, rivolgendosi l’attenzione alle esperienze umane
piu rilevanti, per quel che riguarda l’economia politica occorre indagare le
leggi oggettive dell’agire economico, giacche le azioni umane - pur
tenendo conto della liberta che le generavanno ricondotte sempre alia ragione
(o si voglia dire legge morale o senso comune). Massimamente con l’economiala
questione centrale di come si compongano liberta dell’agire individuate e
conseguimento di leggi oggettive dell’economia si pone come un nodo centrale
della scienza morale, nel quale e coinvolto lo stesso tema della relazione tra
natura e ragione. Infatti, “primieramente, e noto che il combattimento, che
l’uomo, forza libera e intelligente, sostiene contro la natura per dominarla e
trasformarla ai suoi bisogni, costituisce un ordine distinto di fenomeni e
d’idee, che rientrano nel dominio dell’Economia politica”, la quale deve pur
pervenire a individuare “leggi necessarie, che stanno a capo della
produzione, consumazione e distribuzione delle ricchezze” 19.
L’interesse mostrato da Cusani verso Adamo Smith e motivate proprio
dal legame tra la liberta umana -che si esplica nel lavoro -e le leggi
necessarie dell’economia, giacche il fondamento del valore Smith ha posto nel
lavoro 20. Ma sbaglierebbe chi si fermasse al lavoro, perche “quantunque il 17
Cfr. Ibidem, pp. 124-125: “Perciocche aquella stessa guisa che nella vita
sociale dei popoli lo stato, le industrie, le arti e la religione precedono la
filosofia, eziandio la storia di tutte queste branche dell’attivita umana
precede quella della filosofia, ultima per avventura a prender corpo nello svolgimento
intellettuale dell’uomo”. 18 Ibidem,p. 124. 19 Dell’economia
politica,cit., p. 41. 20. Mentre Quesnay, con la sua scuola, “tenne che i
prodotti del suolo fossero la sola fonte, e il vero principio del
valore”, invece “Adamo Smith elevo il principio del valore, partendo da questo,
che cio& il lavoro d’una nazione costituisce la sorgente di tutte lc sue
ricchezze”, e quindi che “i bisogni dell’uomo non sono considerati dallo Smith
che subordinatamente al lavoro; il che e molto piu ragionevole che subordinare
il lavoro ai bisogni, come eintervenuto al Say e al Tracy, i quali cio non di
meno hanno comune con esso lo stesso principio del lavoro” (Ibidem, pp. 42 e
43). Nell’esaminare la formazione dela scienza economica Cusani riafferma il
principio della tradizione italiana (come per la scienza della legislazione
ricorda in particolare Filangieri, Pagano e Romagnosi) asserendo:
“L’Economia politica nata adunque in Italia, lavoro nel suo lento o
accelerato esercizio sia quello che ingeneri la ricchezza delle nazioni, e
misuri in un certo modo, esi no a un certo segno, il valore delle cose in
ragione delle difficolta e degli ostacoli che incontra nella sua effettuazione;
purtuttavia esso non deve essere considerato, che come l’effetto della liberta umana,
ultimo principio a cui devesi ricondurre la scienza” 21. Attraverso questo
principio Cusani ricostruisce il percorso che dalla liberta, attraverso la
proprieta, giunge alla formulazione di una scienza morale la quale, proprio
perche scienza, e la “cognizione dell’assoluto invariabile, ultima ragione
delle cose” 22. Se infatti l’osservazione si conferma indispensabile alla
“investigazione scientifica, pure resta essenziale ribadire la ricerca di un
principio morale assoluto perche si possa dare scienza in questo ambito. Le
considerazioni che Cusani - partendo dall’apprezzamento del principio secondo
il quale “senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la possibilita d’una
scienza morale” e quindi dell’imperativo categorico 23 - riferisce all’opera di
Kant, mettono a fuoco appunto il significato della liberta per la ragione, ed i
criteri per la individuazione del principio morale assoluto: “Egli
e percio, che rifermossi che il fatto della liberta, che 1’osservazione ci
rivela nel fondo della coscienza come distinto dalla fatalita delle nostre
passioni e delle nostre SENSAZION, e che eguaglia in certez- massime per opera
del Serra, non si svolse dappoi che in Francia nella celebrata setta degli
Economisti, dai quali attinse gran parte delle sue idee lo Smith”(ivi,
p. 41). Sull’interesse della cultura napoletana per il ruolo svolto da
Serra, considerato precursor dello Smith, mi permetto di rinviare a G.
Acocella, La storia degli scrittori politici italiani dopo la “svolta” del 1830
a Napoli, in “Archivio di storia della cultura”, a. VIII, 1990, pp. 69ss. 21
Ibidem, p.45. “Togliete la liberta nell’uomo, e voi avrete esaurito nella
sua sorgente ogni lavoro possibile, essendone essa sola la causa, e
la causa vera, reale, e non immaginaria. Fare adunque l’analisi della liberta,
come produttiva del valore delle cose, sarebbe veramente farla psicologia
dell’Economia politica”(ivi, pp. 45-46). 22 Ibidem, p.54:
Questa verita conosciuta dagli antichi, i quali tenevano non potersi dare scienza
del fenomenico variabile, perciocche il fatto non e il principio ela ragione di
se stesso, estata chiaramente riprodotta dai moderni, quando hanno sostenuto
che la scienza non eche la cognizione dell’assoluto invariabile, ultima ragione
delle cose. Pure, se il fatto non e la scienza, ecertamente prima condizione e
quasi materia della scienza, potendo solo cadere sotto l’occhio
dell’osservazione, e l’osservazione ela vita d’ogni investigazione scientifica.
Tutto cio essendo or amai stato messo fuor di dubbio nel campo dell’intelligenza,
ha fatto, si che nella scienza morale si e cercato il principio morale
assoluto, ed il fatto proprio che n’e la condizione”. 23 Ibidem: “Primamente
non potevasi non vedere che senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la
possibilitad’una scienza morale, e che senza la ragione, che sola puo comandare
con un imperativo catagorico, non poteva darsi obbligazione di sorta”. za
tutti gli altri fatti, non rimanendo punto una semplice credenza, come volevail
Kant, dovesse esser solo la condizione del principio morale, trasformato in
legge dalla ragione” 24. Poteva Cusani, in virtu di questa acquisizione,
rintracciare finalmente nella liberta gli orientamenti dell’agire morale e
scoprire il principio morale della stessa economia: “Di qui il principio:
essere libero, conservati libero, cioe resta fedele alla natura, ch’e la
liberta; fu la sorgente d’ogni obbligazione e d’ogni moralita; identificandosi
colla massima degli stoici: sequere naturam. Questo principio della morale
generale stabilito, si vede apertamente che una delle prime relazioni
dell’economia colla morale, sta nell’identita del principio stesso, o meglio,
nel fatto della liberta; solo diversificando, perche l’una lo stabilisce come
trasformato dalla ragione in legge, e 1’altra lo accetta come dato nelle
applicazioni della vita”25. L’unita della scienza, che il “fatto” della
liberta - svelatosi principio unificante dell’azione umana - realizza, e stata
resa possibile dal superamento della “direzione scettica” nella quale Cartesio
getto la filosofia moderna, rendendola incapace di fondare l’oggettivita,
partendo dal soggetto 26, e dunque la comprensione del mondo esterno. Ora,
finalmente, la filosofia, rivelatasi scienza, verifica che “lo Spirito umano e
uno, identico a se stesso in tutti i tempi, in tutti I luoghi, appo tutti
gli uomini; puo esservi varieta nelle sue determinazioni, ma
l’essenza resta immutabile attraverso di tutte queste apparenti mutazioni. La
scienza non rappresenta che l’essenza, ed e percio che l’idea filosofica, o lo
spirito filosofico non e che uno e sempre identico a se stesso” 27. Come per
l’economia anche per il diritto la liberta dell’individuo si afferma per Cusani
quale principiocapace di fondarel’agire morale, confermando l’unitarieta della
scienza. Dedicando nel 1842 una lunga nota in tre parti,
benche incompiuta, all’opera di Giovanni Manna
28, e dopo aver 24 Ibidem, “Dappoiche non potendosi dalla sensazione trar
niente che avesse forza d’obbligazione, e vice versa la ragione scorgendo nel
fatto della liberta una superiorita di principio che procedeva dalla
stessa personality umana, potette scorgervi
il dovere asso-luto di mantenere la
dignita della persona sulla materia, e della
liberta sulla fatalita” (ivi). 25 Ibidem, p. 55. “Sicche, da
questo lato risguardata, l’Economia potrebbe esser considerata come una
derivazione della morale nelle sue piu minute conseguenze” (ivi).
26 Cfr. Della scienza assoluta (Discorso
I), cit., p. 112. 27 Ibidem , p. 116.
Sul punto cfr. G. Oldrini, Gli hegeliani di
Napoli, cit., pp.58-59. 28 Del diritto amministrativo del Regno
delle Due Sicilie. Saggio teoretico storico e positivo, in “Museo di
letteratura e filosofia”, a.I, n. 3, vol.II, gennaio-febbraio
1842, pp.38-45; a.I, n.4, vol.II, marzo-aprile 1842,
pp. 167-172; a. I, n. 5, vol. Ill, maggio- Scienzci 9 affrontato la
questione della individualita nella prima parte, dichiarando il proprio
interesse per le “partizioni teoriche del diritto amministrativo”, Cusani
decisamente ritorna sul problema della scienza avvertendo pero che “nissun
problema che tocchi la scienza sociale pud risolversi, senza aver prima
risoluto l’altro della destinazione dell’individuo, che li contiene e
gl’implica, abbracciandoli tutti nel suo seno” 29. Cosicche si puo considerare
che “se la scienza divide eperche questa e la sua condizione di esistenza, e
perche l’umano intelletto ha bisogno di successiva osservazione, e di notomia,
direi quasi, della cosa che vuol conoscere e sapere. Ma in sostanza ci ha unita
fondamentale qui, come in tutto, e la scienza umana non tende che continuamente
verso questa unita, che la sola ontologia pud promettersi” 30. II richiamo,
costante in tutta la sua opera, all’ontologia consente a Cusani di riaffermare
il principio assoluto e generale da cui discende coerentemente l’ordine morale
che la scienza pud infine conoscere. La visione unitaria perseguita - che,
tanto nella fase eclettica quanto in quella segnata dalla lettura di Hegel,
pone in primo piano la questione dei fini razionali della storia e dell’azione
umana - rivela pero con evidenza il debito comunque contratto nei confronti,
oltre che di Herder, soprattutto di Vico, rimeditato autonomamente ea contatto
con le suggestioni presenti nell’eclettismo napoletano 31. Recensendo nel 1843
la Storia della filosofia di Pasquale Galluppi, Cusani chiarisce in apertura
che “s’egli e vero che la storia della filosofia, come noi abbiamo affermato in
uno de’ fascicoli precedenti non ese non l’idea stessa, e lo spirito dell’umanita,
non quale si rivela nelle sue isti- giugno 1842, pp. 33-37. L’ultima
parte pubblicata concludevac on le parole “sara continuato” (n.5, p.37). Non vi
fu alcun seguito. Gia concludendo la prima parte, pero, Cusani, avvertiva che
“per fame un’analisi compiuta” si era ripromesso “di venir discorrendo di
ciascuna parte in particolare, ma si perche l’opera non evenuta fuori ancor
tutta per le stampe, e si perche la parte positiva del diritto amministrativo
non e in relazione coi nostri studi, cosi ci terremo contend solo ad esaminar
per ora la sola quistione che risguarda la scienza della pubblica
amministrazione, riserbandoci di parlare della parte storica quando l’autore ne
avra fatto dono al pubblico” (n. 3, p. 45). Sul Manna e sulla sua opera cfr. F.
Tessitore, Della tradizione vichiana edello storicismo giuridico nell’Ottocento
napoletano,in Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta,
Napoli, s. a. (1962), pp. 118 ss.; G. Rebuffa, L'opera di Giovanni Manna nella
formazione del diritto amministrativo italiano, in La formazione del
dirittoamministrativo in Italia, Bologna, 1981, pp. 33-71. 29 Del diritto
amministrativo, cit., n. 4, p. 168. 30 Ibidem, p. 169. 31 Cfr. F. Tessitore,
Momenti del vichismo giuridico-politico nella cultura meridionale, in
“Bollettino del Centro di studi vichiani”, a. VI, 1976, pp.101ss. Sul vichismo
del Manna cfr. pp. 99-100. tuzioni, nelle arti, nelle legislazioni, ma sibbene
nell’asiio inviolabile del pensiero puro, del pensiero in se; deve esser vero
eziandio che essa non e una raccolta vana di opinioni, nata per soddisfare la
curiosita di alcuni uomini, ma viceversa, secondo che diceva l'Herder, la
catena sacra della tradizione, che opera in massa, con leggi necessarie, e non
a caso ne isolatamente” 32. Si pud pertanto comprendere anche la radicale
nettezza con la quale nella nota sul Manna Cusani afferma che ‘l’ontologia
adunque e la scienza prima, che facendoci conoscere la determinata essenza
degli esseri, ci conduce a discernere il fine a cui essi sono destinati (che e
pure un problema ontologico) e che diventa problema morale se trattasi della
destinazione dell’uomo sopra la terra, problema religioso se trattasi di questa
stessa destinazione innanzi e dopo la vita terrena; problema di filosofia di
diritto, che abbraccia il diritto individual, il diritto pubblico, e il diritto
internazionale, se trattasi della giustizia reciproca che gl’individui, lo
Stato e le nazioni, debbono somministrarsi per raggiungere la loro
destinazione. Questa e l’unita della scienza, la quale non e che un pallido
riflesso dell’unita stessa della causa prima”33. Dove Vico e Herder servono al
disegno hegelia- [32. Recensione a P. Galluppi, Storia della filosofia,
Prefazione, in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II. n. 9, vol. IV,
gennaio 1843, p.222. Su Herder e Vico cfr. Idea d’una storia
compendiata della filosofia, cit., pp. 134-135: “Ora questa legge che governa
lo svolgimento dell’umanita, e che costituisce la filosofia della storia, non
poteva che cercarsi successivamente in Dio, nell’uomo, enel mondo,
essendo questi i tre obbietti che si appalesano all’ntelligenza (...) Di qui
nasce che il Bossuet sia stato il primo filosofo della storia, trovando nella
Bibbia la soluzione del problema. A questi successe il Vico, che cerco
nell’uomo il principio e la legge dello svolgimento dell’umanita. E da ultimo
l’Herder che voile trovarlo nel mondo fisico, e nella combinazione speciale
d’influenze esterne. (...) Noi diciamo, che ognuno di essi e stato esclusivo,
in quanto che l’Herder non ha riconosciuta la parte che rappresenta l’uomo
nella evoluzione storica dell’umanita, ed il Vico, in quanto che non ha
riconosciuto l’nfluenza della natura esteriore; ed entrambi poi non
disconoscendo la parte che rappresentala Provvidenza, l’hanno subordinata
all’uomo e alla natura, mentre il Bossuet impadronendosi di questa, ha tutto
subordinate ad essa”. 33 Del dritto amministrativo, cit., p. 169. Sul
problema dello Stato cfr. p.170: “io non so concepire, come l’arte, la scienza,
la morale, e la religione debbano esser fine a loro stesse, e lo Stato debba
esser considerate come mezzo per la societa umana, quando il suo scopo non e
che uno scopo razionale, come quello che tocca in dominio alle altre sfere
dell’attivita sociale. Ne solo io dico che lo scopo e razionale ed ha gli
stessi caratteri di quelli che spettano alle altre sfere dell’attivita sociale,
ma che e identico con tutti nel fondo, e che se uno e il bene assoluto, o
l’ordine assoluto, che riferma lo scopo e la destinazione dell’uomo, non si pud
far dello stato un semplice mezzo ed una via per la conservazione dell’umanita
perfettibile”. no della scienza del’essere. Vale, pero, sottolineare
come, nel confronto con Galluppi, istituito nella nota sopra ricordata, il tema
del “vero” costituisca un interessante nodo che chiarisce il modo con il quale
Cusani interpreta Vico ed il problema della storicita dell’esperienza. Al
Galluppi che affermava che “la storia della filosofia non puo trattarsi
apriori, ma deve dedursi dall’osservazione dei fatti, perche altrimenti avremmo
dovuto trovar prima i problemi relativi alla scienza del pensiero, e poi quelii
relativi all’universo”, Cusani obietta “che la storia della filosofia e
identica colla scienza”, e pertanto “troveremo che il primo mezzo di
trattar la storia della filosofia e il metodo a priori, il quale non deve
ch’esser verificato dall’esperienza” 34. A Cusani, naturalmente, sono chiare le
novita apportate dalla modernita e le conseguenze che ne sono scaturite,
dal momento che la filosofia aveva nell’antichita la definizione di scienza
dell’universale, contrapposta a quella “ricevuta presso i moderni” della
filosofia come scienza del pensiero - per cui la “definizione degli antichi si
faceva per mezzo dell’ontologia, quella de’ moderni viceversa si fa per
mezzo della Psicologia” - ma resta pur sempre certo che in realta “l’ontologia
e la Psicologia non sonoche due determinazioni, o aspetti diversi dell’idea
filosofica, in quanto che l’una considera l’obbietto in se, e per se, l’altra
questo obbietto che divien subbietto” 35. La scienza morale che Cusani intende
definire, dunque, verifica nell’esperienza - nelle diverse “branche di
attivita” nelle quali si manifesta l’azione umana - il principio assoluto e
invariabile che da unita e senso alla scienza moderna. Cosi “l’Economia
politica non dovrebbe rappresentare che quella stessa parte, che rappresenta la
Politica, quanto alla filosofia del diritto. Perciocche laddove questa ci
rivela l’ideale a cui possono pervenire le societa umane, e la politica
determina le relazioni che passano tra l’attuale esistenza di esse, e l’ideale,
poggiando sopra queste relazioni i cangiamenti che possono patire le
istituzioni sociali; l’Economia, rispetto ai monopoli ed agli ostacoli che si
frappongono al libero esercizio del commercio, deve far ragione, prima di
effettuare il suo principio, di tutti gl’interessi attuali della societa dove
questi sistemi proibitivi sono introdotti” 36. D’altro canto la natura di
scienza morale dell’economia (come del diritto o della politica) risulta
evidente nella concezione cusaniana di una filosofia civile moderna:
“come il principio morale riferma la destinazione dell’uomo che precede sempre
dalla sua natura, e questa natura non essendo che [34. Recensione a R Galluppi,
cit., p. 230. 35. Ibidem, p.227. 36. Dell’economia politica, cit., p. 53.
doppia, coesistendo in lui lo spirito e la materia, l’anima e il corpo, la
liberta e la fatalita (sebbene la materia e il corpo non siano che l’inviluppo
esterno della natura umana, stando la sua essenza tutta nella personalita nella
liberta e nell’anima); ne seguita che l’Economia, anche ristretta nel senso di
coloro che non vogliono fame che una scienza del benessere corporate e
dell’agiatezza sociale, dovrebbe serbare alcuna relazione verso la morale” 37.
La difficile relazione tra il “fatto” ed il principio, cioe tra l’obiettivo
immediato dell’azione e lo scopo razionale che ne costituisce il fondamento, e
verificata da Cusani nello sviluppo del pensiero moderno. L’itinerario che dalla
fase delle “utilita” deve condurre a quella dei “fini” viene percorso
analizzando il contratto sociale in Kant e Rousseau 38, in riferimento al quale
Cusani puo criticamente concludere: “Ma l’obbligazione morale e giuridica non
puo mai procedere da un atto volontario, quale e quello che riferma il
contratto e il CONSENSO (con-senso) universale, perche nessuna cosa arbitraria
e volontaria puo costituire un diritto, ed una convenzione non e che la
semplice manifestazione della volonta mutabile degli uomini” 39. Colui che ha
colto piu precisamente - ad avviso di Cusani - il significato profondo del
rapporto tra il fatto ed il fondamento razionale dell’ordinamento estato, a
proposito della questione della proprietya fondamentale per l’ordine sociale,
Fichte: “Piu ragionevolmente adunque il Fichte, che fu il.
37. Ibidem,p. 55. “Ma e perche essa abbraccia tutto il problema della
destinazione dell’uomo nelle conseguenze, che serba per avventura assai piu
intime relazioni colla morale generale” (ivi). Scrive anzi Cusani (p. 56): “La
sola relazione che passa tra il lavoro destinato per il mantenimento della vita
fisica, e il riposo destinato per il compimento della vita morale, puo esser la
misura de’ differenti gradi della ricchezza nazionale, la quale aumenta in proporzione
che cresce il riposo per le occupazioni intellettuali. Insomma, produrre nel
minor tempo possibile cio ch’e necessario per la satisfazione de’ bisogni
materiali della vita, e crescere in ricchezza e moralita” .38 Questo fatto, che
l’obbligazione sia inclusa nella proprieta fu ben vista da Kant, il quale
stabili, che sebbene la specificazione e il lavoro fossero gli atti preparativi
della proprieta cio non di meno perche questa fosse riconosciuta e
rispettata da tutti, bisognava una spezie di contratto sociale, con che
si desse la proprieta definitiva. Vero e che questa idea del contratto sociale,
considerato come base giuridica necessaria del diritto di proprieta, non fu da
lui risguardata quale base della societa stessa, come era addivenuto appo
parecchi pubblicisti, e specialmente appo il Rousseau, che l’ebbero come un
precedente storico; solo voile dire ch’era necessario, accennando ad un fine
razionale avvenire, per cio che egli significava col titolo di proprieta o
possesso intellettuale”. 39 Ibidem, p.50. seguitore del Kant e il suo discepolo
filosofico, voile rifermare, nel suo Manuale e nelle sue Lezioni di Diritto
naturale, la proprieta esser costituita sulla nozione stessa di diritto.
Conciossiache la sua teorica del diritto, procedente dal suo sistema
filosofico, nel quale stabilisce che l’attivita infinita dell’Io che si svolge
come per una retta, pone, nell’urto che incontra, il mondo degli oggetti
esterni, doveva contenere tutta la ragione filosofica della proprieta” 40. Nel
1839, in un’opera segnatamente influenzata dall’eclettismo del Cousin 41, aveva
gia sottolineato la rilevanza dell’osservazione del mondo storico per la
definizione del principio morale. Rispetto al sistema di Locke 42, infine, la
scuola scozzese del Reid aveva fatto compiere un decisivo passo avanti al
“metodo della psicologica osservazione”, consentendo infine di “osservar le
Societa” e di “distinguerne e sceverare la parte sostanziale dall’accidentale,
cio che ne costituisce l’esistenza, la vita, il principio, da cio che non e che
una semplice forma contingente e variabile, secondo la diversita de’ tempi e
de’ luoghi” 43. Ma la questione della legittimita, “trascurata Di fatto,
siccome la personalita umana e dotata, secondo lui, d’una liberta infinita,
cosi e che il diritto non ista che nella limitazione della liberta di ciascuno,
perche possa coesistere la liberta di tutti. Posto cio il diritto deve
garantire a ciascuno il dominio particolare nelquale deve svolgere la sua
liberta”. Nello stesso scritto Cusani torna sul Fichte riguardo alla
relazione tra lavoro e riposo e sul tema della moralita resa possibile dal
produrre nel minor tempo possibile cio che e necessario alla soddisfazione dei
bisogni umani: “Primo tra gli scrittori moderni che rifermasse questa verita
semplice per se stessa, ma troppo spesso disconosciuta, fu il Fichte, uno de’
piu nobili ingegni di Germania: e cio perche vide che la destinazione dell'uomo
non edi essere assorbito dal lavoro destinato alia vita fisica, ma sibbene di
avere a restargli assai tempo per lo svolgimento della sua moralita” (Ibidem,
p.56). 41. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a
poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII, 1839, pp. 27-60. Ha scritto S.
Mastellone, “dichiarazione di fede eclettica puo considerarsi l’articolo di
Cusani: Del reale obbietto d'ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo
raggiungere (Progresso, 1839). La lunga dissertazione sulla necessita di porre
a fondamento della filosofia la psicologia per poi passare all’ontologia,
e la definizione dei tre obbietti della filosofia (il mondo, l’anima e Dio) e
dei tre ordini di fenomeni nell’interiore della coscienza (i sensitivi i
volontari e gli intellettivi) sono tratte dall’opera di Cousin”. 42 Cfr.
Del reale obbietto , cit., p. 57: “seguitando lo stesso principio in morale, i
suoi seguitatori non fannosi punto a ricercar quale e la moralita nello
stato attuale dell’uomo, ma invece quali sono state le prime idee di bene e di
male nell’uomo ridotto allo stato selvaggio innanzi ogni civil comunanza”. 43.
Ibidem, p.59. “Cosi questa scuola modesta e timida poneva la quistione
fondamentale di tutta la scienza psicologica; e quantunque non facesse che
circoscrivere l’osservazione, e fermarsi laddove essa cessava, purtuttavia
frutto gran bene alle scienze politiche, e morali, sollevando, per cosi dire,
l’umana natura in una piu pura ragione dalle scuole menzionate”, “richiedeva
una terza scuola, che se ne fosse occupata specialmente, e questa venne su a
Konigsberg promossa da un ingegno meraviglioso” 44. Se certamente il formalismo
kantiano presentava nella interpretazione cusaniana aspetti che attiravano le
riserve del lettore di Cousin e di Hegel, pure esso rappresentava un termine di
confronto essenziale alla definizione dell’obbligazione morale, e di
conseguenza della scienza morale e delle parti in cui questa si articola.
Piuttosto il limite di Kant, come si e poco prima ricordato, consisteva
nell’aver posto il contratto a base dell’obbligazione sociale: “se si fosse
cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo categorico, si avrebbe
per necessita dovuto ammettere una societa a priori del genere umano, e
si sarebbe conchiuso che ci ha un
diritto, che a noi vien da natura, indipendententemente da ogni contratto
e da ogni diritto positivo” 45. La relazione che si istituisce tra l’ideale ed
il reale, tra principio ed esperienza (ed anche tra l’apriori e l’aposteriori)
comporta finalmente la possibilita di definire una scienza sociale coerente con
i principi della scienza morale, giacche nell’unita della Filosofia tutte le
parti vengono ricomposte: “Se lasciamo la morale generale, e ci facciamo a
risguardare l’Economia nelle sue relazioni colla Filosofia del diritto, colla
Legislazione, e colla Politica, siccome queste non sono che parti della
Filosofia morale in generale, cosi non potremo che scorgervi le stesse
relazioni” 46. somigliantemente in Politica, le indagini intorno allo stato
primitivo delle Societa, de’ governi, delle leggi, e la varieta de’ sistemi che
se ne ingeneravano (perocche dove ha luogo la congettura nissuno ha il potere
di limitarla) cessarono del tutto, e cominciossi a osservar le Societa, cosi
com’esse ci si presentano dinanzi”. Dell’economia politica, cit., p. 51: “Ne
sappiamo vedere come il Kant, che aveva cosi bene stabilito l’obbligazione
morale, avesse poi dovuto ripeterla, quanto alla proprieta, da un contratto e
da una convenzione. Certo e vero, che il non aver esaminato punto donde veniva
l’obbligazione attaccata aquest’ atto, ha fatto si che siasi incorso in due
errori, il primo di negare che la proprieta sia di diritto di natura, el’altro
di ammettereuno stato primitivo e selvaggio dell’uomo innanzi della societa;
perciocche se si fosse cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo
categorico, si avrebbe per necessita dovuto ammettere una societa a
priori nel genere umano, esi sarebbe conchiusoche ci ha un diritto, che a noi
vien da natura, indipendentemente da ogni contratto e da ogni diritto positivo.
Ne vale ammetter questo contratto come fatto nel passato, o come da farsi
nell’avvenire, non procedendo da cio nessun’illazione, quando si tiene esser
esso la base e il fondamento della proprieta”. 46. Sull’hegelismo italiano (ed
i specie napoletano) cfr. P. Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia
d’ltalia, Torino, I documenti. Cusani puo cosi concludere il suo tentativo -non
dimentico di Fichte, ma sicuramente sensibile alla filosofia vichiana - di
delineare una scienza morale rivelatrice della missione civile della filosofia:
“Ma la scienza sociale non e costituita che dalla filosofia del diritto, la
quale accenna all’ideale che devesi raggiungere nelle societa umane, e dalla
politica che appoggiandosi sui precedenti storici delle societa medesime, ne
osserva lo stato attuale e giudica di quale avanzamento progressivo possono
esser capaci”. Ne sono lontani gli anni nei quali, su altri testi d’una diversa
tradizione, e in cospetto d’una diversa realta socio-economica d’una diversa
regione d’ltalia, Marco Minghetti proporra la sua Economia pubblica. coloritura
hegeliana o hegelianeggiante, l’ammirazione professata verso lo studiato (piu o
meno studiato) filosofo tedesco individua come connotato essenziale questo idealismo,
pur se, in senso tecnico, iconfini effettivi delle conoscenze hegelistiche dei
nostril hegeliani risultano imprecisi, elastici, quasi sempre vicini a uno
Hegel letto prevalentemente in chiave fichtiana o kant-fichtiana”. 47. Ibidem,
pp. 56 e 57. “E di vero, nella filosofia del diritto non si puo far astrazione
dallo scopo che ha l’uomo a raggiungere, se si deve poter determinare le
condizioni esterne di cui abbisogna, procedenti dalla volonta de’ suoi simili,
nel cui insieme sta la scienza del diritto. Ma lo scopo o la destinazione
dell’uomo ingenera delle relazioni tra la morale e l’economia; deve quindi di
necessita ingenerarne eziandio tra il Diritto e l’economia”. Stefano Cusani.
Cusani. Keywords: l’assoluto, il relativo, spirito soggetivo, spiriti
soggetivi, spirito oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita
latitudinale della filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione
all’assoluto, l’essere e la metafisica, gl’esseri e la metafisica, economia e
morale, la fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo,
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cusani” – The Swimming-Pool Library.
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