Coscienza spirituale .
Senso e pensiero e la loro distinzione. $ 117. Qui dobbiamo caratterizzare
definitivamente la distin zione del senso e del pensiero. Il senso non può
supporsi astratto dalla Coscienza ; perocchè in questo caso sarebbe un senso
che non sente, ma può supporsi astratto dalla Coscienza del senso ; perocchè la
Coscienza e il senso possono funzionare indistinta inente . Finchè la Coscienza
non si distingue categoricamente dal proprio oggetto , è una coscienza identica
alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la
Coscienza si distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice : Io
sono e l'oggetto è. Io sono quello che sono, e l'oggetto quello che è , cioè
l’lo e il non - lo siamo due termini distinti . Quest'idea fondamentale che si
percepisce un lo è la soggettività ossia la nascita dello spirito ( 1 ) . ( 1 )
Quando Ceretti dice qui nascita dello spirito, intende dire nascita del
pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente in questo. A con
ferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei vuole fare
appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel susseguente
paragrafo, parlando dei momenti dello spirito , vi accoglie il principio
sensitivo non come pura e semplice sensazione, ma come sentimento. Sulla
predetta distinzione, del resto , ritorna nei paragrafi susseguenti ( 122 e ss
. ) . Le fasi dello spirito. § 118. Lo spirito consta di tre fasi, il
sentimento, l'intel letto ed il concetto . Lo spirito nel sentimento è uno
spirito imme diato, che poco si distingue dall'anima senziente , ma quest'anima
senziente appartiene allo spirito, perocchè si percepisce soggetto . Il sentimento
. $ 119. Qui dobbiamo brevemente storiare lo spirito nella sua prima fase,
ossia nel sentimento . Il sentimento consta di tre termini: 1 ) l'attenzione, 2
) la memoria , 3) l'imaginazione. La funzione più o meno complessa di questi
tre termini crea la soggettività , che lentamente si svolge dal sensibile nel
cogitabile. L'attenzione deve funzionare nello spirito esordiente , e cosi lo
spirito deve sentire che il senso della natura, ossia l'istinto, più non gli
basta. Questo sentimento dell'insufficienza del proprio istinto l'avverte, che
necessita osservare ed imparare le pratiche della vita ; è la prima funzione
della mentalità . Epperciò tutte le lingue ariane conservano più o meno
esplicite le traccie della parentela lessica di maneo e mens, quasichè pensare
e fermarsi, ossia fermare l'attenzione sopra un oggetto , siano due opera zioni
molto affini. Veramente, tuttochè sommamente dissomiglino queste ope razioni,
nella loro sensibile inanifestazione esteriore s'identificano in un fatto
comune, quello dell'arrestarsi. La Coscienza che fissa l'attenzione sopra un
oggetto, cerca nell'oggetto qualcosa oltre il sensibile immediato, quando esso
oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente . $ 120. La
seconda funzione caratteristica del sentimento è la memoria . Mediante la
memoria una sensazione presente si può risu scitare quando non sia più
presente. La coscienza attentiva all'oggello studia un oggetto esteriore ed
abbisogna della pre senza di esso oggello per osservarlo. Ma la memoria contiene
e conserva in sè stessa l'oggetto osservalo, epperciò si costituisce
indipendente dalla presenza del medesimo. § 121. La terza funzione
caratteristica del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione non solo
conserva l'oggetto osservato, ma crea l'oggetto che non ha osservato. Questa
funzione emancipa la Coscienza, non solo , come la memoria, dalla presenza
dell'og gelto , ma anche dalla sensibile esteriore realtà del medesimo,
epperciò l'imaginazione può liberamente crearsi una propria oggettività . Questa
facoltà crea non solo l'oggetto composto di oggetti osservati, ossia non crea
solo la mera composizione, ma crea gli oggetti che non constano di elementi
osservati , ma oggetti radi calmente imaginari , tuttochè le semplici categorie
dello spirito e della natura debbano necessariamente fornire all'imaginazione
se stesse per possibilitare la creazione . § 122. Il passaggio dalla coscienza
senziente alla cogitante , ossia dalla bestia all'uomo, è pure una progressiva
distinzione della Coscienza in soggettiva ed oggettiva . Qui la detta
distinzione è una mera distinzione generale dell'lo dal non - lo . L'lo si sup
pone vivente e pensante altro dal non- lo, in sè stesso parimenti vivente e
pensante. La natura si rivela come un popolo di viventi e di pensanti , non si
suppone ancora l'altro dal vivente -pensante , ossia il non vivente e il non
-pensante ; si suppone semplicemente l'altro dal moio lo vivente e pensante.
Perciò la natura uranica, la terrestre, stochiologica e ininerale, la
vegetabile e l'animale si suppongono distinte dal mio lo, non però distinte
dall’lo generalmente par lando, ossia si suppongono possedere un loro lo
analogo a quello della Coscienza umana . Esaminale le radici, ossia gli
antichissimi suoni elementari del linguaggio e troverete ogni dove significata
l'universa natura come vivenle e pensante analogicamente alla Coscienza umana ;
non vi troverete mai la natura morta colle sue forze cieche, go vernale da
necessità parimenti cieca , vale a dire, la natura della riflessione. § 123. Il
sentimento esplicito dalla Coscienza soggettiva può essere comunicato dall'uno
all'altro individuo. È questa comuni cazione la prima proprietà per cui l'idea
cogitabile è distinta dalla mera sensazione. Nessun linguaggio potrà fornire
una sensazione, se questa non sia stala data dal senso come tale . lo potrò, p.
es. , parlare in qualsivoglia modo degli oggetti visibili , ma il cieco nato
non potrà mai comprendere che sia la visibilità. Se un soy getto abbia un tempo
posseduta la facoltà visiva , potrà, parlando degli oggetti veduti ,
richiamarli alla memoria quasi visibilmente presente, ma non potrà mai fare che
tale visione sostituisca la concreta visibile realtà colla semplice
imaginazione. § 124. La prima conseguenza della Coscienza senziente che si sviluppa
nella cogitante è che, siccome l'idea come tale , ossia nella forma della Coscienza
cogitante, può essere trasmessa dal l'uno all'altro soggetto, non può essere
trasmesso il senso come tale , ossia nella forma della Coscienza senziente .
Cosi il soggello è abilitato a sapere quello che non egli , ma gli altri hanno
percepito col senso, oppure quello che egli in altro tempo ha per cepito col
senso , oppure indurre un'idea da quello che presen lemente percepisce col
senso . CERETTI. Sinossi, ecc. 6. Cosi ,
p . es. , la pecora condotta al macello vede macellare la sua simile e non solo
non induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che questa
presente operazione signi fichi un'uccisione ; perocchè non possiede l'idea
della morte . Cosi il soggetto pensante può sapere quello che il senziente non
può sapere, e questo sapere nasce da una facoltà, per la quale da una
sensazione si astrae un'idea. Cosi , per es . , il soggello pensante vive nel
passato colla memoria, e nell'avvenire coll'ima ginazione; il soggetto
senziente vive astrattamente nella sua sen sazione presente. In virtù della
sensazione, che non può essere indotta in un'idea, egli non possiede, come il
pensante , la distin zione di una natura predominante ed insubordinabile al soggetlo
, e di una natura subordinabile e passibile del soggetto . Quest'idea prototipa
della forza è un'idea cardinale dello spi rito, è stata il primo germe della
religiosità. Osservate il Dio di tutti i popoli, e lo troverete Dio , non
perchè sommamente ragio nevole, ma perchè onnipotente. Nelle religioni
spiritualmente più adulte rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto
che quella della ragionevolezza, l'attributo eminentissimo della divinità . $
125. Mediante questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di
essere nato , di essere stato lattante, di essere stalo partorito , e cosi pure
può sapere che tutti i soggetti , nessuno eccettuato, non vissero oltre una
certa inassima età, ma morirono in quella o prima di quella . Conseguentemente
egli sa che il sog getto non solo nasce e nuore, ma può nascere in varie condizioni
, e morire in qualsivoglia momento della sua vita . $ 126. La nozione della
nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della Coscienza realizzato la
prima volta che la Coscienza senzienle si svolge nella pensante; perciò
sapiente inente nella genesi è detto che l'uomo prima di peccare, ossia di
gustare il frutto del bene e del male, non inoriva, ed avendolo gustato dovrà
morire .Veramente la Coscienza senziente non può sapere di nascere e di morire;
perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione trasmessa dall'uno
all'altro soggetto , ovvero un'idea in dotta dal fatto costante della morte. §
127. Ricapitolando, questa crisi della Coscienza, ci mani festa che la
Coscienza , dalla sensazione svolgendosi nella men talità , procede in un
sistema di distinzioni ideali , che non sono possibili nella mera sensazione.
La mentalità , che nasce dalla sensazione , è prolotipicamente imitatrice della
sensazione, e porta seco nel suo sviluppo la forma della sensazione stessa ,
che pro gressivamente si trasforma in quella del pensiero . La mentalità è
prototipicamente sentimento, e funziona in tre caratteristiche fun zioni cioè :
1 ) come attenzione ; 2) come memoria; 3 ) come ima ginazione . Da queste tre
prototipiche funzioni del sentimento nascono tre forme rudimentali della
mentalità. La mentalità non più vive nell'immediata sensazione, ma crea il
conflato temporaneo e vive nella retrospettiva del passato e prospettiva
dell'avvenire. Questo conflalo temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre
l'imme diato sensibile presente, e conseguentemente un'idealità induci bile
dall'osservazione. Da quest'osservazione nasce una seconda idea elementare
della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza
subordinabile alla nostra . Di qui la mentalità si esercita per subordinare le
forze predominanti, e da questa generale osservazione si percepisce come un
fatto costante che l'uomo nasce e muore, e finalmente che io come uomo sono
nato e devo morire . L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un'idea
comunissima, è lungi dall'essere tale . La Coscienza primitiva, come quella di
certi selvaggi oggidi viventi , percepisce la morte come un fatto costante ;
ma, come la riſlessione , non arguisce punto che questo fatto , tuttochè
costante , sia necessario . Suppongono questi selvaggi che la natura umana o
sovrumana abbia sempre ucciso l'uomo; ma suppongono pari menti che
quest'uccisione non sia una necessità, ma una sforlu nata accidentalità . $
128. La coscienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si
sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto
possiede la sua propria determinazione indi viduale ; ma proprie determinazioni
non affettano un sistema generale della Coscienza umana, che perciò ſu chiamato
senso comune. Mentre questo sistema generale della Coscienza è piena mente
uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente
normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comuue in on sistema
d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i giudizi
comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato, ossia pro
fetico , laumaturgico, e così via . Generalmente parlando, questa Coscienza
trascendente subor dina la comune, come provano i varii sacerdoti della
primitiva religiosità . Quando il soggetto si aliena dal senso comune senza
trascendere in un'idealità prestigiosa, ed esercita una pratica con tradittoria
a sè stessa, ovvero incompatibile colle esigenze gene rali della pratica
oggettività, allora si dice , che il soggetto è spiritualmente ammalato,
ovverosia demente. L'alienazione vuol essere accuratamente distinta, se cioè
sia alienazione dal mero senso comune ( in questo senso si può dire, che tutti
gli uomini grandi furono alienati), ovvero se sia una alienazione dalle
generali esigenze pratiche dell'oggettività natu rale e spirituale ( in questo
senso gli alienati sono coloro che comunemente si chiamano pazzi ) . $ 129. La
Coscienza trascendentale, ossia la Coscienza domi nata dall'idealismo,
Coscienza essenzialmente poetica , è il polo opposto della Coscienza dominata
dalla sensazione, Coscienza essenzialmente prosaica . A quella si devono tutte
le organizza zioni primitive dell'umanità , a questa si deve preferibilmente la
tecnica industrialità e la mercatura primitiva. Vedremo più oltre, che la
Coscienza umana progredisce sulla base di quest'opposizione archetipica della
sua storia.Il linguaggio e i suoi stadii. $ 130. L'organo più essenziale e più
generale della menta lità è la lingua . Il primo stadio della lingua è l'uso
delle radici designative ; qui la lingua non designa che presentazioni o modi
della presen lazione , e sempre si riduce alle semplici categorie del tempo e
dello spazio . I pronomi personali non furono primitivamente Io, Tu, e così
via, categorie troppo metafisiche, per servire a questo primo stadio della
lingua , ma, qui, là, ecc. , categorie dello spazio. Una lingua che consti di
radici semplicemente designative non può soddisfare alle esigenze più generali
della mentalità , epperciò da questo primo stadio si sviluppa, per l'implicita
esigenza della mentalità, il secondo stadio. Il secondo stadio consta di radici
predicative, ma tuttavia legate a una sensibile determinazione; cosi, p . es .
, per designare un oggelto , si sceglie l'attributo sensibile più esplicito in
quel l'oggetto, p . es . , il verde per designar la pianta. Quest'attributo
sensibile , sendo necessariamente variabile o contingente nell'og getto , non
può costituire una specie. In questo secondo stadio si trovano molte lingue dei
selvaggi , i quali scelgono un attributo sensibile dell'oggetto per designarlo,
e conseguentemente non pos sono arrivare a formolare le specie, ma
semplicemente oggetti in certe sensibili condizioni . Il terzo stadio usa la
categoria propria della mentalità esplicita , la categoria metafisica, per
designare l'oggelto ; come, p . es . , definirà la pianta non l'individuo
verde, ma l'individuo polare, i cui poli cospirano alla luce ed all'acqua .
Questa proprietà gene rica comprende tutte le piante ; perocchè la detta
polarità è l'attributo cogitabile generale della pianta. La lingua è posseduta
da tutti gli animali come lingua psi chica di movimenti o di formalità ; ma la
lingua che caratterizza la soggettività è appunto la lingua psichica che si
svolse nella spirituale. Altrove abbiamo trattato esplicitamente quest'argo
mento ( 1 ) e crediamo superflua una ripetizione. Qui giova sola mente
accennare, che le prime radici della lingua significarono mere affezioni
dell'anima e più tardi si svolsero in significati metaforici, per rispondere
all'esigenze della progressiva mentalità . Il rapporto fra il suono espresso
dall'anima e l'anima espri mente è quello stesso rapporto , ma più complesso,
per il quale determinati animali significano con certi definiti suoni cerle de
finite affezioni dell'anima loro . $ 131. L'uomo, sviluppando in sè stesso la
propria mentalità e l'organo per significarla, si conobbe come specie comune.
La prima lingua quasi naturale deve essere stata pressochè identica in tutti i
soggetti umani, come tutte le pecore belano , tutti i cani abbaiano ed urlano.
Dovette essere una lingua nata con loro e trasmessa alle generazioni senza il
minimo bisogno di conven zionalismo e di pratica convivenza per essere capita .
( 1 ) La lingua è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più
frequentemente trattati dal Ceretti, il quale la conosceva, ed a fondo, in
molte forme antiche ed in un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne
ha trattato, infatti , in molte sue opere. Ne ha accennato nel primo volume
della sua grande opera, cioè Saggio circa la ragione logica di tutte le cose “
Prolegomeni ,, Torino 1888, pag. 43 e ss. ( confr. anche ibid ., pag. 291 e
susseguenti). Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già pubblicale in
Torino 1885, e cioè nella Proposta di riforma sociale, pag. 26 e seg.; nella
Introduzione alla cultura generale ( facente parte del predetto vol . ) , pag.
120 e seguenti. Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite .Stato
primitivo dell'uomo. $ 132. L'uomo che possedetle questa lingua visse nelle
foreste in aggregazioni o società piuttosto fortuite, poco dissimili da quelle
dei quadrumani , ma si armò per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo
facea più fragile degli altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa
nudità e debolezza colle armi artificiali, e sopratutto colla propria
scaltrezza . Questo primo stato dell'uomo vuol essere qui accennato come quello
dell'astratta soggettività abbandonata a sè stessa ; perocchè l'uomo ,
cacciatore o vivente dei prodotti naturali della terra e del mare, può vivere
solitario. Le aggregazioni o società di questi uomini sono mera accidentalità
non necessità dello stato pro prio ( 1 ) . In questo primo stato la
soggettività nascente è caratte risticamente manifestata dalla perversione di
certi istinti essenzia lissimi alla conservazione del soggetto e della specie.
Così , p. es . , nessuna specie animale s'alimenta del proprio simile, ma certi
selvaggi mangiano indifferentemente i loro nemici , amici, con sanguinei,
figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè ingrassino e siano buone a essere
mangiate quando partoriscono più figliuoli da mangiare. Quest'enorme
perversione d’un istinto cosi radicale (l'affe zione alla progenitura ) segna
quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella mentalità. È una
mentalità che si ma ( 1 ) Sono certo che la quasi totalità de' lettori non sarà
d'accordo su questo punto col Cerelti , e riterrà l'associazione umana come una
necessità e non già come un'accidentalità . Ma l'autore, per la vita solitaria
e un po' misantropica da lui fatta, è stato come involontariamente tirato a
generalizzare questo suo particolare carattere.nifesta come un'orribile
perversione dell'istinto, ma è una men talità volente , non un mero modo
d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima
perversione, può no bilitare l'uomo antropofago sopra la bestia istintualmente
tutrice della prole . Cosi pure, relativamente al soggetto individuo , l'uomo
sel vaggio in procinto di essere cattivalo dai suoi nemici , può suici darsi ,
la bestia non mai . L'istinto della propria conservazione individuale è un
istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della
conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della
natura . Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si
trovano fra gli ani mali pensanti. § 133. Tuttochè qui dobbiamo parlare del
soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata
dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della
lingua, come quella che può essere comunicala da soggetto a soggetto ,
indipendentemente dall'organizzazione sociale fra sog getti o dalla nessuna
organizzazione. La lingua appartiene cosi al soggetto solitario come al sog
gelto socievole, e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente
delle occasioni dell'amore. L'uomo solitario pra tica qualche volta questo
rapporto colla femmina come un mero rapporto erotico, occasionale. Abbandona la
femmina alle conse guenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che
sono allattati , nudriti ed educati dalla madre . Ma la lingua, che persuase la
copula dell'amore, è la mede sima lingua, colla quale la madre educa i suoi
figliuoli . Cosi la lingua può dirsi radicalmente una creazione della specie ed
assu merà dignità ed avrà il suo svolgimento nella storia universa della
spiritualità. Si può dire in tesi generale, che la lingua genera la storia
nella sua più semplice elementarità; e dallo svolgimento SINOSSI
DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 89 della lingua si conosce lo svolgimento
dell'umana mentalità , e , conseguentemente , delle gesta che ne sono
conseguite . Proseguiamo a speculare circa i fenomeni più radicali della
soggettivitàesologica" Il sillogismo che passa dall'astrazione esologica nella
essologica è il sistema dell'Essere-Essenza-Coscienza (155), che passa
nel sistema del Meccanismo-Chimismo-Vita. L'Essere esologico è Quantità - Qualità - Modalità,
dall'unità corriflessa delle quali categorie avviene (sorge) l’Essenza.
L'Essere essologico determina la Qualità nell'Alteriorità, la Quantità nella
Esteriorità, la Modalità nell'Apparizione. Quindi l'Alteriorità
diventa Temporalità , l'Esteriorità diventa Spazialità , l’Apparizione diventa
Luce... Esologica
Alessandro Goreni’. Pietro Ceretti. Keywords: communication, convention, homo
sapiens, pirothood, inter-subjective, animality, animalness, soul, psichico,
psychic, psychical versus psychological, progression, pirotological progression,
cenobium, neologismo, panlogica, pantologico, logo, esologo, essologo,
sinautologo, prologo, dialogo, autologo, tre categorie: tesi QUANTITA
(meccanica), anti-tesi, QUALITA (fisica), sin-tesi MODALITA (vita) –
arte/religione/filosofia; storia/didattica/diritto, antropologia,
antropopedeutica, antroposofia, prasseologia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ceretti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ceronetti:
l’implicatura conversazionale della lanterna – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Ceronetti; he is a
typicall Italaian philosopher; that is, a typically anti-Oxonian one; he
thinks, like Croce and de Santis did, that philosophy is an infectious disease
that some literary types catch! My favourite of his tracts is “Diognene’s
torch”! Genial!” Per essere io morto all'Assoluto vivo come un innato parricida
tra gente già di padre nata priva; pPer aver detto all'Inaccessibile addio da
un cortiletto senza luce vergogna vorrei gridarmi ma resto muto. Tutto è
dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo
ha nome esilio, o anche mondo. Di vasta erudizione e di sensibilità umanistica,
collabora con vari giornali. Tra le sue opere più significative vanno ricordate
le prose di Un viaggio in Italia e Albergo Italia, due moderne descrizioni,
moderne e direi dantesche, da cui vien fuori tutto l'orrore del disastro
italiano, e le raccolte di aforismi e riflessioni Il silenzio del corpo e
Pensieri del tè. Di rilievo la sua attività di saggista (Marziale, Catullo,
Giovenale, Orazio). Diede vita al teatro dei Sensibili, allestendo in casa
spettacoli di marionette. Le sue marionette esordivano su un piccolo
palcoscenico, nel tinello di casa Ceronetti, ad Albano Laziale. Si consumavano
tè, biscottini (i crumiri di Casale) e mele cotte." Nel corso degli anni
vi assisterono personalità quali Montale,Piovene, e Fellini. Con la
rappresentazione de La iena di San Giorgio, I Sensibili divenne pubblico e
itinerante. Œ In Difesa della Luna, e altri argomenti di miseria
terrestre, suo saggio d'esordio critica il programma spaziale da prospettive
originali e poetiche. Il fondo Guido Ceronetti -- "il fondo senza
fondo" -- raccoglie infatti un materiale ricchissimo e vario: opere edite
e inedite, manoscritti, quaderni di poesie e traduzioni, lettere, appunti su
svariate discipline, soggetti cinematografici e radiofonici. Vi si trovano,
inoltre, numerosi disegni di artisti (anche per I Sensibili), opere grafiche,
collage e cartoline. Con queste ultime fu allestita la mostra intitolata Dalla
buca del tempo: la cartolina racconta. Prese posizione a favore dell'eutanasia,
con la poesia La ballata dell'angelo ferito. Beneficiario della legge Bacchelli,
in quanto cittadino che ha illustrato la Patria e versante in condizioni di
necessità economica. Robbe-Grillet, Moravia e Ceronetti al Premio
letterario internazionale Mondello. Palermo Proposto dal controverso critico e
politico Sgarbi come senatore a vita a Napolitano, declina subito
l'invito. Attento alle tematiche ambientali, era noto per essere un acceso
sostenitore del vegetarismo e per una pratica di vita estremamente frugale,
quasi da moderno anacoreta. Solo un vero vegetariano è capace di vedere
le sardine come cadaveri e la loro scatola come una bara di latta. Un
mangiatore di carne (non mi sento di scrivere un carnivoro perché l'uomo non è
un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la
sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla
retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che
gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di
carne o di pesce. Alcuni suoi articoli sull'immigrazione (disse che ha "un
carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale
e religiosa") e il Meridione, pubblicati sui quotidiani La Stampa e Il
Foglio, furono tacciati di razzismo, così come scalpore fecero alcune posizioni
da lui espresse sull'omosessualità maschile, accusate di omofobia. In
precedenza sull'argomento si era attirato gli strali dei cattolici per aver
descritto don Bosco come un omosessuale represso. Intervistato nel per Radio Radicale Come articolista,
principalmente su La Stampa e il Corriere della Sera, si occupava spesso di
letteratura, arte, filosofia, costume e cronaca nera (ad esempio scrivendo sul
caso del delitto di Novi Ligure), analizzando il problema del male nel mondo
odierno in una prospettiva gnostica; al contrario giudicava noiosi i processi
di mafia. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento
giornalistico a difesa del capitano delle SS Erich Priebke (che visitò in
carcere e con cui ebbe uno scambio epistolare), condannato all'ergastolo per la
strage delle Fosse Ardeatine ma che fu soltanto un mero funzionario esecutore,
colpevole della "miseria di non essere un santo" (parafrasi del
saggio di Bloy La tristezza di non essere santi), e creato Mostro delle
Ardeatine, vittima di una giustizia dell'odio. Allo stesso modo, pur esprimendo
sempre la sua simpatia per gli ebrei e per Israele, per convinzioni personali e
la sua parentela acquisita con Giuliana Tedeschi, definì l'ergastolo inflitto a
Hess, al processo di Norimberga, come un crimine politico. La sua posizione
anticonformista pro-Priebke e pro-Hess fece scandalo essendo l'autore un noto
filosemita, con moglie e suocera (superstite di Auschwitz) ebree nonché
convinto filoisraeliano (scrisse articoli di fuoco contro Khomeini e il
terrorismo palestinese). Nel fu
insignito del premio "Inquieto dell'anno" a Finale Ligure. Ostile
al fascismo nella seconda guerra mondiale e al comunismo poi, ma anche
diffidente delle forme della democrazia, non prese mai parte politica attiva, a
parte un brevissimo periodo in cui ebbe la tessera del Partito Socialista dei
Lavoratori Italiani, fino al, quando intervenne al congresso dei Radicali
Italiani, movimento liberale e libertario, e altre volte ai microfoni di Radio
Radicale (era amico di Marco Pannella), anche se si considerava un
"conservatore" e patriota del Risorgimento (descrisse
l'Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il
verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale»). Talvolta fu definito
come un "reazionario postmoderno". «Sono sempre stato anticomunista. Il
Mullah Omar e Osama Bin Laden sono modi dell'antiumano. Dietro di loro...
l'ombra di Lenin, inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell'universo
concentrazionario, capostipite novecentesco di malvagie entità che non
finiscono di manifestarsi.» (Ti saluto mio secolo crudele) Nel propose in un articolo su la Repubblica,
ispirandosi al fenomeno delle assistenti sessuali per disabili, l'istituzione
di un "servizio erotico volontario" rivolto agli anziani senza che
dovessero rivolgersi a prostitute, per evitare "la barbarie di una
vecchiaia senza sesso". Fece uso di vari pseudonimi, tra i quali Mehmet
Gayuk, il filosofo ignoto (riferimento a Louis Claude de Saint-Martin, filosofo
così chiamato), Ugone di Certoit (quasi l'anagramma di Guido Ceronetti) e
Geremia Cassandri. Morì nella sua casa di Cetona (SI) dopo un breve
ricovero a causa di broncopolmonite. Come da disposizione testamentaria, dopo
tre giorni e una cerimonia religiosa a Cetona, fu sepolto sulle colline tra
Torino e il Monferrato, in una tomba a terra situata nel cimitero di Andezeno
(Torino), il paese di origine dei genitori. Disposizione da prendere. Non
voglio donne in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur
insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate
sempre, nella vita.» Altre opere: “Difesa della luna e altri argomenti di
miseria terrestre” (Rusconi, Milano); “Aquilegia, illustrazioni di Erica Tedeschi,
Rusconi, Milano, con il titolo Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino); La
carta è stanca” (Adelphi, Milano); La musa ulcerosa: scritti vari e inediti,
Rusconi, Milano); Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina,
Adelphi, Milano); La vita apparente, Adelphi, Milano); Un viaggio in Italia, Einaudi,
Torino); Albergo Italia, Einaudi, Torino); Briciole di colonna. La Stampa,
Torino); Pensieri del tè, Adelphi, Milano); L'occhiale malinconico, Adelphi,
Milano); La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi, Adelphi, Milano); D.D.
Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Tra pensieri, Adelphi, Milano); Cara
incertezza, Adelphi, Milano); Lo scrittore inesistente, La Stampa, Torino, Briciole
di colonna. Inutilità di scrivere, La Stampa, Torino, La fragilità del pensare.
Antologia filosofica personale Emanuela Muratori, BUR, Milano); La vera storia
di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino, N.U.E.D.D. Nuovi
Ultimi Esasperati Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Piccolo inferno torinese,
Einaudi, Torino); Oltre Chiasso. Collaborazioni ai giornali della Svizzera
italiana, Libreria dell'Orso, Pistoia, 2004, La lanterna del filosofo, Adelphi,
Milano); Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto, La Finestra editrice, Lavis);
Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano); In un amore felice. Romanzo in
lingua italiana, Adelphi, Milano,, Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e
sopravvivenza del XX secolo, illustrazioni Guido Ceronetti e Laura Fatini,
Einaudi, Torino,, L'occhio del barbagianni, Adelphi, Milano,, Tragico
tascabile, Adelphi, Milano,, Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,, Per
non dimenticare la memoria, Adelphi, Milano,, Regie immaginarie, Einaudi, Torino,
Guido Ceronetti, Poesia Nuovi salmi. Psalterium primum, Pacini Mariotti,
Pisa); La ballata dell'infermiere, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Poesie,
frammenti, poesie separate, Einaudi, Torino, 1968 Premio Viareggio; Opera
Prima; Poesie: Corbo e Fiore, Venezia); Poesie per vivere e per non vivere,
Einaudi, Torino, Storia d'amore ritrovata nella memoria e altri versi,
illustrazioni di Mimmo Paladino, Castiglioni & Corubolo, Verona); Compassioni
e disperazioni. Tutte le poesie, Einaudi, Torino, Disegnare poesia (con Carlo
Cattaneo), San Marco dei Giustiniani, Genova, Scavi e segnali. Poesie inedited,
Alberto Tallone, Alpignano, Andezeno, Alberto Tallone Editore, Alpignano, La
distanza. Poesie, Edizione riveduta e aggiornata dall'Autore, BUR, Milano, Preghiera
degli inclusi, Alberto Tallone Editore, Alpignano, senza data Francobollo,
Alberto Tallone Editore, Alpignano (sotto lo pseudonimo Mehmet Gayuk), Il
gineceo, Alberto Tallone, Alpignano, febbraio 1998; Adelphi, Milano, In
memoriam di Emanuela Muratori, Alberto Tallone, Alpignano, Messia, Tallone, Alpignano,
Adelphi, Milano,, [nella prima parte del libro] Tre ballate recuperate dalle
carte di Lugano, Alberto Tallone, Alpignano, Tre ballate popolari per il Teatro
dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano; Pensieri di calma a bordo di un
aereo che sta precipitando, Alberto Tallone, Alpignano; A Roma davanti al
Tulliano Notte del 3 dicembre 63 a. C., Alberto Tallone, Alpignano, Con
l'armata dell'Ebro morire oggi, Alberto Tallone, Alpignano; Invocazione al
Dottor Buddha perché venga e ci salvi, Alberto Tallone, Alpignano; Le ballate
dell'angelo ferito, Il Notes magico, Padova, Poemi del Gineceo, Adelphi,
Milano,, [riedizione de Il gineceo con
inediti e nuova prefazione] Sono fragile sparo poesia, Einaudi, Torino,,
Drammaturgia Furori e poesia della Rivoluzione francese. Carte Segrete, Roma,
Alcuni esperimenti di circo e varietà. Teatro Stabile-Teatro dei
Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Teatro Stabile-Teatro
dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Spettacolo
per marionette ideofore, ricordi figurativi di Giosetta Fioroni, Becco Giallo,
Oderzo, 1988 Viaggia viaggia, Rimbaud!, Il melangolo, Genova, La iena di San
Giorgio. Tragedia per marionette, Alberto Tallone, Einaudi, Torino); Il volto
(Ansiktet), Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Le
marionette del Teatro dei Sensibili, Aragno, Torino [contiene: I Misteri di
Londra e Mystic Luna Park] Rosa Vercesi, un delitto a Torino negli anni Trenta,
Teatro Strehler-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano, Rosa Vercesi,
illustrazioni di Federico Maggioni, Edizioni Corraini, Mantova; Traduzioni e
curatele Marziale, Epigrammi, introduzione di Concetto Marchesi, Einaudi,
Torino, II ed. riveduta, Einaudi, Torino; nuova edizione con un saggio di G.
Ceronetti, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta e nuova prefazione di G.
Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, I Salmi, Einaudi, Torino; nuova ed.
riveduta, Einaudi, Torino; col titolo Il Libro dei Salmi, Adelphi, Milano,
1985, Catullo, Le poesie, Einaudi, Torino, Adelphi, Milano,. Maurice Blanchot,
Il libro a venire (Le Livre à venir), trad. G. Ceronetti e Guido Neri, Einaudi,
Torino; Il Saggiatore, Milano,. Qohelet o l'Ecclesiaste, Einaudi, Torino, Alberto
Tallone Editore, Alpignano, nuova traduzione; Qohelet. Colui che prende la
parola, Adelphi, Milano, Decimo Giunio
Giovenale, Le Satire, Einaudi, Torino, La Finestra Editrice, Trento, Il Libro
di Giobbe, Adelphi, Milano, Premio Monselice di traduzione, nuova ed. riveduta,
Adelphi, Milano, Cantico dei cantici, Adelphi, Milano, Alberto Tallone Editore,
Alpignano, nuova versione riveduta,. Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi,
Milano; nuova ed. riveduta e ampliata, Adelphi, Milano, Come un talismano.
Libro di traduzioni, Adelphi, Milano, 1986. Konstantinos Kavafis, Nel mese di
Athir, Edizioni dell'elefante, Roma. Konstantinos Kavafis, Tombe, Edizioni
dell'Elefante, Roma, Giovenale, Le donne. Satira sesta, Alberto Tallone
Editore, Alpignano, Nostradamus: annunciatore nel secolo 16. della Rivoluzione
che durerà dal 1789 al 1999 / profezie estratte dalle Centurie di Michel de
Nostredame, Alpignano, Alberto Tallone Editore, Tango delle capinere, Castiglioni
& Corubolo, Verona. Due versioni inedite da Shakespeare e da Céline, Cursi,
Pisa, Teatro dei sensibili, La rivoluzione sconosciuta. Pensieri in libertà per
ricordare. Una scelta di testi Guido Ceronetti, Tallone, Alpignano, col titolo
La rivoluzione sconosciuta, Adelphi, Milano, raccolta di 44 locandine teatrali
a fogli sciolti dalla mostra-spettacolo di Dogliani] Henry d'Ideville, Oggi,
Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Constantinos Kavafis, Poesia, Alberto
Tallone, Alpignano, senza data Georges Séféris, Poesia, Alberto Tallone,
Alpignano, senza data. Sofocle, Edipo Tyrannos. Coro, Edizioni dell'Elefante,
Roma (con Cristina Chaumont) Sura 99. Al Zalzala (Il tremito della terra) dal
Corano, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Il Pater
noster. Matteo 6, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Léon
Bloy, Dagli ebrei la salvezza, con un saggio di G. Ceronetti, traduzione di
Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Piccola Biblioteca n. 330, Adelphi, Milano, Giorni
di Kavafis. Poesie di Constantinos Kavafis, Officina Chimerea, Verona, Messia,
Alberto Tallone Editore, Alpignano; Adelphi, Milano,.nella seconda parte del
libro, Siamo fragili, Spariamo poesia. i poeti delle letture pubbliche del
Teatro dei Sensibili, Qiqajon, Magnano, 2003 Tito Lucrezio Caro, I terremoti.
De Rerum Natura. Alberto Tallone, Alpignano, Constantinos Kavafis, Un'ombra
fuggitiva di piacere, Adelphi, Milano, Trafitture di tenerezza. Poesia
tradotta, Einaudi, Torino, François Villon, I rimpianti della bella Elmiera,
Alberto Tallone Editore, Alpignano,. Orazio, Odi. Scelte e tradotte da Guido
Ceronetti, Adelphi, Milano,. Epistolari Guido Ceronetti e Giosetta Fioroni,
Amor di busta, Milano, Archinto, Due cuori una vigna. Lettere ad Arturo
Bersano, Prefazione di Ernesto Ferrero, Padova, Il Notes Magico, Guido
Ceronetti e Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l'abisso. Lettere, Milano,
Adelphi,. Spettacoli del Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Tragedia
per marionette (allestito in appartamento), prodotto dal Teatro Stabile di
Torino, con Ariella Beddini, Simonetta Benozzo, Paola Roman e
Manuela Tamietti, regia di Egon Paszfory (Guido Ceronetti), scene e costumi di
Carlo Cattaneo Macbeth (spettacolo per marionette allestito in appartamento) Lo
Smemorato di Collegno (anni '70, spettacolo per marionette allestito in
appartamento) Diaboliche imprese, trionfi e cadute dell'ultimo Faust (spettacolo
per marionette allestito in appartamento); Fu interpretato al Festival di
Spoleto da Piera degli Esposti, Paolo Graziosi e Roberto Herlitzka, con la
regia, scene e costumi di Enrico Job I misteri di Londra (allestito in
appartamento); prodotto dal Teatro Stabile di Torino, regia di Manuela
Tamietti, con Patrizia Da Rold (Artemisia), Luca Mauceri (Baruk), Valeria Sacco
(Egeria), Erika Borroz (Remedios) e le marionette del Teatro dei Sensibili.
Furori e poesia della rivoluzione francese. Tragedia per marionette (allestito
in appartamento); al Teatro Flaiano di Roma con i burattini di Maria Signorelli
Omaggio a Luis Buñuel prodotto dal Teatro Stabile di Torino, Mystic Luna Park (prodotto
dal Teatro Stabile di Torino), spettacolo per marionette ideofore con Armida
(Nicoletta Bertorelli), Demetrio (Guido Ceronetti), Irina (Laura Bottacci),
Norma (Paola Roman), Yorick (Ciro Buttari) La rivoluzione sconosciuta,
mostra-spettacolo all'ex-convento dei carmelitani a Dogliani Viaggia
viaggia, Rimbaud! (prodotto dal Teatro Araldo di Torino, in occasione del
centenario della morte di Arthur Rimbaud), regia di Jeremy Cassandri (Guido
Ceronetti) con Melissa (Manuela Tamietti), Norma (Paola Roman), Francisco (Gian
Ruggero Manzoni), Yorik (Ciro Bùttari) e Zelda (Roberta Fornier) Per un pugno
di yogurt, collage di poesie Les papillons névrotiques (al Cafè Procope di
Torino) con la partecipazione di Corallina De Maria La carcassa circense, spettacolo
per marionette, azioni mimiche, cartelli, organo di Barberia con Rosanna
Gentili e Bartolo Incoronato Il volto, dedicato a Ingmar Bergman in occasione
dei suoi ottant'anni Ceronetti Circus ovvero Casse da vivo in esposizione
pubblica, letture di poesia, azioni sceniche mimiche e intermezzi musicali con
Elena Ubertalli e Giorgia Senesi M'illumino di tragico, collage di testi e
pantomime liriche; in tournée anche con il titolo I colori del tragico Rosa
Vercesi (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano), con Paola Roman, Simonetta
Benozzo e Luca Mauceri Una mendicante cieca cantava l'amore (2006, prodotto dal
Piccolo Teatro di Milano) con Cecilia Broggini, Luca Maceri, Elena Ubertali e
Filippo Usellini Siamo fragili, spariamo poesia, collage di testi poetici,
ballate e canzoni Strada Nostro Santuario (prodotto dal Piccolo Teatro di
Milano) filastrocche, canzoni, ballate, azioni mimiche, happening e numeri di
repertorio popolare La pedana impaziente (), repertorio di marionette e azioni
sceniche mimiche Finale di teatro (, al Teatro Gobetti di Torino) con Fabio
Banfo, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Eleni Molos, Filippo Usellini Pesciolini
fuor d'acqua (), con Luca Mauceri e Eleni Molos Quando il tiro si alzaIl sangue
d'Europa (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, in occasione del centenario
della prima guerra mondiale) con Eleni Molos, Elisa Bartoli, Filippo Usellini,
Luca Mauceri e Valeria Sacco Non solo Otello (al Teatro della Caduta di Torino)
Novant'anni di solitudine (, a Cetona in occasione dei novant'anni
dell'autore), con Luca Mauceri, Filippo Usellini, Eleni Molos, Valeria Sacco,
Fabio Banfo, Salvatore Ragusa e Elisa Bartoli Ceronettiade. Deliri e visioni di
Guido Ceronetti (, a Cetona in occasione dell'anniversario della nascita
dell'autore), con Luca Mauceri, Eleni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini
Cataloghi di mostre L'Atelier dei Sensibili a Dogliani, Michela Pasquali,
Dogliani, Biblioteca civica Einaudi, (catalogo della mostra nell'ex Convento
dei Carmelitani a Dogliani). Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. I
collages di cartoline d'epoca del Fondo Guido Ceronetti, cura di Diana Rüesch e
Marco Franciolli, Archivi di cultura contemporanea, Museo Cantonale d'Arte
Lugano, Poesia marionette e viaggi di Guido Ceronetti nelle visioni di Carlo
Cattaneo, Paolo Tesi e Maurizio Vivarelli, Comune di Pistoia, Dare gioia è un
mestiere duro: trent'anni più due di Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti,
Andrea Busto e Paola Roman, fotografie di Mario Monge, Marcovaldo, Nella gola
dell'Eone. Ti saluto mio secolo crudele. Immagini del XX secolo. Tutti i
collages di immagini dedicati al ventesimo dell'era da Guido Ceronetti, Il
melangolo, Genova, "Per le strade" di Guido Ceronetti, Omaggio allo
scrittore, Diana Rüesch e Karin Stefanski, Cartevive, Biblioteca cantonale,
Archivio Prezzolini-Fondo Ceronetti, Lugano, Opere audiovisive su Guido
Ceronetti I Misteri di Londra. Tragedia per marionette e attori, regia di
Manuela Tamietti, Teatro Stabile di Torino (riprese videografiche dello
spettacolo, Torino). Sulle rotte del sogno. Parole musiche storie, di Luca
Mauceri (cd e vinile EMA Records, Firenze ). Guido Ceronetti. Il Filosofo
Ignoto, film documentario di Francesco Fogliotti e Enrico Pertichini (Italia'),
prodotto con la collaborazione del Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti e
dei Cinecircoli giovanili socioculturali. Guido Ceronetti nei mass-media Cura
cinque Interviste Impossibili per la seconda rete radiofonica rai, in cui
"intervistò" Attila (Carmelo Bene), Auguste e Louis Lumière (Alfredo
Bianchini e Mario Scaccia), George Stephenson (Mario Scaccia), Jack Lo
Squartatore (Carmelo Bene) e Pellegrino Artusi (Mario Scaccia). Il cantautore
Vinicio Capossela, nella raccolta di brani dal vivo Nel niente sotto il
soleGrand tour, ha inserito come incipit della seconda traccia (Non
trattare)una registrazione di Guido Ceronetti che declama i primi versetti del
Qoelet. Note Ha usato per molti anni un
sigillo con scritto "In esilio": Capossela intervista Ceronetti. 6
febbraio. Morto lo scrittore, in Corriere fiorentino, G. Ceronetti, Tra
pensieri, Adelphi, Milano, p.11 Paolo Di
Stefano, In morte. Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell'Italia perduta,
Mondadori, Milano,. Guido Ceronetti
morto, ripubblichiamo la sua ultima intervista al Fatto: “Sono un patriota
orfano di patria. Italia, regno della menzogna”
Nello Ajello, Ceronetti. Poesia in forma di marionette, La Repubblica, ricerca.repubblica/
repubblica/archivio/ repubblica ceronetti-poesia-in-forma-di-marionette.html Samantha, lo spazio e il signor Freud "Guido Ceronetti. L'inferno del corpo",
in Cioran, Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano, "Oggi una quantità delle mie carte è
partita per Lugano dove tutto entrerà a far partedegli archivi della Biblioteca
Cantonale." Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,«Urlate urlate
urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate. Idolo e vittima di opachi riti/
Nutrita a forza in corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace Diciassette
di coma che m'impietra Gli anni di stupro mio che non ha fine. Con Decreto del
Presidente della Repubblica (pubblicato nella G.U.) gli è stato infatti
attribuito un assegno straordinario vitalizio ai sensi della legge, l'aiuto della
legge Bacchellila Repubblica, in Archiviola Repubblica. Edizione, "Il
nostro meridionale è attaccato alla propria famiglia e nient'altro, qualsiasi
abbominio, qualsiasi sfacelo pubblico non arrivino a toccargli la Famiglia non
gli faranno il minimo solletico. Sono popoli incapaci di amare
disinteressatamente qualcosa perché bello, al di sopra dell'utile. La loro vera
patria la loro nostalgia prenoachide è il deserto e faticano da ubriachi a
ritrovarlo". La pazienza dell'arrostito, Adelphi, Milano, (comedonchisciotte. Org forum/
index.php?p=/discussion/ ceronetti-dal-mare-il- pericolo-senza-nome lessiconaturale/
migranti-e-prediche/)
(ilfoglio/preservativi/news/il-grande-pan-e-vivo) (ilfoglio/cultura/news/far-torto-o-patirlo) (ilfoglio/ preservativi/news/ deutschland-pressappoco-uber-alle,
Sugli sbarchi in Sicilia l'europeista Ceronetti dice, come altri non
oserebbero, che “hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale,
premessa sicura di guerra sociale e religiosa", Ceronetti, nel dolore si
nasconde una luce) Mario Andrea Rigoni,
Ma non bisogna confondere il nichilismo con il razzismo, Corriere della Sera, Guido
Almansi, Le leggende di Ceronetti, la Repubblica, L'innocente Priebke
L'invasione Africana; “Il male omosessuale” (Ceronetti dixit). Albergo Italia
(Einaudi, Torino), capitolo "Elementi per una anti-agiografia", Uno, cento, mille Ceronetti, Guido Ceronetti,
Priebke. Alcune domande intorno a un ergastolo, la Stampa Pietrangelo Buttafuoco, La pietas di
Ceronetti per Priebke, il Foglio, Sono sempre stato anticomunista, sempre, Forse,
subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al
partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potëmkin, come innumerevoli
giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati. Di
quel periodo non ho voglia di parlarne, ero tra i soliti ragazzini stupidoni
che andavano alle adunate, ma non c'è storia di anima o di pensiero o di
famiglia che riguardi il fascismo. I miei non erano fascisti né antifascisti,
erano bravi cittadini come tanti. (Corriere della sera). Si dice il responso
delle urne. Come se un popolo di cretini potesse fornire oracoli (Per le strade
della Vergine) la mia America: “Un
baluardo contro l’ideologia comunista” XIII
Congresso Radicali Italiani ilfoglio/preservativi/
prttttt-in-una-sigla-tutto-pannella- impenitente-ottimista-e-visionario (corriere/
cultura/guido-ceronetti-in-un-amore-felice
Chi era, fustigatore dei vizi degli italiani Riviste/ Su
“Cartevive” omaggio, reazionario postmoderno
CERONETTI: ‘METTIAMO FINE ALLA BARBARIE DELLA VECCHIAIA SENZA SESSO: PER
DISABILI E CARCERATI QUALCOSA SI È MOSSO MA PER I VECCHI MASCHI SI MUOVERÀ MAI
QUALCUNO? LA PROPOSTA: UN SERVIZIO EROTICO VOLONTARIO PER GLI OVER 70! Abiterò
per tre mesi al N. 4 di via Giolitti a Torino, per mettere in scena col Teatro
dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Sulla porta metto quest'altro mio nome:
Geremia Cassandri. La pazienza dell'arrostito. Giornale e ricordi, Milano,
Adelphi, Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterario
viareggiorepaci. I VINCITORI DEL PREMIO “MONSELICE” PER LA TRADUZIONE,
su biblioteca monselice, Alberto Roncaccia, Guido Ceronetti. Critica e
poetica (Bulzoni, Roma) Emil Cioran, Esercizi di ammirazione (Adelphi, Milano, Guido
Ceronetti. L'inferno del corpo) Giosetta Fioroni, Marionettista. Guido
Ceronetti e il Teatro dei Sensibili secondo l'alchimia figurativa (Corraini,
Mantova) Giovanni Marinangeli, Guido Ceronetti. Il veggente di Cetona
(Fondazione Alce Nero, Isola del Piano) Fabrizio Ceccardi, Il Teatro dei
Sensibili (Corraini, Mantova) Andrea De Alberti, Il Teatro dei Sensibili di
Guido Ceronetti (Junior, Bergamo) Marco Albertazzi, Fiorenza Lipparini, La luce
nella carne. La poesia (La Finestra Editrice, Lavis) Masetti, A. Scarsella, M.
Vercesi, Pareti di carta. Scritti su Guido Ceronetti (Tre Lune, Mantova), Ortese,
Le piccole persone (Adelphi, Milano). Lattuada, Frammenti di una luce
incontaminata in Guido Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, Emil Cioran Gnosticismo moderno. Ma io diffido dell'amore universale Guido
Ceronetti, la Repubblica, Archivio. L’ultimo bardo gnostico che cantava il
dolore per la bellezza perduta. Morto il più irregolare degli scrittori
italiani. Ernesto Ferrero, La Stampa, V D M Vincitori del Premio Grinzane
Cavour per la narrativa italiana V D M Vincitori del Premio "Città di
Monselice" per la traduzione letteraria V D M Vincitori del Premio Flaiano
per la narrative. "StgvvU nni GIURISPRUDENZA ROMANA. ISTITUZIONI
DI DIRITTO ROMANO. PARMA, BATTEI. Le mie
parola sull’istituzioni di diritto romano consentite che sia, quale
il sentimento vivo e sincero dell'anima la richiede. Sia d' omaggio a' miei maestri,
ai quali ritomo qui con ossequio immutato; sia di saluto fraterno agli
studenti, a cui mi presento, e da cui mi bramo accolto, quale compagno di
studi, fiducioso di trar lena, pel compimento del mio assunto, più che
dall' ingegno troppo scarso ed inesperto, dal loro consentimento
amichevole, dallo scambio fra noi , vivo e continuo, d' affetto fraterno.
Da questo scambio io trarrò buon augurio alla carriera
d'insegnante, verso la quale muovo oggi con trepidanza il primo
passo, e alla quale volsi e volgo ogni mio studio, guardando alla
meta con assiduità ferma di volere: del quale io non certo dovrò dolermi,
se, per debole ingegno o per avversa fortuna, quella dovesse per
avventura sfuggirmi. E però consentite che, muovendo il primo passo per
questa via, io qui ricordi l'assidua e amorosa intelligenza di cure del
Maestro illu- stre che ad essa mi guidava, e di cui ognuno ricorda
e r alta vigoria del pensiero, nutrito da corredo mirabile di studi
vari e profondi, e la bontà pura, ideale dell' anima, onde qui, come
ovunque, conquise d'affetto reverente maestri e discepoli. Consentite che
a Brini io mandi un saluto, coU'affetto il più riconoscente e devoto di
discepolo e di fratello. . Invoco ora, o Signori, la vostra
attenzione indulgente sopra un tema, che, per sé, non parmi inopportuno a
trat- tarsi al principio d'un corso d'istituzioni di diritto
romano: se e quanto abbiano avuto d'influenza sulla GIURISPRUDENZA IN
ROMA le scuole filosofiche. Perchè, come in tal corso deve studiarsi per
rapidi tratti tutto 1' organamento del diritto privato e i singoli
istituti di esso. Così è conveniente ed opportuno esaminare e valutare quali
elementi sul delinearsi e conformarsi di quelli ebbero efficacia, e
quanto debba attribuirsene a ciascuno. La ricerca può talvolta, è vero,
rasentare e quasi toccare il campo della storia del diritto romano, che
si volle dalle istituzioni disgiunta; ma tali contatti non fa duopo osservare
come in punti non pochi e non lievi siano inevitabili, per quanto
si voglia lasciare al corso d' istituzioni il carattere più prettamente
dommatico. Che invero troppo spesso non può trascurarsi, per lo studio
preciso e compiuto degl’istituti all'ultimo momento giustinianeo, uno
sguardo alla loro origine e alla vita secolare che precede quel momento:
origine € vita di cui alla cattedra di storia vuoisi riserbata la ricerca
più diretta e diffusa. n tema eh' io prescelgo è arduo. Di più esso
entra buon tratto in un campo che non è il mio, nel quale io m'
avanzo peritoso, con un corredo scarso di studi e invocando l'indulgenza
di chi coltivi di proposito la storia della filosofia, e qui segnatamente del
pensatore illustre, che è onore di questa nostra facoltà giuridica alla
quale presiede. All'arduezza del tema se ne aggiunge la vastità. Talché
il tempo riserbato a discorrerne congiurerà colle deboli forze del
disserente a renderne imperfetta per più lati la trattazione; la quale
afifaticò in lavori appositi e in trattati generali d' antichità e di diritto
romano, uno stuolo numeroso di filosofi, fra cui non pochi valenti, dal
Cujacio in poi, e che fu pur di recente ripresa anche in Italia. Fra
altri, da un uomo, il cui nome segna una gloria e un lutto eterno perle
scienze romanistiche: Padelletti. Vanni. Io non certo presumo esaurirla, ma
solo mi propongo riassumerla per larghi tratti, valendomi e delle altrui
ricerche e di quelle ch'io venni compiendo direttamente sulle fonti,
procedendo dunque con modestia d'intenti. D’una cosa però sopra ogni
altra curandomi: di quella serena imparzialità di giudizio, che in temi di
questo genere, che toccano da vicino le varie credenze filosofiche individuali,
è facile troppo lo smarrire. Che invero non ci mancheranno, nel
procedere in questo tema, esempi di aberrazioni stranissime, a cui, privi di
quella, uomini, pur valorosi, riu- scirono. E innanzi tutto vuoisi qui
delineare per cenni la storia delle varie scuole filosofiche che tennero
in Roma il campo: storia per verità ben nota ad ognuno; ma pure non
inutile forse a richiamarsi qui, in brevi tratti , perchè tosto se
ne colgano quegli elementi, che sono essenziali nella trattazione
del nostro tema. Solo però dall' epoca di CICERONE tali cenni debbon
prender le mosse. Che, se può accogliersi che coi nomi di Socrate, e in
ispecie dell’ACCADEMIA e del LIZIO, giungesse già prima in Roma una
qualche eco delle loro dottrine, questa dovè riuscir ben fievole e inefficace,
mentre tanto saldo e fiero durava tuttavia in Roma quello spirito
anti-filosofico, per cui va Famoso CATONE, e da cui fu destata
l'implacabile ironia d’ENNIO. Le dottrine filosofiche dell’ACCADEMIA e del
LIZIO penetrano, benché solo
frammentariamente e indirettamente, coli' insegnamento di Panezio; al
quale V aver abbracciato IL PORTICO non tolse di seguirle e
propugnarle in taluni punti. Ma l’efficacia del PORTICO è però come
maestro di dottrine, nelle quali ebbe discepoli autorevoli e numerosi, e fra
essi giureconsulti di grido. Corrispondendo quelle, pel largo svolgimento che IL
PORTICO da alla morale, con pratici e austeri intenti, alla natura
del genio romano. Nel quale per contrario mal poteva svilupparsi il germe
dell' elevato idealismo dell’ACCADEMIA. Così come non poteva averne
favore la poca praticità diretta delle dottrine del LIZIO, già entrate in
Roma coi libri di Aristotele arrecativi da Siila, colla diffusione
curatane da Andronico da Rodi e da Tirannione. Ne molto di
più potevano avervi efficacia le dottrine della NUOVA accademia,
propugnate da Filone di Larisse e da Antioco. CICERONE, pur abbracciando
sostanzialmente IL PORTICO, coglie e assimila, secondo quella che fu pure
la tendenza di Panezio, e rimase tendenza della filosofia romana in
generale, quasi da ogni altra scuola taluni de' principii che
meglio vi corrispondessero al genio romano. Solo combatte invece la
FILOSOFIA DELL’ORTO, forte allora, e ancor più poco appresso: il quale
dura buon tratto allato alla scuola del PORTICO, fino a che perde teneno.
E, come CICERONE assimila principii estranei allo al PORTICO, altrettanto
ne rigetta ciò eh' era in questo di troppo rigido, e però praticamente
inefficace. Ptr CICERONE, ad esempio, contrariamente al PORTICO, non è
immeritevole di pregio il moderato godimento -- De sen. 14. Se il bene
morale sta al disopra d'ogni altro, esso non è tuttavia il solo bene
possibile e apprezzabile. Se è vero che il dolore dev' essere virilmente
tollerato, non è per questo men vero ch'esso sia un male (Tusc, II, 18;
II, 13). Per tal modo, con quest' opera e di assimilazione e
insieme di selezione. CICERONE procaccia il germe delle dottrine filosofiche
elaborate più tardi. La distinzione dell'corpo e dell’anima, il legame di
origine e finalità comune che unisce tutti gl’uomini e che impone a tutti
l'obbligo di fratellevole aiuto, che trovano trattazione più diffusa negli
scritti di Seneca, e poi di Antonino, son già delineati, chiaramente in
Cicerone (cfr. De rep., VI, 17; Ttisc, I, SI; De off., Ili, 6; De leg,,
I, 23) (1). Dopo Cicerone, frammezzo alle lotte combattute dai FILOSOFI
DELL’ORTO, fra i quali risplende il genio sovrano di Lucrezio, e mentre
pure dalle file dei filosofi del CINARGO partono le satire aspre ed argute di
Varrone, Q. Sestio prosegue, benché intinto della setta di CROTONE, le
tradizioni del PORTICO. Sestio raccolte poi da Fabiano e piti tardi da Attalo,
a cui die' gloria l'esser maestro di Seneca. La tendenza eclettica,
che si ha ognora in tutto questo sviluppo, ci si presenta più che mai
viva e spiccata in Seneca, già inclinevolo alla setta dei Crotonesi,
ammiratore dell’Accademia, né sdegnoso di citare Demetrio del Cinargo ed
Epicuro dell’Orto. E in punti sostanziali egli dissente dal Portico.
Significantissimo é un esempio, che già da altri fu notato e illustrato. Per il
PORTICO non può aversi diversità di natura fra ciò che chiamasi corpo e anima.
Seneca separa i due elementi e finisce per creare una specie di antagonismo,
che spiega la vita. Il corpo é la prigione dell' anima, un peso che la
rattiene verso la terra. Finché è unita al corpo, sta come avvinta in
ceppi (Ep., 65, 22). L’anima, per conservare la sua forza e la sua libertà,
lotta di continuo contro la carne (ibid.). Questa distinzione, così
precisa, del corpo e dell' anima é estranea al vero sistema del Portico e
Seneca è indotto da questa a conseguenze che anche più si allontanano
dalle dottrine de' suoi maestri. Secondo il Portico, l'anima muore, dopo
che il mondo sarà distrutto per mezzo del fuoco. Seneca, esitante su questo
punto, dopo aver detto a Marcia che tutto annienta e strugge la
morte (Com, ad Marc, 19, 5 ), le descrive l’anima del figlio, salente al
cielo, a lato di Catone e dei Scipioni. E scrive altrove senz'altro esser l’anima
eterna e immortale (Ep,, 57, 9). Distacco certo notevole, ma nel
quale troppo volle vedersi oltre il vero, col dar vita air omai
sfatata leggenda che Seneca si ascrivesse alle sette cri- stiane
(6). Seneca riprende con nuova energia V indirizzo morale di
cui già erano i germi in Cicerone: a questo solo rivol- gendo ogni suo
sforzo. Egli non si cura delle discussioni teoriche sul massimo bene, non
formula dogmi; ma segna le norme morali, fin pei rapporti più minuti
della vita. Dopo Seneca, il movimento filosofico prosegue. E dopo la
nube che parve oscurare, sotto i regni di Vespasiano e di Domiziano, la
fortuna dei filosofi, questa rifulge poco appresso più che mai splendida.
Plutarco vien cogliendo nella morale, anche con più ampia libertà
eclettica le regole sostanziali del PORTICO, togliendo a questo però la
rigidità ch'era in Seneca: e benché inclinando verso l’Accademia, col far
presiedere alla vi' a un divino primo, sotto il quale stanno divini di
secondo grado, a cui rimangon dietro, a lor volta, i genii mediatori,
giusta il concetto dell’Accademia, fra l’umano e il divino. E
a quello che potè chiamarsi l'impero dei filosofi, sotto Antonino, si
gittano le basi nel principato d'Adriano. È a questo tempo che la lotta
secolare dell' ellenismo contro il ROMANESIMO finisce colla vittoria completa
di quello. Sì che a Roma accorrono da ogni parte del mondo filosofi,
desiderati ed onorati. Demonace può paragonare Apollonio, che muove co' suoi
discepoli da Atene a Roma, ad un argonauta, che vola al rapimento del
vello d'oro (Luciano, Bem.y 31). È à quel tempo che la filosofia compie
in Roma un passo gigantesco con Epitteto. Questi prosegue la dottrina del
PORTICO, benché con certa tendenza verso il CINARGO. Fissandovi
essenzialmente il pensiero subbiettivo come principio e criterio della verità, e
però riducendo a formale il mondo esteriore. Non dunque dolori, ma fantasie di
dolori; onde la inalterabile fortezza e il disprezzo severo d' ogni bene
umano. E la filosofia d' Epitteto, continuata e propugnata strenuamente
da Flavio Arriano, germoglia più tardi nel sereno ingegno di Antonino, che,
elevando come ad eccelso ideale, il concetto della vita secondo natura,
deducendone, come conseguenze necessarie, la legge più pura della
carità umana, chiude gloriosamente il ciclo del PORTICO in Roma. Appressa
solo qualche bagliore raro e scarso traluce fra le tenebre che si vengono
da ogni lato addensando. IL PORTICO non fa più un passo. Non vale la filosofia
dei così detti accademici eruditi, già prima coltivata, allato al Portico,
da Favorino, da Massimo di Tiro e da Alcinoo, a gittare alcun germe fruttifero.
E le dottrine troppo idealistiche dei accademici, formulate con nuovo
vigore da Plotino, rimangono il culto inefficace di qualche anima
solitaria. Già da questi cenni, benché così rapidi e incompleti,
traluce una singolare coincidenza. I momenti essenziali per la storia
della filosofia in Roma coincidono coi momenti essenziali per la storia
della giurisprudenza. Il genio eclettico di CICERONE negl’anni della
REPUBBLICA, dà in ROMA inizio efficace agli studi della filosofia, air
incirca nel tempo, in cui -- scorse tre generazioni da quando lo specchio
di Gneo Flavio sottrae l'arte del diritto all'arcano monopolio pontificale
e l'insegnamento tentato dal pontefice plebeo Coruncanio offre i germi,
raccolti e rudemente elaborati da Sesto Elio. Q. Mucio SCEVOLA gitta pure co'
suoi XVIII libri iuris civilis i fondamenti sistematici del diritto. E, al
principio del principato d’Ottavinao, la filosofia, segnatamente del Portico,
fiorisce per r insegnamento di Sestio, al tempo stesso in cui 1'eredità
gimidica, tramandata dall' era repubblicana è raccolta dall' intelletto sovrano
di LABEONE, che inizia per la giurisprudenza l’età delle sue glorie più
fulgide e insuperate. Età che si continua, con isplendore ognor più
vivo, fino a Salvie Giuliano, che colla fissazione deir editto perpetuo,
compendia il tesoro elaborato con continuità meravigliosa d’Ottaviano ad Adriano;
nel quale appunto si vien preparando quello che si disse a buon
dritto rimpero dei filosofi. Questa coincidenza di tempo non deve indurre
in noi nessun preconcetto che valga a sviarci dal sereno esame del
nostro tema: l’analisi dei concetti giurdici. Ma noi dobbiamo tuttavia notarla, perchè
molto soccorso potrà veoin^ene per spiegazioni .e raffronti nel seguito
delle nostre ricerche. Ed entrando omai neir esame del tema,
ricerchiamo se nel principio che regola gl’istituti e rapporti v'ha
alcuno degli elementi filosofici siamo venuti seguendo. Ne vi spiaccia
clie sopra tutto e' intratteniamo in quest' ufficio modesto e paziente di
semplice constatazione e che riserbiamo a più tardi alcune considerazioni
d' ordine generale, che da questa potranno emergere. Consideriamo tosto i
requisiti essenziali al soggetto del diritto. L’ esistenza fisica e i tre
status -- essenzialmente lo status di libertà. Fra le regole
spettanti all'esistenza fìsica l’influenza del PORTICO ci si presenta
spiccata nel concetto teorico di cui è cenno specialmente in un testo
d'Ulpiano, per cui si considera il feto tuttora entro le viscere materne
come parte di queste – “mulieris portio vel viscerum” -- : Ulp., fr.
1 § 1 D. 25, 4 e prima Papiniano, fr. 9 §. 1 D. 35, 2 — “homo non
recte faisse dicitur”. E però tosto da osservarsi come questa considerazione
astratta, tolta manifestamente dal PORTICO (Plut., Plac. pML, V, 14, 2:
\iripoq eivai Ttig x(X7Tpòq) rimanne in pratica lettera
morta. Perchè, logicamente, dal considerarsi il feto parte
delle viscere materne, verrebbe che, fino al momento del suo staccarsene e
del suo passaggio ad esistenza di per sé stante, esso non dove dar luogo
ad alcun apposito rapporto giuridico. Mentre, contrariamente, stan di fronte a
tal concetto la legge di Numa che proibisce di seppellire la donna
morta incinta, prima di averne estratto il feto (fr. 2 D. 12, 8), le pene
contro il procurato aborto, il divieto di Adriano di eseguire la sentenza
di morte contro la con- dannata incinta ( fr. 18 D. 1, 5), la tutela al
ventre pregnante, risalente fino a prima delle XII tavole, e la “honorum
possessio”, che a nome di quello potè chiedersi; istituti e rapporti intesi
tutti alla protezione di un soggetto di diritti sperato, e dentro altro
soggetto. Onde pure la risposta affermativa alla questione, che tuttavia
parve necessario propoiTe. Se il figlio, nato dalla madre exsecto venire,
abbia diritto di succedere ad essa (Ulp., fr. 1 §. 5 D. 38, 17 ) e il
considerarsi come un essere già esistente il feto entro lo viscere
materne, benché non ancora a sé stante. Ciò secondo la verità eterna e
precisa delle cose. ( Cfr. Giul., 37 dig,^ fr. 18 D. 36, 2: Is cui ita
legafum est, qìmndoque liberos habuerit, si praegnatc uxore relieta decesserit,
intelligitur expleta conditione dccessisse et legatum valere, si tamcn
posthuììius natus fuerit; Ter. Clem., lib, 11 ad leg. lui. et Pap., fr.
153 D. 50, 16: IntellegendiiS est mortis tempore fuisse qui in
utero relictus est\ Celso, 16 dig.y fr. 187 D. 50, 17; Ulp. 19 ad Sab.,
fr. 20 D. 36,1). Espressamente si fa risalire ad Ippocrate la regola
che assegna il tempo di *VII* mesi, come termine minimo della
gestazione (Ulp., fr. 3 §. 12 D. 38,16; Paolo, fr. 1*2 D. 1, 5). Ma, per
sé, la necessità di segnare un termine minimo, sufficiente di regola alla
gestazione, si afferma per motivi esclusivamente sociali e giuridici, e
ne porse occasione la Legge Giulia. E la fissazione di quello ai 7 mesi,
giusta la teoria d' Ippocrate, ha un'importanza del tutto
formale. Più importante è per noi l'accoglimento della teoria di
Eraclito e del Portico, che fissa a *XIV* anni la pubertà (Plut., Flac,
pML, V, 24,1; Macrobio, Somn. Scijp., G; Saturn., VII, 7). Accoglimento
che ha una grande importanza pel suo significato giuridico. Esso invero segna
un passo verso quella precisione sicura di linee, onde il diritto,
progredendo, abbisogna, e, anche più, include un riconoscimento fine e delicato
del diritto al pudore. Che ciò io avverta qui, anziché più tardi, non
maravigli; giacche non posso veramente propormi un ordine rigoroso, e mi è
forza lasciare che il discorso trascorra a' vari punti, a cui le
fonti che man mano si offrono, gli porgono il destro. Ne che tale
felicissima alata della scuola dei Proculeiani, nella quale si volle ravvisare
più precisa e più profonda rinfluenza del Portico, sia dovuta veramente a
tale influenza, anziché alla considerazione obiettiva, spregiudicata delle
necessità avanzantesi del diritto, parmi possa sostenersi con alcun serio
argomento. Se influenza vi si ebbe, essa fu tutta nella fissazione formale
del termine al quattordicesimo anno, anziché al dodicesimo o al
quindicesimo, come altrimenti avrebbe potuto aversi. Ma romanamente giuridico e
il senso che fé* avvertire la necessità di quella regola netta e certa e
fé' accoglierla trionfalmente. Proseguendo in tali traccie formali,
l'influenza della filosofia parmi possa avvertirsi anche nella considerazione
del parto trigemino, in caso di gravidanza della madre (Plut.,
Pìcce. pML^ V, 10,4), che ha gravi effetti per l'aspettativa
dei diritti spettanti ai possibili nascituri, fino all'avvenimento
del parto, e che nelle fonti ci si presenta risalente a Sabino e a Cassio
(Giul., fr. 8 §. 1() 1). 40, 7; Gaio, fr. 7 pr. D. 34,5; Paolo, fr. 28
§.4 D. 5,1; Id., fr. 3 D. 5,4). Ma ben altra influenza, sostanziale e
diretta, della filosofia, si sostenne per un tema, che qui dovrà trattenerci
alquanto: lo schiavo. È da tale influenza che si volle determinato l'
affermarsi con moto continuo, dallo scorcio della repubblica al secolo
degli Antonini, di un' intima contraddizione nel concetto di Schiavo. E s'
adduce la dichiarazione tradizionale dei giuristi di questo periodo essere lo
Schiavo contro natura, la protezione che è accordiata man mano alla vita e
air integrità personale dello schiavo contro le eccessive sevizie del
padrone (Gellio, Noci. Att, V, 14; Eliano, Be an,, VII, 48; Gaio, fr.
1 §. 2 D. 1,6; Ulp., fr. 2 D. eod, Modestino, fr. 11 §. 2 D. 48,8)
al cui arbitrio lo schiavo è sottratto, per esser sottoposto, in caso
ch'egli delinqua, ad appositi magistiati, e a procedimento, non
sostanzialmente difforme da quello che vale pel LIBERO (Pomp., fr. 15 D.
12,4; Ulp., fr. 12 D. 2,1; fr. 3 §. 1 D. 29,5; Venul., fr. 12 §. 3 D.
48,2), e indipendente attività patrimoniale che si riconosce allo schiavo
col peculio ( quasi patrimonium Uberi hominis: Paolo, fr. 47 §. 6 D.
15,1). S' adduce il favor libertatis che inspira in molteplici casi le
larghezze con cui si risolvono le dubbie questioni di stato e s'effettuano i
giudizi liberali -- Lege Iimia Petronia si dissonantes pares iudicum
existant sententiae pro libertate prommciari iussuni: Ermog., fr. 24 D.
40,1; e. d' Ant. Pio, presso Paolo, fr. 38 §. 1 D. 42,1; Ulp., fr. 3 §. 1
D. 2,12), s'eseguiscono le manomissioni, ordinate per atto d'ultima volontà
(Giul., fr. 9 §. 1 D. 33,5; fr. 4 pr. D. 40,2; fr. 16 D. 40,4; fr.
17 §. 3 D. eod.; presso Paolo, fr. 20 §. 3 D. 40,7; Valente, fr.
87, D. 35,1; Giavoleno, fr. 37 D. 31; Gaio, fr. 88 D. 35,1; S. C. sotto
Adriano, in Scevola, fr. 83 (84)§. 1 D. 28,5; rescr. di M. Aurelio, in
Marciano, fr. 51 pr. D. 28,5, e in Mod., fr. 45 D. 40,4, cost. dello
stesso in Ulp., fr. 2 D. 40,5; Meciano, fr. 32 §. 5 I). 35,2; fr. 35
I). 40,5; Pomp., fr. 4 §. 2 D. 40,4; fr. 5 D. eod.; fr. 20 I).
50,17 ; Marcello, fr. 3 i. f. D. 28,4 ; fr. 34 D. 35,2; Scevola, fr. 48
§. 1 D. 28,6; fr. 29 D. 40,4; presso Mar- ciano, fr. 50 D. 40,5; Papin.,
fr. 23 pr. D. 40,5; Paolo, fr. 28 D. 5,2; fr. 40 §. 1 D. 29,1; fr. 14 pr.
D. 31; fr. 96 §. 1 I). 35,1 ; fr. 33 D. 35,2; fr. 36 pr. D. eod. ;
fr. 10 §. 1 D. 40,4; fr. 179 D. 50,17; Ulp., fr. 711). 29,2;
9 fr. 29 D. 29,4 ; fr.
1 D. 40,4 ; fr. 24 §. 10 D. 40,5) e in ispecie per fedecommesso, alla cui
esecuzione provveggono già sotto Traiano, e poi sotto Adriano e Commodo,
appositi Senatoconsulti {SS. GC. Bubriano, Dasumiano, Artici, Ulano,
Vitrasiano, Iunciano -- s' adduce l’ingenuità che si vuole accordata al NATO
DA UNA SCHIAVA, che gode della libertà fra il momento del concepimento e
quello del parto (Marciano, fr. 5 §. 3 D. 1,5), o che, ordinatane la
libertà per fedecommesso, non e manomessa indebitamente, per mora
deirerede (rescr. di Marco Aurelio e Vero e di Ca- RACALLA in Ulp., fr. 1
§. 1 D. 38,16; Ulp. fr. 1 §. 3 D. 38,17; fr. 2 §. 3 D. eod.; fr. 26 §. 1
D. 40,5; MARcaNO, fr. 53 pr. D. eod.), fosse pure casuale (rescr. di Ant.
Pio e di Severo e Carac. in Ulp., fr. 26 §§. 1,2, 3D. 40,5;
MoDEST., fr. 13 D. 40,5); il concetto che afferma la libertà inalienabile
(Costantino, c. 6 C. 4,8) e la regola che nega comprendersi nell'usufrutto
il parto della schiava (Cic, De fin., I, 4; Gaio, fr. 28 §. 1 D. 22,1:
Ulp., fr. 68 pr. D. 7,1). Fermiamoci su quest'ultimo punto. È famosa la
disputa, a cui quella regola die luogo ai tempi di CICERONE, fra SCEVOLA,
Manilio e Bruto, ed è pur notissimo come la propugnasse vittoriosamente
quest'ultimo, adducendo essere assurdo il computare fra i frutti
l'uomo, mentre ogni frutto che rechi la natura è destinato
all'uomo. La qual ragione è riferita da Gaio e da Ulpiano ( Gaio,
fr. 28 §. 1 D. 22,1; Ulp., fr. 68 pr. §. 1 D. 7,1), ed è tratta
genuinamente dalla teoria del Portico, secondo la quale l'uomo si
considera come signore dell'universo (Cic, De off., I, 7; De nat. Deor.,
II, 62; De fin., Ili, 20). Ma altrove, (fr. 27 pr. D. 5,3) Ulpiano stesso
adduce a fondamento di questa regola un motivo tutto economico. Non
valutarsi come frutto il parto della schiava, perchè lo scopo economico,
pel quale si tenne schiave, non è quello di procacciarsene i parti « non temere
ancillae eim rei causa comparantur ut pariant » , ossia perchè i parti della
schiava non costituiscono il frutto economicamente normale di essa. E due
fatti inducono a ritenere che sia appunto questa la ragion vera che
determina quella regola: la mancanza, cioè, di un'industria di allevamento
di schiavi e la parificazione del parto della schiava ad ogni altro frutto,
per qualsivoglia rapporto, all' infuori delF usufrutto. Che la regola,
determinata da questa ragione economica, si volesse poi anche
giustificare con un concetto preso al Portico, non può recar maraviglia,
quando si pensi come in altri punti non pochi la vernice d'una forma
filosofica copra un rapporto determinato essenzialmente da principii
tutt' altro che filosofici. E questa nostra osservazione si
riconnette a un altro lato importante del tema: al freno imposto alle
sevizie del padrone: nel quale volle ravvisarsi pur tanto di stoica influenza.
È essenziale la giustificazione datane da un noto testo di Gaio. Doversi
inibire al padrone di far malo uso delle cose sue, allo stesso modo che
ciò si vieta al prodigo (Inst^ I, 53). Regola dunque che ci si presenta
pure determinata non da altro, che dalla considerazione tutta econo- mica
del regolare uso della proprietà. Ed è parimente una necessità di
natura economica, di raflforzare, cioè, Y attività dello schiavo colla
molla del suo proprio interesse individuale, quella che determina
il riconoscimento del peculio, quale patrimonio di fatto del servo,
distinto dal patrimonio del padrone; la cui funzione ha per ogni lato
dell'evoluzione della schiavitù importanza essenziale. Però codesto
elemento economico, che fu magistralmente seguito dal Pernice nel suo
classico libro su Labeone, e che, pei lati che accennammo, resulta da
attestazioni precise delle fonti, non basterebbe a spiegare per sé il
riconoscimento graduale nello schiavo di altri molteplici diritti e
rapporti attinentisi alla personalità, e l' affermarsi di un vero e
proprio sistema giuridico che per esso si crea, del tutto analogamente al
sistema che regola istituti e rapporti fra liberi. Un altro elemento
sostanziale concorre a dar vita e riconoscimento positivo a quel sistema
pei rapporti più svariati. Questo elemento altro non è che la forza
della natura. Forza, che neirantica convivenza a famiglia regolava
nel fatto, quasi inconsciamente, i rapporti della schiavitù ; ma che, più
tardi, «comparsa la prisca semplice costituzione della familia, ordinate
quasi ad esercito, gerarchicamente, le migliaia di schiavi tratti a Roma
dai popoli vinti, fé' assurgere e fissò a rapporto di diritto quello eh'
era dapprima mero e tacito fatto: affermando nello schiavo la contrapposizione
del concetto di “uomo”, di fronte a quello di “res”. Gli
attributi nello schiavo di ente intelligente e consciente s' impongono air
organismo del diritto, pel quale lo schiavo dove parificarsi a una “res”,
ad una “merx.” Ulpiano, trattando della prestazione dei legati imposti
all'erede, e dei casi in cui l'erede può essere ammesso a prestare, invece
della res legata, Vaestimatio di essa, distingue il legato di una “res”
da quello di uno schiavo, valuta i motivi in cui più probabile in questo
può riuscire la prestazione dell' aestùnatio, ed esce coli' affermazione alia
est condicio ìiominum alia ceterarum rerum (Ulp., fr. 71 §. 4 D.
30). Quest'affermazione coglie e sintetizza l'urto intimo e graduale, di
cui la storia della schiavitù in Roma porge traccio continue ed eloquenti,
e per cui pur riesce infine ad imporsi nella coscienza giuridica e
sociale il riconoscimento nello schiavo degli attributi essenziali della
personalità umana. Tali, l'efficacia del patto adietto alla vendita di
una schiava di non prostituirla. Efficacia che include il riconoscimento
del diritto all'onore (decr. di Vespas., presso Mod., fr. 7 pr. D. 37,14;
Pomp., fr. 34 pr. D. 21,2; Papin., fr. 6 pr. D. 18,7 ; Paolo, fr. 7 D.
40,8 ; Aless. Sey., c. 1 C. 4,56); r azione d' ingiurie per offese allo
schiavo, commisurata secondo il grado d' onorabilità di questo (Ulp., fr.
15 §. 44 D. 47,10). L’ ammissibilità di un giiidizio di calunnia a cagione
dello schiavo, che subì per fatto altrui ingiusto giudizio (Papin., fr. 9
D. 3,6). La valutazione della misericordia usata verso di esso, per
misurare la responsabilità di chi ebbe a procacciarne la fuga (Ulp., fr. 7 §.
7 D. 4,3). Il riconoscimento della famiglia servile, nella quale con
sforzo di finzioni giuridiche si riesce a dar certa configurazione a rapporti
patrimoniali, a somiglianza di quelli che intercedono nella famiglia dei
liberi (Ulp., fr. 39 \D. 23,3 ; Paolo., fr. 27 D. 16,3). E persino il
riconoscimento nello schiavo di rapporti d'indole religiosa (Labeone,
presso Ulp., fr. 13 §. 22 D. 19,1; Ulp., fr. 2 pr. D. 11,7). Che
pure sulle conquiste compiute dagli schiavi contribuiscano considerazioni d'
ordine pubblico e di sicurezza pubblica, son ben lungi dal negare. Non
par dubbio, ad esempio, che sia determinata sopratutto da esse la
legge Petronia. !Aia questa pure (appena occorre avvertirlo) non è
che una conseguenza, benché coatta, dell 'affermantesi peronalità dello schiavo.
Ne tuttavia che le stesse dottrine stoiche, col loro elevato concetto della
personalità umana, abbian per qualche lato favorita o affrettata
quell'evoluzione, non <\serei negare: (nò può invero trascurarsi il
fatto che il momento più intenso di essa cade appunto sotto gli Antonini. Ciò
che parrai invece dover negare si è che quelle dottrine vi abbiano avuta
una influenza immediata , essenziale. Talché senza di esse si avesse
ognora a disconoscere nello schiavo ogni attributo della
personalità. Su altri istituti e rapporti attinenti alle persone non
ci abbisogna lungo discorso. Non occorre, per verità, confutare lo strano concetto
che influenza del Portico sia nell'attenuamento della patria potestà, e nella
liberazione delle donne dalla tutela agnatizia. Fatti determinati
entrambi dal trasmutarsi della funzione e natura politica della familia;
trasmutarsi, che pure ci spiega l’avanzantesi prevalenza del vincolo di sangue
sul rapporto civile d'agnazione; che ha poi eifetti importanti, in
ispecie neir ordine delle successioni. E pur ci spiega l’evoluzione
dell'essenza prisca dell'eredità familiare (comprendente, cioè, il
complesso di diritti politici e religiosi inerenti alla domus
familiaqtte) verso l’eredità patrimoniale. Concetto, che , accennato
in istudi recenti ed egregi (16), forse non si presenta tuttavia
immeritevole di trattazione nuova ed apposita e d' investigazione minuta nelle
fonti. Ne mi fermo su di un punto, sul quale non si peritò d' insistere
qualche sostenitore deir influenza sdel Portico sulla giurisprudenza
romana: il puro ed elevato concetto del matrimonio, tramandatoci dai
giureconsulti, e in ispecie esplicantesi nella tarda definizione di
Modestino. Basta osservare che quel concetto è in Roma tradizionale, fin dalla
sua più antica e genuina costituzione e che vi si esplica allora dalle
stesse forme, con che il ma- trimonio si compie, e che, inerente dapprima
solo al ma- trimonio curri manu, nel quale è veramente la divini et
Immani iuris cornunicatio, esso s'atteggiò poi, per forza di tradizione
sul matrimonio libero, prevalso su quello, e tra- luce idealmente nei
tempi stessi, in cui il matrimonio era di fatto quale ce lo tratteggiano
con foschi colori Giovenale e Marziale. Occorre qui invece, fra i
diritti attinentisi alle persone, accennare ad alcuni altri, nei quali si
ravvisò l’influenza filosofica, e segnatamente del Portico.
Che, per quanto tocca il diritto alla vita, e l'affermazione negativa di
questo, i romani non abbiano riguardato con deciso is favore il suicidio,
come mezzo estremo di salvaguardia a mali maggiori; e ciò molto innanzi al
tempo in cui la filosofia divenne nota in Roma, resulta dalla
natura del carattere romano e dell' ideale ch' esso prefiggeva alla vita,
dalla stessa aureola di gloria onde fu recinta la memoria di Lucrezia, di
Catone e di Bruto. Né dunque può pensarsi ad alcuna influenza del Portico,
se vediamo i giuristi non considerar come dannata la memoria del suicida.
Ma singolarissima è poi la specialità contemplata nel testo che per consueto si
adduce. In esso si riferiscono rescritti di Adriano e d'Antonino Pio, i quali,
considerando il caso, in cui persona accusata di delitto capitale, prima
d' esser sottoposta al giudizio, ponga fine a' suoi giorni taedio vitae
vel doìoris impatientia, dichiarano non incorsi con ciò nella confisca i
beni di quella. Si ha poi nel caso proposto ad Adriano che il suicida era
accusato d' aver ucciso il figlio. Adriano, con sentimento delicatamente
umano, dichiara doversi presumere che non per timor della pena , ma per dolore
del figlio perduto, V accusato sia volontariamente uscito di vita ( Marciano,
fr. 3 §§. 4-5 D. 48,21); non potendosi ad ogni modo ritenere per se
il suicidio deir accusato equivalente a confessione di reità a condanna.
Come poi Papiniano con lucidissima veduta dichiarò e sostenne ( Ibid,,
pr. ; cfr. fr. 29 pr. D. 29,1 ; Paolo, fr. 45 §. 2 D. 49,14 ). Mentre poi
è chiaro che, all' inversa, il suicidio che 1' accusato volle affrontare
non per altro che per timor della pena e ob conscientiam cnminis, non salva
dalla confisca il patrimonio di lui, che si considera quale dannato o
confesso (Ulp., fr. 6 §. 7 D. 28,3; fr. 11 §. 3 D. 3, 2). Il che
davvero s'intende come logico sviluppo, senza che nulla v'appaia
di influenza o reminiscenza filosofica, se pure essa non voglia vedersi
nel ricordo ai filosofi, come a coloro che si uccidono taedio vitae,,.
vel iactationis (fr. 6 §. 7 D. 28,3). E qui pure, a proposito del diritto
naturale alla vita, si avverte il riconoscimento di tal diritto nello
schiavo, là dove è detto da Ulpiano esser lecito etiam scrms fiaturaliter
in sunm corpus saevire (Ulp., fr. 9 §. 7 D. 15,1). Di fronte al qual diritto
affermato perle schiavo, sta l'obbligo in lui di rifondere col suo peculio al
padrone le spese che ha sostenute per curarlo dalle ferite infertesi
tentando d' uccidersi; talché quel diritto si riduce praticamente
ad una curiosa ed amara irrisione. E tocco di un altro fra i diritti
personali. Quello alla religiosità, al quale s'attiene lo sfavore con cui
si riguardò dai giuristi, conformemente agli stoici, il giuramento
(PapiN., fr. 25 §. 1 D. 13,5; Ulp., fr. 7 §. 16 D. 2,14), e in ispecie la
condicio iurisitirmidi, apposta a una liberalità per atto mortis causa (
Labeone, in Giav., fr. 62 pr. D. 29,2 ; Giuliano, fr. 26 D. 28,7;
Marcello, fr. 20 D. 35,1 ; Ulp., fr. 8 §. 5 D. 28,7). Il generale
divieto della condicio iurisiurandi è anteriore a Labeone e posteriore a
Cicerone, e coincide per tempo col fiorire della filosofia del Portico. E
F opinione ch'esso sia determinato da influenze di questa parrebbe tanto più
attendibile, in quanto siamo qui in tema di religiosità, dove
l'istituzione filosofica ebbe veramente, in sullo scorcio della
repubblica e a' primi tempi del principato, efficacia non lieve e assai
diffusa. Senonchè non so astenermi dal proporre una mia modesta
osservazione. Lo sfavore pel giuramento non è già soltanto nel Portico,
ma risale fino tra le scuole presocratiche, a quella di Velia, e al
fondatore stesso di essa, a Senocrate, che nel giuramento ravvisava un
riprovevole privilegio per l'empietà (Arisi., Bhet, I, 15) (19). Forse
quello sfavore, che nello spirito filosofico si manifesta cosi da antico,
era pure in origine nello spirito romano, e durava nel patrimonio
d'idee e di tradizioni, che, specialmente in materia di religione, i due popoli
ritrassero dal ceppo comune? Il che solo accenno, pur non volendovi
troppo insistere, perchè non paia amor di sistema. E, lasciando omai
d' altri rapporti di minore impor- tanza, pure del tutto formali, come,
per ciò che attiensi alla salute, la definizione del morbo, di habitus
cor- poris contra naturam (Sab., fr. 1 §. 9 D. 21,1 e in Gellio,
Noci. Att^lY, 2. cfr. fehris: Giul., fr. 60 D. 42,1) evi- dentemente
tolta dallo stoicismo; il concetto del furiosus, che, come privo di mente,
stoicamente è detto suus fion est (Ulp., fr. 7 §. 9 D. 42,4), passiamo
senz'altro alle cose e ai diritti su di esse. La triplico
partizione delle cose, che ci riferisce Pomponio nel lib. 30 ad Sah. (fr. 30 D.
41,3): F una comprendente quod contìnetur uno spirita, graece yivwjxsvov;
l'altra che abbraccia qiiod ex contingentihus hoc est j)ÌU' rihus interse
coherentibus constat, quod atiVTQjAjjievov, e una terza dei corpora pUira
non solata^ ma uni nomini suhiecta, resultanti ex disfantibiis, b T
applicazione precisa e genuina della distinzione del Portico. Al
frammento di Pomponio fauno riscontro testi di Plutarco, Fraec. coniug.,
34 ; di Sesto Empirico, Adi\ Math,, VII, 102; IX, 7S; di Seneca
J^at. qiiaest., II, 2 ; Epist., 102,6 ; e di Achille Tazio, Isag, in
plten. Arati, 14. Che dunque per essa i giuristi abbiano formalmente
attinto dai filosofi non v' ha dubbio. Il ricordo formale dei filosofi si
ha persino nella esemplificazione consueta nei giuristi delle cose
appartenenti a ciascuna di quelle tre categorie. Ma se ci facciamo a
ricercarne le pratiche applicazioni, tosto ci avvediamo come altri
principi, del tutto indipendenti da essa, inteivengano. E, invero, il diverso
modo con cui si ammette il possesso e l'usucapione, segnatamente
per le res comiexae e le universitates ex distantibus. La regola
che il possesso di una res connexa implica il possesso delle cose singole
da cui risulta composta, come parti, non come cose a se stanti, e
distinte individualmente, si spiega col concetto tutto romano del
requisito A^' animus nel possesso. Il quale, dovendosi rivolgere alla res
connexa nella sua essenza, non si concepiva che contemporaneamente si
rivolgesse alle parti singole di quella; onde appunto la inammissibilità di un
contemporaneo possesso dell' intiero e delle parti, e la impossibilità di
acquistare un diritto sulle parti, in forza del possesso della res
conmxa resultante dalla loro unione. Il che ha segnatamente ef-
fetti importanti per la teoria deirusucapione. Mentre poi, per quanto tocca
in ispecie le regole del possesso e deirusucapione dei tigna onde resulta
composto un edifizio, concorre anche il riguardo tutto civile che
inspirava la lex (le Ugno iuncto (Venuleio, fr. 8 D. 43,24; GiAVOLENO,
fr. 23 pr. D. 41,3; Gaio, fr. 7 §. 11 D. 41,1; Paolo, fr. 23 §. 7 D. 6,1;
Ulp., fr. 7 §. 1 D. 10,4) (21). Meno ancora può trarsi dalla
distinzione fatta dai giuristi delle cose corporali e incorporali. Se per
questa, fra il concetto dei giuristi e quello dei filosofi, può esservi
somiglianza, essa è del tutto apparente. Le cose incorporali dei
filosofi, come essenzialmente il tempo e il vacuo, non hanno nulla di
comune colle cose che son chiamate incorporali dai giuristi per la loro
funzione sociale e giuridica, e che hanno sempre in sé per contenuto cose
corporali, e ciò secondo un concetto che ci si presenta tradizionale
e risalente: in modo sopra tutto preciso e spiccato nella hereditas
(Pomponio, fr. 37 D. 29,2; fr. 119 D. 50,16; Gaio, Inst, II, 14; fr. 1 §.
1 D. 1,8; Apric, fr. 208 D. 50,16; Papin., fr. 50 pr. D. 5,3; Ulp., fr.
178 §. 1 D. 50,16; fr. 3 §. 1 D. 37,1; Paolo, fr. 4 D. 5,3): e
segnatamente, con mirabile evidenza, nel concetto e nelle regole
delF^^t*- capio prò herede (Gaio, II, 54). E di questo concetto
àeìVheredifas, res corporaUs, che ha per contenuto normale appunto cose
corporali, è assai notevole come un filosofo del Portico parli come di
inutile sotigliezza, deridendo i giuristi che raccolsero (Seneca, De
h&n. VI, 5): e offrendoci con ciò, come fu avvertito, ricordo
certo e perenne della differenza sostanziale che correva, a proposito di
quella partizione, fra il pensiero dei filosofi e quello dei
giuristi. Certo, fra i cor para, la distinzione di quelli che ratione vel
anima carente da quelli che careni ratione non anima o di entrambe, è
rivestita di forma del Portico. Ma è necessario ch'io soggiunga che sotto
di essa sta un concetto tanto primitivo, che davvero non occorreva
rivestirlo del lusso d' una veste filosofica ? Un tema, sul quale
insistettero con particolare predilezione tutti i sostenitori dell'influenza del
Portico, è quello che riguarda, tra i modi d' acquisto della proprietà,
la specificazione. L'opera diretta che qui esercitò, pel riconoscimento
del lavoro umano di fronte alla materia, la scuola dei ProculeiaDÌ, porse pure
argomento per ravvisare una particolare inclinazione di quella verso lo
stoicismo: in contrapposto anche qui alla scuola de' Sabioiani. Quasiché,
a spiegare il riconoscimento del lavoro umano non dovesse bastare una
considerazione positiva di natura tutta economica: la normale preminenza di
valore della nuova specie sopra la materia prima, preminenza che doveva
imporsi al concetto proculeiano, ognora così acuto e vivo e libero,
di fronte all'ossequio tradizionale della proprietà, che pur continua un
preminente riguardo al proprietario della materia. Le fonti, a cui ci si
richiama, pel rapporto inverso alla specificazione, appunto la riduzione
della species alla materia, confortano questo concetto. Si riferiscono invero
per consueto due testi d'Ulpiano, nei quali questi asserisce sembrar
scomparsa la cosa, di cui sia mutata la forma, benché ne duri la materia
(fr. 13 §. 1 D. 50,16), e mutata forma prope interemit suhsiantia rei (fr. 10
§. 9 D. 10,4). Espressamente ciò giustificandosi da Ulpiano stesso,
proprio col criterio economico qmniam plerumque plus est in manu prctio
qtuim in re. E Paolo soggiunge, adducendo l’opinione e di Labeone e di
Sabino, che abest la tabula picta quando ne sia rasa la pittura, o il vestito
quando è scucito, perché appunto earuni rerum pretium non in substantia
sed in arte sit positum (Paolo, fr. 14 pr. D. 50,16). E, partendo da tal
concetto, ben s'intende come, all'inversa, si considerasse economicamente
del tutto nuova la cosa formata per mezzo del lavoro sopra materia già
esistente, e come Proculo e Nerva potesser dire, secondo quello che
Gaio ricorda, che dopo subita l'opera dello specificatore, essa non
potesse più considerarsi come appartenente al proprietario della materia (Gaio,
fr. 7 §. 7 D. 41,1; cfr. Paolo, fr. 3 §. 21 D. 41,2 (24). Né in tema
di materia o sabstantia e species, per r efrore che intervenga su questa
o su quella nel con- tratto di compra vendita, parmi che molto si possa
trarre dalle fonti, per un'essenziale influenza del Portico. Nel
noto passo d' Ulpiano ( fr. 9 §. 2 D. 18,1 ) si riferisce come Marcello
ritenesse sussistente la compra vendita, anche quando, per errore, si
fosse dato aceto, invece del vino dedotto in contratto e rame per oro e
piombo per argento. Ciò giustificandosi da Marcello stesso colla ragione che
sul corpus intervenne il consenso, ed errore vi fu solo nella
materia. Ulpiano consente per l’aceto, perchè qui la sostanza, r oùjta (appunto
secondo il linguaggio del Portico) è quella dedotta in contratto. Mentre
vi ha scambio sostanziale di tale oùjt'a nel caso del rame dato per oro e
del piombo per argento. Talché la preoccupazione erronea che nel
concetto di Marcello sembra ingenerare la reminiscenza del Portico,
scompare in Ulpiano, che ne prescinde recisamente, applicando nel modo
più concetto le regole sull' eiTore nell’oggetto del contratto, non importa poi
ch'esso errore verta in corpore o invece in stibstantia. Lo stesso
testo vivissimo d' Alfeno ( fr. 76 D. 5,1) che riproduce, secondo la
fisica e dell’Orto (Lucrezio, Nat. rer. V) e del Portico (Seneca, Ep. 58
; Plut. Comm. nat. 39; Antonino, II, 17; V, 33), la mutazione continua
della materia, ricordando come il corpo formato da questa sia sempre lo stesso,
per quanto si vengano ognora mutando via via le particelle che lo compongono, e
applica questo principio air organismo di un jiidicium, che rimane
il medesimo col mutarsi de' suoi membri, ritrae in sostanza un concetto
eh' e genetico in Roma, essenzialmente per la persona giuridica del “populus.”
E la fisica del Portico si riduce dunque solo ad illustrare con veste
scientifica ciò che ben prima s'era nella pratica ravvisato. Influenza
del Portico si sostenne in un preteso sfavore alle usure, che si volle
dedune da parole di Papiniano che usura non natura pervenif ( fr. 62 pr.
D. 6,1 ). Quasiché non fosse risalente e tradizionale il concetto che
distiogue dai frutti naturali i frutti civili, e in materia d'usura
non si avesse in Roma, fin da antico, un'assidua, quanto sterile
attività legislativa. Ma basti ornai anche sul tema delle cose,
intorno al quale però non voglio astenermi dall' offrirvi esempio
di taluna di quelle aberrazioni, alle quali accennai essere pervenuti
scrittori egregi, per passione ch'essi posero nell'esame di questo tema.
Scelgo la teoria del Laferrière, secondo la quale la regola che richiede
i due requisiti dell' animus e del corpus per l'acquisto del possesso e
della proprietà per occupazione, riuscirebbe determinata dal concetto
fondamentale del Portico, che distingue nell' uomo 1' elemento spirituale dall'
elemento corporeo. Come analogapaente sarebbe determinata da questo la
necessità della tradizione pel trasferimento della proprietà. E d'altre taccio,
già essendo queste esempio eloquente, come presentantesi sotto un nome
scientificamente onorato e sotto l'insegna gloriosa dell'Istituto di
Francia. Dovrei ora, accennarvi a tutto il sistema romano delle
obbligazioni, al mutamento eh' esso più specialmente subisce dal rigoroso
formalesimo, verso 1' applicazione più agile e diretta della volontà. Mentre
pur tutto il diritto vien ravvivato da raffronti e adattamenti
vitali di elementi nuovi ed estranei coi prischi ed indigeni, e ricordare
come questo sia una conseguenza immediata de' nuovi orizzonti' che omai
ha la vita e il commercio di Roma e delle influenze straniere così
continue e multiformi? E come, a sua volta, il moto potente e continuo di
Roma verso l'universalità, e 1'alito vivificatore che ne deriva sul
diritto, consegua direttamente dalle nuove condizioni politiche ed
economiche? Che questo moto grandioso e continuo corrispondesse alle
dottrine stoiche, per le quali tutto il mondo è una grande città, non può
negarsi. Che per quello riuscisse ad esse più agevole l'aver diffusione è
pur certo. Ne che per tal modo esse abbiano anche cooperato con quello,
talora forse per via inconscia, allo svolgimento di taluni istituti
e l'apporti , come ad esempio dello schiavo , di rapporti relativi alla
religiosità e simili, non vorrei disdire. Ma chi penserebbe sul
serio, solo per un istante, che il moto di Roma verso l’universalità
derivi dal Portico, da alcun'altra delle scuole filosofiche? E che
però da filosofie consegua mediatamente tutta la trasformazione del diritto?
Non però se parmi di dover negare ogni influenza essenziale della
filosofia, e in ispecie il Portico, sullo sviluppo della giurisprudenza romana,
air infuori di quelle influenze concomitanti con altri elementi che teste
toccammo, sopra singoli rapporti, e delle influenze formali che si
vennero annoverando sin qui , voglio io disdire 1' efficacia che la
conoscenza della filosofia ebbe dal secolo di CICERONE in poi, sempre
formalmente, ma pur in campo più generale e importante, nel dar struttura di
ars al itis civile («quae rem dissolutam divulsamque conglutinaret et ratione
quadam constringeret »: Cic, de orat I, 42) (26). Imprimendo con ciò nuova
forza e nuovo sviluppo a facoltà e a tendenze ch'erano in Roma native.
che non tolse tuttavia che, ricevuto tale avviamento nella costruzione
logica, la giurisprudenza procedesse poi da sé, indipendente dalla
filosofia, elaborando essenzialmente i rapporti pratici della vita,
aborrente da ideali astrazioni. E dove la reminiscenza filosofica,
cessando d'essere formale intacca la sostanza giuridica, si ha un
fluttuar vago d'idee incerte e confuse, un' indeterminatezza di linee,
che fa eloquente contrasto colla precisione perfetta, sicura, ond'è
in Roma esempio mirabile tutto l'organismo del diritto. Voi intendete
ch'io accénno al im naturale. Fra il concetto d'Ulpiano che lo designa
emanazione della ragione diffusa neir universo, e quello di Paolo che vi
ravvisa un' ideale tendenza verso l’ “aequwn bonum”, o quello di Gaio che
lo riaccosta al “ius gentium”, quale dettato dalla universa ratio; fra i
più diversi significati ed applicazioni di naturalis ratio, di naturalis,
di ìiaturaìiter, che occorrono nelle fonti, o connessi ad uno di quei tre
concetti, od oscillanti fra l’uno e l’altro, o indipendenti da ognuno, lo
studioso procede incertamente. Né certo sta a me, ne io presumo di portar
giudizio sulle varie costruzioni che modernamente si tentarono del “ifàs
naturale”, concepito, o conforme alle dottrine elaborate in Boma dalla
filosofia accademica e del Portico, come coscienza insita nella umana
natura di un diritto universale, e però del tutto distinto dal ius geniium. O,
invece, obiettivamente, come ordine naturale contrapposto air ordine
civile, come dettato dalla ratio. O, di nuovo subbiettivamente, quale
concezione dovuta all' idea del diritto dettato dalla ragione naturale a tutto
il genere umano, atteggiatasi in Roma sul “ius gentium” e fusasi
poi con esso, per esplicarsi poi praticamente n^Waequita^, che è la forza
che s'avanza via via nell'editto pretorio e gradatamente vi prevale. O invece
senz' altro come derivazione e sviluppo dello stesso ius gentium. A me basta
notare sol questo. Quanto d'indeterminato e d'incerto rimanga tuttavia in
ciascuna di quelle costruzioni, e come, s' io non erro, non sia riuscito ad
alcuno, benché ingegni forti e coltissimi vi si accingessero, di
dimostrare che il concetto vago ed astratto del ius naturOfle scese ad
applicazioni pratiche e concrete. Né certo maggior pregio di linee precise
e spiccate o d' importanza diretta e sostanziale per 1'organico
sviluppo del diritto ci presentano nel titolo de “iustitia” et iure
le definizioni astratte, tolte a prestito dal Portico, di giustizia
e di giurisprudenza, e i tre famosi precetti del diritto. L' artificiosa
inutilità di tali concetti, tratti più o meno fedelmente dalla filosofìa,
spicca in guisa vivissima nelle definizioni del concetto di “legge”;
nelle quali, attraverso a vaghe reminiscenze di Demostene e di Crisippo,
ricompare il concetto, romanamente vero, di coìnmwiìs rei ptiblicae sponsio. La
gloria del diritto e dunque riserbata a Roma; la quale, per opera
secolare ed esclusiva del suo genio, affida ai venturi, con eccellenza
insuperata, le leggi eterne dell'umana vita giuridica. Se v'
ha ricordo che debba infiammare e scuotere i diretti continuatori del
sangue e del pensiero latino, è il ricordo di quella gloria. In questa
Università che ha tradizioni nobili e antiche, proseguite degnamente
dal maestro provetto, cui circonda qui da olti-e cinque lustri
reverenza aifettuosa di discepoli, e dall'altro insegnante che coi lavori
acuti e geniali, come coir insegnamento ef- ficace, onora in Italia le
discipline romanistiche, quella gloria infiammi e riscuota noi pure, o
compagni. E com'essa ravviva e ravvivei-à ognora in me le deboli forze,
altrettanto sia come fuoco sacro ai vostri giovani e ardimentosi
intelletti. Cattanei. P erozzi. Un elenco molto accurato dei
lavori appositi scritti sul nostro tema trovasi nella classica opera
deli' Hildenbband, “Gesch. u. System der Rechts und Siaatsphilos.”,
Leipzig. Lo riporto qui, con alcune
aggiunte e avvertenze bibliografiche, che contrassegno collocandole fra
parentesi. Indico con asterisco i lavori che non potei procacciarmi:
Malquytius, De vera non simnìnL<i iurisc, phiL, Paris., 1626
[ristampalo nella Triga ìibelL rariss., Halae Magdeburg]; Paìjaninus
Gaudextius, .2>^ j>/i27o«. ap. Bom. in. et progr. Pisis, 1643, e.
42-3^ pagg. 104-6; | Buaxdes 7->e, vera non simulata iurisc. phih,
Francof. 1626; opuscolo che noto benché certamente privo di valore, solo
per amor di completezza, e seguendo in ciò V e- sempio dello stesso
Hildenbrand, che giustamente tien conto nel suo elenco anche di lavori
senza pregio, come p. e. quelli compresi nella raccolta dello Slevogt] ;
Scuilier, Manud. pliilos. moraliii ad ver, nec simnl. pini., len.,
1696;BonMER, Dephilos, iurisc, stoica^ Halle, 1701 [ristampato nel volume
J)e sectis et philos. iurisc. opusc.^ coli, recogn. et praef. et elog.
Ictor. rem. ac progr. de disp. fori aiixit Slevootius, lenae, 1724];
Buddeus, De errar, stoic, negli Anal. Imt. phiL, Hai., 170G; Voss, De
falsis Ictor. ratiocin. ex parte occas. philos. stoicae enntis,
Harderov., 1709; Ev. Otto, De stoica vet. Ictor. philos.: Id , De vera
non simulata philosoph. Ictor. j nel voi. cit. dello Slevogt; Herjng, De
stoica velt. Roman, philos., ibidem; [Kunholt, Semicenturid comparai,
verae et simul. iurisc. phil., Lipsiae, 1718, che trovo citato dall'
Eckardt, Herm. duriSj *Lips., 1750, cap. 4]; Slevogt, De sectis et
philosophia Icforunif len., 1724; *£ggerde8. De stole, Ictor. roman. eìusqiie
historia et ratioìie, Kostoch, 1727: Hofscaxn, De diàUctica vett, Ictor.,
Francof., 1735, ne' suoi Melemata ad pandectas; Schaumburg, De
iurisprud. ceti. Ictor. stoica tractatiis, hoc est succincta demotutr.
iuriscon- sultos roman. non vita solum sed etiam doc trina stoicam
philoso- phiam esse profes>ios, lenae, 1745; *Pauli, De utilitatibus
quas attulit philos. ad iurisprud. ronianani, Lips., 1753; Meister,
De plùìos. Ictor. Roman, stoica in doctrina de corpor. eorumque
par- tibus, Gott., 1756 [e neW Opusc. Syll., I, n, 10]; VanHoogwerf,
De car. tur. Boni, partibus stoam redolentibus, Traj ad Bhen.,
1760, e nell'OsLRiCH, Thes. noe. voi. Ili, tom. 2, pagg. 63 e segg. ;
Boers^ De antropoì. Ictor. Roman, quatenus stoica est, Lugd. Bat. ,
1766 [*Terpstra, De philos., cet. iurtsc, Francof., 1767, che trovo
citato dall*HoLT, Hist. tur. rom. lineam., Leod., 1830] *Ortloff,
Ueber den Eiufluss der stoischen Philosophie auf das
rom.Recht.,^ìàng., 1797; *Vax Vollenhoven, De exigua vi quam philosophia
graeca habuìt in effórmanda iurisprudentia romana, Amstelod.; Ea-
TJEN, Hat die stoische Philos. bedeutenden Einfluss auf die rom.
juristischen Schriften gehabt? Kiel, 1839, ristampato nei lahrb. di Sell,
in, pagg. 66 e segg.; [Trevisani, Lo stoicismo coìisìderato in relazione
colla gìurisprud.'» roìnana, nella Gazzetta dei tribunali, VI, 1851,
pagg. 821 e segg.; VII, 1852, pagg. 7 e segg. ]; Voigt, lus natur. bon.
ti. Aequum, Leipzig, 1856-75, I '^§. 49-51 pagg. 250-66; [Xaferrière,
Memoire concernant V influence du stoicisme sur la doctrine des iurisc.
romains, nelle Mevi. de V Acad. des scienc. mor. et politiques, X, 1860,
pagg. 579-685. Fra noi usciva nel 1876 il lavoro dottissimo del MoRIA^'I,
La filosofia del diritto nel pensiero dei giureconsulti romani, Firenze,
1876. Sono ancora a no- tarsi, benché tocchino solo punti speciali del
tema: Eherton, sulla terminologia stoica nel dir. romano, nella Quaterly
RevieWj III, n. 9, 1887, di cui dà un sunto G. Pacciiìoxj, néìV Ardi,
ginr., XXXVTII, fase. 1-2; Lecrivain, Le terme stoicien verecundia dans
la langue des Dig., nella Nouvelle revue hist. de droit frane, et drang.,
XIV, 1890, pagg. 487-9]. Trattano pure del nostro argomento,
benché non di proposito, i seguenti: [Hopperus, lur. civil. lib. sex,
Lovan., 1555, pagg. 554 e segg.] CuiAcio, Observ.y 56,40; Merillio,
Obsero.,\, 8; Turnebo, Advers., Aurei., 1604, Vili, 20, pag. 151;
Lipsius, Manud. ad stoic. philos..^ nelle Opera.^ Antverpiae, 1737, IV,
473; Io., Physiol. stoic., nelle Opera, IV, 542; Kamos, Tribonianus,
Lugd. Bat., 1728, pag. 249 e segg. [Bodeus, Observat. et elem. phil.
instrumentalis, Halae Sax., 1732, cap. II §. 27, pag. 308, cap. IV g. 14,
pag. 470]; Ma- 'Jìp: SCOTIO, De sectis Sahinian et
Proculeian, in iure civili, [ Lipsiae^ 1728], Alld., 1740; Eokhardt, Ilerm.
luris, Lips., 1750, e. 4; Walch, Opp.^ I, p. 237 [Gravina, De ortu et
progr, iur. civ., Napoli, 1757, I, 35-6; Brucker, Hist. crii, philos.,
Lipsiae, 1766, II, pagg. 15 e segg.; G. B. Bon, praef. al Leibnitz,
Opusc. ad iur. peri., nel Leib- NiTZ, Oper«, Genevae, 1768, IV, p. d,
pag. 5, n. 1; Eineccio, Antiq. rom., Venet., 1792, lib. 2 e 3, pagg. 17,
30-1, 191 e segg.] ; Vico, Scienza nova, cap. 4; *Welcker, Die letzten
Grilnde von Recht Staat u. Stafe, Giessen, 1813, pag. 492, 500, 522, 578;
*Id., Uni- versa! u. Jurist. poh Encyclopadie, Stuttgart, 1829, pagg. 70
e segg., 556 e segg.; Veder, Hist, phil. jur. ap. veti,, 319; Zimmern,
Gesch. des rum. Privatr. I^ pagg. 23 e segg.; Pcchta, Cursus der Instit,
2 Aufl., pagg. 472 e segg.; Ahrens, Iur. Encyclop., pag. 303, n. 2; 360,
n. 1; [Girard, Hist, du droit rom., Paris Aix, 1841, pagg. 180 e
segg.; OzANAM, Il paganesimo e il cristianesimo nel quinto secolo, trad.
Car- raresi, Firenze, 1857, 1, pagg. 163 e segg.; Voigt, Aeìius und
Sabinus- sijst , pagg.' 19 e segg.; Ianet, Hist. de la science polit., 2
ed., Paris, 1872, I, pag. 281 ; Sumner Maine, Ancien droit, .trad. frane
, Paris, 1874, cap. 3 pagg. 51-5, 64, cap. 4, pagg. 70 e sogg. ; Conti,
Storia della fdosofia^ Firenze, 1876, I, pagg. 401 e segg. ; Renan,
Marc Aurèle, 2 ed., Paris, 1882, pagg. 22-3 ; Gregorovius, Der
Kaiser Hadrian, 2 Aufl., Stuttgart, 1884, pagg. 296 e segg.; Hofmann,
Der Verfall der rom. Rechtswiss., nei Krit. stud. im róm. Bechte,
Wien, 1885, pag. 9; Ferrini, Storia delle fonti del dir. rom., Milano,
1885, pagg. 30-1, 100-1 ; Id., note al Gluck, trad. italiana, voi. I,
pagg. 64-5. ; Krììgeii, Gesch. der Quell. u. Litteratur des rom.
Rechts, Leipzig, 1888, pagg. 45 e segg., 127 e segg.; Carle, La vita del
di- ritto, 2 ed., Torino, 1890, pagg. 153 e segg.]. (2)
Padelletti^ Roma nella storta del diritto, neir Arch. gim\, XII, nota 2
pagg. 210 e segg. (3) Per la storia della filosofia in Roma, e per
ciò che riguarda in ispecie le sue attinenze al diritto, cfr.
principalmente: Hildenbrand, op. cit. I, pagg. 523 e segg.
(4) Cfr. sulla filosofia di Cicerone: Ritter, Hist. de la philos,
trad. frane. Tissot, IV, pagg. 121 e segg.; Hildenbrand, op. cit., I,
pagg. 537 e segg., Branbis, Gesch. der Entiv. der griech. Philos, Berlin,
1862-4, II, pagg. 249 e segg ; Boissusr, La relig. romaine d* Auguste aux
Antonins, Paris, 1878, I, pagg. 4 e segg. (5) BoissiER, op. cit.,
I, pagg. 14 e segg. (6) Leggenda, alla quale porsero principale
argomento i punti di contatto che le dottrine di Seneca presentano con
quelle cristiane, in, ispecie Ruir immortalità dell' anima, sulla
provvidenza, e sui doveri di 3^) NOTE carità
(punti toccati con molta diligenza da Fleury, S. Paul et Se- nèque,
Paris, 1853). Altro argomento estrinseco è la simpatia che mo- strano per
Seneca i Padri della chiesa: Seiuca noster: Tertull., De ,an,, 20;
Hieron., De vir. ili, 12; Io., Adv. lovin., 1,49; Lxct. , Inst. div.y IV,
24. E S. Agostino nota che Seneca non nominò forse i cri- stiani per non
lodarli « cantra suae patriae veterem consuetudine tn », né riprenderli «
cantra propriam forsan volunlatem »: Auc, De civ. dei, VI, 11. Il tèrzo
argomento dell' amicizia di Seneca con S. Paolo si fondava sopra una
grossolana falsificazione delle Kpistolae Senecae ad Paullum.
Ricca è la letteratura riguardante questo argomento, che ha
un'importanza assai notevole pel tema che tocca direttamente dei rap-
porti della morale stoica colla cristiana. Cfr. principalmente, oltre
Topera or accennata del Fleury: Boissier, op. cit., II, pagg. 46 e segg.,
e nella Revue des deux mondes, XCII (1871) pagg. 40-71; Aubkrtjn,
Senèque et Si. Paul^ Paris, 1869; Bau», Seneca ti, Paulus: das VerMltn.
des Stoiciwius zum Ghriat. n. den Schrift. Senecas, neWHe't- delherg.
Zeitschr. f. iviss. Theol, I, 1858 p. 161-246; 441-70; e Abh. zur
(reseli, d. alt. PhiL, heratisg. v. Zeller, Leipzig, 1876, pagg. 377-480;
'Westerburg, Der Ursprung der Saga das Seneca^ christì. gewes. sei,
Berlin 1881. Tutto il contrario si sostenne dall'EcKHARD in un curioso
opuscolo, di cui basta riportare il titolo perchè se ne com- prenda lo
scopo: Obserc. sistens L. A, Senecam in relig. Christian, iniuriosum,
mella Misceli. Lipsiens., Lipsiae, 1706-22, IX, p. 90-107. (7)
GuEGOROvius, op. cit j pagg. 315-7; Renan, op. cit., pag. 35. (8) I
rapporti che verrò enumerando furono notati, quali dall'uno quali
dall'altro degli scrittori che s'occuparono del nostro tema: quali in uno
quali in altro senso. Io non ho creduto di dover per ciascuno di essi
avvertire da chi fu notato, da chi omesso. Saiebbe inutile pel lettore,
al quale ciò che preme sopratutto si è di aver qui, come in un quadro, il
risultato complessivo delle questioni: quadro eh' io mi studiai di
delineare colla maggior cura e fedeltà che mi fu possibile. (9)
Otto a Boekelen, op. cit., pagg. 24 e segg. Contrariamente Eckhard, op.
cit.,; Merillio, obs. I, 27 pag. 260. (10) Brini, Delle due sette
dei giureconsulti romani^ Bologna, 1890, pag. 19. (11) Malquytius,
op. cit.y pagg. 54-5; Gibbon, Hist. de la dee. de Temp. rom., I, pagg.
128-31; Eckhard, op, cit., pag. 245; Laperrière, op. cit, pagg. 606-7;
Renan, op. cit., pag. 605; Wjllelms, Droit pubi, rom., 5 ed., Paris,
1884, pag. 136. (12) Pernice, M. A. Labeo, Halle, 1873-8, I, pagg.
113 e segg. Cfr. anche Padelletti noWArch. giur., XIF, pag.
213. (13) PucHTA, Inst. l
212, II, pag. 83. (14) Lafehiuère, op. cit.t pagg. 613 e
segg. (15) Cfr. SciALOJA, nel Bull. deìVist. di dir. rom., 1890,
III, pagg. 176-7; BoNFANTE, L'origine deìVìiereditas e dei legati nel
dir. sìACcess. romano, Del cit. Bullettino, IV, 1891, pagg. 97-144.
(16) Lafeuuièue, op. city pagg. 621-8. (17) Il Trevisani, op.
cit., nella Gazz. dei 2'rib., VI, 821 e segg. sostiene che i romani
ebbero ognora in gran sfavore il soicidio. Ri- corda che costituiva vizio
redibitorio per lo schiavo il suo tentativo di suicidio, anteriore alla
vendita; ma davvero non occorre osservare come ciò sia spiegato
chiaramente dalla considerazione economica verso il padrone (fr. 1 l 1,
fr. 23 l 3 D. 21,1). E il. tentativo di suicidio punito per rescr. di
Adriano nel soldato, non è spiegato ab- bastanza da considerazioni di
ordine pubblico e dalle necessità della disciplina militare? Cfr. in
questo senso: Ferii ini, Dir. pen. rom., nel 'Tratt. teor. prat. del
Cogliolo, I, 18f^8, pagg. 28-9. (18) Ferrini, Teoria dei leg. e
fedecomm,, Milano, 1889, p. 346-9. T:oiT(xioLi yi] T:XaYYjvat
TrpoxaXijaiTO. Cfr. Keller, Die philos. der Griechen in ihr.
geschichll. En- tivicklung, 4 Aufl., Leipzig, 1876-9, I, pag. 503.
(20) Ravaisson, Mem. sur le stoicisme, nelle Meni, des inst. imper.
de France ; Acad. des inscr. et beli, lettr.^ XXI, 1857, pag. 29 ;
GorpERT, Ueber einheitl. zusammeìvgesetz. u. gesammt. Sachen, Halle,
1871, pagg. 7-13. (21) Fu oggetto di dispute gravi il fr. 30 §. 1
D. 41,3: Pomp., 30 ad Sab.: Labeo lìbris epistularuui ait si is, cui ad
tegularum vel columnarum usucapionem decem dies superessent, in
aedifìcium eas coniecisset, nihilo minus cum usucapturum, si aedifìcium
possedisset. quid ergo in bis quae non quidem implicantur rebus soli, sed
mobilia permanent, ut in anulo gemma? in quo veruni est et aurum et
gem- mam possideri et usucapì, cum utrumque maneat integrum.
In esso alcuni scrittori ravvisarono un' eccezione utilitatis causa
alla regola generale formulata nei testi succitati, per la quale ecce-
zione si ammetterebbe il proseguimento deirusucapione delle tegole e
delle colonne, anche pel tempo in cui perdono la loro individua na- tura,
coir entrare a far parte della res connexa^ edifizio. Così Wind- scheid,
Pand , 6 Aufl., Pampaloni, La legge delle XII Tav. de tigno iunclo,
Bologna, 1883, estr. dair^rc^. giur., Altri, invece, si sforzò di
ricercarvi lo stesso senso dei testi citati^ col dare al nihilominus il
sifirnifìcato di non. Così Kjeiiulf, Civilr., pagg. 276 e segg ;
Uxterholzxkii. Verjà'hrungfilehre hearh. v, Schirmer, I, 153 »ì segg.;
SINTE^'Is, uell' Arcìi, f. civiì, Prax., XX, pagg. 75 e segg., e System,
I, pagg. 449-52. Altri ancora cercò in vario modo di togliere al
testo valore sre- nerale, limitandone la i)ortata alla specialità in esso
contemplata. E però, intese che vi si trattasse di tegole e di colonne
non incorporato ' solidamente alFedifìzio: (Savigny, Besitz, pag. 269;
Randa, Besitz, pag. 429); che la regola formulata nel testo valesse
soltanto pel caso in cui l'incorporazione delle tegole e delle colonne
nell'edifizio avvenisse quando questo già era compiuto, quando cioè, per
tal modo, Teventual^ distacco di esse non urta contro la ratio della
legge de tigno iuncta « ne urbe ruinis deformetur » (Scheurl, Ziir Lelire
vom rum. B'e^ sitZf §. 23); oppure valesse solo trattandosi di mobili
incorporati al- Tedifizio, ma non parti essenziali di questo ( Ruggieri,
Il possesso). Sempre in questa tendenza di limitare il valore del testo,
negando ad esso portata generale, altri scrittori intesero restrittiva-
mente il termine dei decem dies, in esso formulato, in applicazione della
massima romana di non tener conto dei minima ( Thibaut nel- YArch, f.
civ. Prax., VII, pagg. 79 e segg.; Puchta, KÌ, civ. Schrift.Pape, Zeitschr. f.
CiviJr. ii, Proc. N. F. XIV, p. 211); spiegarono la sentenza del testo
colla impossibilità dell' ir- surpatio dei materiali nei 10 giorni
mancanti, per la ragione chf , oc- correndo un termine di almeno 10
giorni dalla editio actionis per giungere alla litis contestatio^ se si
agiva qando mancavano 10 soli giorni ad usucapire, la ì'ei vindicatio non
serviva a rendere innocua r usucapione ( Savigny, Besitz, Eisele, lahrh.
/I Bogrn., N. F. o finalmente
intesero che nel testo fosse contemplato il solo caso di unione delle
tegole e delle co- lonne ad un edificio incompiuto e che la legge de
tigno iuncto non impedisse di staccamele, per essere 1' unione recente di
10 giorni (Meischeider, Besitz u. Besilzschntz,Codeste varie
interpretazioni e spiegazioni sono riassunte dal WiNDSCHEiD, c, più
complctamento, dal Pe rozzi, Sui possesso di parti di cosa^ negli Studi
giur. e stor.per VVIII cenfen. delV Università di Bologna, Roma., il
qualo confuta ciascuna di esse, per giungere alla conclusione che le
tegole e le colonne incorporate all'edifizio sì posseggono e
s'usucapiscono non perse, a parte, ma solo in conseguenza del possesso e
dell'usucapione dell'intero, a differenza della gemma e dell' anello che
si posseggono e s'usucapiscono per se. Hering; Eckhaud, La-
rERiuÈRE, op. cit., pagg. 63-5; Moriani, op. cit., pagg. 54 e segg.
(24) Cfr. Trevisani, op. cit., nella Gazz. dei trib., Laperrière, op.
cit,, pagg. 635 e segg. (26) DiRKSEN, Ueheì' Cicero' s unlergegangene
Schri/t: De iure civili in arte redigendo, nelle philol. u. Philos.
Ahhandl. der k. Aka- demie der Wissensch. zu Berlin, Hjljen- BRAND,
Voigt, Aelivs und Sa- hinussìjst.., pagg- 19 e segg. Si
connette a questa influenza formale d' ordine generale la ri- cerca delle
etimologie, comune ai giuristi, segnatamente dopo Labeone. Qui
Timitazione degli stoici fu riconosciuta quasi da tutti che ebbero ad
occuparsi del nostro tema. Cfr. da ultimo Lersch, Die Sprach- philosoph,
der Alien, parte 3. Senonchè, nonostante gli sforzi di un re- cente
accurato lavoro (Ceci, Le etimologie dei' giureconsulti romani, Torino,
1892 ) persisto nel credere che suU' indole e sul valore delle ricerche
etimologiche dei giuristi rimanga saldo tuttavia il giudizio severo
ch'ebbe a formularne il Pernice, M. A. Laheo, Si veggano i testi raccolti ed
elaborati, non occorre dire con quale diligenza- e acutezza, dal Voigt,
Ius. natur, MoRiANi, op. cit., pagg. 80 e segg. (29) Ratio
derivazione dall'indiano rita e ratum, ordinamento dell'universo e della
natura terrestre, comprese le cose umane. Così Leist, Civ. Stad.,
Ka- turalis ratio und Natur der Saclie, 1860; Civ. Stud, Gracco ital.
Rechtsgesch., Iena, SuMNER Maine, Ancien droit, Etudes sur Vane, droit., pagg.
162-3. (31) HiLDENBRAND, Cfr. da ultimo l'acuta ricostruzione del
Brini, Ius naturale, Bologna. La condizione patrimoniale del coniage
superstite nel diritto romano classico^ Bologna, Fava e Gara-
gnani, L. 4 Il diritto privato romano nelle comedie di Plauto
j Torino, Fratelli Bocca, 1890 » 10 Le azioni
exercitoria e institoria nel diritto romano, Parma, Battei, 1892 »
3 l' . Guido Ceronetti. Keywords: la lanterna, la
lantern di Diogene, poesia latina, Catullo, Marziale, Orazio, Giovenale, il
filosofo ignoto, la pazienza del … --. Aforismi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Ceronetti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cerroni: l’implicatura
conversazionale hegeliana -- Gaus e il sistema di diritto romano -- i hegeliani
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Lodi).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other
philosopher – surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of
Italian identity? But his more general philosophical explorations may interest
the Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic
and Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a
‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is
about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like
Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia
del diritto. Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e
l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine
politiche all'Lecce. Divenne professore di ruolo di Filosofia della
politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di
Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà
di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre
all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore
emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze
politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura
dell'U.R.S.S.” (Milano: Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il
sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento
giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma: Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione
giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti
studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei
movimenti contadini in Russia nei secoli 17. e 18.” (Milano: Movimento
Operaio); Studi sovietici di diritto Internazionale: A cura della sezione
giuridica della associazione Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma:
Tip. Martore e Rotolo); La dottrina sovietica e il nuovo codice penale
dell'URSS / Umberto Cerroni.S.l. (Bologna: STEB) Poeti sovietici d'oggi, Roma: Tip.
Studio Tipografico, Per lo sviluppo degli studi storici sulla Russia, Bologna:
STEB); Diritto ed economia: rilevanza del concetto marxiano di lavoro per una
teoria positiva del diritto / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Idealismo e
statalismo nella moderna filosofia tedesca, Milano: Giuffrè); Individuo e
persona nella democrazia / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); “Il problema
politico nello Stato moderno / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Diritto e
sociologia / Umberto Cerroni. Kelsen e Marx / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè);
L'etica dei solitari / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Lenin e il problema
della democrazia moderna: saggi e studi (Roma: NAVA) Parlamento e società /
Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); La prospettiva del comunismo
/ K. Marx, F. Engels, V.I. Lenin Roma: Editori Riuniti); Ritorno di Jhering:
Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di Castello: Unione arti grafiche) Sulla
storicità della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico Milano:
Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto pubblico /
Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); La filosofia politica di Giovanni Gentile /
Umberto Cerroni. (Novara: Tip. Stella Alpina) La nuova codificazione penale
sovietica / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); Concezione
normativa e concezione sociologica del diritto moderno / Umberto Cerroni.S.l.:
Edizioni giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto economico / Umberto
Cerroni.Milano: Giuffrè); Kant e la fondazione della categoria giuridica /
Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti); Teorie sovietiche del diritto / Stucka...(et al.); Umberto
Cerroni.Milano: Giuffrè); Saggi / Benjamin Constant; introduzione di Umberto
Cerroni.Roma: Samonà e Savelli); Il diritto e la storia / Umberto Cerroni. Le
origini del socialismo in Russia / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero
politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti, 1966 Un ouvrage recent sur Marx et le droit: Umberto Cerroni, Marx e
il diritto moderno, Rome, par Michel Villey.[Paris]: Sirey); Che cos'è la
proprietà?, o, Ricerche sul principio del diritto e del governo: prima memoria,
Pierre-Joseph Proudhon; prefazione, cronologia,
Umberto Cerroni.Bari: Laterza); Considerazioni sullo stato delle scienze
sociali: relazioni sugli aspetti generali / Umberto Cerroni.[Milano: Centro nazionale
di prevenzione e difesa sociale, (Milano:
Tipografia Ferrari) La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino:
Einaudi); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori
Riuniti); La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre; Umberto
Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Discorso sull'economia politica e frammenti
politici / Rousseau” (Bari: Laterza); La libertà dei moderni” (Bari: De
Donato); Metodologia e scienza sociale” (Lecce: Milella); Problemi della
legalità socialista nelle recenti discussioni sovietiche / Umberto Cerroni.Milano:
A. Giuffrè); “Sulla natura della politica: utopia e compromesso” (Milano:
Giuffrè); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali”; Il metodo
dell'analisi sociale di Lenin” (Bari: Adriatica); Il pensiero giuridico
sovietico” (Roma: Editori Riuniti); La
questione ebraica” (Roma: Editori Riuniti); La società industriale e la condizione
dell'uomo” (Lecce: ITES); “Sul metodo delle scienze sociali: una risposta” (Milano:
Giuffrè); Principi di politica / Benjamin Constant; Roma: Editori Riuniti); Strade
per la libertà” (Roma: Newton Compton); Tecnica e libertà: conferenza tenuta al
Lions club di Bari (Padova: Grafiche Erredici) Tecnica e libertà / Umberto Cerroni.Bari:
De Donato); Lavoro salariato e capitale / Appunti sul salario e appendice di F.
Engels; Introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton
Compton italiana,La societa industriale e le trasformazioni della famiglia / U.
Cerroni.Milano: Giuffrè); Salario, prezzo e profitto / Karl Marx; introduzione
di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I.
Lenin; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton italiana); Teoria
della crisi sociale in Marx: Una reinterpretazione / Umberto Cerroni.Bari: De
Donato); Strade per la libertà / Bertrand Russell; introduzione di Umberto
Cerroni.Roma: Newton compton italiana); Discorso sull'economia politica e
frammenti politici / Rousseau; traduzione di Celestino E. Spada; prefazione di
Umberto Cerroni.Bari: Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico / V.
I. Lenin; prefazione di Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Kant e la
fondazione della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); La
libertà dei moderni / Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Marx e il diritto moderno
/ Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx / Antologia
Umberto Cerroni, con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.Roma:
Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto
Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il Terzo
stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin; introduzione di Umberto
Cerroni.Roma: Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei comunisti /
Antonio Labriola; Manifesto del partito comunista / Marx-Engels; introduzione
di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); La libertà dei moderni / Umberto
Cerroni.2. ed.Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo; Roma); Il
pensiero di Marx / antologia Umberto Cerroni; con la collaborazione di Oreste e
Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma: Editori Riuniti); Teoria della crisi sociale in
Marx: una reinterpretazione (Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo” (Roma:
Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e
appendice di F. Engels; introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma:
Newton Compton); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Il marxismo e l'analisi del presente / Umberto Cerroni. Politica ed
economia); Societa civile e stato politico in Hegel” (Bari: De Donato); Salario,
prezzo e profitto” (Karl Marx” (Roma: Newton Compton italiana); Il lavoro di un
anno: almanacco, Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Il pensiero di Marx / Karl
Marx; Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico: dalle origini ai nostri
giorni” (Roma: Editori Riuniti); Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese,
ed.Roma: Ed. Riuniti); Scienza e potere / scritti di U. Cerroni... <et al.>.Milano:
Feltrinelli); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma: Newton Compton); Lo
sviluppo del capitalismo in Russia” (Roma: Editori Riuniti); La teoria generale
del diritto e il marxismo / Evgenij Bronislavovic Pasukanis; con un saggio
introduttivo di Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Introduzione alla scienza
sociale, Roma: Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con
appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note
filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton, Materialismo storico e
scienza / Umberto Cerroni.Lecce: Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta
borghese / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Salario, prezzo e profitto /
Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Sulla
storicità dell'eros: note metodologiche / Umberto Cerroni, Annarita Buttafuoco);
Crisi ideale e transizione al socialismo / Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Scritti economici / V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin; introduzione di Umberto
Cerroni.- Roma: Newton Compton); Carte della crisi: taccuino
politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Crisi del
marxismo? / Umberto Cerroni; intervista di Roberto Romani.Roma: Editori
Riuniti); Critica al programma di Gotha e testi sulla tradizione democratica al
socialismo / Karl Marx; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Due tattiche
della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica / V. I. Lenin; Umberto
Cerroni.Roma: Editori Riuniti, In memoria del manifesto / Antonio Labriola;
introduzione di Umberto Cerroni.2. ed.Roma: Newton Compton Editori); Che cos'è
la proprietà?: o ricerche sul principio del diritto e del governo: prima
memoria, Pierre-Joseph Proudhon; prefazione, cronologia, biografia Umberto
Cerroni. 3. ed.Roma; Bari: Laterza, Lavoro salariato e capitale / Karl Marx;
con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione... di Umberto
Cerroni.Roma: Newton Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti); La prospettiva del comunismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin;
Umberto Cerroni.Roma: Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti
giovanili / Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori riuniti); Saggio
sui privilegi: che cosa e il terzo stato? Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione
di Umberto Cerroni: traduzione di Roberto Giannotti.Roma: Editori Riuniti, Strade
per la liberta, Bertrand Russell; introduzione di Umberto Cerroni; traduzione
di Pietro Stampa.Roma: Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma: Editori
Riuniti, I giovani e il socialismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin, A. Gramsci;
Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale, Roma;
Storia del marxismo / Predrag Vranicki; introduzione di Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti, Quasi una vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti;
prefazione di Umberto Cerroni” (Milano; Roma); “Che cosa fanno oggi i filosofi?
Milano); “Logica e società: pensare dopo Marx” (Milano: Bompiani, La democrazia
come problema della società di massa; Principi di politica” (Roma: Editori
Riuniti); “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (Roma:
Editori Riuniti); Il pensiero di Marx: antologia, con la collaborazione di
Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.III. ed. Roma: Editori Riuniti, Scritti
economici” (Roma: Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma:
Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma: Editori riuniti, Politica:
metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie / Umberto
Cerroni.Roma: NIS); La politica post-classica: studi sulle teorie
contemporanee” (Taviano: Lit. Graphosette) Urss e Cina: le riforme economiche” Centro
studi paesi socialisti della Fondazione Gramsci.Milano: F. Angeli, stampa, Che
cosa è il terzo stato con il Saggio sui privilege” (Roma: Editori Riuniti, Democrazia
e riforma della politica: Lo Statuto del nuovo PCI / Umberto Cerroni.Roma: Partito
Comunista Italiano, Regole e valori nella democrazia: stato di diritto, stato
sociale, stato di cultura” Roma: Ed. Riuniti, La cultura della democrazia /
Umberto Cerroni.Chieti: Metis, Che cosa e il Terzo Stato? / Emmanuel-Joseph
Sieyes; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, La rivoluzione giacobina /
Maximilien Robespierre; Umberto Cerroni; traduzione di Fabrizio Fabbrini;
apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone: Studio Tesi, Manifesto
del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels; nella traduzione di
Antonio Labriola; seguito da In memoria del manifesto dei comunisti di Antonio
Labriola; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: TEN, Nazione/regione: i contributi regionali alla
costruzione dell'identità nazionale / Andrea Battistini, Umberto Cerroni,
Michele Prospero.Cesena: Il ponte vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e
cultura umanistica: seminario svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni; A.
Albanesi, M. Maggi e L. Sisti.Roma: Anpa, [Novecento: almanacco del ventesimo
secolo, Cesena: Il ponte vecchio, Il pensiero politico italiano / Umberto Cerroni.Roma:
Newton Compton, Il pensiero politico del Novecento / Umberto Cerroni.Roma:
Tascabili economici Newton); “Le regole del metodo sociologico” (Roma: Editori
Riuniti, 1996 Regole e valori nella democrazia: Stato di diritto, Stato
sociale, Stato di cultura / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, L'identità
civile degli italiani / Umberto Cerroni.Lecce: Manni, L'ulivo al governo: come
cambia l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos,
stampa Politica / Umberto Cerroni.Roma: Seam, Confronto italiano: atti degli
incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni, Umberto Cerroni.Firenze: Ed. Regione
Toscana, stampa (Firenze: Centro Stampa Giunta regionale); “L'identità civile
degli italiani” (Lecce: Manni, Lo Stato democratico di diritto: modernità e
politica / Umberto Cerroni.Roma: Philos, stampa, Habeas mentem: Scuola e vita
civile:Umberto Cerroni.Rionero in Vulture (Pz): Calice, Conoscenza e societa
complessa: per una teoria generale del sensibile” (Roma: Philos, Ricordo di
Marisa De Luca Cerroni / scritti di Umberto Cerroni... et al.Lecce, stampa Confronto
italiano: atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze: Ed.
Regione Toscana, stampa (Centro Stampa
Giunta Regionale) Taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma: Philos, Precocità
e ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo nell'identità
italiana, Roma: Meltemi, Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.Lecce:
Manni, Le radici culturali dell'Europa, Umberto Cerroni.Lecce:Manni, Radici
della civiltà europea, Lecce: Manni,Globalizzazione e democrazia, Lecce: Manni,
Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino politico-filosofico Umberto
Cerroni.San Cesario di Lecce: Manni, L'eretico della sinistra: Bruno Rizzi elitista
democratico” (Milano: F. Angeli, Taccuino
politico-filosofico, Lecce; La scienza e una curiosita: scritti in onore di
Umberto Cerroni / Cosimo Perrotta; con la collaborazione di Mariarosa Greco” (San
Cesario di Lecce: Manni, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich
Engels; nella traduzione di Antonio Labriola; seguito da In memoria del
Manifesto dei comunisti di Antonio Labriola” (Roma: Newton & Compton, Dialettica
dei sentimenti: dialoghi di psicosociologia / Umberto Cerroni, Alberta
Rinaldi.San Cesario di Lecce: Manni, [Taccuino politico-filosofico, Umberto
Cerroni.[San Cesario di Lecce]: Manni, Ricordi e riflessioni: un dialogo con
Giuseppe Vagaggini / Umberto Cerroni.Montepulciano: Le Balze. ùUe fonti
del dritto Bonumo. r 'SeUieae il dritto ocHisiderato astrattamente
abbia uoa brigioe ed nn priocipio onìoo ed assolato, pure quando sf
attna come dritto d' au' epoea e d' un popolo , perchè dipènde da tatte le
condizioni storidie dell' uno e dell' altra, emana per 4^rgani'i diversi,
e prende forme e msuiifestazioni varie e conformi allo spirito di
esse. Per questo intigno rapporto fra la vita intima d' un po^ polo
ed il dritlo positivo di esso, fra questo e gli or- gani estemi onde si
manifesta, i più ingegnosi ed in* telligrati che si fecero a trattare del
dritto Romano, crederono essenziale investigarne avanti tutto le
fonti e gli organi, per ì quali ebbe vita e realtà. Una tale
investigazione non riesce difficile quantunque volte vi abbia unità di poteri,
o sieno questi armonicamente distinti , sicché Ja storia di essi
succedendosi pacata- mente ed uniformemente è facile intraviNlere V
origine ed il principio di ciascuna legge : ma nella storia Ro-
mana in cui la moltiplioità e la lotta dei partiti , il tumulto, che non
si scompagna da una vita agitata e guerriera, ed i cambiamenti rapidi e
violenti , onde si avvicenda la storia di Roma, rendono oltrQmodo
dif-^ iicilè e malagevole lo studio della genesi e^el pro- cesso
d'ogni fatto storico in generale e di quelli del dritto in particolare.
Per questo studio però non vi ha difetto di materiali né di testimonianze
storiche. Quan- do al tumulto della esistenza pubblica tenne dietro
il silenzio e la quiete della vita privata , quella stessa forza
che fece il sublime degli eroi Romani , e rese invincibili le schiere
dello repnblica, dettò i libri e le sentenze dei più grandi
giureconsulti, che ricordi la storia. E questi non lasciano nulla a
desiderare di te- stimonianze e prnove storiche nella ricerca delle
fonti del dritto Romano (*). È ormai indubitato , in che A\i- §. 0. r. l r. ì. 7. fi. dt jmt. H}ì0^V. i.)
Cicero^ Té. M CAJO. 13 ferissero il Jus genimn
dal Jus civile^ quale impcnr* tanza ed es0i:essìone avesse il dritto
Pretorio nella stoi» ria del dritto Roioaào , qpaale processo tenevasi
nelle determiliazioni popolari , da qaal momento ebbero forza
legislativa. Ciascuno di questi fatti è si intimamente incarnato nella
storia di Roma, cbe ne forma im eie-, mento , ed accenna ad uno dei
periodi di essa. Non havvi però la medesima certezza suUa importante
qui* stione dà qual tempo i Senatoconsulti ebbero forza le-
gislativa : e le opinioni dei moderni (*) furono diverse, come pure
discordanti sono a tal proposito le testimo- nianze degli antichi
scrittori ; giacché alcuni ritengono per indubitato (^) , che i
Senatoconsulti non abbiano avuta forza legislativa prima del tempo di
Tiberio , abbisognandovi avanti tutto che fossero confermati nei
Gomizii perchè valessero come altrettante leggi ; mentre altri (')
sostengono l'opinione contraria, ed avvisano (Ae i Senatoconsulti furono
una fonte di dritto anche al tem- po della repubblica , giacché molto
prima di Tibe- rio occorrono SenatòccHisulti sulle materie di dritto
pri- vato, e particolarmente il S. L* Sileniarmm. È neces- sario
avanti tutto far considerazione , che in una ta- le quistione importa
moltissimo il distinguere quello che intendesi investigare, se i
Senatoconsulti cioè sie» no slati semplice fonte del dritto al tempo
della re- publica, o abbiano avuto anche forza di le^e. Di quanta
importanza sia una tale distinzione basta a pruovarlo il dritto Pretorio.
A tutti è noto qual parte essenziale questo rappresenti nella storia del
dritto Romano^ co- pica y cap. 5. -^ TheopkUtis , ad U e. L />• de m^.
juris Hugo , SU^ia id driUo , Bach. , Histar. jurù Dion. D'JUcamis.
Polibio , lib. Vf. p. &62. — Tacili, Ajffr^ i. 15. « ^um primum e
campo comi- Ita ad paires tramlata sunt ». Dian. Canio, Cicero , Topica,
e. 5« « Vi si quis jus civile dicat id esse^ quod in kgibìés ,
senatuicmiultis rebtis judìcaiis , jurisperitorwn auctoritate , ediclis
magistralum eie. consistat » — Theophilus , ad I. Pomponius^ l % § 9. de
origin. jum.Oratiu$ , Ep, ì. i6. WLIA SCOYBftTA
«sprima relemmU) umanitario in opposiziose dell' eleneuto civile
Romano, sia l' anellp, per il quale il dritto RcHuano si connette con
quello dell' umanità, di'esso in fine pone le basi del dritto posteriore
Roma- no; e pure non ebbe per se stesso ed immediatamente forza di
legge. Sicché quando si dimanda , se i Sena- toconsulti sìeno stati una
fonte del dritto al tempo del- la republica non potrebbesi affermare il
contrario ; la loro ezistenza islessa e Y importanza del Senato ne
fa nruova. Ma da qual tempo ebbero forza legislativa? Non vi ha
alcuna legge che riconosca loro un tale ca- rattere , mentre per
contrario ne' plebisciti è detto : e et ita factum est , ut inter
plebiscita et legem spe^ cies constituendi interessent , potestas autem
eadem e^/ i ; e certamente non sarebbesi mancato di affermare il
medesimo dei Senatoconsulti, quando ciò fosse stato^ Un tal cambiamento
dovette avvenire nei tempi poste- riori alla republica ; quando più
difficili e rari addivennero i Gomizii , che confermavano le
determinazioni del Senato : a quia difficile plebs convenire coepitj
pch pulus certo multo diffìcilius in tanta turba homimm ne*
ces&itas ipsa curam reipublica^ ad Senatum dedimit » • ' Questa
opinione è conferorota dalle seguenti parole di Gajo* Comm. I.
g. 4. e Senatusconsultum est , quod Senatus Jubet atque oonsisterit
, idque legis vicem oòtinet , quamvis fuit quaesitum. E perchè le ultime
parole quamvis fuit quaesitum non accennano alla lotta dei partiti ma
alle diverse opinioni delle due scuole dei Sabiniani e dei Procu-
lejani, ne segue, che anche al tempo di queste la con- suetudine per la
quale in difetto di legge espressa i Senatoconsulti prendevano forza
legislativa, non era ancora addivenuta un fatto certo ed
indubitato. Sul/t/^ hanorarium e particolarmente l’antica
quistione, se Y Edictum perpetunm costituisse sotto Adria ^ Mo un Codice,
che fosse coi precedenti Editti Prete- rii nel medesimo rapporto che le
Pandette cogli scritti dei giuristi , o pure fosse un semplice lavoro
privato * M CkJO^ i 5 BB&wiiìb dall' Imperadore senza ehe
arrestasse il movimento della legislazione Pretoria (^) , sembra de- cisa
a favore di quest' ultima opinione colle parole : «r Jus mttem edicendi
habent magistratus popvM Mo^ mani '^-^ Qu(wst<^res non mittuntur : id
Edicium m pt'omnciis non proponitur ». Le nostre conoscenze
per contrario non si avvantag^ giano in menomo modo ooUa scoverta delle
Istituzioni di Gajo sulle quistioni, che riguardano i responsi prui dentum
, la distinzione del jus scripium e non scriptum^ ohe ritenevasi commùnemente.
di origine Greca senza che un tal difetto fosse un gran ^aniio ^ giacché
le notizie e le conoscenze , che ci vennero a tal proposito per altri
scrittori, sodisf ano abbastanza ai bisogni della scienza. Umberto
Cerroni. Keywords: Hegel and Roman law -- i hegeliani, categoria giuridica,
Trasimacco, Kelsen, Eduardo Gaus, Hegel, sistema di diritto romano. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Certani: l’implicatura
conversazionale del sacrificio – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bologna).
Filosofo italiano. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew
at school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice:
“Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a
Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia,
Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele”
(Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè
Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche
dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e
nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi
del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota
Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso;
cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il
Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche,
e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare
Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo
Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe”
(Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese
Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani
Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli
eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel
suo museo Cospiano al fol.117 e la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia
Regnante parte III lib. II, ove parla di Questo soggetto. Oltre i sopraccennati
ne parla ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec. Marco Curzio Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il dipinto attribuito al
Bacchiacca, vedi Marco Curzio (dipinto). Marco Curzio è un personaggio
leggendario della Roma antica, appartenente alla gens Curtia. Benjamin
Haydon, Marco Curzio si getta nella voragine, National Gallery of Victoria. La
leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si aprì una voragine apparentemente
senza fondo. I sacerdoti interpretarono il fatto come un segno di sventura,
predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma, a
meno che non si fosse gettato in quel baratro quanto di più prezioso ogni
cittadino romano possedeva. Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più
valorosi guerrieri dell'esercito romano, convinto che il bene supremo di ogni
romano fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella fenditura armato e a
cavallo, facendo così cessare l'estendersi della voragine. Questo
autosacrificio agli dei inferi (Mani) era detto devotio. Il luogo dove si
formò la voragine rimase nella leggenda con il nome di Lacus Curtius. La
leggenda è narrata da Tito Livio nei suoi Annali (VII,6). Una statua
equestre della tarda latinità - in grandezza ridotta rispetto al naturale -
rappresentante Marco Curzio si trova a Carrara, inserita nelle mura Albericiane
in corrispondenza della Porta cittadina. Il grande attore Antonio de
Curtis, in arte Totò, sosteneva che la sua famiglia discendesse da questo
personaggio leggendario. Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Mevio Curzio
Collegamenti esterniModifica Cùrzio, Marco, su sapere.it, De Agostini. Marco
Curzio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale
Antica Roma Portale Biografie Portale Mitologia Ultima
modifica 2 anni fa Gens Curtia famiglie romane che condividevano il nomen
Curtius Lacus Curtius Punto d'interesse nel Foro romano Marco
Curzio (dipinto) dipinto attribuito al Bacchiacca Wikipedia IlGiacomo
Cerretani. Jacopo Certani. Giacomo Certani. Keywords: il sacrificio, Marco
Curzio, devozione -- Il cavaliere
penitente; ossia, la chiave del paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity,
Percival, The Holy Grail, the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Certani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ceruti: l’implicatura
conversazionale di Niso -- ovvero, dell’altruismo – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Grice: “Ceruti is a good one – he
has philosophised on solidarity – and previously on altruism – these are VERY
different concepts, as he notes – but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for
what I’m into! – “A Griceian at heart!” --
Grice: “Only one T!”. Tra i filosofi protagonisti dell'elaborazione del
pensiero complesso, è uno dei pionieri della ricerca contemporanea inter- e
trans-disciplinare sui sistemi complessi. La sua filosofia si produce
all'intersezione di una pluralità di domini di ricerca: epistemologia
(filosofia e storia della scienza, storia delle idee, noologia…), scienze della
natura (fisica, biologia, cosmologia…), scienze dell'uomo (antropologia,
sociologia, psicologia, storia…), scienze dell'organizzazione e del management. Si
laurea in filosofia della scienza con Geymonat con “L'epistemologia genetica di
Piaget” nella quale, attraverso l'analisi dell'epistemologia viene posto il
problema del ruolo della biologia e delle scienze del vivente, nelle varie
articolazioni disciplinari, come decisiva interfaccia fra le scienze
fisico-chimiche e le scienze umane, in grado di favorire processi di
circolazione concettuale e di traduzione reciproca fra vari e multiformi campi
del sapere. Nei suoi studi ha affrontato le questioni del significato
filosofico ed epistemologico delle maggiori rivoluzioni scientifiche del
ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività, teoria dei sistemi, biologia
molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi del cambiamento stilistico e
delle relazioni fra stile e contenuto nella storia delle idee, nonché dello
statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi alle rivoluzioni
scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta nell'opera Disordine e
costruzione. Un'interpretazione epistemologica di Piaget. Assunto da Ginevra,
presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione fondata da Piaget, in
qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro coordinato da Munari.
In questo periodo approfondisce le relazioni che connettono l'opera di Piaget a
vari modelli e approcci del contesto scientifico a lui contemporaneo: alla
termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle ricerche sul concetto e sui
processi di auto-organizzazione e autopoiesi, all'embriologia di Waddington, ai
nascenti dibattiti sul significato delle ricerche della biologia molecolare. Il
tema chiave di queste convergenze disciplinari è la possibile delineazione di
modelli generali del cambiamento, nonché del ruolo della discontinuità in
questi modelli. L'approfondimento dei singoli filoni disciplinari gli consente
di interrogarsi più estensivamente sul significato profondo e complessivo dei
cambiamenti paradigmatici delle scienze alla fine del ventesimo secolo: dalla
convergenza di varie discipline emerge la prospettiva di una scienza nuova,
caratterizzata da precise assunzioni relativamente alla natura del cambiamento,
alla relazione fra soggetto e mondo, al ruolo del tempo, della storia e della
narrazione negli approcci scientifici. La nozione di complessità costituisce
un'utile maniera sintetica di rapportarsi con tali assunzioni. Per ricostruire
queste novità del contesto scientifico, imposta un programma di ricerca attorno
al tema della epistemologia della complessità, parte integrante del quale è
stata a partire l'organizzazione di convegni internazionali e di seminari, e la
pubblicazione del volume La sfida della complessità. Ricercatore associato
presso il Centre d'Etudes Transdisciplinaires, Sociolgie, Anthropologie,
Politique diretto da Morin, centro di ricerca associato al CNRS e all’Ecole des
Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, presso il quale dirige l'unità di
ricerca di filosofia della scienza. In quegli anni approfondisce le
problematiche dell'epistemologia genetica e della cibernetica, pubblicando Il vincolo
e la possibilità e La danza che crea. Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato
dalle scienze evolutive e dalla teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana
nel più generale mutamento di prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche
del contesto scientifico, focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e
filosofiche dei modelli di cambiamento e delle relazioni fra continuità e
discontinuità conseguenti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge,
ai dibattiti sulle estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche,
alle nuove forme di collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni
fra approcci storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva
una serie di ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema
del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e
della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un
ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il
tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della
contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi
all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva,
cosmologia, fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli
interrogativi sul modo in cui dallo studio del radicamento naturale delle
società umane possano scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni
sociali e culturali della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le
ricerche condotte in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte
all'individuazione di leggi generali della complessità e di modelli generali
sul comportamento dei sistemi complessi. Una nuova linea di ricerca di
filosofia della scienza, che approfondisce a partire dalla metà degli anni
novanta, è lo studio dei modelli di cambiamento dell'evoluzione umana, in
relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista
della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Una seconda
linea di ricerca epistemologica, strettamente interrelata alla prima, è lo studio
dell'importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione dell'evoluzione e
della storia umane, sia dei tempi lunghi della storia delle varie specie
ominidi sia dei tempi medi della storia della nostra specie Homo sapiens. A
partire da Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia
etnica, imposta una serie di seminari e di ricerche di filosofia delle scienze
biologiche, evoluzionistiche e storiche sul tema dei confini e sulle identità
nazionali e culturali. Nel far ciò approfondisce una concezione evolutiva di
tali identità, consonante con la prospettiva epistemologica costruttivistica, e
convergente con i presupposti epistemologici, costruttivisti e
antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica darwiniana. In queste
ricerche, viene affrontata anche la questione del significato della rivoluzione
darwiniana nell'intera storia della tradizione scientifica occidentale. Un
ulteriore studio dedicato a tali problematiche è il volume Educazione e globalizzazione,
che traccia un bilancio epistemologico degli intrecci disciplinari fra storia,
geografia, antropologia, scienze evolutive e naturali per comprendere il ruolo
della diversità culturale nella storia della specie umana e le radici profonde
degli attuali processi di globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca,
di Bergamo e a Milano, dove attualmente insegna e ricopre la carica di direttore
del Dipartimento di Studi umanistici. Presidente della Società Italiana di
Logica e Filosofia delle Scienze. Preside della Facoltà di Scienze della
Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca. Preside della Facoltà
di Scienze della Formazione dell'Bergamo. Direttore del Centro di Ricerca
sull'Antropologia e l'Epistemologia della Complessità che comprendeva la Scuola
di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità a Bergamo.
Principali tematiche presenti negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica
costruttivismo (filosofia); Epistemologia; Epistemologia della complessità;
Epistemologia genetica; Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive;
Scienze della formazione; Teoria dei sistemi. Membro della Commissione
Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nominato,
dal Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, Presidente della
Commissione incaricata di scrivere le nuove Indicazione per il Curricolo per la
Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo di Istruzione. Partecipa alla
fase di fondazione del Partito Democratico, venendo eletto all'Assemblea
costituente del partito e assumendo l'incarico di relatore della Commissione
incaricata di redigerne il Manifesto dei Valori. Alle elezioni politiche
italiane della XVI Legislatura eletto al Senato della Repubblica nelle liste
del Partito Democratico. È stato membro della Commissione permanente
(Istruzione pubblica, beni culturali), della Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e della
Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Non si è ripresentato
alle elezioni della XVII legislatura. Altre opere: “Il tempo della
complessità” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “La fine dell'onniscienza” (Studium,
Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Organizzare
l'altruismo” (Laterza, Roma-Bari); “Una e molteplice: ripensare l'Europa”
(Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità” (Feltrinelli, Milano); “Origini
di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida della complessità” (Feltrinelli,
Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello
Cortina Editore, Milano); “Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Formare alla complessità, Carocci, Roma); “Le origini della
scrittura. Genealogie di un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le
radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno
Mondadori Editore, Milano); “Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Pensare la diversità. Per un'educazione alla complessità
umana, Meltemi, Roma); Evoluzione senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari);
“Solidarietà o barbarie: l’Europa delle diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello
Cortina Editore, Milano, Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà,
Laterza, Roma-Bari); Evoluzione e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa
nell'era planetaria” (Sperling & Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un
nuovo inizio per la civiltà planetaria” (Moretti & Vitali, Bergamo); “Che
cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell'epistemologia
genetica, Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco Varela, Lazlo E., Physis:
abitare la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget. Aspetti teorici e
prospettive per l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di pensare
postdarwiniani: saggio sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro
Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano Bocchi G., Ceruti
M. Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di
Jean Piaget, Feltrinelli, Milano. Direttore delle riviste scientifiche:
La Casa di Dedalo (Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina
Editore, Bergamo); Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del
Senato, su senato. Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni
Nazionali per il Curricolo, su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio
dei ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, su governo. Rome’s national epic
displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan warriors Nisus
and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos. Virgil’s narrative
of the two valorous young Trojans has, of course, various thematic functions
and will have resonated in various ways for a roman readiership. Here I focus
on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of their
relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest about the
pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview of
ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing them
as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular parallels
with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and Euryalus that
take as their starting point the erotic nature of their relationship see Gordon
Williams, pp. 205-7, 226-31, Lyne, pp. 228-9, 235-6, and Hardie, 23-34).
Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that
Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses
thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA
L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E
PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI,
COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites
Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19,
89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles
of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans
has, of course, various thematic functions and will have resonated in various
ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative,
namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced
in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma
insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First
came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh
yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing
footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in
first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then
deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may
come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus
amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he!
(The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in
that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to
refer to a bull’s mate at Georgics 3 227. Indeed, Servius, ad Aen. 5 334,
writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat fact,
observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE
PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT.
Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because
AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the
description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently precludes, for
Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated episode from
Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break through enemy
lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of Italian warriors,
ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and then his companion,
who, after being morally wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The
episode beings with this description of the pair. Nisus erat portae custos,
acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo
celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non
fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima signans intonsa
iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. 9 176-82.
Nisus, sonof Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift
with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany
Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers,
none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the
beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and
rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis
on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his
fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and
fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is
continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, pp. 229. For their
INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO.
Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS.
237. how Nisus gallantly presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS
OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6: Likewise the question that Nisus asks Euryalus
when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC
ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9
184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO,
compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, 4. 1046, concerning men’s
desire TO EJACULATE and muta cupido at 4. 1057. Euryyalus, is it the gods who
put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire
(dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a
desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire
could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s
depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the
enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s
intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat
Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me,
me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil
iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum
infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his
mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great
pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me,
Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he
could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the
only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short,
good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is
described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been
UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers
in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their
eromenoi in fourth-century B. C. Greece (Note also that 9.199-200 (meme …
figis?) seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too
Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave
sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA
RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were
Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels
with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of
Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat.
761B. Pelop, 18-9, Athen. 13.561F and 602A, and the probable allusion at Pl.
Smp. 178e-179a. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his
companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into
a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus,
placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli
immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen. 9. 444-9).
Then he hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend,
and there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has
any power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as
he house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as
the Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in
death ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their
‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET,
UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt
NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those
who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for
we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his
wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a
joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and
Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO
– SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE
491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR
QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT.
CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE
SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece
quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can
immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for
Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an
immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil
promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even
bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist.
21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI
AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary
in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males
– and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus
and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the
company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS,
Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while those
couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one partner
is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and Eurialus
only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are transformed from a
Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The
valosiging distinctions inherent in the pederstaist paradigm seem to fade with
the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war side by side (PARITER –
PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they certainly DISAPPEAR when
the old man Aletes, praising them from their bold plan, addresses the TWO as
VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3,
whe an enemy leader who catches a
glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI, 376), and most
poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced on enemy
spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS
MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although Euryalus is the
junior partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and
capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as
much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus.
There is a further complication in our interpretation of the pair, and indeed
all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course
set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural
setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence
of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of
pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both
cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of
his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong in these
passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic
adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details about a
warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily killed off),
is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in
the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The
relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek
writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck – from the
Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, crediting Griffin,
adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting
a passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them
in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and
Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin.Virgil
might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer,
Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And
yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but
rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished
din the epic from the Greeks, and who,more importantly, together constitute the
PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric at 9.128-58 based on sharp
distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue
between Jupiter and June at 12.808-40, where it is agreed that Trojans and
Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic
relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this
would have been unthinkable in a cultural context in which same-se
relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it
still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus,
and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship
that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female
relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This
tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that
in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between
Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe
o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY
could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find
HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also
Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not
extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female
relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the
would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that
corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship
that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is
complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance
Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s
experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the
commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her
involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the
moral framework poposed by the text in a way that the relationship between
Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the
relative degrees of problematization of the two types of relationships in the
cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any
power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the
house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as
the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of
an adulterous couple ina Roman epic!” Mauro Ceruti. Keywords: Niso ed Eurialo;
ovvero, dell’altruismo, dal semplice al complesso, complesso proposizionale,
discover the simple elements, philosophy as deconstructing the complex,
solidarity, altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema
semplice, etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta:
il semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore proprio,
amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love, benevolence,
organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e diverso, unico e
multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cerutti: l’implicatura
conversazionale del leviatano – organicismo politico – il corpo politico nella
costituzione italiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “Cerutti is into politics, like Hobbes, and it’s not
surprising he philosophised on ‘il leviatano,’ as the Italians call it – and
represent as a tortoise ridden by Jacob --,” -- “La globalizzazione dei diritti
umani dovrebbe avere il suo culmine con il riconoscimento del diritto che ha il
Genere Umano alla sopravvivenza» Insegna
a Firenze. La sua filosofia verte principalmente sul marxismo occidentale e la
"teoria critica" propria della Scuola di Francoforte da cui, tra
l'altro proviene. Lavora sulla filosofia politica delle relazioni
internazionali ed affari globali, seguendo due diverse tematiche: la teoria
delle sfide globali (armi nucleari e riscaldamento globale), e la questione
dell'identità “politica” (non sociale o culturale) degli europei in relazione
con la legittimazione dell'unione europea. Da ricordare la sua amicizia con Bobbio
del quale Cerutti stesso si ritiene allievo. Altre opere: “Storia e coscienza
di classe” (Milano); “Totalità, bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo
e politica. Saggi e interventi, Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni
internazionali in prospettiva interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide
globali per il Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del
riscaldamento globale” (Milano, Vita e pensiero). Che
cosa significa "Corpi politici"? Organismi che possono essere
bersaglio di una condotta oltraggiosa ex art. 342 in ragione della funzione
politica dagli stessi svolti e dal cui novero risultano esclusi il Governo, il
Senato, la Camera dei Deputati e le Assemblee regionali, rispetto ai quali la
tutela penale viene offerta dall'art. 290. Articoli correlati a "Corpi
politici" Art. 338 Codice Penale - Violenza o minaccia ad un Corpo
politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti Art.
342 Codice Penale - Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziarioFurio
Cerutti. Keywords: il leviatano, il corpo politico, l’organismo politico, lotta
di classe, Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale,
identita politica, corpi politici, I corpi politici, brunetto latini, aquino,
Egidio romano, Dante Banquet, Marsiglio di Padua, Pegula. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cervi
Grice e Cesa
Grice e Cesare – Roma – filosofia
antica. Gaio Giulio Cesare. Cesare had many friends who
followed the philosophy of the Garden, and it is clear that he had ome leanings
towards that philosophy himself. Exactly how far these went is unclear and
whether he ever actually became a member of the sect is a matter of dispute.
Grice e Cesarini – filosofia
italiana– Luigi Speranza (Genzano di Roma). Filosofo italiano. Grice:
“Cesarini was more of a warrior than a philosopher, but I also fought in the
North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He wrote a philosophical
story of the war of Velletri – and liked to dress up as one of his ducal
ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with the name Sforza
Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto sostenitore del
nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti nel suo palazzo.
Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che vennero loro
restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma, reso possibile
dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in veste di
consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every Englishman
loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the Pope!” – Grice:
“Sforza Cesarini should never be confused with the philosopher Cesarini Sforza:
Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential philosopher,
is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza Cesarini. Francesco
Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords: “Letters of my father,
kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria, patriotism,
nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta Pia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cherchi – implicatura sarda
– filosofia sarda – filosofia italiana – Luigi Speranza (Oschiri).
Filosofo italiano. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a
philosopher is from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he!
Cherchi is from ‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is
very fun! My favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it
relates to Vinci’s ‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a
Cagliari. Placido Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado
Maltese, interessandosi contemporaneamente di studi e problemi
etno-antropologici e storico artistici. Come autore di importanti lavori sul
pensiero di Ernesto De Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda,
fu un membro attivo della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla
presenza all'Cagliari di maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario
Cirese, come pure di loro allievi quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo
stesso Cherchi. Morì nel all'età di 74 anni a causa di un'emorragia
cerebrale. Altre opere: “Paul Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi
materici, Stef, Cagliari); “Pittura e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu
S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); “Placido Cherci, Ernesto De Martino: dalla crisi della presenza
alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore del limite: tre variazioni
critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli); “Il peso dell'ombra:
l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell'autocoscienza
culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento e crisi nella
cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto della
gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei circoli,
organizzazione non-partitica dei sardi, coautori Francesco Masala ed Eliseo
Spiga, Zonza, Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia all'identità
nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune pieghe
profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria
e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi
dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera, Curumuny);
“Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel mondo
identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe: Giulio Angioni, Una scuola sarda di
antropologia?, in (Luciano Marrocu,
Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi,
processi culturali, Roma, Donzelli,, 649-663
Addio a Placido Cherchi, il ricordo di Giulio Angioni: "Fu ideologo
del neo sardismo" Archiviato il 2 ottobre
in. Notizie.tiscali È morto
Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia
Fondazionesardinia.eu Scuola
antropologica di Cagliari Ernesto de Martino
Giulio Angioni, In morte di Placido Cherchi, sito "il manifesto
sardo".il 6 ottobre. Roberto Carta, Che cosa è Placido Cherchi? Due o tre
cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a Placido CherchiEnrico
Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di Placido
Cherchi. La colonizzazione e la penetrazione
romana nell'isola furono oltremodo intense e furono facilitate da
affinità di razza, per cui si può dire che lo spirito latino g-iunse
nell'intimo dell'anima del popolo sardo. (I) Pinza,
IMonuineiiti prUìiHivi della Sardegna in Monumenti Antichi, pubblicati per
cura della Reale Accademia dei Lincei, pag. 6. Il Taramelli, nel recente
lavoro sulla questione nu- ragica (Arch. Stor. Sardo, ITI 119071 p. 217),
ritiene che il carattere prevalentemente guerresco della schiatta sarda,
l'accanimento delle lotte interne dapprima, poi con lo straniero
invasore, abbiano nuociuto allo sviluppo artistico, che in germe aveva la
stessa disposizione che presso altre genti del Mediterraneo. Quando
le legioni romane, in seguito alle fiere lotte sostenute contro i
montanari Olaesi o Iliesi ebbero assoluta padronanza dell'intera
isola, l'arte sarda scomparì con questa che può definirsi l'ultima
ribellione dell'antica civiltà nuragica, e di essa non rimasero che vaghe
re- miniscenze presso gli artefici più umili, le quali perdurarono
attraverso il medio evo fino ai nostri giorni. Nel periodo
glorioso dell'impero romano la fusione fra l'elemento latino ed indigeno
fu così intima da potersi asserire che le nostre sono
manifestazioni della civiltà derivante da Roma; le grandi opere pubbliche
mostrano una regione che assurse ad alto grado di fiorimento civile
ed economico; non v'è paese, né plaga nell'isola che non abbiano
traccia dell'opera meravigliosa svolta dai Romani. Nelle regioni più
inaccessibili, in quella stessa Barbagia che raccolse gli ultimi
difensori della civiltà indigena, e che mostrossi . Statuetta
preistorica 1 Museo di Casa;! i a sempre indomita e
ribelle ad ogni forma di potere, sono strade, ponti, ed altri
segni palesanti ima florida colonizzazione romana, tanto intensa da
perdiu-are in molte manifestazioni e iiello stesso linguaggio
, attraverso secoli di bar- barie e di dominazione. Oreficeria
punica nel Museo di Cagliari. gran parte Nello
sfasciarsi della romana potenza lo spirito conservatore delle genti sarde
custodì gelosamente la bella tradizione latina. Mentre nel tempo che
segnò il passaggio dall'evo antico all'evo medio, d'Italia, come scrisse
il vSolmi, soggiacque a una lunga, trasformativa dominazione germanica,
la Sardegna fu invece fra le scarse regioni italiane che ne
restarono quasi pienamente immuni, dando così un nuovo, singolare atteggiamento
alla sua storia, che fu lenta e spontanea elaborazione degli
elementi indigeni e latini. La furia distruggitrice della conquista
vanda- lica, assai breve e poco estesa, non lasciò traccia alcuna
d'arte e di vita e paralizzò quell'ascensione alle più nobili conquiste,
che la Sardegna avea iniziato con la signoria di Roma. Una
completa oscurità avvolge in questo fu- nesto periodo ogni azione
isolana, che non siano le fasi di quelle guerre che dilaniarono l'isola.
Tur- bini di barbarie la dovettero ridurre in un vasto campo
funebre e quando cessarono le irruenze degli invasori, l'opera degli
architetti e degli ar- tisti si svolse come se nel naufragio delle
romanità questi avessero perduto la memoria d'ogni bella
forma. La conquista di Belisario ed il riordinamento
amministrativo di Giustiniano, assicurando la Sar- degna al dominio degli
imperatori d'Oriente, con- sentirono lo spontaneo sviluppo degli
elementi latini. Artehci che trassero la loro arte da
Bisanzio svolsero nell'isola quell'architettura, che derivò da
armonica fusione di forme orientali e di bellezze classiche, sparse
quest'ultime con profusione nella terra che vide erigere l'Acropoli e
scolpire la X'enere di Milo. Furono greci gli artisti che scol- Statuetta
ienicia nel Museo di Cagliari. fase. Arrigo Solmi, La
Sardegna e gli studi storici wnW Arcìiivio Storico Sarda, voi. I, 1-2,
Cagliari, Tip. G. Dessi, 1905. pirone bassorilievi, iscrizioni ed altre
forme ornamentali, che recenti indagini hanno messo in evidenza e che
sistematiche ricerche renderanno indubbiamente tanto copiose da darci
modo di determinare entro limiti detiniti l'influenza artistica che
Bisanzio svolse nell'isola dandole carattere e forme stilisticamente
rilevanti. ampacla cristiana rinv Chic a di S. Giovanili tli
Siiiis in territorio di Cabras nell'antica Tarros. L'arte romana per opera
di greci artefici divenne arte bizantina, la (jLiale rappresenta non un
nuovo stile, ma ima trasformazione dello spirito latino a contatto delle
forme orientali. F.d in Ravenna, in Grado, in Sicilia, nelle Puglie
sorsero quelli edifici, rudi e disadorni all'esterno, che inter- namente
brillano di ricchi mosaici, in cui l'oro e le gemme preziose sfaccettano
in mille raggi la tenue luce diffondentesi dalle arcuate finestre.
Anche nella nostra isola dovettero svolgersi queste forme architet-
toniche giacché dal primo trentennio del secolo VI e per non breve corso
di tempo la Sardegna fu una provincia dell'impero di Bisanzio. Xè
questa signoria fu solo nominale, ma tanto si compenetrò nella vita e
nelle istituzioni che l'infiuenza greca nel linguaggio, nella diplo-
matica, nel dritto apparisce evidente anche nel secolo XI, quando la
Sardegna erasi già sottratta di nome e di fatto al dominio degli impe-
ratori di Oriente e ne reggevano le sorti da più che un secolo i regoli o
giudici nazionali. La nostra cattedrale conserva in una sua
cappella una Madonna, splendente d'oro e di bellezza. Intorno ad essa
fiorisce una fine e pia les^genda, comune del resto a molti altri antichi
simulacri d'Italia. Vuoisi che la vaga madonnina sia stata scolpita
da S. Luca e da Costantinopoli trasportata a cura del Cagliaritano
Eusebio, vescovo di Vercelli, alla città di Cagliari, con nave guidata da
una corte di angeli e di cherubini. Il simulacro è indubbiamente opera
del XIV secolo, ma la tenue leggenda può interpretarsi come un poetico
simbolo del tra- Stele puniclie nel Museo di Cagliari.
piantarsi dell'ellenismo nell'isola, perpetuato dal nostro popolo
attraverso gli oggetti suoi pili cari. Ed infatti molti
frammenti decorativi ed epigrafici nonché parecchi edifici attestano
dell'inlluenza dei costruttori bizantini neh' architettura dell'alto
medio evo in Sardegna. Tale è la Chiesa di S. Giovanni di Sinis,
nell'agro di Cabras in vicinanza ad Oristano e presso le rovine
dell'antica e fiorente città di artp: preromanica Tarros. Le origini
e le vicende di questa chiesa ci sono ignote; si volle veder in
essa la cattedrale di Tarros cristiana, ma ciò non è che una congettura,
giacché nessun documento veramente ineccepi- bile ci dice quando la
città venne abbandonata e se essa perdurò fino al- l'epoca che gli
elementi costruttivi e stilistici permettono d'assegnare all'an-
tico tempio. L'aver i presuli d'Oristano assunto il titolo di abate di S.
Giovanni di Sinis fa presumere che a questa chiesa originariamente
fosse annesso un monastero. Essa presentemente è a tre
navate Testa di irrito rin\enuta in Cagliari Punica.
coperta da volta a botte e comuni- cante per mezzo di arcate
poggianti su massicci pilastri. Anche i due muri |jerimetrali e
laterali hanno la strut- tura a pilastri ed archi, chiusi questi
ultimi posteriormente. Il prospetto, sormontato da im
frontone che segue l'andamento della volta a botte, non ha
ornamentazione alcuna e la porta che in esso è aperta è
rettangolare, semplicemente con- tornata da una fascia di marmo.
La navata centrale è terminata da un'abside circolare e sopra le
ul- JNIaschera rinvenuta in Tarros
Punica. D. SCANO — storia dell' Ai le in Sardegna. time
quattro pilastrate si svolge il tamburo, sostenente la piccola volta a
bacino, costituente la cupola. La forma di questa chiesa è
basilicale e non differenzia da quelle di tante altre chiese medioevali
sarde, del XI o XII secolo, se non che alcune forme costruttive come la
cupola e la volta a botte indu- cono a ritenere che originariamente dovea
avere tutt' altra struttura. Mancando ogni qualsiasi elemento
decorativo, giacché la chiesa ha le pareti nude senza frammenti di
pittura, di scultura o di semplice orna- mentazione, che di solito
guidano lo studioso nei riscontri stilistici, pro- cedetti per
identificare le forme primitive ad un esame tecnico delle parti
architettoniche. I risultati confermarono la prima
impressione, giacché potei ri- scontrare: 1°) La volta che
copre la navata centrale è relativamente mo- derna; 2°)
I muri della navata cen- trale e delle navatelle furono eretti
posteriormente al nucleo centrale, su cui poggia il cupolino. Della
struttura originaria della Chiesa non resta che detto nucleo
centrale e le braccia tra- sversali. Ridotte in tal modo le
parti originarie ed eliminate le aggiunte posteriori è facile completare
l'ico- nografia primitiva, partita in quattro braccia a modo di croce,
che s'in- tersecano secondo quattro piloni sostenenti il tamburo su cui
poggia la cupola per mezzo di quattro pennacchi. Di più i piloni hanno
gli angoli rientranti in modo da permettere il collocamento in dette
pilastrate di quattro colonne, che ora più non esistono. Questa
particolarità co- struttiva è degna di nota, giacche la ritroveremo in
altra chiesa, colla quale S. Giovanni di Sinis presenta molte
affinità. Nei muri terminali delle braccia trasversali della croce
sono aperte i nnvc-mita 111 Cai^l influenza greca). iri
l'ui due finestre bifore, in cui la colonnina è sostituita da un
semplice pila- strino in pietra da taglio senza capitello e senza base.
Abbiamo la forma iniziale di quelle bifore, che posteriormente vennero
rese più eleganti e più svelte dalle colonnine col pulvino, permettente
agli archi un'imposta corrispondente allo spessore della muraglia. Questa
forma arcaica con- ferma l'origine preromanica di S. Giovanni di
Sinis. Alle forme costruttive di questa chiesa dovettero
infiuire le catacombe di S. Salvatore, le quali ne distano circa
quattro chilo- metri. Queste catacombe poste presso ad alcune
ro- vine romane, malgrado non siano state ancora ne stu-
diate, né menzionate, sono interessantissime e costitui- scono il
più pregevole ed interessante monumento isolano dei primi tempi
del cristianesimo. La chiesetta sopra- suolo è
relativamente mo- derna e non presenta niente d' interessante . Ai
sotter- ranei s'accede mediante una gradinata svolgentesi in
uno stretto passaggio coperto da un voltino a botte. In
quell'andito sono aperte due porte, una di fronte all'altra, per le quali
si perviene a due camere rettangolari di m. 4,30 X 3,26 ciascuna, coperte
ancor esse con volte a botte. Lo stretto passaggio fa capo ad un vano
circolare, coperto da volta a bacino ed illuminato dall'alto, che
costituisce il nucleo centrale delle catacombe, comunicando esso con
altre due camere laterali terminate da absidi e con altra circolare, che
è l'ultima Busto di a rinveiiutu in Tarros
Punica influenza jj;reca). dell'edificio sotterraneo. Si ha
una disposizione planimetrica, che ricorda i più antichi edifici
cristiani: la struttura è prettamente romana con mu- ratura di laterizi
opportunamente collegata con altra di pietrame informe. Ceramica punica
nel Museo di Cai;liari. Le pareti delle diverse camere sono
intonacate a stucco lucido, const'i- vante tutt'ora traccia di antiche
pitture. Più che pitture sono schi/zi, Sarcofago romano nel
Museo di Cagliari. figure eseguite a caso, alcune abilmente, altre
con tecnica ed arte infan- tili. In ima parete di una camera absidale
sono traccie di un gruppo interessantissimo rappresentante una lotta fra
un leone ed un uomo dalle forme erculee. Nelle altre i)areti e;
nell'abside della stessa camera sono schizzate alcune nax'i, due leoni,
un Eros e diverse figure di donne de- lineate con maestria dal tipo
classicamente pagano. Esse vennero eseguite al di là di (iualun<[ue
preoccu[)azione mistica e sono di gentile arte, piene di grazia
voluttuosa e di vita. L'na di esse dalle linee formose, che rievoca la
Venus (ìcnitri.w solleva con ima mano i veli che le coprono i turgidi
seni e le belle forme. l'"ra ([uesti schizzi e queste figure di donne
ri- corre sjx'sso il mouogramiua RI e sono intercalate frasi scritte in
greco corsivo, la di cui esatta interpretazione potrà portare non lieve
luce sulle origini di (|ueste forme pittoriche. Non un simbolo cristiano,
non il monogramma di Cristo che attestino la fede di chi rese nelle
pareti, con .Sarcofajj:o romano
nel Museo di Ca.sjliari. decise linee, figure \oluttuose di belle donne.
D'altra parte l'iconografia dei sotterranei segue la disposizione delle
prime chiesette cristiane special- mente nelle forme absidali delle due
cappelle laterali e della camera termi- nale. E vero che nelle
costruzioni cimiteriali più antiche le tetre muraglie coprivansi di scene
tratte dalla vita reale e molto spesso dalla mitologia pagana tanto che
nelle catacombe di Pri.scilla e di Domitilla, nelle quali meglio che
altrove si possono studiare le origini della pittura primitiva cristiana,
cjuesta è stranamente impregnata di paganesimo; ma se la tra- dizione è
pagana, nell'antica forma l'arte si penetra di spirito cristiano. Qui no,
forma e spirito sono schiettamente inspirate al paganesimo più libero e
più licenzioso. Statua di Bacco rinvenuta In Cagliari nel 1904.
Queste contradizioni non permettono ora di poter dare un sicuro o^iudizio
su questo interessantissimo monumento: forse l'ipotesi che più concilia
((ueste forme cozzanti tra loro è quella dell'orij^i'ine pagana dei
sotterranei, costrutti ed usati come carceri e poscia serviti come
rifugio nei primi tempi del cristianesimo. Con ciò si spiegherebbero la
disposi- zione a celle, poste sotto il livello del suolo e gli schizzi
delineati da (jualche artista, che nel tedio della prigionia volle
rievocare senza una direttiva pittorica immagini impure e dar forma
d'arte a sogni libertini. Oualun([ue sia l'origine di queste, che
vengono chiamate catacombe. è certo che esse furono nei primi secoli,
forse nel IV^ secolo, adibite al culto cristiano. Non ritengo
la costruzione cimiteriale, mancando qualsiasi indizio di loculo o di
pittura funeraria. Nel nucleo centrale è un pozzo, poco profondo,
in cui è perenne una fresca lama d'acqua. Questo può spiegare la
destinazione che dai primi cristiani venne data a questi sotterranei,
qualunque sia la loro origine. A mio parere essi dovettero servire di
battistero in tempi di per- secuzione. Infatti non è spiegabile con
l'ordinario uso degli edifici di culto la presenza del pozzo nella parte
centrale della chiesa sotterranea. Inoltre la poca profondità del fondo,
la presenza ininterrotta di una fresca lama d'acqua e le traccie di
alcuni fori, per cui mediante tavole potevano i convertiti scender s^nù
nell'acqua, rendono attendibile questa destinazione, la quale ha molti
riscontri e molte analogie colle prime forme battisteriali.
Ai primi tempi del cristianesimo non aveasi altri battisteri che le
rive dei fiumi e le fontane. Ancor oggi nella prigione Mamertina a Roma
ARTE PREROMANICA esiste il [)ozzo miracoloso, in cui,
secondo un'antica tradizione, S. Pietro e S. I^iolo battezzarono i loro
(guardiani. In alcuni battisteri ])riniiti\'i rac(iua era fornita da
pozzi come nelle catacomlje di S. balena o da sor- benti naturali come in
([uelle di Priscilla e di Callista. I*\i solo colla cessa/ione
delle persecuzioni al tempo di Costantino che si commciò a costrurre
battisteri snò dio, editici s[)eciali, che non differivano dalle chiese
propriamente dette se non per la loro desti- nazione. La
cripta di S. .Sahatore forse in oriu-ine ebbe altra inxocazione, oiacchè
era fre([uente dedicare i battisteri al precursore di Cristo. Ad Avanzi
di \ille romane in Cagliari. ot^ni modo ciò che non |)U() essere
messo in dul)bio si è che i sotter- ranei di S. Salvatore, per le forme
costruttive, i)er le pitture e per le iscrizioni costituiscono un
monumento d'arte cristiana di ^rrancle interesse e merita uno studio
ampio e speciale più di (pianto io abbia fatto in questi cenni brevi e
riassuntivi. L'oratorio di S. Giovanni d'Assemini fu ancor esso
elevato con forme costruttive bizantine, come può desumersi da
un'attenta disamina. La più antica memoria riflettente questa
chiesetta si conserva in un diploma dell'archivio Capitolare
della Chiesa di S. Lorenzo di Genova, con cui Trogotorio di Gunale,
giudice di Cagliari, e suo figlio Costan- tino concedono nel 1108 alla
Cattedrale di Genova la Chiesa di S. Gio- vanni e rinnovano la promessa
annua di una libra d'oro: Ego Indice Trogotori de Giinali cinti, filio
meo doninu Costantini .... fazo dista carta prò S. Ioaiinc de Arseiuin,
qui dabo ad sancto Lanreìizio de lamia prò Deus et prò anima mca
ecc. ecc. La facciata non ha niente di notevole ed è posteriore alla
fonda- zione della Chiesa. Nell'interno due navate larghe m. 2,00
disimpegnano Idinha di Atilia Pnmptilla in Cagliari. per mezzo
d'arcate quattro cappelle. All'incrocio delle due strette navate formanti
una croce greca a braccia eguali s'imposta sopra un tamburo a sezione
quadrata una piccola volta a bacino. Anche in questa chiesa
dobbiamo distinguere il nucleo originario dalle posteriori costruzioni;
queste sono costituite dalle quattro cappelle, che, coperte da un rozzo
tetto a vista, sono appiccicature evidenti e per la diversa struttura
muraria e per non essere collegate organicamente ai muri
antichi. ToLA, Cod. Dipi., voi. 1, pag. 180. Eliminando queste
aggiunte risultano in modestissime proporzioni le stesse forme bizantine
della chiesa di S. Giovanni di Sinis e di S. Sa- turnino in Cagliari.
Nell'altare è murata un'iscrizione in caratteri greci, che porta
imo sprazzo di luce sulla chiesetta. E contornata da una doppia fascia
di perline in rilievo, che attesta come facesse parte di qualche
monumento, probabilmente sepolcrale, dedicato alle persone in essa
ricordate. Tra- scrivo l'interpretazione fattane dal Prof.
Taramelli: Anlìteatro romano in Ca.uliari. O Signore, abbi
pietà del tuo servo Torcotorio, arconte di Sardegna e della serva Gè ti
'.''. Lo Spano ed il Martini ritennero — erroneamente come vedremo
in appresso — trattarsi del Torcotorio, che governò il giudicato di Ca-
gliari dal 1108 al II 29 e che donò la chiesa di S. Giovanni d'Assemini
al Duomo di Genova. A pochi metri dell'oratorio di S. Giovanni
sorge la Chiesa Parroc- chiale di S. Pietro, che contiene fra le sue mura
alcuni frammenti deco- rativi bizantini e sulla soglia ha incisa la
seguente inscrizione in carat- (i) A. Taramelli, Iscrizioni
Bizantine della Chiesa di S. Giovanni e della Chiesa Par- rocchiale d'
Assemini in Notizie degli Scavi, a. 1906, fase. 3. teri greci, la
quale ricorda probabilmente l'erezione e la dedicazione di detta
chiesa, che è ancora oggi sotto l'invocazione di S. Pietro:
In nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo, io Nispella
Ochote (?) (co- strusse il tempio) in onore dei Santi corifei gli
apostoli Pietro e Paolo e S. Giovanni Battista e della l^ergine martire
Barbara, affinchè per le loro preghiere dia a me il Signore la,
liberazione dei peccati. Anche quest' iscrizione venne dallo
Spano attribuita al Torcotorio del XI se- Erma bacchica di
fronte. In un mio studio sulla chiesa di S. Saturnino di
Cagliari '* trattando ac- cidentalmente di queste epigrafi, le ri-
tenni anteriori al mille. Infatti le lettere, elegantemente incise, ed i
pochi motivi ornamentali sono sufficienti a determinare forme
stilistiche molto più antiche delle romaniche del mille e dei secoli
susse- guenti. Inoltre la carica di protospatha- riìis, che si
riscontra in un'altra iscrizione coeva di Villasor, indica ancora una
sog- gezione alla corte di Bisanzio non con- cepibile nel
Torcotorio della seconda metà del XI secolo, che nei suoi atti ed
in ispecial modo nella donazione fatta ai Testa di
Sileno. (i| 1). SCANO, Im Cliicsa di S. Satuvìiiuo in
Ihillrltiìio /ìiò/ioorajìco Sardo, \-o\. Ili, pag. 146, Cagliari, Tip.
Unione Sarda. monaci di Monte Cassino esercita la sua podestà come
CJiudice e Re libero da ogni ingerenza anche nominale dell'impero.
Un'altra consi- derazione distrugge l'attribuzione dello Spano e cioè il
Torcotorio men- zionato nell'iscrizione d'Assemini avea per moglie
Nispella, mentre quello del mille avea per consorte Vera, la pia donna,
che indusse prima il marito e poscia il figlio suo Costantino a larghe e
ricche concessioni verso gli ordini monastici ed in isj)ecial modo verso
i monaci di S. Vit- tore di Marsiglia: Eoo iìidigi Trocodori de Ugnnali
C(im imiliei'i mia Doìnia \ 'era et cnui filin uieiL noìiìiii
Costaiitìjm '. Queste conclusioni vennero confermate di
recente dagli studi dei Professori Solmi e Tarameli i, che
pervennero a risultati interes- santissimi per la storia medioevale
della Sardegna. Negli scavi eseguiti venti anni or sono dal
Vivanet presso l'antica chiesa di S. Nicolò di Donori insieme ad
interessanti resti di ma- teriale epigrafico d'età romana, vennero
fuori frammenti decorativi ed iscrizioni greche, che furono oggetto
di un recente ed interes- sante studio del Taramelli, che at- tribuì
queste ultime ad iscrizioni funerarie assai eleganti, di persone
elevate, probabilmente del IX o X secolo. In una casa privata
di Mara sono due bassorilievi marmorei, recanti croci greche incluse in
cerchi, di fattura l)izantina, e nel fianco della chiesa parrocchiale è
murata una piccola scultura marmorea molto cor- rosa, rappresentante una
figura d'uomo vestite; di lunga tunica manicata, figura che per quanto
rovinata accenna ad epoche ed a forme bizantine. Le iscrizioni
della distrutta Chiesa di S. Sofia fra Decimoputzu e Erma
di Bacco \i.sta di fianco. (I) ToLA, Cud. Dipi. Sardo, voi.
I, pag. 154. Villasor presentano grande analogia coi frammenti di
S. Giovanni di Assemini e per la forma delle lettere e per la decorazione
a perline. Faccio mie senz'altro le considerazioni esposte dal
Taramelli nello studio sovradetto: « Due delle iscrizioni sono sopra una
coppia di mensole « decorate da un ramoscello di fiori a voluta, alla
loro estremità; l'altra « più lunga è incisa sopra due robusti listelli
di marmo, decorati da una « doppia fascia di perline e nodetti, i quali
come quello della iscrizione di « S. Giovanni d'Assemini potevano far
parte o della decorazione della « porta o di un ambone « o
d'altro monumento « eretto in quella chiesa « dalle persone ricordate
« dall'iscrizione e per il « motivo decorativo co- « me per lo
stile ricor- « dano il fregio dell'am- « bone del Duomo di «
Torcello, riferito al se- « colo X circa, alla quale « età può
convenire la '< grafia dell'epigrafe, « elegante ma
alquanto « incerta » •". Trascrivo, tradotte,
queste iscrizioni: O Signore, abbi pietà dei servi di Dio,
Torco- torio, reale protospatario, e di Satusio, uobilissi)}ii arconti
nostri, così sia. Ricordati anche o Signore del tuo servo Ozzoccorre.
Signore abbi pietà del tico servo Unnspete e della consorte di Ini
Soreca. È d'aggiungersi infine a questo bel nucleo di documenti
epigrafici e decorativi di carattere bizantino la seguente iscrizione,
conservantesi nell'altare della chiesa parrocchiale di S. Antioco: O
Signore abbi pietà del tuo servo Torcotorio, protospatario e di Salusio
arconte e della moglie ("ì) Ni spella. Sarcufago
romano nel Museo di Cajj;liari. (i) A. Taramelli, Iscrizioni
Bizantine ecc. ecc., pag. 132. In una parete esterna della chiesa è
murato un bassorilievo, che reca una porzione di figura umana, vista di
fronte, con lunsj^a tunica a maniche, con colletto ornato e con larga
fascia al petto (i). Da (|uest() non indifferente materiale
epigrafico rinvenuto in una ristretta porzione dell'isola il Prof. Solmi
pervenne col suo fine discerni- mento di storico e di critico a
congetture, che sono sprazzi di luce nel buio che avvolge l'ori-
gine dei giudicati '^l, Fiondandosi nell'avvicenda- mento del
nome di Torcotorio a quello di Salusio. il Solmi distingue il nome
personale del giudice dal lìome pubblico o di governo. Mentre
([uesto è sem- pre identico, Torcotorio o Sa- lusio, invece, il
nome personale, che talora si identifica col nome di governo, può
essere qualche volta da cjuesto essenzialmente diverso.
E questo avvicendamento dei due nomi , (qualunque sia quello
privato che abbia il giu- dice, permette insieme al conte- nuto
delle iscrizioni bizantine d'integrare la serie dei giudici,
iniziandola col Torcotorio, im- periale protospatario e arconte di
Sardegna, ricordato nell'iscrizione di S. Giovanni d'Assemini. A questi,
che ebbe per moglie Geti e che regnò probabilmente intorno alla metà del
X secolo succedette il figlio Salusio, già aggregato, come risulta dalle
iscrizioni di S. Sofia al trono del padre, ed Testa di
Bacco. |i) A. Taramelli, Iscrizioni nizantìne ecc. ecc.,
pag. 137. (2) A. Solmi, Le carte volgari dell' Arcliivio
Arcivescovile di Canliari, I-'irenze, Tip. Ga lileiana, pag. 69.
erede poi dei suoi titoli e del suo potere. Sulla fine del X
secolo e nei primi decenni del seguente governò il giudicato di Cagliari
il Torcotorio della lapide di S. Antioco, marito a Sinispella e
contemporaneo di S. Giorgio di Snelli, Con Mariano Salusio, menzionato in
una carta greca di S. Vittore di Marsiglia, s'inizia la serie
dei giudici precedentemente ac- certati dagli storici sardi.
Questi risultati confermano il lento ed amichevole distacco dalla
Sardegna dalla dominazione di Oriente. L'ultimo ricordo di
un'effettiva di- pendenza da Bisanzio appartiene all'anno 687 e
mostra l'esarca residente in Ceuta, ancora a capo di un « Africauìis
excr- citìts » e di im exercitiis de Sardinia, costituito come
corpo distinto entro l'e- sarcato africano. « Caduta
Cartagine e Ceuta, scrive « il Solmi, agli ultimi del VII secolo e
« mancati così gli ultimi centri dell'an- « tico esarcato d'Africa,
l'impero Greco « lasciò in pieno abbandono anche l'i- « sola, che
n'era parte, separata ormai « da un ampio mare, che divenne il «
campo pericoloso delle imprese sara- « cene; ne più la flotta greca varcò
oltre « le coste della Sicilia, dove si accentrò « l'estrema punta
occidentale del do- « minio bizantino. Il duca di Cagliari « restò
a capo deWe.rerciins Sardiniae « sotto la signoria nominale
dell'impero f. greco; si vestì forse dei pomposi titoli « delle
alte magistrature bizantine, ma in realtà divenuta la soggezione « vuota
apparenza, resa ereditaria la carica, ogni rapporto coll'impero «
bizantino venne ad essere illanguidito e sui primi anni del secolo VIII «
la Sardegna sembra restare esclusa dall'organizzazione tematica Orien- «
tale e interamente libera da o^ni dominazione di Bisanzio ». Madonna detta
di nel Duomo di C; Onesto per i ris^r.ardi storici; dal punto di
vista dell'arte i numerosi tVainnieiui l)i/antini. ai ([uali fino ad ora
non si dette importanza alcuna, le Chiese di S. Ciio\anni di Sinis, di S.
Giovanni d'Assemini. di S. Sofia Chiesa di S. Ciiovaimi di Sinis
(tìanci)!. di \'iilas()r, di S. Stefano di Maracala^-onis, di S.
Antioco di Sulcis, di S. Saturnino di Cagliari, sfui^i^ite alle
indai:rini de-^ii studiosi, attestano un Chiesa di S. (Giovanni di
Sinis i abside). periodo architettonico bizantino, che
_<^ià si presenta intenso e che lo sarà ma}j^_t(iormente, quando con
indai^ini sistematiche si procederà allo studio di tante strutture ora
nascoste sotto gl'intonaci e gli stucchi seicentisti •". I
Altri franinienti bizantini rinvenni nel paramento della chiesa inedioevale di
.S. Gemi- nano in Saniassi. D. ScANo — storia dell'Arte in
Sardegna. Né poteva esser altrimenti e le conclusioni storiche che
traggonsi dalle iscrizioni bizantine e le congetture che su di esse e su
altre prove poterono formarsi, rendono attendibile quest'influsso e
questo fiorimento d'arte bizantina nell'isola, che non poteva sottrarsi
alle manifestazioni di vita dell'impero che la congiungeva al mondo
latino. Queste forme greche perdurarono anche (juando venne a
mancare la effettiva, se non nominale, dipendenza agli imperatori
d'Oriente. Discendenti dagli arconti o patrizi della corte di
Bisanzio, i giudici conservarono negli atti ufficiali colle cariche
bizantine le forme diploma- tiche e la lingua greca; e come queste forme
si mantennero fino al XI secolo, così anche gli allievi ed i discendenti
degli artefici greci conser- varono le norme costruttive bizantine, fino
a quando si dischiuse per la Sardegna una nuova fase col rinnovamento,
che prorompe nel XI secolo al contatto delle fresche energie delle
civiltà di Pisa e di Genova. Placido Cherchi. Keywords: implicature
sarda, filosofia sarda, etnos, etnicicita italiana, sardegna non e parte
d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Cheremone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofio
italiano. Cheremone di Alessandria. Cheremone
di Alessandria è un filosofo Italiano. Cheremone, figlio di Leonida, e sovrintendente
della porzione della biblioteca di Alessandria che si trova nel Serapeo e, in
quanto custode e commentatore dei libri sacri, appartene ai più alti ranghi del
sacerdozio. E convocato a Roma, con Alessandro di Aegae, per diventare tutore
di Nerone. Può essere identificato con il Cheremone che accompagna Elio
Gallo, prefetto d'Egitto, in un viaggio nell'entroterra. E autore di una Storia
dell'Egitto, di opere sulle comete, sull'astrologia egizia e sui geroglifici,
oltre ad un trattato grammaticale. Tuttavia, di queste opere, non restano che
frammenti. Notevoli, dall'opera sui geroglifici, 14 frammenti, riportati
soprattutto da Porfirio, che se ne serve ampiamente nel De abstinentia e nella
sua Lettera ad Anebo. Cheremone descrive la religione come una mera
ALLEGORIA del culto della natura. In tale direzione, il suo principale
obbiettivo e quello di descrivere i segreti simbolici e religiosi. Si veda la
lettera dell'imperatore Claudio, in Corpus Papyrorum Iudaicarum, II, Cambridge
(Mass.) 1960, p. 39, n° 153. ^ Suda, s.v. "Alessandro Egeo". ^
Strabone, XVII, 806C. ^ Flavio Giuseppe, Contro Apione, I, 32-33. ^ Tradotti e
commentati in I. Ramelli, Allegoristi dell'età classica. Opere e frammenti,
Milano, Bompiani, 2007, pp. 671-708. ^ Il più lungo frammento, infatti, è in IV
6, 8. ^ II, 8-9 e 12-13. Horst, Chaeremon, Egyptian Priest and Stoic
Philosopher. The fragments collected and translated, Leiden, Brill, Ramelli,
Giulio Lucchetta, Allegoria. L'età classica, Vol. 1, Milano, Vita e Pensiero,
Ramelli, Allegoristi dell'età classica. Opere e frammenti, Milano, Bompiani,
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Cheremone, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, V · D · M Grammatici greci antichi Portale Antico
Egitto Portale Biografie Portale Ellenismo Categorie:
Filosofi egiziStorici egiziFilosofi del I secoloStorici del I secoloNati nel
10Morti nell'80Capo-bibliotecari della biblioteca di AlessandriaGrammatici
egizianiGrammatici greci antichiStoici.
Grice e Chiappelli: l’implicatura
conversazionale dell’academici – Cicerone e il segno di Marte – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “One
of my most recent reflections is on the distinction and striking parallelisms I
draw between the Athenian dialectic – best represented in Raffaello’s “La
scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but represented in those
reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or better, my Saturday
mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us with a most
brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting – Strawson
tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the rest of
the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del fisiologo
Francesco Chiappelli, zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e filosofia
all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria a Napoli,
dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e incaricato
dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha inoltre
insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro della
Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle scienze di
Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere comunale a
Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli archivi e
biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro della
commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e delle
opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone, Firenze:
Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia
moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica
letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma,
Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta
Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le
Monnier); “Giacomo Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Società editrice
Dante Alighieri); “Leggendo e meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e
scienza sociale, Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul
cristianesimo antico, Firenze: succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina,
Firenze, Lumachi); “Dalla critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine
di critica letteraria, Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, 2 voll.,
Ancona, G. Puccini e figli). Dizionario biografico degli italiani. Crusca. Cicerone affronta e sviluppa la problematica
semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere
di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se gni divinatori. Se
prendiamo in considerazione il primo di questo ambi to, possiamo osservare che
l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da
una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere
oratorum che affrontano una problematica a carattere so cio-politico, volta a
definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la
sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste
opere tut to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie)
appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come
un vasto campo di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto
diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazio ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com
pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in
generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio,
che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso
non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno
di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De
inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con densa
l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi
naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione), cioè
del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare
una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco
gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera 210 9.
RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo
do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non
viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra
una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza
necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non
necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo
necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato diversamente da come
viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con
un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è
luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi
di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione
inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l.
86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini to:
"Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla
comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia
esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone
mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello
doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos
(verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele
avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio",
"Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In
essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per Aristotele
definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio,
"Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La
categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non
necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al
comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in
base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il
signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare:
"Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica
(significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può
essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e
tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ,
I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod
fero solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come
sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae
alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha
partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio
-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata
la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci" (corrispondenti
alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci''
(corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva
criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È
curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto
alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli
auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti
onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione
orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut tavia è
anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. CICERONE Né questo è un caso isolato in ambito
giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per
/,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che
era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso
dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani
sono invece trattati tra gli argomenti intrin seci, in particolare tra quelli
che riguardano lo stato di cau sa congetturale. Infatti la congettura può
essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le
notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice
Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a
esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare".
Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il
carattere probabili stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita
come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa
certa, co me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi
dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e
dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla nozione di fdion semeion
(segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio era la caratteristica
specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero
grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole
postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di necessità e si definiva
come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda
(Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i
vestigia facti (indizi di fatto), dei quali RETORICA LATINA vengono dati
questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo,
alterazione del colorito, discor so contraddittorio, tremore [...], gli indizi
materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le
risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non
definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni
avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte ristica condivisa anche dai
signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli
argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti
se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae
rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa
sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma
nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda
alla cate goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmoria quanto
dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove
ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono
definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente,
caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma
mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte mologico per
la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es .sangue - uccisione·
es.: •adolescenza inclinazione alla libidine ·CICERONE 215 coniecturs verisimilie (•quod plerumque rta notse
proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.:
'"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra
prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche corrisponde la
distinzione tra di vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla
con gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole micamente
rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati
in maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di
verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine
giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di
vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali della sua
epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a fondamento
razionalistico, e contempora neamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stessso; la superstizione,
invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono
poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non
venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione
della repubblica. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel
De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que
st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello
Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che
legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone
contro la teoria soste nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché
costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e
contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La
divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si
pongono come fon te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu
nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda
dei due specifici tipi di divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura
in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in
cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica
professionale di decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in
un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et
fu/gurum (inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti
del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes
sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed
estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità
si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui
l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si
basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine
stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di
cau se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come
fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è
conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div., I, CICERONE 217 Tuttavia viene
prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività La divinazione "naturale" Il
secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente
da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta
ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno.
Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan ti da invasamento
profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto
filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle
teorie peri patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no minati,
De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la
divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno,
dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del
dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura
sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo
lo schema: RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro
.... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione
si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente
carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non
siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto
a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le
tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la
tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In
entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi;
ma, mentre le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia
che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva,
è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza
statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip pocratici
tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla divinazione e
dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali (De
div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni
ne cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div.); (iv) in certi
casi l'interpretazione è motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è
priva di oggettività (De div.).Cicero composed this treatise immediately after that on the
Nature of
the Gods; the two subjects being indeed very closely connected.
In the first book all kinds of divination are represented as maintained by his brother Quintus, on the principles of the Porch. It
is an old opinion, derived as far back asfrom the heroic times, and confirmed by the unanimous agreement of the rather
superstitious Roman people, and indeed of other nations, too,
that there
is a species of divination in existence among men, which the Greeks call “xarrt/c^,”
that is to say, a presentiment, and foreknowledge
of future events. A truly splendid and serviceable gift, if it only exists in reality; and one by which our mortal nature makes its nearest
approach to the power of the gods. Therefore, as
we have done many other
things better than the Greeks, so, most especially have we excelled them in giving a name to this most admirable
endowment, since our nation derives the name which it gives to it, “divination,”
from the gods (“divis”),
while the Greeks derive the title which
they give it, namely, “juavn/cr/,” from
madness (juai'ia). For that is Plato's
interpretation of the word. Now, as
far as I know, there is no
nation whatever, how ever polished and
learned, or however barbarous and un
civilized, which does not believe it
possible that future events may be
indicated, and understood, and predicted by
certain persons. In the first place
the Assyrians, that I may trace back
the authority for this belief to the
most remote ages and countries, as a
natural consequence of the champaign
country in which they lived, and of
the vast extent of their territories,
which led them to observe the heavens
which lay open to their view in
every direction, began to take notice
also of the paths and motions of
the stars; and having taken these
observations for some time, they handed
down to their posterity informa tion
as to what was indicated by their
various positions and revolutions. And
among the Assyrians, the Chaldaeans, a
tribe who had this name not from
any art which they professe, but from
the district which they inhabited, by
a very long course of observation of
the stars are considered to have
established a complete science, so that
it became possible to predict what would
happen to each individual, and with
what destiny each separate person was
born. The Egyptians also are
believed tohave acquired the knowledge of
the same art by a continued practice
of it extending through countless ages.
But the nature of the Cilicians and
Pisidians, and the Pamphylians, who border
on them, nations which we ourselves
have had under our government,1 think
that future events are pointed out by
the flight and voices of birds as
the surest of all indications. And
when was there ever an instance of
Greece sending any colony into yEolia, Ionia,
Asia, Sicily or Italy, without consulting
the Pythian or Dodonrean oracle, or
that of Jupiter Hammon? or when did
that nation ever undertake a war
without first asking counsel of the
Gods 1 Nor is there only one
kind of divination celebrated both in
public and private. For, (to say
nothing of the practice of other
nations.) how many different kinds have
been adopted by our own people. In
the first place, the founder of this
city, Romulus, is said not only to
have founded the city in obedience to
the
auspices; but also to have been himself an augur of the highest reputation. After him the other kings also had recourse to soothsayers;
and after the kings were driven out,
no public business was ever transacted,
either at home or in war, without
reference to the auspices. And as
there appeared to be great power and
usefulness in the system of the
soothsayers (haruspices),2 in reference to
the people's succeeding in their objects,
and consulting the Gods, and arriving
at an understanding of the meaning of
prodigies and averting evil omens, they
introduced the whole of their
science from Etruria, to prevent the appearance [Cicero had
been proconsul of Cilicia, and had
gained a very high reputation by the integrity
andenergy which he displayed in that
government. Aruspex is derived from the
Greek word Ifptiv, and specio, to behold,
because the Aruspex prophesied from the
omens which he drew from an
inspection of the entrails
of the victims. Augur, from avis, and garrio, to chatter;
because the omens were drawn from the
noise made by the birds in their
flight of allowing any kind of
divination to be neglected. And as
men's minds were often seen to be
excited in two manners, without any
rules of reason or science, by their
own mere uncontrolled and free motion,
being sometimes under the influence of
frenzy, and at others under that of
dreams, our ancestors, thinking that the
divination which proceeded from frenzy was
contained chiefly in verses of the
Sibyl, ordained that there should be
ten citizens chosen as interpreters of these compositions.
And in the same spirit they have
also, at times, thought the frantic
predictions of conjurors
and prophets worth, attending to; as they did in the Octavianl
war in the case of Cornelius
Culleolus. Nor indeed have men of the
greatest wisdom thought it beneath them
to attend to the warnings of
important dreams, if at any time any
such appeared to have reference to
the interests of the republic. Moreover,
even in our own time, Lucius Junius,
who was consul, as colleague of Publius
Rutilius, was ordered by a vote of
the senate to erect a temple to
Juno Sospita, in compliance with a
dream seen by Csecilia, the daughter
of Balearicus.2 III. And, as I
apprehend, our ancestors were induced to
establish this custom more because they
had been warned, by the events which
they saw, to do so, than from
any previous conclusion of reason. But
some exquisite arguments of philo sophers
have been collected to prove why
divination may well be a true
science. Now of these philosophers, to
go back to the most ancient ones,
Xenophanes the Colophonian appears to have
been the only one who admitted the
existence of Gods, and yet utterly
denied the efficacy of divination. But
every other philosopher except Epicurus,
who talks so childishly about the
nature of the Gods, has sanctioned a
belief in divination; though they have
not all spoken in the same manner.
For, though Socrates, and all his
followers, and Zeno, and all those of
his school, adhered to the opinion of
the ancient philosophers, and the Old
Academy and the 1 This was the
civil war in the consulship of Cinna
and Octavius, which ended in Octavius
being put to death by the orders
of Cinna and Mariu?. 2 This was
Quintus Caecilius Metellua (the eldest son
of Metellus Macedonians), who was consul with
T. Quinctius Flamininus: in which
consulship he cleared the Balearic Isles
of pirates, and founded several cities
in the islands. Peripatetics agreed
with them; and though Pythagoras, who
lived some time before these men; had
added a great weight of authority to
this belief — and indeed he himself wished
to acquire the skill of an augur, —
and though that most im portant
authority, Democritus, had in very many
passages of his writings sanctioned a
belief in the foreknowledge of future
events; yet Dicsearchus the Peripatetic, on
the other hand, denied all other
kinds of divination, and left none
except those which proceed from frenzy
or from dreams. And my own friend
Cratippus, whom I consider equal to the
most ancient among the Peripatetics,
confined his belief to the same
matters, and denied the correctness of
any other kind of divination. But
as the Stoics defended nearly every kind,
because Zeno in his Commentaries had
scattered some seeds of such a
belief, and Cleanthes had amplified and
extended his predecessor's observations;
Chrysippus succeeded them, a man of
the most acute and vivid genius; who
discussed the whole belief in, and
question about divination in two books
on that subject, and a third on
oracles, and a fourth on dreams. And
he was followed by Diogenes the
Babylonian, a pupil of his OATH, who
published one treatise on the same
subject; by Antipater, who wrote two
books, and our friend Posidonius, who
wrote five. But Pantetius, the tutor
of Posidonius and pupil of Antipater,
has degenerated in some degree from
the Stoics, or at least from the
most eminent men of that school; and
yet he did not dare absolutelyto deny
that there was a power of divina
tion, but said that he had doubts
on the subject. Now if he, aStoic,
was allowed to express a doubt on
a matter very much against the
inclination of the rest of that
school, shall we not obtain leave
from the Stoics to behave in a
similar manner with respect to other
subjects'? especially when that very
question which is a matter of doubt
to Paneetius, is generally considered a
thing as clear as day to the
other philosophers of that sect. However,
this praise of the Academy has been
confirmed by the testimony and deliberate
judgment of a most admirable philosopher.
IV. Indeed, since we are ourselves
inquiring what we are to think of
divination, because Carneades maintained a
very long argument against the Stoics
with great acuteness and variety of
resource, and as we wish to be
on our guard against admitting rashly
any assertion which is incorrect, or
the truth of which is riot
sufficiently ascertained, it appears neces
sary for us to compare over and
over again the arguments on one side
with those on the other, as we
have done in the three books which
we have written on the Nature of
the Gods. For, as in every
discussion, rashness in assenting to
propositions of others, and error in
asserting such ourselves, is very
discreditable, so above all is it in
a discussion where the question for
our decision is how much weight we
are to attribute to auspices, and to
divine ceremonies, and to religion. For
there is danger lest, if we neglect
these things, we may become involved
in the guilt of blasphemous impiety,
or if we embrace them, we may
become liable to the reproach of old
women's superstition. V. Now these
topics I have often discussed, and I
did so lately with more than usual
minuteness, when I was with my
brother Quintus, in my villa at
Tusculum. For when, for the purpose
of taking walking exercise, we had
come into the Lyceum, (for that is
the name of the upper Gymnasium) — I
read, said he, a little while ago
your third book on the Nature of
the Gods; in which, although the
arguments of Cotta have not wholly
changed my previous opinions, they have
undoubtedly a good deal shaken them.
You are very right to say so, I
replied; for, indeed, Cotta himself ai'gues
rather with a view to confute the
arguments of the Stoics, than to
eradicate religion from men's minds. Then,
said Quintus, that is what Cotta
himself says, and indeed he repeats
it very often; I imagine, because he
does not wish to seem to depart
from the ordinary opinions; but still the
zeal with which he argues against the
Stoics seems to cany him on to
the extent of wholly denying the
existence of the Gods. I do not
indeed think it necessary to reply to
all he says, for religion has been
sufficiently defended in your second book
by Lucilius; whose arguments, as you
say at the end of the third
book, appear to you yourself to be
much nearer to the truth. But with
reference to the point which has been
passed over in those books, because,
I presume, you con sidered that the
inquiry into it could be carried on,
and an argument held upon it with
more convenience if it were taken
separately, I mean Divination — which is a
foreknowledge and A foretelling of those
events which arc usually considered fortuitous, —
I should like very much at this
moment, if you please, to examine
what power that science really has,
and what its character is. For my
own opinion is this; that if those
kinds of divination which we have
been in the habit of hearing of
and respecting, are real, then there
are Gods; and on the other hand
that, if there really are Gods, then
there certainly are men who are
possessed of the art of divination. You
are defending, I reply, the very
citadel of the Stoics, O Quintus, by
asserting the reciprocal dependence of
these two conditions on one another;
so that if there be such an art
as divination, then there are Gods,
and if there be such beings as
Gods, then there is such an art
as divination. But neither of these
points is admitted as easily as you
imagine. For future events may possibly
be indicated by nature without the
intervention of any God; and, even although
there may be such beings as Gods,
still it is pos sible that no
such art as divination may be given
by them to the human race. He
replied, — But to me it is quite
proof enough, both that there are
Gods and that they have a regard
for the welfare of mankind, that I
perceive that there are manifest and undeni
able kinds of divination. With respect
to which, I will, if you please,
recount to you my own sentiments,
provided at least that you have
leisure and inclination to hear me,
and have nothing which you would like
in preference to this discussion. But
I, said I, my dear Quintus, have
always leisure for philosophical discussion;
but at this moment, when I have
actually nothing whatever which I wish
to do, I shall be all the more
glad to hear your sentiments on
divination. You will hear, said he,
nothing new from me, nor do I
entertain any ideas on the subject
different from the rest of the world.
For the opinion which I follow is
not only the most ancient, but that
which has been sanctioned by the
unanimous consent of all nations and
countries. For there are two methods
of divining; one dependent on art,
the other on nature. Be.!; what
nation is there, or what state, which
is not influenced by the omens
derived from the entrails of victims,
or by the predictions of those who
interpret pro digies, or strange lights,
or of augurs, or astrologers, or by
those who expound lots (for these are
about what come under the head of
art); or, again, by the prophecies
derived from dreams, or soothsayers (for
these two are considered natural kinds
of divination) ? And I think it
more desirable to examine into the
results of these things than into the
causes. For there is a certain power
and nature, which, by means of
indications which have been observed a
long time, and also by some instinct
and divine inspiration, pronounces a judg
ment on future events. So that
Carneades may well give up pressing
what Pansetius used also to insist
upon, when he asked whether it was
Jupiter who had ordained the crow to
croak on the right- hand, or the
raven on the left. For these
occurrences have been observed for an
immense series of time, and have been
remarked and noted from the signification
given to them by subsequent events.
But there is nothing which a
great length of time may not effect
and establish by the use of memory
retaining the different events, and handing
them down in durable monuments.
We may wonder at the way in
which the different kinds of herbs
and roots have been observed by
physicians as good for the bites of
beasts, for complaints of the eyes, and
for wounds, the power and nature of
which reason has never explained, but
yet both the art and inventor of
these medicines have gained iiniversal
approval from their utility. Let us
also look at those things which,
though of another kind, still have a
resemblance to divination. And often,
too, the agitated sea Gives certain
tokens of impending storms, When
through the deep with sudden rage it
swells, And the fierce rocks, white
with the briny foam, Vie with
hoarse Neptune in their sullen roar,
While the sad whistlins o'er the
mountain's brow Adds horror to the
crash of the iron coast. And all
your prognostics are full of presentiments
derived from occurrences of this sort.
Who, then, can trace back the
causes of these presentiments 1 Though,
indeed, I am aware that Boethus the
Stoic has endeavoured to do so. And
indeed he has done some good to this
extent, that he has explained the
principle of those occurrences which take
place iu the sea, or in the
heaven. But still, who has ever
explained, with any appearance of
probability, why they take place at
all 1 And the white gull,
uprising from the waves, With horrid
scream foretells th' impending storm,
Straining its trembling throat in ceaseless
cry. Oft, too, the woodlark from his
chest pours forth Notes of unusual
sadness, wnking up The morn with
grievous fear and endless plaint. When
first Aurora routs the nightly dew,
Sometimes the dusky crow runs o'er the
shore, Dipping its head beneath the
rising surf.1 IX. And we see
that these signs of the weather
scarcely ever deceive us, though we
certainly do not understand why they
are so correct. You too perceive
the signs of future times, Children
of sweetest waters; and prepare To
utter warnings loud and salutary,
Rousing the springs and marshes with
your cries. Yet who could ever
have suspected frogs of having such
per ception 1 However, there
is in rivulets, and in frogs too,
a certain nature indicating something which
is clear enough by itself, but more
obscure to the knowledge of men. And
cloven-footed oxen gazing up To heaven's
expense, have often inhaled the air
Laden with moisture I do
not inquire why all this
takes place, since I
am acquainted with the fact that it
does take place — The mastic, ever
green and ever laden With its rich
fruit, which thrice in every year
Doth swell to ripeness, by its triple
crop Points out three times when men
should till the earth. Here too,
again, I do not ask why this
one tree should bloom three times a
year, or why it should adapt the
proper season for ploughing the land
to the token given by its bloom.
I am content with this, that, even
if I do not know how everything
is done, I nevertheless do know what
is done. And so in respect
of every kind of divination I will
answer as I have done in the
cases which I have already mentioned.
X. Now I know what effect the
root of the scamniony has as a purgative,
and what the efficacy of the
aristolochia is in the case of bites
of serpents, (and this herb has
derived its name from its discoverer,
who discovered it in consequence o a
dream.) and that knowledge is quite
emnigh. I do not know
why these herbs are so efficacious;
and in the same way I do not
know on what principle the omens which
we draw from the signs furnished to
us by the winds and storms proceed;
but I do know, and arn certain
of, and thankful for their power, and
the results which flow from it.
Again, in 1 All these
predictions are translated by Cicero from
Aratus. the same way I know what
is indicated by a fissure in the
entrails of a victim, or by the
appearance of the fibres; but what
the cause is that these appearances
have this meaning I know not. And
life is full of such things ; for
nearly every one has recourse to the
entrails of animals. Need I say more
1 Is it possible for any one to
doubt about the power of thunder-storms
? Is not this too one of the
most marvel lous of marvellous things
? When Summanus,1 which was a figure
made of clay, standing on the top
of the temple of the all-powerful and
all-good Jupiter, was struck by lightning,
and the head of the statue could
not be found anywhere, the soothsayers
said that it had been thrown down
into the Tiber, and it was found
in that very place which had been
pointed out by the soothsayer.But who
is there to whom I may more
fitly appeal as an authority and as
a witness than you yourself? For I
have learnt the verses, and that with
great pleasure, which the muse Urania
pronounces in the second book of your
" Con sulship " — See how
almighty Jnve, inflamed and bright,
With heavenly fire fills the spacious
world, And lights up heaven and
earth with wondrous rays Of his
divine intelligence and mind ; Which
pierces all the inmost sense of men,
And vivifies their souls, hold fast
within The boundless caverns of
eternal air. And would you know
the high sublimest paths And ever
revolving orbits of the stars, And
in what constellations they abide, — Stars
which the Greeks erratic falsely call,
For certain order and fixed laws
direct Their onward course ; then
shall you learn that all Is by
divinest wisdom fitly ruled. For when
you ruled the state, a consul wise,
You noted, and with victims due
approach'd, Propitiating the rapid stars,
and strange Concurrence of the fiery
constellations. Then, when you purified
the Alban mount,
And celebrated the great Latin feast,
Bringing pure milk, meet offering for
the gods, You saw fierce comets
bright and quivering With light
unheard of. In the sky you
saw 1 This is usually understood
to have been a statue of Pluto.
The new consuls used to
celebrate the Ferioe Latinaj
on the Albanus Mons. Fierce
wars and dread nocturnal massacre That
Latin feast on mournful days did
fall, When the pale moon with di
m and muffled light Conceal'd
her head, and fled, and in the
midst Of starry night became invisible.
Why should I say how Phoebus' fiery
beam, Sure herald of sad war, in
mid-day set, Hastening at undue season
to its rest, Or how a citizen
struck with th' awful bolt, Hurl'd by
high Jove from out a cloudless sky,
Left the glad light of life; or
how the earth Quaked with affright
and shook in every part ? Then
dreadful forms, strange visions stalk d
abroad, Scarce shrouded by the darkness
of the night,And wam'd the nations
and the land of war. Then many
an oracle and augury, Pregnant with
evil fate, the soothsayers Pour'd from
their agitated breasts. And e'en
The Father of the Gods fill'd heaven
and earth With signs, and tokens, and
presages sure Of all the things which
have befallen us since. XII. So
now the year when you are at
the helm, Collects upon itself each
omen dire, Which when Torquatus, with
his colleague Gotta, Sat in the
curule chairs, the Lydian seer Of
Tuscan blood breathed to affrighted Borne.
For the great Father of the Gods,
whose home Is on Olympus' height,
with glowing hand Himself attack'd his
sacred shrines and temples, And hurl'd
his darts against the Capitol. Then
fell the brazen statue, honour'd long,
Of noble Natta ; then fell down the
laws Graved on the sacred tablets ;
while the bolts Spared not the images
of the immortal gods. Here was that
noble nurse o' the Roman name, The
Wolf of Mars, who from her kindly
breast Fed the immortal children of
her god With the life-giving dew of
sweetest milk. E'en her the lightning
spared not; down she fell. Bearing
the royal babes in her descent,
Leaving her footmarks on the pedestal.1
1 Great interest is attached to
this passage by antiquaries, from the
fact of there being a bronze statue
still at Home of a wolf suckling
two children, with manifest marks of
lightning on it, which is believed to
be the very statue here mentioned by
Cicero, and also in his third Oration
asrainst Catiline, c. viii. ; it is
described by Virgil too : — Fecerat
et viridi foetam Mavorf is in antro
Procubuisse lupam; geminos huic ubcra circum
[Ludere And who,
unfolding records of old time, Has
found no words of sad prediction In
the dark pages of Etruscan books ] —
All men, all writings, all events
combined, To warn the citizens of
freeborn race Ludere pendentes pueros,
et lambere matrem Impavidos; ilhun
tereti cervice reflexam Mulcere alternos
et corpora fingere linguiL — jEn. The cave
of Mars was dress'd with mossy greens
; There by the wolf were laid
the martial twins; Intrepid, on her
swelling dugs they hung, The
foster-dam loll'd out her fawning tongue ;
They suck'd secure, while bending
back her head, She lick'd their
tender limbs, and form'd them as they
fed. Dryden, ^En. The statue in
its present state is beautifully described
by Byron :And thou the thunder-stricken
nurse of Rome, She-wolf ! whose
brazen imaged dugs impart The milk of
conquest yet within the dome, Where,
as a monument of antique art, Thou
standest, mother of the mighty heart,
Which the great founder suck'd from
thy wild teat, Scorch'd by the Roman
Jove's ethereal dart, And thy limbs
black with lightning, — dost thou yet Guard
thy immortal cubs, nor thy fond
charge forget] Thou dost— but all thy
foster-babes are dead, The men of iron
; and the world hath rear'd Cities
from out their sepulchres. —Childe Harold,
book iv. It may not be out of
place here, to set before the reader
the beautiful description, in the
first Georgic, of the prodigies which happened
at Rome on the death of Cresar :
— Denique quid vesper serus vehat.
unde serenas Ventus agat nubes, quid
cogitet humidus Auster, Sol tibi
signa dabit : Solem quis dicere falsum
Audeat? ille etiam csecos instare
tumultus Saspe monet, fraudemque, et
aperta tumescere bella ; Ille etiam
extincto miseratus Caesare Romam Cum
caput obscurS, nitidum ferrugine texit
Impiaque rcternam timuerunt sajcula noctem,
Tempore quanquam illo tellus quoque
et aequora ponti, Obsccenique canes,
importunaeque volucres Signa dabant :
quoties Cyclopum effervere in auras
Vidimus undantem rnptis fornacibus Etnam,
Flammarumque globos liquef'actaque volvere
saxa. Armorum sonitus toto Germania
coe'.o Audiit; insolitis tremuerunt motibus
Alpes. [Vox To dread impending
wars of civil strife, And wicked bloodshed
; when the laws should fall In
one dark rain, trampled and o'erthrown:
Then men were warn'd to save their
holy shrines, The statues of the
irods, their city and lands, Vox
quoque per lucos vulgo exaudita
recentes Ingens, ei simulacra rnodis
pallentia miris Visa sub obscurum noctis
; pecudesque locutae, Infandum !
sistunt amnes terrseque dehiscunt Et
moestum illacryinat templis ebur, oeraque
sudant: Proluit insano contorquens vertice
sylvas Pluviorum Rex Eridanus ;
camposque per omnes Cum stabulis
armenta trahit ; nee tempore eodcm
Tristibus aut extis fibrae apparere
minaces Aut puteis manare cruor
cessavit, et alte Per noctcm resonare
lupis ululautibus urbe? ; Non alias
coilo cecidcruut plura sereno Fulgura,
nee diri toties arsere cometae ;
Ergo, etc. — Virgil, Georg. i. 488.
Which is translated by Dryden : —The
Sun reveals the secrets of the sky,
And who dares give the source of
light the lie? The change of empires
he oft declares, Fierce tumults, hidden
treasons, open wars; He first the
fate of Caesar did foretell, And
pitied Rome when Rome in Caesar fell
: In iron clouds conceal'd the public
light, And impious mortals fear'd eternal
night. Nor was the fact foretold by
him alone, Nature her-elf stood forth
and seconded the Sun. Earth, air, and
seas with prodigies were sign'd, And
birds obscene and howlin g dogs
divin'd. What rocks did ^Etna's bellowing
mouth expire From her torn entrails,
and what floods of fire ! What
clanks were heard in German skies
afar, Of arms and armies rushing to
the war ! Dire earthquakes rent the
solid Alps below, And from their
summits shook th' eternal snow; Pale
spectres in the close of night were
seen, And voices heard of more than
mortal men. In silent groves dumb
sheep and oxen spoke ; And streams
ran backward, and their beds forsook
; The yawning earth disclosed th'
abyss of hell, The weeping statues
did the wars foretell, And holy sweat
from brazen idols fell. Then rising
in his might the king of floods
Uush'd through the forests, tore the
lofty woods; And rolling onward with
a sweepy sway, Bore houses, herds,
and labouring hinds away. Blood
From slaughter and destruction, and
preserve Their ancient customs unimpair'd
and free. And this kind hint of
safety was subjoin'd, That when a splendid
statue of great Jove,1 In godlike
beauty, on its base was raised, With
eyes directed to Sol's eastern gate ;
Then both the senate and the people's
bands, Duly forewarn'd, should see the
secret plots Of wicked men, and
disappoint their spite. This statue, slowly
form'd and long delay 'd, At length
by you, when consul, has been placed
Upon its holy pedestal ; — 'tis now That
the great sceptred Jupiter has graced
His column, on a well-appointed hour
: And at the self-same moment
faction's crimes Blood sprang from
wells; wolves howl'd in towns by
night; And boding victims did the
priests affright. Such peals of thunder
never pour'd from high, Nor forky
lightnings flash'd from such a sullen
sky : Red meteors ran across the
ethereal space ; Stars disappear'd, and
comets took their place. Which Shakspeare
has imitated with reference to the
same event : Cal. Caesar, I never stood
on ceremonies, Yet now they fright
me: there is one within, Besides
the things that we have heard and
seen, Recounts most horrid sights
seen by the watch: A lioness
hath whelped in the streets, And
graves have yawn'd and yielded up
their dead. Fierce, fiery warriors
fight upon the clouds, In ranks
and squadrons and right form of war,
Which drizzled blood upon the
Capitol: The noise of battle hurtled
in the air; Horses did neigh,
and dying men did groan; And
ghosts did shriek and squeak t the
streets. O Caesar, these things are
beyond all use, And I do fear
them When beggars die there are
no comets seen ; The heavens
themselves blaze forth the death of
princes. Cats. What say the augurers?
Serv. They would not have you
to stir forth to-day. Plucking the
entrails of an offering forth, They
could not find a heart within the
beast. 1 This refers to the
column meant to serve as a pedestal
for the statue of Jupiter, mentioned
in the second book of this treatise,
and also in the second oration
against Catiline, as having been ordered
in the consulship of Torquatus and
Cotta, but not completed till the
year of Cicero's consulship. Were by
the loyal Gauls reveal'd and shown To
the astonish'd multitude and senate. XIII.
Well then did ancient men, whose
monuments You keep among you,—they who
will maintain Virtue and moderation ; by
these arts Ruling the lands an<l
people subject to them: Well, too,
your holy sires, whose spotless faith,
And piety, and deep sagacity Have far
surpass'd the men of other lands,
Worshipp'd in every age the mighty
Gods. They with sagacious care these
things foresaw, Spending in virtuous
studies all their leisure, And in the
shady Academic groves, And fair Lyceum :
where they well pour'd forth The
treasures of their pure and learned
hearts. And, like them, you have been
by virtue placed, To save your
country, in the imminent, breach ; Still
with philosophy you soothe your cares,
With prudent care dividing all your
hours Between the Muses and your
country's claims. Will you then be
able to persuade your mind to speak
against the arguments which I adduce
on the subject of divination, you
being a man who have performed such
exploits as you have done, and who
have so admirably com posed those
verses which I have just recited 1
What — do you ask me, Carneades, why
these things take place in this
manner, or by what art it is
possible for them to be brought about
? I confess that I do not know
; but that they do happen, I
assert that you yourself are a
witness. Yes, they happen by chance,
you say. Is it so 1 Can anything
be done by chance which has in
itself all the features of reality ?
Four dice when thrown may by chance
come up sixes. Do you think that
if you were to throw four hundred
dice it would be possible for them
all to come up sixes by any
chance in the world 1 Paints
scattered at random on a canvass
may by chance represent the features
of a human face ; but do you
think that you could by any chance
scat tering of colours represent the
beauty of the Coan Venus'?1 Suppose a
pig by burrowing in the ground with
his snout were to make the letter
A, would you on that account think
it possible that the animal should by
chance write out the Andromache of
Ennius 1 Carneades used to tell a
story that 1 This refers to the
celebrated picture of Venus Anadyomene,
painted by Apelles, who was a native
of Cos. in cutting stones
in the stone- quarries at Chios, there
was once discovered a natural head of
a Pan. I dare say there may
have been a figure not wholly unlike
such a head, but still certainly it
was not such that you could fancy
it wrought by Scopns.1 For this is
the nature of things, that chance can
never imitate reality to perfection. But,
you will say, things which have been
predicted sometimes fail to happen. What
act is not liable to this observation
1 I mean of those acts which
proceed on con jecture, and are
founded on opinion. Is not medicine
to be considered a real art ?
And yet how often is it deceived
! Need I say more 1 Are not
pilots of ships often deceived? Did
not the army of the Greeks, and
the captains of all that numerous
fleet, depart from Troy, as Pacuvius says
— So glad at their departure,
that they gazed In idle mirth upon
the wanton fish, And never ceased
from laughing at their gambols ;
Meanwhile at sunset the vast sea
grows rough, The darkness lowers, black night
and clouds surround them. Did, however,
the shipwreck of so many illustrious
generals and sovereigns prove that there
was no such art as naviga tion
? Or is the science of
generals good for nothing because a
most illustrious general was lately put
to flight, after the total loss of
his army 1 Or are we to say
that there is no room for the
display of sound principles of politics,
or wis dom in the administration of
affairs of state, because Cnseus Ponipeius
was often .deceived, and even Cato
and you your self have been deceived
in more instances than one?
The same rule applies to the
answers of soothsayers, and to all
divination which rests on opinion : for
it depends wholly on conjecture, and
has no means of advancing further.
And that perhaps sometimes deceives
us, but still it more fre quently
directs us to the truth. For
it is traced back to all eternity.
And as in the infinite duration of
time, things have happened in an
almost countless number of ways with
the self-same indications preceding each
occurrence, an art has 1 Scopas
was a Parian, nourishing. He was one
of the greatest architects and sculptors
of antiquity, and is mentioned as
such by Horace, who says: — Divite me
scilicet artium Quas aut Parrhasius
protulit aut Scopas, Hie saxo, liquidis
ille colorilius Solera nunc hominem nonere
mmr. TV « been concocted and reduced
to rules from a frequent obser vation
and notice of the same circumstances. But
your auspices, how clear — how sure they
are ! which at this time are known
nothing of by the Roman augurs,
(excuse me for saying this so
plainly,) though they are main tained
by the Cilicians, Pamphylians, Pisidians,
and Lycians. For why should I mention
that man connected with us in ties
of hospitality, that most illustrious and
excellent ^man, king Deiotarus 1 He
never does anything whatever without taking
the auspices. And it happened once
that he had started on a journey
which he had arranged and determined
some time before; but, being warned
by the flight of an eagle, he
returned back again, and the very
next night the house in which he
would have been lodging if he had
per sisted in his journey, fell to
the ground. And he was so moved
by this occurrence, that, as he
himself used to tell me, he often
turned back in the same way in
a journey, even when he had advanced
many days on it. And what
is most remarkable in his conduct
is, that after he had been deprived
by Csesar of his tetrarchy, his
kingdom, and his property, he still
asserted that he did not repent of
obeying those auspices which had promised
success to him when he was setting
out to join Pompey: for he considered
that the authority of the senate, and
the liberty of the Roman people, and
the dignity of the empire had been
upheld by his arms; and that those
birds had taken good care of his
honour and real interests, inasmuch as
they had been his counsellors in
adhering to the claims of good faith
and duty ; for that character was a
thing dearer to him than his
possessions. . And in saying this he
seems to me to form a very just
estimate. For our magis trates at
times use compulsion. For it is quite
impossible, if a cake is thrown down
before a chicken, but what some
crumbs must fall out of his mouth
when he feeds. And as you have
it set down in your books that
a tripudium takes place if any of
the food falls on the ground, so
you also call this compulsory augury
which I have spoken of tripudium
solistimum.1 And so, as that wise
Cato complains, owing to i
"Tripudium, from terripavium (Cic Div.),
a stamping on the ground In
divination, tripudium, or tripudium solistimum,
when- the birds (pulli) ate so
greedily that the food fell from
their mouths, and so rebounded on the
ground, which was regarded as a good
omen." — Riddle and Arnold, Lat. Diet.
the negligence of the college, many
auguries and many auspices have been
wholly lost and abandoned. Formerly there
was, I may almost say, no ariair
of importance, not even if it only
related to private business, which was
transacted \vithout taking the auspices.
And this is proved even now by
the Auspices Nuptiarum, who, though the
custom has fallen into disuse, still
preserve the name. For just as we
now consult the entrails of victims,
though even that very practice is
observed less now than it used to
be, so in ancient times, before all
transactions of importance, men used to
consult birds; and, therefore, from want
of paying proper regard to ill omens,
we often run into alarming and
destructive dangers : — as Publius Claudius,
the son of Appius Csecus, and his
colleague Lucius Junius, lost a fine
fleet, because they had put to sea
in defiance of the omens. And,
indeed, something of the same kind
befel Agamemnon; for he, when the
Grecians had begun To murmur loudly,
and with open scorn T' asperse the
skill of th' holy soothsayers, Bade
the crew bend the sails and put
to sea, Choosing the people's voice
before the omens. But why need
we look for old examples of this
1 We have ourselves seen what
happened to Marcus Crassus, because he
neglected the notice which was given
to him that the omens were
unfavourable. On which occasion, Appius,
your col league, a good augur, as
I have often heard you say, branded,
when he was censor, an excellent man
and a most illustrious citizen, Caius
Ateius, without sufficient consideration, because
he had cooperated in falsifying the
auspices. However, let that pass. It
may have been the duty of the
censor to do so, if he thought
that the auspices were falsified. But
it certainly was not the duty of
an augur to set down in the
books that this was the cause of
a fearful calamity befalling the Roman
people. For even if that was the
cause of the calamity, still the
fault was not in the man who
announced the state of the auspices,
but in him who disregarded the
announcement. For that the announcement
wTas a correct one, as the same augur
and censor bears witness, was proved
by the event; for if the announcement
had been false, it could not possibly
have caused any calamity at all. In
truth, prognostics of calamity, like other
auspices, and omens, and tokens, do
not produce causes why anything should
happen, but merely give notice of
what will happen unless you pro vide
against it. It was not, therefore,
the announcement of unfavourable omens,
made by Ateius, which was the cause
of calamity; all that he did was,
by declaring to him what signs had been
seen, to warn him what would happen
if he did not take precautions
against it. Accordingly, either that
announcement had no effect at all, or
else if, as Appius thinks, it had
an effect, the effect was this, that
guilt was attached, not to the man
who gave the warning, but to him
who did not attend to it. What
shall I say more 1 From whence
have you received that staff (lituus)
of yours, which is the most cele
brated ensign of your augurship ?
That is the staff with which Komulus
parted out the several districts, when
he founded the city. And that staff
of Romulus, (that is to say, a
stick curved and slightly bent forward
at the top, which has derived its
name from its resemblance to the
trumpet (lituus) used in sounding signals,)
having been laid up in the
meeting-house of the Salii, which was
in the Pala tine-hill, when that
house was burnt to the ground, was
found unhurt. What more need I say
1 Who of the ancient authors is
there who does not relate what an
arrangement of the districts of the
city was made, many years after the
time of Romulus, in the reign of
Tarqninius Priscus, by Attius Xavius, who
employed his staff in this manner ?
And it is said that he, when a
boy, was forced through poverty to
act as a swineherd; and one day,
having lost one of his pigs, he
made a vow that if he recovered
it, he would give the god the
finest grape which there was in the
whole vineyard. Accordingly, when he had
found the pig, he placed himself in
the middle of the vineyard, with his
eyes directed towards the south; and
after he had divided the vineyard
into four divisions, and had been
directed by the birds to disregard
three of the portions, in the fourth
division, which remained, he found a
grape of most wonderful size, as we
find recorded in our books. And when
this fact became known, all the
neighbours used to consult him on all
their affairs, until he. gained a
great name and reputation ; in consequence
of which kin<r Priscus sent for
him. And when he had come to
the king, he, wishing to make proof
of his skill in augury, told him
that he was thinking of something,
and asked him whether it could
possibly be done. He, having taken an
auguiy, answered that it could. But
Tarquin said that he had been
thinking that it was possible that a
whetstone might be cut through by a
razor. On this Attius bade him try ;
and accordingly a whetstone was brought
into the assembly, and, in the sight
of king and people, cut through with
a razor. And in consequence of this,
it happened that Tarquinius always
consulted Attius Navius as an augur,
and that the people also were used
to refer their private affairs to
him. And we are told that that
whetstone and that razor were buried
in the comitium, and that the puteal
was built over it. Let us deny
everything; let us burn our annals; let
us say that all these statements are
false ; let us, in short, confess
everything rather than that the Gods
regard the affairs of mankind. What 1
do not even your writings about
Tiberius Gracchus sanction the theories df
augurs ami haruspices 1 For when he
had unintentionally erected a tent to
take the auspices informally, because he
had crossed the pomcerium without taking
the auspices, he held there the
comitia for the election of the
consuls. (The matter is one of
notoriety, and committed to writing by
you yourself.) However, Tiberius Gracchus,
who was himself an augur, ratified
the authority of the auspices by a
confession of his error, and added
great authority to the sj'steui of
the harus pices ; who, having at
the recent comitia been introduced into
the senate, asserted that the person
who proposed the candi dates to the
comitia had no right to do so. I
therefore agree with those authors who
have asserted that there are two
kinds of divination; one par taking
of art, and the other wholly devoid
of it. For art is visible in
those persons who pursue anything new
by conjec ture, and have learnt to
judge of what is old by observation.
But those men, on the other hand, are
devoid of art, who give way to
presentiments of future events, not
proceeding by reason or conjecture, nor
on the observation and considera tion
of particular signs, but yielding to
some excitement of mind, or to some
unknown influence subject to no precise
rules or restraint, (as is often the
case with men who dream, and
sometimes with those who deliver
predictions in n frenzied manner,) as
Bacis' of Boeotia, Epimenides2 the Cretan,
and the Erythrean Sib}'!. And under
this head we ought also to rank
oracles; not those which are drawn by
lot, but those which are uttered
under the influence of some divine
instinct and inspiration. Although even
lots are not to be despised where
they are sanctioned by the authority
of antiquity, like those which we are
told used to rise out of the
earth ; which, however, are drawn in
such a manner as to be apposite
to the subject under consideration, which,
indeed, is a thing that I conceive
to be very possible by divine
management. The interpreters of all of
which appear to me to come very
near to the divining power of those
whose interpreters they are (just as
those grammarians do who are the
interpreters of poets). What proof of sagacity
is it, then, to wish to disparage
things sanctioned by antiquity, by vile
calumnies ? I admit that I cannot
discover the cause. Perhaps it lies
hid, involved in the obscurity of
nature. For God has not int nded
me to understand these matters, but
only to use them. I will use
them, then ; nor will I be persuaded
to think, either that all Etruria is
mad on the subject of the entrails
of victims, or that the same nation
is all wrong about lightnings, or
that it interprets prodigies fallaciously,
when it has often happened that sub
terranean noises and crashes, often that
earthquakes, have predicted, with terrible
truth, many of the evils which have
befallen our own republic and other
states. Why should I say more ?
The fact of a mule having brought
forth is much ridiculed by some
people; but because this parturition did
take place in the case of an animal
of natural barrenness, was there not
an incredible crop of evils predicted
by the soothsayers 1 Need I go
further 1 Did not Tiberius Gracchus, the.
son of Publius Gracchus, who had been
twice consul and censor, and who was
also an augur of the 1 Bacis
was believed to have lived and
prophesied at Heleon, in Bceotia,
being inspired by the nymphs of the
Corycian cave. Some of hjs
prophecies are given us by Herodotus
(See also Aristophanes, Eq.; Pax) Epimenides
was a poet and prophet of Crete. He
was sent for by the Athenians to
purify Athens when it was visited by
a plague, in consequence of the
sacrilege of Cylon. He is said to
have lived to a great age.highest
skill and reputation, and a wise man,
and a most virtuous citizen, — did not
he (as Caius Gracchus, his son, has
left recorded in his writings), when
two snakes were caught in his house,
convoke the soothsayers ? And the
answer which they gave him was, that
if he let the male escape, his
wife would die in a short time ;
but if he let the female escape,
he would die himself: on which he
thought it more becoming to encounter
an early death himself, than to
expose the youthful daughter of Publius
Africanus to it. Accordingly, he released
the female snake, and died himself a
few days afterwards. Let us, after
this, laugh at the soothsayers; let
us call them useless and triflers,
and despise those men whose principles
the wisest men, and subsequent events
and occur rences, have often proved.
Let us despise also the Baby lonians,
and those who on mount Caucasus
observe the stars of heaven, and
follow all their revolutions in regular
number and motion. Let us, say I,
condemn all those people for folly,
or vanity, or impudence, who, as they
themselves assert, have exact records for
four hundred and seventy thousand years
carefully noted down, and let us
decide that they are telling lies,
and have no regard as to what
the judgment of future ages concerning
them will be. Come, then, you vain
and deceitful barbarians, has the history
of the Greeks likewise spoken falsely?
Who is ignorant of the answer (that I
may speak at present of natural
divination) which the Pythian Apollo gave
to Croesus, to the Athenians, the
Lacedaemonians, the Tegeans, the Argives,
and the Corinthians? Chrysippus has
collected a countless list of oracles — not
one without a witness and authority
of sufficient weight; but as they are
known to you, I will pass them
over. This one I will mention and
defend. Would that oracle at Delphi
have ever been so celebrated and
illustrious, and so loaded with such
splendid gifts from all nations and
kings, if all ages had not had
experience of the truth of its predic
tions 1 At present, you will say,
it has no such reputation. Granted,
then, that it has a lower reputation
now, because the truth of oracles is
less notorious; still I affirm that
it would not have had such a
reputation then, if it had not been
distinguished for extraordinary accuracy. But
it is possible that that power in
the earth, which excited the mind of
the Pythian priestess by divine
inspiration, may have disappeared through
old age, just as we know that
some rivers have dried up, or become
changed and diverted into another channel.
However, let it be owing to whatever
you please; for it is a great
question: only let this fact remain
—which cannot be denied, unless we
will overthrow all his tory—that that oracle
told the truth for many ages. However,
let us pass over the oracles; let
us come to dreams. And Chrysippus
discussing them, after collecting many
minute instances, does the same that
Antipater does when he investigates this
subject, and those dreams which were
explained according to the interpretation
of Antipho, which indeed prove the
acuteness of the interpreter, but still
are not examples of such importance
as to have been worthy of being
brought forward. The mother of Dionysius—
of that Dionysius, I mean, who was
the tyrant of Syracuse, as it is
recorded by Philistus, a man of
learning and diligence, and who was a
contem porary of the tyrant— when she
was pregnant with this very Dionysius,
dreamt that she had become the mother
of a little Satyr. The interpreters
of prodigies, who at that time were
in Sicily called Galeotse, gave her
for answer when she con sulted them
about it, (according to the story
told by Philistus,) that the child whom
she was about to bring forth would
be the most illustrious man of
Greece, with very lasting good fortune.
Am I recalling you to the fables
of the Greek poets and those of
our country? For the Vestal Virgin,
in Ennius, says — The agitated dame
with trembling limbs Brings in a
lamp, and with unbridled tears,
Starting from broken sleep, pours
forth these words :• 0 daughter
of the fair Eurydice, You whom
rny father loved, see strength and
life Desert my limbs, and leave me
helpless all. 1 thought I saw a
man of handsome form Seize me,
and bear me through the willow
groves, Along the river banks and
places yet unknown. And then alone, — T
tell you true, my sister, — I seem'd
to wander, and with tardy steps To
seek to trace you, but my efforts
fail'd; While no clear path did guide
my doubtful feet. And then, I
thought, my father thus address'd me,
With evil-boding voice : — Alas ! my
daughter, What numerous woes by you
must be endured ; Though fortune
shall in after times arise From
out of the waters of this river
here. Thus, sister, spake my father,
and then vanish'd • 2STor, though
much wish'd for, did he once return!
In vain, with many tears, I raised
my hands Up to the azure vault
of the highest heaven, And with
caressing voice invoked his name, Or
seem'd to do so. And 'twas
long ere sleep, Freighted with such
sad dreams, did quit my breast. Now
these accounts, though they perhaps may
be the mere inventions of the poets,
still are not inconsistent with the
general character of dreams. We
may grant that that is a fictitious
one by which Priam is represented to
have been disturbed : — Queen Hecuba
dream'd — an ominous dream of fate- That
she did bear no human child of
flesh, But a fierce blazing torch.
Priam, alarm'd, Ponder'd with anxious
fear the fatal dream ; And sought
the gods with smoking sacrifice. Then
the diviner's aid he did entreat,
With many a prayer to the prophetic
god, If haply he might learn the
dream's intent. Thus spake Apollo with
all-knowing mind :— " The queen
shall have a son, who, if he
grow To man's estate, shall set ajl
Troy in flames— The ruin of his
city and his land." Let us
grant, then, that these dreams are,
as I have said, merely poetic
fictions, and let us add the dream
of ^Eneas, which Numerius Fabius Pictor
relates in his Annals, as one of
the same kind; in which ^Eneas is
represented as foreseeing, in his trance,
all his future exploits and adventures.
But let us come nearer home. What
kind of dream was that of Tarquin
the Proud, which the poet Accius, m
his Tragedy of Brutus, puts into the
mouth of Tarquin himself? — Sleep
closed my weary eyelids, when a
shepherd Brought me two rams.
The one 1 sacrificed; The other
rushing at me with wild force Hurl'd
me upon the ground. Prostrate
I gazed Upon the heavens, when a new
prodigy Dazzled my eyes. The
flashing orb of day Took a new
course, diverging to the right, With
all his kindling beams strangely
transversed. Of this dream the
diviners gave the following interpretation
Dreams are in general reflex images
Of things that men in waking hours
have known; But sometimes dreams of
loftier character Rise in the tranced
soul, inspired by Jove, Prophetic of
the future. Then beware Of him,
whom thou dost think as stupid as
The ram thou dreamest of.
For in his breast Dwells
manliest wisdom. He may yet
expel Thee from thy kingdom.
Mark the prophecy : That change
in the sun's course thou didst behold,
Betoken'd revolution in the state,
And as the sun did turn from
left to right, we predict So
shall that revolution meet success. Let
us again return to foreign events.
Heraclides of Pontus, an intelligent man,
who was one of Plato's disciples and
followers, writes that the mother of
Phalaris fancied that she saw in a
drearn the statues of the gods whom
Phalaris had consecrated in his house.
Among them it appeared to her that
Mercury held a cup in his right
hand, from which he poured blood,
which as soon as it touched the
earth gushed forth like a fresh
fountain, and filled the house with
streaming gore. The dream of the
mother was too fatally realized by
the cruelty of the son. Why
need I also relate, out of the
history of Persia by Dinon, the
interpretations which the Magi gave to
the cele brated prince, Cyrus? For he
dreamed that beholding the sun at his
feet, he thrice endeavoured to grasp
it in his hands, but the sun
rolled away and departed, and escaped from
him. The Magi (who were accounted
sages and teachers in Persia) thus
interpreted the dream, saying, that the
three attempts of Cyrus to catch the
sun in his hands, signified that he
would reign thirty years ; and what
they predicted really came to pass ;
for he was forty years old when
he began to reign, and he reached
the age of seventy. Among all
barbarous nations, indeed, we meet with
proof that they likewise possess the
gift of divination and presentiment. The
Indian Calanus, when led to execution,
said, while ascending the funeral pile,
" 0 what a glorious departure
from life ! when, as happened to
Hercules , after niy body has been
consumed by fire, my soul shall
depart to a world of light." And
when Alexander asked him if he had
anything to say to him ; "
Yes," replied he, ".we shall soon
meet again ;" and this prophecy
was soon fulfilled, for a few days
afterwards Alexander died in Babylon.'
I will quit the subject of
dreams for awhile, and return to them
presently. On the very night that
Olympias was delivered of Alexander, the
temple of Diana of the Ephesiaus was
burned ; and when the morning dawned,
the Magi declared that the ruin and
destroyer of Asia had been born that
night. So much for the Magi and
the Indians. Now let us return to
dreams. Ccelius
relates that Hannibal, wishing to remove
a golden column from the temple of
Juno Lacinia, and not knowing whether
it was solid gold or merely gilt,
bored a hole in it ; and as he
had found it solid, he determined to
take it away. But the following night
Juno appeai-ed to him in a dream,
and warned him against doing so, and
threatened him that if he did, she
would take care that he should lose
an eye with which he could see
well. He was too prudent a man
to neglect this threat ; and therefore,
of the gold which had been abstracted
from the column in boring it, he
made a little heifer, which he fixed
on the capital. And the same
story is told in the Grecian history
of Silenus, whom Ccelius follows. And
he was an author who was particularly
diligent in relating the exploits of
Hannibal. He says that when Hannibal
had taken Saguntum, he dreamed in his
sleep that he was summoned to a
council of the gods, and that when
he arrived at it, Jupiter commanded
him to carry the war into Italy,
and one of the deities in council
was appointed to be his conductor in
the enterprise. He therefore began his
march under the direction of this
divine protector, who enjoined him not
to look behind him . Hannibal,
however, could not long keep in his
obedience, but yielded to a great
desire to look back, when he
immediately beheld a huge and terrible
monster, surrounded with ser pents, which,
wherever it advanced, destroyed all the
trees, and shrubs, and buildings. He
then, marvelling at this, inquired of
the god what this monster might mean ;
and the god replied, that it signified
the desolation of Italy ; and com
manded him to advance without delay,
and not to concern himself with the
evils that lay behind him and in
his rear. In the history of
Agathocles it is said, that Hamilcar
the Carthaginian, when he was besieging
Syracuse, dreamed that he heard a
voice announcing to him, that he -should
sup on the succeeding day in
Syracuse. When the morning dawned a
great sedition arose in his camp
between the Carthaginian and Sicilian
soldiers. And when the Syracusans found
this out, they made a vigorous sally
and attacked the camp un expectedly,
and succeeded in making Hamilcar prisoner
while alive, and thus his dream was
verified. All history is full of
similar accounts; and the experience of
real life is equally rich in them.
That illustrious man, Publius Decius,
the son of Quintus Decius, the first
of the Decii who was a consul,
being a military tribune in the
consulship of Marcus Valerius and Aulus
Cornelius, when our army was sorely
pressed by the Samnites, and being
accustomed to expose himself to great personal
danger in battle, was warned to take
greater care of himself; on which he
replied (as our annals report), that
he had had a dream, which informed
him that he should die with the
greatest glory, while engaged in the
midst of the enemy. For that time
he succeeded in happily rescuing our
army from the perils that surrounded
it. But three years after, when he
was consul, he devoted himself to
death for his country, and threw
himself armed among the ranks of the
Latins; by
which gallant action the Latins were defeated and destroyed: and his death was so glorious that his son desired a similar fate.But let us now come, if you please, to the dreams of philosophers. We read
in Plato that Socrates, when he was
in the public prison at Athens, said
to his friend Crito that he should
die in three day, for that he
had seen in a dream a woman of
extreme beauty who called him by his
name, and quoted in his presence this
verse of HomerOn the third day you'll
reach the fruitful Phthia." 1 And
it is said that it happened just
as it had been foretold. Again,
what a man, and how great a
man, is Xenophon the pupil of
Socrates! He, too, in his account of
that war in which he accompanied the
younger Cyrus, relates the dreams which
he sawthe accomplishment of which was
marvellous. Shall we then say that
Xenophon was a liar or dotard ?
What shall we say, too, of Aristotle,
a man of singular and almost divine
genius? Was he deceived himself, or
does he wish others to be deceived,
when he informs us that Eudemus of
Cyprus, his own intimate friend, on
his way to Macedonia, came to Pherae,
a celebrated city of Thessaly, 1
Horn. :"Hfjari
Kfv rpirdrca $0ii)v tpi$ta\ov IKO(U.TIV.
which was then under the cruel
sway of the tyrant Alexander. In that
town he was seized with a severe
illness, so that he was given over
by all the physicians, when he beheld
in a dream a young man of
extreme beauty, who informed him that
in a short time he should recover,
and also the tyrant Alexander would
die in a few days; and that
Eudemus himself would, after five years'
absence, at length return home. Aristotle
relates that the first two predictions
of this dream were immediately
accomplished; for Eudemus speedily recovered,
and the tyrant perished at the hands
of his wife's brother ; and that
towards the end of the fifth year,
when, in consequence of that dream,
there was a hope that he would
return into Cyprus from Sicily, they
heard that he had been slain in
a battle near Syracuse ; from which
it appeared that his dream was
susceptible of being interpreted as
meaning, that when the soul of
Eudemus had quitted his body, it
would then appear to have signified
the return home. To the philosophers
we may add the testimony of Scpho-
cles, a most learned man, and as
a poet quite divine, who, when a
golden goblet of great weight had been
stolen from the temple of Hercules,
saw in a dream the god himself
appearing to him, and declaring who
was the robber. Sopho cles paid no
attention to this vision, though it
was repeated more than once. When it
had presented itself to him several
times, he proceeded up to the court
of Areopagus, and laid the matter
before them. On this, the judges
issued an order for the arrest of
the offender nominated by Sophocles. On
the application of the torture the
criminal confessed his guilt, and
restored the goblet; from which event this temple of Hercules was afterwards called the temple of Hercules the Indicate. But why do I continue to cite the Greeks? when, somehow or other, I feel more interest in the examples of my ellowcountrymen. All our historians,the
Fabii, the Gellii, and, more recently,
Ccelius, bear witness to similar facts.
In the Latin war, when they first
celebrated the votive games in honour of
the gods, the city was suddenly
roused to arms, and the games being
thus interrupted, it was necessary to
appoint new
ones Before their commencemen,however, just as
the people had taken their places in
the circus, a slave who had been
beaten with rods was led through the
circus, bearing a gibbet. After this event,
a certain Roman rustic had a dream,
in which an apparition informed him
that he had been displeased with the
president of the games, and the
rustic was ordered to apprise the
senate of that fact. He, however, did
not dare to do so; on which the
apparition appeared a second time, and
warned him not to provoke him to
exert his power. Even then he could
not summon courage to obey, and
presently his son died. After this,
the same
admonition was repeated in his dreams for the third time. Then the peasant himself became extremely ill, and related the cause of his trouble to his friends, by whose advice he was carried on a litter to the senatehouse;
and as soon as he had related
his dreams to the senate, he
recovered his health and strength, and
returned home on foot perfectly cured.
Thereupon, the truth of his dreams
being admitted by the senate, it is
related that these games were repeated
a second time. It is recorded
in the history of the same Crelius,
that Caius Gracchus informed many persons
that during the time that he was
soliciting the qusestorship, his brother
Tiberius Gracchus appeared to him in
a dream, and said to him, that
he might delay as much as he
pleased, but that nevertheless he was
fated to die by the same death
which e himself had suffered. Coclius
asserts that he heard this fact, and
related it to many persons, before
Caius Gracchus had become tribune of
the people. And what can be more
certain than such a dream as this
1 Who, again, can despise those two
dreams, which are so frequently dwelt
upon by the Stoics?one concerning
Simonides, who, having found the dead
body of a man who was a
stranger to him lying in the road,
buried it. Having performed this office,
he was about to embark in a
ship, when the man whom he had
buried appeared to him in a dream
at night, and warned him not to
undertake the voyage, for that if he did he would perish by shipwreck. Therefore, he returned home
again, but all the other people who
sailed in
that vessel were lost. The other dream, which is a very celebrated one, is related in the following manner:Two
Arcadians, who were in timate friends,
were travelling together, and arriving at
Megara, one of them took up his
quarters at an inn, the other at
a friend's house. After supper, when
they had both gone to bed, the
Arcadian, who was staying at his
friend's house, saw an apparition of
his fellowtraveller at the inn, who
prayed him to come to his assistance
immediately, as the innkeeper was going
to murder him. Alarmed at this
intimation, he started from his sleep;
but on recollection, thinking it nothing
but an idle dream, he lay down
again. Presently, the apparition appeared
to him again in his sleep, and
entreated him, though he would not
come to his as sistance while yet
alive, at least not to leave his
death unavenged. He told him further,
that the innkeeper had first murdered
him, and then cast him into a
dungcart, where he lay covered with
filth; and begged him to go early
to the gate of the town, before
any cart could leave the town. Much
excited by this second vision, he went
early next morning to the gate of
the town, and met with the driver
of the cart, and asked him what
he had in his waggon. The driver,
upon this question, ran away in a
fright. The dead body was then discovered,
and the innkeeper, the evidence being
clear against him, was brought to
punishment. What can be more akin to
divination than such a dream as this
? But why do I relate any
more ancient instances of similar things,
when such dreams have occurred to
ourselves? for I have often told you
mine, and I have as often heard
you talk of yours. When I was
proconsul in Asia, it appeared to me
as I slept, that I saw you
riding on horseback till you reached
the banks of a great river, and
that you were suddenly thrown off and
precipitated into the waters, and so
disappeared. At this I trembled
exceedingly, being overcome with fear and
apprehension. But suddenly you reappeared
before me with a joyful countenance,
and, with the same horse, ascended
the opposite bank, and then we embraced
each other. It is easy to conjecture
the signification of such a dream as
this; and hence the learned inten
<reters of Asia predicted to me
that those events would take place
which afterwards did come to pass.
I now come to your own dream,
which I have sometimes heard from
yourself, but more often from our
friend Sallust. He used to say, that
in that flight and exile of yours,
which was so glorious for you, so calamitous
for our country, you stayed awhile in
a certain villa of the territory of
Atina, when, having sat up a great
part of the night, you fell into
a deep and heavy slumber towards the
morning. And from this slumber your
attendants would not awake you, as
you had given orders that you were
not to be disturbed, though your journey was sufficiently urgent. When at length you awoke about the second hour of the day, you related to Sallust the following dream:That
it had seemed to you that, as
you were wandering sorrowfully through some
solitary district, Caius Marius appeared to
you with his fasces covered with
laurel, and that he asked you why
you were afflicted. And when you
informed him that you had been driven
from your country by the violence of
the disaffected, he seized your right
hand, and urged you to be of
good cheer, and ordered the lictor
nearest to him to lead you to
his monument, saying, that there you
should find security. Sallust told me,
that upon hearing this dream, he
himself exclaimed at once that your
return would be speedy and glorious;
and that you also appeared to be
de lighted with your dream. A short
time afterwards I was informed, as
you well know, that it was in
the monument of Marius that, on the
instance of that excellent and famous
consul Lentulus, that most honourable
decree of the senate was passed for
your recal, which was applauded with
shouts of incredible exultation in a
very full assembly; so that, as you
yourself observed, no dream could have
a higher character of divination than
this which occurred to you at
Atina. But you will say that there
are likewise many false dreams. No
doubt there are some which are
perhaps obscure to us; but, even
allow that there are some which are
actually false, what argument is that against those which are true ?of
which, indeed, there would be a great
many more if we went to bed in
perfect health; but as it is, from
our being over charged with wine and
luxuries, all our perceptions become
troubled and confused. Consider what
Socrates, in the Republic of Plato,
says on this subject. "
When," says he, " that part
of the soul which is capable of
intelligence and reason is subdued and reduced
to
languor, then that part in which there is a species
of ferocity and uncivilized savageness being
excited by immoderate eating and drinking,
exults in our sleep and wantons about
unre strainedly; and therefore all kinds
of visions present them selves to it,
such as are destitute of all sense
or reason, in which we appear to
be giving ourselves up to incest and
all kinds of bestiality, or to be
committing bloody murders, and massacres,
and all kinds of execrable deeds,
with a triumphant defiance of all
prudence and decency. But in the case
of a man who is accustomed to a
sober and regular life, when he
commits himself to sleep, then that
part of his soul which is the
seat of intellect and reason is still
active and awake, being replenished with
a banquet of virtuous thoughts; and
that portion which is nourished by
pleasure, is neither destroyed by
exhaustion nor swollen by satiety, either
of which is accustomed to impair the
vigour of the soul, whether nature is
deficient in anything, or super abundant
or overstocked; and that third division
also, ill which the vehemence of
anger is situated, is lulled and
restrained; so, consequently, it happens,
that owing to the due regulation of
the two more violent portions of the
soul, the third, or intellectual part,
shines forth conspicuously, and is fresh
and active for the admission of
dreams; and therefore the visions of
sleep which present themselves before it
are tranquil and true." Such are
the very words of Plato. Shall we,
then, prefer listening to the doctrine
of Epicurus on this point ? As
for Carneades, he sometimes says one
thing and sometimes another, from his
mere fondness for discussion. And yet,
what are the sentiments which he
utters ? At all events, they are
never expressed either with elegance or
propriety. And will you prefer such a
man as this to Plato and Socrates
1 men who, even if they were to
give no reason for their tenets,
should, by the mere authority of
their names, outweigh these minute
philosophers. Plato then asserts that
we should bring our bodies into such
a disposition before we go to sleep
as to leave nothing which may
occasion error or perturbation in our
dreams. For this reason, perhaps,
Pythagoras laid it down as a rule,
that his disciples should not eat
beans, because this food is very
flatulent, and contrary to that
tranquillity of mind which a truthseeking
spirit should possess. When, therefore, the
mind is thus separated from the
society and contagion of the body, it
recollects things past, examines things
present, and anticipates things to come.
For the body of one who is
asleep lies like that of one who
is dead,
while the spirit is full of vitality
and vigour. And it will be yet
more so after death, when it will
have got rid of the body altogether;
and therefore we _see that even on
the approach of death it becomes much
more divine. For it often happens
that those who are attacked by a
severe and mortal malady, foresee that
their death is at hand. And in
this state they often behold ghosts
and phantoms of the dead. Then they
are more than ever anxious about
their reputations; and they who have
lived otherwise than as they ought,
then most especially repent of their
sins. And that the dying are
often possessed of the gift of divi
nation, Posidonius confirms by that
notorious example of a certain Rhodian
who, being on his deathbed, named six
of his contemporaries, saying which of
them would die first, which second,
which, next to him, and so on.
There are, he imagines, besides this,
three ways in which men dream under
the immediate impulse of the Gods :
one, when the mind intuitively perceives
things by the relation which it bears
to the Gods; the second, arising from
the fact of the air being full
of immortal spirits, in whom all the
signs of truth are, as it were,
stamped and visible; the third, when
the Gods themselves converse with sleepers,and
that, as I have said before, takes
place more especially at the approach
of death, enabling the minds of the
dying to anti cipate future events.
An instance of this is the prediction
of Calanus, of whom I have
already spoken. Another is that of Hector, in Homer,
who, when dying himself, foretels the
approaching death of Achilles. If there
were no such thing as divination,
Plautus would not have been so much
applauded for the following line :
— My mind presaged (prcesagibat), when I
first went out, That I was going
on a fruitless journey :
— for the verb sagio means, to
feel shrewdly. Hence old women are
sometimes called sagce (witches), because
they are ambi tious of knowing many
things; and dogs are called sagacioiis.
Whoever, therefore, say it (knows) before
the event has come to pass, is
said prcesagire (to have the power of
knowing the future beforehand). There
exists, therefore, in the mind a
presentiment, which strikes the soul from
without, and which is enclosed in the
soul by divine operation. If this
becomes very vivid, it is termed
frenzy, as happens when the soul,
being abstracted from the body, is stirred
up by a divine inspiration. What
sudden transport fires my virgin soul !
Jly mother, oh, my mother ! — dearest
name Of all dear names !
But oh, my breast is full Of
divination and impending fates, While dread
Apollo with his mighty impulse Urges
me onward. Sisters, my sweet
sisters ! I grieve to anticipate the
coming fate Of our most royal
parents. You are all More
filial and more dutiful than I. I
only am enjoin'd this cruel task, To
utter imminent ruin. You do
serve them; I injure them ; and your
obedience Shines well, set-off by my
disloyal rage.1 0 what a tender,
moral, and delicate poem !
though the beauty of it does not affect
the question. What I wish to
prove is, that that frenzy often
predicts what is true and real.
I see the blazing torch of
Troy's last doom, Fire, and massacre,
and death. Arm, citizens !
Bring aid and quench the flames.
In the following lines, it is
not so much Cassandra who speaks,
as the Deity enclosed in human
form:Already is the fleet prepared to
sail; It bears destruction — rapidly it
speeds: A dreadful army traverses the
shores, Destined to slaughter. 1 seem
to be doing nothing but
quoting tragedies and fables. I would
mention a story I have heard from
your self, and that not an imaginary,
but a real circumstance, and closely
related to our present discussion. Caius
Coponius, a skilful general, and a
man of the highest character for
learn ing and wisdom, who commanded
the fleet of the Rhodians, with the
appointment of praetor, came to you
at Dyrrha- chium, and informed, you
that a certain sailor in a Khodiau
galley had predicted that, in less
than a month, Greece would 1
This is a quotation from Pacuvius's
play of Hercules ; the speaker is
Cassandra. be deluged with blood, that
Dyrrhachium would be pillaged, and that
the people would flee and take to
their ships; that, looking back in
their flight, they would see a
terrible con flagration. He added,
moreover, that the fleet of the
lihodians would soon return, and retire
to Rhodes. You told me that you
yourself were surprised at this
intelligence, and that Marcus Varro and
Marcus Cato, both men of great
learning, who were with you, were
exceedingly alarmed. A few days afterwards,
Labienus, having escaped from the battle
of Phar- salia, arrived and brought
an account of the defeat of the
army: and the rest of the prediction
was soon accomplished; for the corn
was dragged out of the granaries, and
strewed about all the streets and
alleys, and destroyed. Yoxi all embarked
on board the ships in haste and
alarm; and at night, when you looked
back towai-ds the town, you beheld
the barges on fire, which were burned
by the soldiers because they would
not follow. At last you were deserted
by the fleet of the Rhodians, and
then you found that the prophet had
been a true one. I have
explained as concisely as possible the
fore warnings of dreams and frenzy,
with which I said that art had
nothing to do; for both these kinds
of prediction arise from the same
cause, which our friend Cratippus adopts
as the true explana tion —namely,
that the souls of men are partly
inspired and agitated from without. By
which he meant to say, that there
is in the exterior world a sort
of divine soul, whence the human soul
is derived; and that that portion of
the human soul which is the fountain
of sensation, motion, and appetite, is
not separate from the action of the
body; but that portion which partakes
of reason and intelligence is then
most ener getic, when it is most
completely abstracted from the body.
Therefore, after having recounted veritable
instances of presentiments and dreams,
Cratippus used to sum up his
conclusions in this manner:" If," he
would say, "the exist ence of
the eyes is necessary to the
existence and operation of the function
of sight, though the eyes may not
be always exercising that function, still
he who has once made use of his
eyes so as to see correctly, is
possessed of eyes capable of the
sensation of correct sight: just so
if the function and gift of
divination cannot exist without the
exercise of divination, and yet a man
who has this gift may sometimes err
in its exercise, and not foresee
correctly; then it is sufficient to
prove the existence of divination, that
some event should have been once so
correctly divined that none of its
circum stances appear to have happened
fortuitously. And as a multitude of
such events have occurred, the existence
of divination ought not to be
doubted.But as to those divinations which
are explained by conjecture, or by
the observation of events; these, as
I have said before, are not of
the natural, but artificial order; in
which artificial class are the haruspices,
and augurs, and interpreters. These are
discredited by the Peripatetics, and
defended by the Stoics. Some of them
are established by certain monuments and
systems, as is evident from the
ritual books of the ancient Etruscans
respecting electrical interpre tation of
the omens conveyed by the entrails of
victims and by lightning, and by our
own books on the discipline of the
augurs Other divinations are explained at
once by con jecture, without reference
to any written authorities; such as
the prophecy of Calchas in Homer,
who, by a certain num ber of
flying sparrows, predicted the number of
years which would be occupied in the
siege of Troy; and as an event
which we read recorded in the history
of Sylla, which hap pened under your
own eyes. For when Sylla was in
the territory of Nola, and was
sacrificing in front of his tent, a
serpent suddenly glided out from beneath
the altar; and when, upon this, the
soothsayer Posthumius exhorted him to give
orders for the immediate march of the
army, Sylla obeyed the injunction, and
entirely defeated the Samnites, who lay
before Nola, and took possession of
their richly- provided camp. It was
by this kind of conjectural divination
that the fortune of the tyrant
Dionysius was announced a little before
the commencement of his reign; for
when he was travelling through the
territory of Leontini, he dismounted and
drove his horse into a river; but the
horse was carried away by the
current, and Dionysius, not being able
with all his efforts to extricate
him, departed, as Philistus reports,
lamenting his loss. Some time afterwards,
as he was journeying further down the
river, he suddenly heard a neighing,
and to his great joy found his
horse in very comfortable condition, with
a swarm of bees hanging on his
mane. And this prodigy intimated the
event which took place a few days
after this, when Dionysius was called
to the throne. Need I say more
1 Ho\v many intimations were
given to the Lacedaemonians a short
time before the disaster of Leuctra,
when arms rattled in the temple of
Hercules, and his statue streamed with
profuse sweat! At the same
time, at Thebes (as Callisthenes relates),
the foldingdoors in the temple of
Hercules, which were closed with bars,
opened of their own accord, and the
armour which was suspended on the
walls was found fallen to the
ground. And at the same period, at
Lebadia, where divine rites were being
performed in honour of Trophonius, all
the cocks in the neighbourhood began
to crow so incessantly as never to
leave off at all; and the Boeotian
augurs affirmed that this was a sign of
victory to the Thebans. because these
birds crow only on occasions of
victory, and maintain silence in case
of defeat. Many other signs, at
this time, announced to the Spartans
the calamities of the battle of
Leuctra; for, at Delphi, on the head
of the statue of Lysander, who was
the most famous of the Lacedaemonians,
there suddenly appeared a garland of
wild prickly herbs. And the golden
stars which the Lacedae monians had
set up as symbols of Castor and
Pollux, in the temple of Delphi,
after the famous naval victory of
Lysander, in which the power of
Athens was broken, because those divinities
were reported to have appeared in the
Lacedaj- monian fleet during that
engagement, fell down, and were seen
no more. And the greatest of
all the prodigies which were sent as warnings
to those same Lacedaemonians, happened when
they sent to consult the oracle of Jupiter
at Dodona on the success of the
combat; and when the ambassadors had
cast their questions into the urn
from which the responses were to be
drawn, an ape, whom the king of
Molossus kept as a pet, dis turbed
and confounded all the lots, and
everything else which had been prepared
for the purpose of giving a reply
in due form. Upon which the priestess
who presided at the oracular rites,
declared that the Lacedaemonians must rather
look to their safety than expect a
victory. Must I say more 1 In
the second Punic war, when Flaminius,
being consul for the second time,
despised the signs of future events,
did he not by such conduct
occasion great disasters to the state
? For when, after, having reviewed
the troops, he was moving his camp
towards Arezzo, and leading his legions
against Hannibal, his horse suddenly fell
with him before the statue of Jupiter
Stator, without any apparent cause. But
though those who were skilful in
divina tion declared it was an
evident sign from the Gods that he
should not engage in battle, he paid
no attention to it. After wards, when
it was proposed to consult the
auspices by the consecrated chickens, the
augur indicated the propriety of deferring
the battle. Flaminius asked him what
was to be done the next day, if
the chickens still refused to feed ?
He replied that in that case he
must still rest quiet. " Fine
auspices, indeed," replied Flaminius, "
if we may only fight when the
chickens are hungry, but must do
nothing if they are full." And
so he commanded the standards to be
moved forward, and the army to follow
him; on which occasion, the standard-bearer
of the first battalion could not extricate
his standard from the ground in which
it was pitched, and several soldiers who
endeavoured to assist him were foiled
in the attempt. Flaminius, to whom
they related this incident, despised the
warning, as was usual with him; and
in the course of three hours from
that time, the whole of his army
was routed, and he himself slain.
And it is a wonderful story,
too, that is told by Coelius, as
having happened at this very time,
that such great earth quakes took
place in Liguria, Gallia, and many of
the islands, and throughout all Italy,
that many cities were destrojred, and
the earth was broken into chasms in
many places, and rivers rolled backwards,
while the waters of the sea rushed
into their channels. Skilful diviners can
certainly derive correct pre sentiments
from slight circumstances. When Midas, who
be came king of Phrygia, was yet
an infant, some ants crammed some
grains of wheat into his mouth while
he was sleep ing. On this the diviners
predicted that he would become exceedingly
rich, as indeed afterwards happened. While
Plato was an infant in his cradle, a
swarm of bees settled on his lips
during his slumbers; and the diviners
answered that he would become extremely
eloquent; and this prediction of his
future eloquence was made before he
even knew how to speak. Why
should I speak of your dear and
delightful friend, Roscius 1 Did he
tell lies himself, or did the whole
city of Lanuvium tell lies for him
? When
he was in his cradle at Solonium,
where he was being brought up,— (a
place which belongs to the Lanuvian
territory.) the story goes, that one night,
there being a light in the room,
his nurse arose and found a serpent
coiled around him, and in her alarm
at this sight she made a great
outcry. The father of Roscius related
the circumstance to the soothsayers, and
they answered that the child would
become preeminently distinguished and illus
trious. This adventure was afterwards
engraved by Praxiteles in silver, and our
friend Archias celebrated it in verse.
What, then, are we waiting for
1 Are we to wait till the Gods
are conversant with us and our
affairs, while we are in the forum,
and on our journeys, and when we
are at home? yet though they do
not openly discover themselves to us,
they diffuse their divine influence far
and wide — an influence which they not
only inclose in the caverns of the
earth, but sometimes extend to the constitutions
of men. For it was this divine
influence of the earth which inspired
the Pythia at Delphi, while the Sibyl
received her power of divination from
nature. Why should we wonder at this
1 Do we not see how various are
the species and specific properties of
earths 1 — of which some parts are
injurious, as the earth of Amp-
sanctus in Hirpinum, and the Plutonian
land in Asia: and some portions of
the soil of the fields are
pestilential, others salubrious; some spots
produce acute capacities, others heavy
characters. All which things depend on
the varieties of atmosphere, and are
inequalities of the exhalations of the
different soils. It likewise often happens
that minds are affected more or less
powerfully by certain expressions of countenance,
and certain tones of voice and modulations,
— often also by fits of anxiety and
terror — a condition indicated in these
lines of the poet : — Madden'd in
heart, and weeping like as one By
the mysterious rites of Bacchus wrought
Into wild ecstasy, she wanders lone
Amid the tombs, and mourns her Teucer
lost. And this state of excitement
also proves that there is a divine
energy in human souls. And so
Democritus asserts, that without something
of this ecstasy no man can become
a great poet ; and Plato utters the
same sentiment : and he may call this
poetic inspiration an ecstasy or madness
as much as he pleases, so long
as he eulogizes it as eloquently as
he does in his Phecdon. What is
your art of oratory in pleading
causes 1 What is your action ?
Can it be forcible, commanding, and
copious, unless your mind and heart
are in some degree animated by a
kind of inspiration 1 I have often
beheld in yourself, and, to descend
to a less dignified example, even in
your friend ufEsop, such fire and
splendour of expression and action, that
it seemed as if some potent
inspiration had altogether ab stracted him
from all present sensation and thought.
Besides this, forms often come across
us which have no real existence, but
which nevertheless have a distinct appear
ance. Such an apparition is said to
have occurred to Bren- ims, and to
his Gallic troops, when he was waging
an impious war upon the temple of
Apollo at Delphi. For on that occa
sion it is reported that the Pythian
priestess pronounced these words :"I and
the white virgins will provide for
the future." In accordance with which,
it happened that the Gauls fancied
that they saw white virgins bearing
arms against them, and that their
entire army was overwhelmed in the
snow. Aristotle thinks that those who
become ecstatic or furious through some
disease, especially melancholy persons, possess
a divine gift of presentiment in
their minds. But I know not whether
it is right to attribute anything of
this kind to men with diseases of
the stomach, or to persons in a
frenzy, for time divination
rather appertains to a sound mind than
to a sick body. The Stoics
attempt to prove the reality of divination
in this way: — If there are Gods, and
they do not intimate future events to
men, they either do not love men, or
they are ignorant of the future; or
else they conceive that know ledge of
the future can be of no service to
men; or they con ceive that it
does not become their majesty to
condescend to intimate beforehand what must
be hereafter; or lastly, we must say
that even the Gods themselves cannot
tell how to forewarn us of them.
But it is not true that the
Gods do not love men, for
they are essentially benevolent and
philanthropic; and they cannot be ignorant
of those events which take place by
their own direction and appointment. Again,
it cannot be a matter of indifference
to us to be apprised of what is
about to happen, for we shall become
more cautious if we do know such
things. Nor do they think it beneath
their dignity to give such inti
mations, for nothing is more excellent
than beneficence. And lastly, the Gods
cannot be ignorant of future events.
There fore there are no Gods, and
they do not give intimations of the
future. But there are Gods: so
therefore they do give such intimations;
and if they do give such intimations,
they must have given us the means
of understanding them, or else they
would give their information to no
purpose. And if they do give us
such means, divination must needs exist;
therefore divination does exist. Such is
the argument in favour of divination
by which Chrysippus, Diogenes, and
Antipater endeavour to demonstrate their
side of the question. Why, then, should
any doubt be entertained that the
arguments that I have advanced are
entirely true? If both reason and
fact are on my side,— if whole
nations and peoples, Greeks and barbarians,
and our own ancestors also, confirm
all my assertions, — if also it has
always been maintained by the greatest
philosophers and poets, and by the
wisest legislators who have framed
constitutions and founded cities, must we
wait till the very animals give their
verdict? and may not we be content
with the unanimous authority of all
mankind1? Nor indeed is any other
argument brought forward to prove that
all these kinds of divination which I
uphold have no existe nce, than
that it appears difficult to explain
what are the different principles and
causes of each kind of divination.
For what reason can the soothsayer
allege why an injury in the lungs
of otherwise favourable entrails should
compel us to alter a day previously
appointed, and defer au enterprise? How
can an augur ex plain why the
croak of a raven on the right
hand, and a crow on the left,
should be reckoned a good omen? What
can an astrologer say by way of
explaining why a conjunction of the
planet Jupiter or Venus with the moon
is propitious at the birth of a
child, and why the conjunction of
Saturn or Mars is injurious? or why
God should warn us during sleep, and
neglect us when we are awake ?
or lastly, what is the reason why
the frantic Cassandra could foresee future
events, while the sage Priam remained
ignorant of them? Do you ask
why everything takes place as it
does? Very right; but that is not
the question now; what we are trying
to find out is whether such is
the case or not. As, if I were
to assert that the magnet is a
kind of stone which attracts and
draws iron to itself, but were unable
to give the reason why that is
the case, would you deny the fact
altogether ? And you treat the
subject of divination in the same
way, though we see it, and hear
of it, and read of it, and have
received it as a tradition from our
ancestors. Nor did the world in
general ever doubt of it before the
introduction of that philosophy which has
recently been invented, and even since
the appearance of philosophy, no
philosopher who was of any authority
at all has been of a contrary
opinion. I have already quoted in its
favour Pythagoras, Democritus, and Socrates.
There is no exception but Xenophanes
among the ancients. I have likewise
added the old Academicians, the
Peripatetics, and the Stoics: all supported
divination; Epi curus alone was of
the opposite opinion. But what can be
more shameless than such a man as
he, who asserted that there was no
gratuitous and disinterested virtue in the
world? XL. But what man is
there who is not moved by the
testi mony and declarations of antiquity?
Homer writes that Cal- chas was a
most excellent augur, and that he
conducted the fleet of the Greeks to
Troy, — more, I imagine, by his know
ledge of the auspices than of the
country. Amphilochus and Mopsus were kings
of the Argives, and also augurs, and
built the Greek cities on the coast
of Cilicia. And before them lived
Amphiaraus and Tiresias, men of no lowly
rank or ob scure fame, not like
those men of whom Ennius says —They
hire out their prophecies for gold :
no; they were renowned and first
rate men, who predicted the future by
means of the knowledge which they
derived from birds and omens; and
Homer, speaking of the latter even in
the infernal regions, says that he
alone was con sistently wise, while
others were wandering about like shadows.
As to Amphiaraus, he was so honoured
by the general praise of all Greece,
that he was accounted a god, and
oracles were established at the spot
where he was buried. Why need I
speak of Priam king of Asia? had
not he two children possessed of this
gift of divination, namely a son
named Helenus, and a daughter named
Cassandra, who both prophesied, one by
means of auspices, the other through
an excited state of mind and divine
inspiration1? of which de scription
likewise were two brothers of the
noble family of the Marcii, who are
recorded as having lived in the days
of our ancestors. Does not Homer
inform us, too, that Polyidus the
Corinthian predicted the various fates of
many persons, and the death of his
son when he was going to the
siege of Troy? And as a general
rule, among the ancients, those who were
possessed of authority \asually also
possessed the know ledge of auguries;
for, as they thought wisdom a regal
attri bute, so also did they esteem
divination. And of this our state of
Rome is an instance, in which several
of our kings were also augurs, and
afterwards even private persons, endued
with the same sacerdotal office, ruled
the commonwealth by the authority of
religion. And this kind of divination
has not been neglected even by
barbarous nations; for the Druids in
Gaul are diviners, among whom I
myself have been acquainted with Divitiacus
vEduus, your own friend and panegyrist,
who pretends to the science of nature
which the Greeks call physiology, and
who asserts that, partly by auguries
and partly by conjecture, he foresees
future events. Among the Persians they
have augurs and diviners, called magi,
who at certain seasons all assemble
in a temple for mutual conference and
consultation; as your college also used
once to do on the nones of the
month. And no man can become a
king of Persia who is not previously
initiated in the doctrine of the
magi. There are even whole families
and nations devoted to divina tion.
The entire city of Telmessus in Caria
is such. Likewise in Elis, a city
of Peloponnesus, there are two families,
called lamidse and ClutidoD, distinguished
for their proficiency in divination. And
in Syria the Chaldeans have become
famous for their astrological predictions,
and the subtlety of their genius.
Etruria is especially famous for possessing
an inti mate acquaintance with omens
connected with thunderbolts and things of
that kind, and the art of explaining
the signi fication of prodigies and portents.
This is the reason why our ancestors,
during the flourishing days of the
empire, enacted that six of the
children of the principal senators should
be sent, one to each of the
Etrurian tribes, to be instructed in
the divination of the Etrurians, in
order that this science of divination,
so intimately connected with reli gion,
might not, owing to the poverty of
its professors, be cultivated for merely
mercenary motives, and falsified by
bribery. The Phrygians, the Pisidians,
the Cilicians, and Arabians are accustomed
to regulate many of their affairs by
the omens which they derive from
birds. And the Umbrians do the same,
according to report. It appears to me
that the different characteristics of
divination have originated in the nature of
the localities themselves in which they
have been cultivated. For as the
Egyptians and Babylonians, who reside in
vast plains, where no mountains obstruct
their view of the entire hemisphere,
have applied themselves principally to that
kind of divination called astrology, the
Etrurians, on the other hand, because
they, as men more devoted to the
rites of religion, were used to
sacrifice victims with more zeal and
frequency, have espe cially applied
themselves to the examination of the
entrails of animals; and as, from the
character of their climate and the denseness
of their atmosphere, they are accustomed
to witness many meteorological phenomena,
and because for the same reason many
singular prodigies take place among them,
arising alike from heaven or from
earth, and even from the concep tions
or offspring of men or cattle, they
have become won derfully skilful in the
interpretation of such curiosities, the
force of which, as you often say,
is clearly declared by the very names
given to them by our ancestors, for
because they point out (ostendunt},
portend, show (monstrant), and predict, they
are called ostents, portents, monsters, and
prodigies. Again, the Arabians, the
Phrygians, and Cilicians, because they rear
large herds of cattle, and, both in
summer and winter, traverse the plains
and mountainous districts, have on that
account taken especial notice of the
songs and flight of birds. The
Pisidians, and in our country the
Umbrians, have applied themselves to the
same art for the same reason. The
whole nation of the Carians, and most
especially the Telmessians, who reside in
the most productive and fertile plains,
in which the exuberance of nature
gives birth to many
extraordinary productions, have been very
careful in the observation of prodigies.
But who can shut his eyes to
the fact that in every well
constituted state auspices, and other kinds
of divi nation, have been much
esteemed? What monarch or what people
has ever neglected to make use of them
in the trans actions of peace, and
still more especially in time of war,
when the safety or welfare of the
commonwealth is implicated in a greater
degree? I do not speak merely of
our own countrymen, — who have never
undertaken any martial enter prise without
inspection of the entrails, and who
never con duct the affairs of the
city without consulting the auspices, — I
rather allude to foreign nations. The
Athenians, for ex ample, always consulted
certain divining priests, (whom they called
yaavrei?,) when they convoked their public
assemblies. The Spartans always appointed
an augur as the assessor of their
king, and also they ordained that an
augur should be present at the
council of their Elders, which was
the name they gave to their public
council; and in every important transaction
they invariably consulted the oracle of
Apollo at Delphi, or that of Jupiter
Harnmon, or that of Dodona. Lycurgus,
who formed the Lacedaemonian commonwealth,
desired that his code of laws should
receive confirmation from the authority of
Apollo at Delphi; and when Lysander
sought to change them, the same
authority forbade his innovations. Moreovei',
the Spartan magistrates, not content with
a careful superintendence of the state
affairs, went occasionally to spend a
night in the temple of Pasiphae,
which is in the country in the
neighbourhood of their city, for the
sake of dreaming there, because they
considered the oracles received in sleep
to be true. But I return to
the divination of the Eomans. How
often has our senate enjoined the
decemvirs to consult the books of the
Sibyls! For instance, when two suns
had been seen, or when three moons
had appeared, and when flames of fire
were noticed in the sky; or on
that other occasion, when the sun was
beheld in the night, when noises were
heard in the sky, and the heaven
itself seemed to burst open, and strange
globes were remarked in it. Again,
information was laid before the senate,
that a portion of the territory of
Privernum had been swallowed up, and
that the land had sunk down
to an incredible depth, and that
Apulia had been convulsed by terrific
earthquakes; which portentous events announced
to the Romans terrible wars and
disastrous seditions. On all these
occasions the diviners and their auspices
were in perfect accordance with the
prophetic verses of the Sibyl. Again,
when the statue of Apollo at Cuma
was covered with a miraculous sweat,
and that of Victory was found in
the same condition at Capua, and when
the hermaphrodite was born, — were not
these things significant of horrible dis
asters? Or again, when the Tiber was
discoloured writh blood, or when, as
has often happened, showers of stones,
or sometimes of blood, or of mud,
or of milk, have fallen, — when the
thunder bolt fell on the Centaur of
the Capitol, and struck the gates of
Mount Aventine, and slew some of the
inhabitants; or again, when it struck
the temple of Castor and Pollux at
Tusculum, and the temple of Piety at
Rome, — did not the soothsayers in reply
announce the events which subsequently took
place, and were not similar predictions
found in the Sibylline volumes'? How
often has the senate commanded the
decemvirs to consult the Sibylline books!
In what important affairs, and how
often has it not been guided wholly
by the answers of the soothsayers! In
the Marsic war, not long ago, the
temple of Juno the Protectress was restored
by the senate, which was excited to
this holy act by a dream of
Csccilia, the daughter of Quintus Metellus.
But after Sisenna, who men tions this
dream, had related the wonderful
correspondence of the event with the
prediction, he nevertheless (being influ
enced, I suppose, by some Epicurean)
proceeded to argue that dreams should
never be trusted: however, he states
nothing against the credit of the
prodigies wrhich took place, and which
he reports, at the beginning of the
Marsic war1, when the images of the
gods were seen to sweat, and blood
flowed in the streams, and the
heavens opened, and voices were heard
from secret places, which foretold the
dangers of the combat; and at
Lanuvium the sacred bucklers were found
to have been gnawed by mice, which
appeared to the augurs the worst
presage of all. Shall I add
further what we read recorded in our
annals, thnt in the war against the
Veientes, when the Alban lake had
risen enormously, one of their most distinguished
nobles came over to us and said,
that it \vas predicted in the sacred
books concerning the destinies of the
Veientes, which they had in their own
possession, that their city could never
be captured while the lake remained
full; and that if, when the lake
was opened, its waters were allowed to
run into the sea, the .Romans would
suffer loss, — if, on the contrary, they
were so drawn off that they did
not reach the sea, then we should
have good success? And from this
circumstance arose the series of immense
labours, subsequently undertaken by our ancestors
in conducting away the waters of the
Alban lake. But when the Veientes, being
weary of war, sent ambassadors to the
Roman senate, one of them exclaimed
that that de serter had not ventured
to tell them all he knew, for
that in those same sacred books it
was predicted that Rome should soon be
ravaged by the Gauls, — an event which
happened six years after the city of
Veii surrendered. The cry of the
fauns, too, has often been heard in
battle; and prophetic voices have often
sounded from secret places in periods
of trouble ; of which, among others,
we have two notable examples, — for shortly
before the capture of Rome a voice
was heard which proceeded from the
grove of Vesta, which skirts the new
road at the foot of the Palatine Hill,
exhorting the citizens to repair the
walls and gates, for that if they
were not taken care of the city
would be taken. The injunction was
neglected till it was too late, and
it after wards was awfully confirmed
by the fact. After the disaster had
occurred, our citizens erected an altar
to Aius the Speaker, which we may still
see carefully fenced round, opposite the
spot where the warning was uttered.
Many authors have reported that once,
after a great earthquake had happened,
they heard a voice from the temple
of Juno, commanding that expiation should
be made by the sacrifice of a
pregnant sow, and hence it was
afterwards called the temple of Juno
the Admonitress. Shall we then despise
these oracular inti mations, which the
Gods themselves vouchsafed us, and which
our ancestors have confirmed by their
testimony ? The Pythagoreans had not
only high reverence for the voice of
the Gods, but they likewise respected
the warnings of men (hominum), which
they call omina. And our ancestors
were persuaded that much virtue resides
in certain words, and therefore prefaced
their various enterprises with
certain auspicious phrases, such as,
"May good and prosperous and happy
fortune attend." They commenced all
the public ceremonies of religion with
these words, — " Keep silence; "
and when they announced any holidays,
they commanded that all lawsuits and
quarrels should be suspended. Likewise,
wheu the chief who forms a colony makes
a lustration and review of it, or
when a general musters an arm, or
a censor the people, they always
choose those who have lucky names to
prepare the sacrifices. The consuls in
their military enrol ments likewise take
care that the first soldier enrolled
shall be one with a fortunate name;
and you know that you your self
were very attentive to these ceremonial
observances when you were consul and
imperator. Our ancestors have likewise
enjoined that the name of the tribe
which had the precedence should be regarded
as the presage of a legitimate
assembly of the Comitia. And of
presages of this kind I can relate
to you several celebi'ated examples. Under
the second consulship of Lucius Paulus,
when the charge of making war against
the king Perses had been allotted to
him, it happened that on the evening
of that very same day, when he
returned home and kissed his little
daughter Tertia, he noticed that she
was very sorrowful. " What is the
matter, my Tertia," said he, "
why are you so sad?" " My
father," replied she, " Perses
has perished." Upon which he caught
her in his arms, and caressing her,
exclaimed, " I embrace the omen,
my daughter." But the real truth
was, that her dog, who happened to
be called Perses, had died. I
have heard Lucius Flaccus, a priest
of Mars, say, that Csecilia, the
daughter of Metellus, intending to make
a matri monial engagement for her
sister's daughter, went to a certain
temple, in order to procure an omen,
according to the ancient custom. Here
the maiden stood, and Ctecilia sat
for a long time without hearing any
sound, till the girl, who grew tired
of standing, begged her aunt to allow
her to occupy her seat for a
short period, in order to rest
herself. Csecilia replied, "Yes, my
child, I willingly resign my seat to
you." And this reply of hers was
an omen, confirmed by the event, for
Ceecilia died soon after, and her
niece married her aunt's husband. I
know that men may despise such
stories, or even laugh at them, but
such conduct amounts to a
disbelief in the existence of the Gods
themselves, and to a contempt of
their revealed will. Why need I speak
of the augurs 1 — that part of the
qxiestion concerns you. The defence of
the auguries, I say, belongs peculiarly
to you. When you were a consul,
Publius Claudius, who was one of the
augurs, announced to you, when the
augury of the Goddess Salus was
doubted, that a disas trous domestic
and civil war would take place, which
happened a few months afterwards, but
was suppressed by your exer tions in
still fewer days. And I highly
approve of this augur, who alone for
a long period remained constant to
the study of divination, without making
a parade of his auguries, while his
colleagues and yours persisted in laughing
at him, sometimes terming him an
augur of Pisidia or Sora by way
of ridicule. Those who assert that
neither auguries nor auspices can give
us any insight into or foreknowledge
of the future, say that they are
mere superstitious practices, wisely invented
to impose on the ignorant; which,
however, is far from being the case
: for our pastoral ancestors under
Romulus were not, nor indeed was
Romulus himself, so crafty and cunning
as to in vent religious impositions
for the purpose of deceiving the mul
titude. But the difficulty of acquiring
a thorough knowledge of the auspices
renders many who are indifferent to
them eloquent in their disparagement, for
they would rather deny that there is
anything in the auspices than take the
pains of studying what there really
is. What can be more divine than
that prediction, which you cite in
your poem of Marius, that I may
quote your owrn authority in favour
of my argument? — Jove's eagle,
wounded by a serpent's bite, In
his strong talons caught the writhing
snake, And with his goring beak
tortured his foe And slaked his
vengeance in his blood. At
last He let, the venomous reptile
from on high Fall in the
whelming flood, then wing'd his flight
To the far east. Marius
beheld, and mark'd The augury divine,
and inly smiled To view the
presage of his coming fame ;
Meanwhile the thunder sounded on the
left, And thus confirm'd the omen.
Moreover, the augurial system of Romulus
was a pastoral rather than a civic
institution. Nor was it framed to
suit the opinions of the ignorant,
but derived from men of approved
skill, and so handed down to
posterity by tradition. Therefore Romulus
was himself an augur as well as
his brother Remus, if we may trust
the authority of Ennius. Both wish'd to
reign, arid both agreed to abide
The fair decision of the augury
Here Remus sat alone, and watch 'd for
signs Of fav'ring omen, while fair Eomulus
On the Aventine summit raised his
eyes To see what lofty flying
birds should pass. A goodly contest
which should rule, and which With
his own name should stamp the future
city. Now like spectators in the circus,
till The consul's signal looses from
the goal The eager chariots, so
the obedient crowd Awaited the
strife's victor and their king. The
golden sun departed into night, And
the pale moon shone with reflected ray,
When on the left a joyful bird
appear'd, And golden Sol brought back
the radiant day. Twelve holy forms
of Jove-directed birds Wing'd their
propitious flight. Great Romulus
The omen hail'd, for now to him
was given The power to found
and name th" eternal city. Now,
however, let us return to the
original point from which we have
been digressing. Though I cannot give
you a reason for all these separate
facts, and can only distinctly assert
that those things which I have spoken
of did really happen, yet have I
not sufficiently answered Epicurus and
Carneades by proving the facts themselves'?
Why may I not admit, that though
it may be easy to find principles
on which to explain artificial presages,
the subject of divine intimations is
more obscure? for the presages which
we deduce from an examination of a
victim's entrailsfrom thunder and lightning,
from prodigies, and from the stars,
are founded on the accurate observation
of many centuries. Now it is certain,
that a long course of careful
observation, thus carefully conducted for a
series of ages, usually brings with it
an incredible accuracy of knowledge; and
this can exist even without the
inspiration of the Gods, when it has
been once ascertained by constant obser
vation what follows after each omen,
and what is indicated by each
prodigy. The other kind of divination
is natural, as I have said before,
and may by physical subtlety of
reasoning appeal- referable to the nature
of the Gods, from which, as the
wisest men acknowledge, we derive and enjoy
the energies of our souls; and as
everything is filled and pervaded by
a divine intelligence and eternal sense,
it follows of necessity that the soul
of man must be influenced by its
kindred wTith the soul of the Deity.
But when we are not asleep, our
faculties are employed on the necessary
affairs of life, and so are hindered
from communication with the Deity by
the bondage of the body. There
are, however, a small number of
persons, who, as it were, detach
their souls from the body, and addict
themselves, with the utmost anxiety and
diligence, to the study of the nature
of the Gods. The presentiments of men
like these are derived not from
divine inspiration, but from human reason ;
for from a contemplation of nature,
they anticipate things to come, — as
deluges of water, and the future
deflagration, at some time or other,
of heaven and earth. There are
others who, being concerned in the
government of states, as we have
heard of the Athenian Solon, foresee
the rise of new tyrannies. Such we
usually term prudent men ; like Thales
the Milesian, who, wishing to convict
his slanderers, and to show that even
a philosopher could make money, if he
should be so inclined, bought up all
the olive-trees in Miletus before they
were in flower; for he had probably,
by some knowledge of his own,
calculated that there would be a
heavy crop of olives. And Thales is
said to have been the first man
by whom an eclipse of the sun
was ever predicted, which happened under
the reign of Astyages. L. Physicians,
pilots, and husbandmen have likewise pre
sentiments of many events : but I do
not choose to call this divination ;
as neither do I call that warning
which was given by the natural
philosopher Anaximander to the Lacedae monians,
when he forewarned them to quit their
city and their homes, and to spend
the whole night in arms on the plain,
because he foresaw the approach of a
great earthquake, which took place that
very night, and demolished the whole
town; and even the lower part of
Mount Taygetus was torn away
from the rest, like the stern
of a ship might be. In the same
way, it is not so much as a
diviner, as a natural philosopher that
we should esteem Pherecydes, the master
of Pythagoras who, when he beheld the
water exhausted in a running spring,
predicted that an earthquake was nigh
at hand. The mind of man,
however, never exerts the power of
natural divination, unless when it is
so free and disengaged as to be
wholly disentangled from the body, as
happens ia the case of prophets and
sleepers. Therefore, as I have said
before, Diceearchus and our friend
Cratippus approve of these two sorts
of divination, as long as it is
understood that, inasmuch as they proceed
from nature, though they may be the
highest, they are not the only kind.
But if they deny that there is
any force in observation, then by
such denial they exclude many things
which are connected with the common
experience and institutions of mankind.
However, since they grant us some,
and those not insignifi cant things,
namely, prophecies and dreams, there is
no reason why we should consider
these as very formidable antagonists,
especially when there are some who
deny the existence of divination
altogether. Those, therefore, whose minds,
as it were, despising their bodies,
fly forth, and wander freely through
the universe, being inspired and influenced
by a certain divine ardour, doubtless
perceive those things which those who
prophecy predict. And spirits like these are
excited by many influ ences that have
no connexion with the body, as those
which are excited by certain intonations
of voice, and by Phrygian melodies,
or by the silence of groves and
forests, or the murmur of torrents,
or the roar of the sea. Such
are the minds which are susceptible
of ecstasies, and which long beforehand
foresee the events of futurity; to
which the following lines refer: —
Ah, see you not the vengeance
apt to come, Because a mortal has
presumed to judge Between three rival
goddesses'? — he's doom'd To fall a victim
to the Spartan dame, More dreadful
than all furies. Many things have
in the same way been predicted by
pro phets, and not only in ordinary
language, but also In verses which
the fauns of olden times And
white-hair'd prophets chanted. It was
thus that the diviners; Marcius and
Publicius, are said to have sung
their predictions. The mysterious responses
of Apollo were of the same nature.
I believe also that there were
certain exhalations of certain earths, by
which gifted minds were inspired to
utter oracles. These, then, are
the views which we must entertain
of prophets. Divinations by dreams are
of a similar order, because presentiments
which happen to diviners when awake,
happen to ourselves during sleep. For
in sleep the soul is vigorous, and
free from the senses, and the
obstruction of the cares of the body,
which lies prostrate and deathlike; and,
since the soul has lived from all
eternity, and is engaged with spirits
innumerable, it therefore beholds all
things in the universe, if it only
preserves a watchful attitude, unencumbered
by excess of food or drinking, so
that the mind is awake during the
slumber of the body, — this is the
divination of dreamers. Here, then,
comes in an important, and far from
natural, but a very artificial
interpretation of dreams by Antiphon :
and he interprets oracles and prophecies
in the same way; for there are
explainers of these things just as
grammarians are expounders of poets. For,
as it would have been in vain
for nature to have produced gold,
silver, iron, and copper, if she had
not taught us the means of extracting
them from her bosom for our use
and benefit; and as it would have
been in vain for her to have
bestowed seeds and fruits upon men,
if she had not taught them to
distinguish and cultivate them, — for what
use would any materials whatsoever be
to us, if we had no means of
working them up? —thus with every useful
thing which the Gods have bestowed on
us, they have vouchsafed us the sagacity
by which its utility may be appre
ciated ; and so, because in dreams,
oracles, and prophecies there are many
things necessarily obscure and ambiguous,
some have received the gift of
interpretation of them. But by what
means prophets and sleepers behold those
things, which do not at the time
exist in sensible reality, is a great
question. But when we have once
cleared up those points which ought
to be investigated first, then the
other subjects of our examination will
be easier. For the discussion about
the Nature of the Gods, which you
have so clearly ex plained in your
second book on that subject, embraces
the whole question; for if we grant
that there are Gods, and that their
providence governs the universe, and that
they consult for the best management
of all human affairs, and that not
only in general, but in particular, — if
we grant this, which indeed appears
to me to be undeniable, then we
must hold it as a necessary
consequence that these Gods have bestowed
on men the signs and indications of
futurity. The mode, however, by which
the Gods endue us with the gift
and power of divination requires some
notice. The Porch will not allow that
the Deity can be in terested in
each cleft in entrails, or in the
chirping of birds. They affirm that
such interference is altogether indecorous—
unworthy of the majesty of the Gods,
and an incredible im possibility. They
maintain that from the beginning of
the world it has been ordained that
certain signs must needs precede certain
events, some of which are drawn from
the entrails of animals, some from
the note and flight of birds, some
from the sight of lightning, some
from prodigies, some from stars, some
from visions of dreamers, and some
from exclamations of men in frenzy:
and those who have a clear perception
of these things are not often
deceived. Bad con jectures and incorrect
interpretations are false, not because of
any imposture in the signs themselves,
but because of the ignorance of their
expounders. It being, therefore, granted
and conceded that there exists a certain
divine energy, by which human life is
supported and surrounded, it is not
hard to conceive how all that hap
pens to men may happen by the
direction of heaven; for this divine
and sentient energy, which expands throughout
the universe, may select a victim for
sacrifice, and may, by exterior agency,
effect any change in the condition of
its entrails at the period of its
immolation: so that any given
characteristic may be found excessive or
defective in the animal's body. For
by very trifling exertions nature can
alter, or new-model, or diminish many
things. And the prodigies which happened
a little before Caesar's death are of
great weight in preventing iis from
doubting this, — when on that very day
on which he first sat on the
golden throne and went forth clad in
a purple robe, when he was
sacrificing, no heart was found in
the intestines of the fat ox. Do
you then suppose that any warm-blooded
animal, unless by divine interference, can
live an instant without a heart 1
He was himself surprised at the
novelty of the phenomenon ; on which
Spuriuna observed that he had reason
to fear that he would lose both
sense and life, since both of these
proceed from the heart. The next day
the liver of the victim was found
defective in the upper extremity. Doubtless
the im mortal Gods vouchsafed Ceesar
these signs to apprize him of his
approaching death, though not to enable
him to guard against it. When,
therefore, we cannot discover in the
entrails of the victim those organs
without which the animal cannot live,
we must necessarily suppose that they
have been annihilated by a superintending
Providence at the very instant that
the sacrifice is offered. LI II. And
the same divine influence may likewise
be the cause why birds fly in
different directions on different occa
sions, why they hide themselves sometimes
in one place and sometimes in anothei',
and why they sing on the right
hand or on the left. For if
every animal according to its own
will can direct the motions of its
body, so as to stoop, to look
on one side, or to look up, and
can bend, twist, contract, or extend
its limbs as it pleases, and does
those things almost before think ing of
doing them, how much more easy is
it for a God to do so, whose
deity governs and regulates all things.
It is the Deity, too, which
presents various signs to us, many of
which history has recorded for us; as
for instance, we find it stated that
if the moon was eclipsed a little
before sunrise in the sign of Leo,
it was a sign that Darius should
be slain and the Persians be defeated
by Alexander and the Macedonians. And
if a girl was born with two
heads, it was a sign that there
was to be a sedition among the
people and corruption and adultery at
home. If a woman should dream that
she was delivered of a lion, the
country in which such an occurrence
took place would soon be subjected to
foreign domination. Of the same kind
is the fact mentioned by Herodotus,
that the son of Croesus spoke, though
the gift of speech was by nature
denied him; which prodigy was au
indication that his father's kingdom and
family would be utterly destroyed. And
all our histories relate that the
head of Servius Tullius while sleeping
appeared to be on fire, which was
a sign of the extraordinary events
which followed. As, therefore, a man
who falls asleep while his mind is
full of pure meditations, and all
circumstances around him adapted to
tranquillity, will experience in his dreams
true and certain presentiments; so also
the chaste and pure mind of a
waking man is better suited to the
observation of the course of the
stars, or the flight of birds, and
the intima tions of the truth to
be collected from entrails. And connected
with this principle is the tradition
which we have received concerning Socrates,
which is often affirmed by himself in
the books of his disciples— that he
possessed a certain divinity, which he
called a demon, and to which he
was always obedient, — a genius which never
com pelled him to action, but often
deterred him from it. The same
Socrates (and where can we find a
better authority ?) being consulted by
Xenophon, whether he should follow Cyrus
to the wars, gave him his counsel,
and then added these words, —" The
advice I give you is merely human
: in such obscure and uncertain
cases, it is best to consult the
oracle of Apollo, to whom the
Athenians have always pub licly appealed
in questions of importance." It
is likewise written of Socrates, that
having once seen his friend Crito
with his eye bandaged, and having
asked him what was the matter with
it, he received for answer, that as
he was walking in the fields, a
branch of a tree he had attempted to
bend sprang back, and hit him in
the eye. Upon this, Socrates replied,
" This is the consequence of
your not having obeyed me when I
recalled you, following the divine
presentiment, according to my custom."
Another remarkable story is told of
Socrates. After the battle in which
the Athenians were defeated at Delium, under
the command of Laches, he was obliged
to fly with that unfortunate general.
At length reaching a spot where three
ways met, he refused to pursue the
same track as the rest. When they
inquired the cause of his behaviour,
he said that he was restrained by
a God. The others, who left Socrates,
fell in with the enemy's cavalry.
Antipater has collected many other
instances of the admi rable divination
of Socrates, which I omit, for they
are quite familiar to you, and I
need not further enumerate them. I
cannot, however, avoid mentioning one fact
in the history of this philosopher,
which strikes me as magnificent, and
almost divine ; — namely, that when he
had been condemned by the sentence of
impious men, he said, he was prepared
to die with the most perfect equanimity;
because the God within him had not
suffered him to be afflicted with any
idea of o2 impending evil, either
when he left his home, or when
he appeared before the court. I think,
therefore, that true divination exists,
although those men are often deceived
who appear to proceed on con jecture,
or on artificial rule?. For men are
fallible in all arts, and we cannot
suppose tliey are infallible here. It
may happen that some sign, which has
an ambiguous signification, is received in
a certain one. It may happen that
some par ticular has escaped the
notice of the inquirer, or is
purposely concealed by him, because opposed
to his interest. I should, however,
consider my plea for divination suffi
ciently established, if only a few
well-authenticated cases of presentiment and
prophecies could be discovered; whereas, in
truth, there are many. I will even
declare without hesi tation, that a
single instance of presage and prediction,
all the points of which are borne
out by subsequent events— and that
definitely and regularly, not casually and
fortuitously — would suffice to compel an
admission of the reality of divi
nation from all reasonable minds. It
appears to me, moreover, that we
should refer all the virtue and power
of divination to the Divinity, as
Posi- donius has done, as before observed;
in the next place to Fate, and
afterwards to the nature of things.
For reason compels us to admit that
by Fate all things take place. By
Fate I mean that which the Greeks
call ei/mp^e'i'^, that is, a certain order
and series of causes — for cause linked
to caiise produces all things : and
in this connexion of cause consists
the constant truth which flows through
all eternity. From whence it follows
that nothing happens which is not pre
destined to happen; and in the same
way nothing is predes tined to
happen, the nature of which does not
contain the efficient causes of its
happening. From which it must be
understood that fate is not a mere
superstitious imagination, but is what is
called, in the lan guage of natural
philosophy, the eternal cause of things;
the cause why past things have
happened, why present things do happen,
and why future things will happen.
And thus we are taught by exact
observation, what consequences are usually
produced, by what causes, though not
invariably.. And thus the causes of
future events may truly be discerned
by those who behold them in states
of ecstasy or quiet. Since, then, all
things happen by a certain fate, (as
will be shown in another place.) if
any man could exist who could
comprehend this succession of causes in
his intellectual view, such a man
would be infallible. For being in
possession of a knowledge of the
causes of all events, he would neces
sarily foresee how and when all
events would take place. But as
no being except the Deity alone can
do this, man can attain no more
than a kind of presentiment of
futurity, by observing the events which
are the usual consequences of certain
signs. For those events that are to
happen in future do not start into
existence on a sudden. But the
regular course of time resembles the
untwisting of a cable, producing nothing
absolutely new, but all things in a
grand concatena tion or series of
repetitions. And this has been
observed by those who possess the
gift of natural divination, and by
those who study the regular successions
of certain things. For though they do
not always apprehend the causes, yet
they clearly discern the signs and
marks of the causes. And by
diligently investi gating and committing to
memory all such signs, and the
traditions of our ancestors concerning
them, they produce an elaborate system
of that divination which is termed
technical respecting the entrails of
victims, thunder and lightning, prodigies,
and celestial phenomena. We must not,
therefore, be astonished that those who
addict themselves to divination foresee
many events which have no place of
existence. For all things do even now
exist, though they are removed in
point of time. And as the vital embryo
of all vegetation exists in seeds,
from which they afterwards germinate, so
are all things even now hidden in
their causes, and perceived as hereafter
to happen by the mind when it
is thrown into an ecstasy, or relaxed
in sleep, and cool reason and
calculation is often granted a presenti
ment of them. And as the astrologers
who watch the risings, settings, and
various courses of the sun, moon, and
other stars, can predict long before
all their revolutions and phenomena ;
so those who have noted the series
and conse quence of events, with
constant and indefatigable atten tion,
during a very long period, do
generally, or (if that is too difficult)
at least occasionally, foresee with
certainty the things that are to come
to pass. Such are some of the
arguments derived from the nature of
fate, by which the reality of
divination may be proved. Another powerful
plea in favour of divination, may be
drawn from Nature herself, which teaches
us how great is the energy of
the mind when abstracted from the
bodily senses, as it is most
especially in ecstasy and sleep. For
even as the Gods know what passes
in our minds without the aid of
eyes, ears or tongues, (on which
divine omniscience is founded the feeling
of men, that when they wish in
silence for, or offer up a prayer
for anything, the Gods hear them,) so
when the soul of man is disengaged
from corporeal impe diments, and set
at freedom, either from being relaxed
in sleep, or in a state of
mental excitement, it beholds those wonders
which, when entangled beneath the veil
of the flesh, it is unable to
see. It may be difficult, perhaps,
to connect this piinciple of nature
with that kind of divination which we
have stated to result from study and
art. Posidonius, however, thinks that there
are in nature certain signs and
symbols of future events. We are
informed that the inhabitants of Cea,
according to the report of Heraclides
of Pontus, are accus tomed carefully
to observe the circumstances attending the
rising of the Dog Star, in order
to know the character of the ensuing
season, and how far it
will prove salubrious or pestilential.
For if the star rose with an
obscure and dim appearance, it proved
that the atmosphere was gross and
foggy, and its respiration would be
heavy and unwhole some. But if it
appeared bright and lucid, then that
was a sign that the air was
light and pure, and therefore healthful.
Democritus believed that the ancients
had wisely enjoined the inspection of
the entrails of animals which had
been sacrificed, because by their condition
and colour it is possible to
determine the salubrity or pestilential
state of the atmo sphere, and
sometimes even what is likely to be
the fertility or sterility of the
earth. And if careful observation and
practice recognise these rules as
proceeding from nature, then every day might
bring us many examples which might
deserve notice and remark; so
that the natural philosopher whom Pacuvius
introduces in his Chryses, seems to
me very ignorant of the nature of
things, wlien he says, — All those
who understand the speech of birds
And hearts of victims better than
their own, May be just listen'd to,
but not obey'd. Why should he
make such a remark here, when a
little after he speaks thus plainly
in a contrary sense 1 — Whatever
God may be, 'tis he who forms,
Preserves and nurtures all. Unto
himself Ho back absorbs all beings, —
evermore The universal Sire,— at once the
source And end of nature. Why,
then, since the universe is the sole
and common home of all creatures, and
since the minds of men always have
existed, and will exist, why, I say,
should they not be able to perceive
the consequences, and what is the
result indicated by each sign, and
what events each sign foreshows r(
These are the arguments which I
had to bring forward on the subject
of divination. For the rest, I in
nowise believe in those who predict
by lots, or those who tell fortunes
for the sake of gain, nor those
necromancers who evoke the manes, whom
your friend Appius consulted. Of little
service are the Morsian prophet, The
Haruspi of the village, the astrologer
Of the throng'd circus, or the
priest of Isis, Or the imposturous
interpreter Of dreams. All
these are but false conjurors, Who
have no skill to read futurity,
They are but hypocrites, urged on
by hunger ; Ignorant of themselves,
they would teach others, To whom
they promise boundless wealth, and beg
A penny in return, paid in
advance. Such is the style in
which Ennius speaks of those pre
tenders of divination; and a few
verses before, he lias affirmed that
though the Gods exist, they take no
care of the human race. I am of
a contrary opinion, and approve 01
divination, because I believe that the
Gods do watch over men, and admonish
them, and presignify many things to
them, all levity, vanity, and malice
being excluded. And when Quintus had
said this, You are, indeed, said I,
admirably prepared. When I have been considering,
as I frequentlj7 have, vnth deep and
prolonged cogitation, by what means I
might serve as many persons as
possible, so as never to cease from
doing service to my country, no
better method has occurred to me than
that of instructing my fellow-citizens in
the noblest arts. And this I natter
myself thai I have already in some
degree effected in the numerous works
which I have written. In the treatise
which I have entitled "
Hortensius," I have earnestly recommended
them to the study of philoso phy
; and in the four books of
Academic Questions, I have laid open
that species of philosophy which I
think the least arrogant, and at the
same time the most consistent and
elegant. Again, as the foundation of
all philosophy is the knowledge of
the chief good and evil which we
should seek or shun, I have
thoroughly discussed these topics in five
books, in order to explain the
different arguments and objections of the
various schools in relation thereto.1 In
five other books of Tusculan Questions,
I have explained what most conduces
to render life happy. In the first,
I treat of the contempt of death ;
in the second, of the endurance of
pain and sorrow ; in the third, of
mitigating melancholy; in the fourth, of
the other perturbations of the mind; and
in the fifth, I elaborate that most
glorious of all philosophic doctrines — the
all-sufficiency of virtue ; and prove that
virtue can secure our perpetual bliss
without foreign appliances and assistances.
When these works were completed, I
wrote three books on the Nature
of the Gods. I have discussed
all the different bearings and topics
of that subject, and now I proceed
in the composition of a treatise
on Divination, in order to give
1 He is here referring to the
treatise De Finibus. that subject the
amplest development. And if, when this
is finished, I add another on Fate,
I shall have abundantly examined the
whole of that question. To this
catalogue of my writings, I must
likewise add my six books on the
Republic, which I composed when I was
directing the government of the State.
A grand subject, indeed, and peculiarly
connected with philosophy, and one which
has been richly elaborated by Plato,
Aristotle, Theo- phrastus, and the whole
tribe of the Peripatetics. I must
not forget to mention my Essay on
Consolation, which afforded me myself no
inconsiderable comfort, and will, I trust,
be of some benefit to others. Besides
this, I lately wrote a work on
Old Age, which I addressed to Atticus
; and since it is owing to
philosophy that our friend Cato is
the good and brave man that he
is, he is well entitled to an
honourable place in the list of my
writings. Moreover, as Aristotle and
Theophrastus, two authors emi nently
distinguished both for the penetration and
fertility of their genius, have united
with their philosophy precepts like wise
for eloquence, so I think that I
too may class among my philosophical
writings my treatise on the Oratorical
Art. So there are three books on
Oratory, a fourth Essay entitled Brutus,
and a fifth named the Orator. Such
are the works I have already written,
and I am girding myself up to
what remains, with the desire (if I
am not hindered by weightier business)
of leaving no philosophical topic otherwise
than fully explained and illustrated in
the Latin language. For what greater
or better service can we render to
our country, than by thus educating
and instructing the rising generation,
especially in times like these, and
in the present state of morality,
when society has fallen into such disorders
as to require every one to use
his best exertions to check and
restrain it ? Not that I expect
to succeed (for that, indeed, cannot
be even hoped) in winning all the
young to the study of philo sophy.
I shall be glad to gain even a
few, the fruits of whose industry may
have an extended effect on the
republic. Indeed, I already begin to
gather some fruit of my labour, from
those of more advanced years, who are
pleased with my various books. By
their eagerness for reading what I
write, my ambition for writing is
from day to day more vehemently
excited. And indeed such individuals are
far more numerous than I could have
imagined. A magnificent thing- it will
be, and glorious indeed for the
Romans, when they shall no longer
find it necessary to resort to the
Greeks for philosophical literature. And
this desideratum I shall cer tainly
effect for them, if I do but
succeed in accomplishing my design.
To the undertaking of explaining
philosophy I was origi nally prompted by
disastrous circumstances of the state. For
during the civil wars I could not
defend the common wealth by professional
exertions; while at the same time I
could not remain inactive. And yet I
could not find anything worthy of
myself for me to undertake. My
fellow-citizens, therefore, will pardon me,
or rather will thank me; because when
Rome had become the property of one
man. I neither concealed myself, nor
deserted them, nor yielded to grief,
nor conducted myself like a politician
indignant at either an individual or
the times, — nor played the part of a
flatterer of, or courtier to, the
power of another, so as to be
ashamed of myself. For from Plato and
philosophy I had learnt this lesson,
that certain revolutions are natural to
all republics, which alternately come under
the power of monarchs, and democracies,
and aiistocracies. And when this fate
had befallen our own Commonwealth, then,
being deprived of my customary employments,
I applied myself anew to the study
of philosophy, doing so both to
alleviate my own sorrow for the
calamities of the state, and also in
the hope of serving my fellow-countrymen
by rny writings. And thus in my
books I continued to plead and to
harangue, and took the same care to
advance the interests of philosophy as
I had before to promote the cause
of the Republic. Now, however, since
I am again engaged in the affairs
of government, I must devote my
attention to the state, or I should
rather say, all my labours and cares
must be occupied about that ; and I
shall only be able to give to
philosophy whatever little leisure I can
steal from public business and public
employments. Of these matters, however, I
shall find a better occasion to
speak; let me now return to the
subject of divination. For when my
brother Quintus had concluded his arguments
on the subject of divination, con
tained in the preceding book, and we
had walked enough to satisfy us, we
sat down in my library, which,
as I before noticed, is in my
Lyceum. III. Then I said, — Quintus,
you have defended the doctrine of the
Stoics, respecting divination, with great
accuracy, and on the strictest Stoical
principles. And what particularly pleased
me was, that you supported your cause
chiefly by authorities, and those, too,
of great force and dignity, borrowed
from our own countrymen. It is now
my part to notice what you have
advanced. But I shall do so without
offering anything absolutely on one side
or the other, examining all your argu
ments, often expressing doubts and
distrusting myself. For if I assumed
anything I could say on this subject
as certain, I should play the part of
a diviner even while denying divination.
I am, no doubt, greatly influenced
by that preliminary question which
Carneades used to raise, — namely, What is
the subject matter of divination 1 Is
it things perceived by the senses, or
not 1 Such things we see, or
hear, or taste, or smell, or touch.
Is there, then, among such, anything
which we perceive more by some
foreseeing power, or agitation of the
mind, than through nature herself] Or could
a diviner, if he were blind as
Tiresias, somehow or other distinguish
between white and black 1 or if
he were deaf, could he distinguish
between the articulations and modulations
of voices ? Divi nation, therefore,
cannot be applied to those objects
which come under the cognisance of
the senses. Nor is it of much
use, even in matters of art and
science. In medicine for instance, if
a person is sick we do not call
in the diviner or the conjuror, but
the physician ; and in music, if we
wish to learn the flute or the
harp, we do not take lessons from
the soothsayer, but from the musician.
It is the same in literature,
and in all those sciences which are
matters of education and discipline. Do
you think that those who addict themselves
to the art of divination can thereby
inform us whether the sun is larger
than the earth or of the same size
as it appears, or whether the moon
shines by her own light or by a
radiance borrowed from the sun, or
what are the laws of motion obeyed
by these orbs, or by those other
five stars which are termed the
planets [None of those who pass for
diviners pretend to be able to
instruct mankind in these matters, nor can
they prove the 204 ON
DIVINATION. truth or falsehood of
the problems of geometry. Such
mat ters belong to the mathematician,
not to conjurors. And in those
questions which are agitated in moral
philosophy, is there any one with
respect to which any diviner ever
gives an answer, or is ever consulted
as to what is good, bad, or
indifferent ? For such topics properly
belong to philosophers. As to duties,
who ever consulted a diviner how to
regulate his behaviour to his parents,
his brethren, or his friends 1 or
in what light he should regard wealth,
and honour, and authority ? These
things are referred to sages, not
diviners. Again, as to the subjects
which belong to dialecticians, or natural
philosophers. What diviner can tell whether
there is one world or more than
one 1 what are the principles of
things from which all things derive
their being1? That is the science of
the natural philosopher. Or who asks
a diviner how to solve the difficulty
of a fallacy, or disentangle the
perplexity of a sorites, which we may
render by the Latin word acervalem
(an accumulation), though it is unnecessary
; for just as the word philosophy,
and many other Grecian terms, have
become naturalized in our language, so
this word sorites is already sufficiently
familiar among us. These subjects belong
to the logician, not to the diviner.
Again, if the question be, which
is the best form of govern ment,
what are the relative advantages or
disadvantages of such and such laws
and moral regulations, should we dream
of advising with a soothsayer from
Etruria, or with princes and chosen
men experienced in political matters 1
Now, if divination regards neither
those things which are perceived by
the senses, nor those which are
taught by art, nor those which are
discussed by philosophy, nor those which
affect the politics of the state, I
scarcely understand what can be its
object. It must either bear upon all
topics, or else some particular one
must be allotted to it in which
it may be exercised. Now common sense
certifies us that it does not bear
on all topics, and we are at a
loss to discover what particular topic,
or subject matter, it can embrace. It
follows, therefore, that divination does
not exist. V. There is a common
Greek proverb to this effect : — The
wisest prophet 's he who guesses best.
Will, then, a soothsayer conjecture what
sort of weather is coming better than
a pilot? or will he divine the
character of an illness more acutely
than a doctor ? or the proper
way to carry on a war better
than a general '? But I observe,
0 Quintus, that you have pnidently
dis tinguished the topics of divination
from those matters which lie within
the sphere of art and skill, and
from those which are perceived by the
observation of the senses, or by any
system. You have denned it thus : —
Divination is the pre sentiment and
power of foretelling or predicting those
things which axe fortuitous. But, in
the first place, you are only arguing
in a circle. For does not a
pilot, or a physician, or a general
foresee the probabilities of things
fortuitous as well as your diviner?
Can, then, any augur whatsoever, or
sooth sayer, or diviner, conjecture better
whether a patient will escape from
sickness, or a ship from peril, or
the army from the manoeuvres of the
enemy, than a physician, or pilot, or
general ? But you said that
these matters did not belong to the
diviner; but that men could foresee
impending winds or showers by certain signs
; and to confirm this argument, you
have cited certain verses of my
translation of Ai-atus. And yet these
atmospheric phenomena are fortuitous ; for
they only happen occasionally, and not
always. What, then, is this presentiment
of things fortuitous, which you call
divina tion, and to what can it
be applied? For those things of which
we can have a previous notion by
some art or reason, you speak of
as belonging not to diviners, but to
men of skill in them. Thus you
have left divination nothing but the
power of predicting those fortuitous things
which cannot be foreseen by any art
or any prudence. If, for example,
any one had, many years before,
predicted that Marcus Marcellus, who was
thrice consul, was to perish by a
shipwreck, he would, doubtless, have been
a true diviner, because such a fact
could not have been foreseen by any
other means than that of divination.
Divination, there fore, is a foreknowledge
of events which depend on fortune.
But can there be a just presentiment
of those things which do not admit
of any rational conjecture to explain
why they will happen? For what do we
mean when we say a thing happens
by chance, or fortune, or hazard, or
accident, but that something has happened
or taken place wnich might never have
happened or taken place at all, or
-which might have happened or taken
place in a different manner ? Now
how can that be fairly foreseen or
predicted which thus takes place by
chance, and the mere caprice of
fortune ? It is by reason that
the physician foresees that a malady
will increase, a pilot that a tempest
will descend, and a general that the
enemy will make certain diversions. And
yet these men, who have generally
good reasons on which their opinions
respecting relative probabilities are founded,
are themselves often deceived. As when
the husbandman sees his olive-trees in
blossom, he ventures to expect that
they will also bear fruit; nevertheless,
he is sometimes mistaken. Now, if
those who never assert anything but
from some probable conjecture founded on
reason, are often mistaken, what are
we to think of the conjectures of
those men who derive their presages
of futurity from the entrails of
victims, or birds, or prodigies, or
oracles, or dreams. I have not as
yet come to show how utterly null
and vain such signs are, as the cleft
of a liver, the note of a crow,
the flight of an eagle, the shooting
of a star, the voices of people
in frenzy, lots and dreams, of each
of which I shall speak in its turn
; at present I dwell only on
the general argument. How can it be
fore seen that anything will happen
which has neither any as signable cause,
or mark, to show why it will
happen 1 The eclipses of the
sun and moon are predicted for a
series of many years before they
happen, by those who make regular
calculations of the courses and motions
of the stars. They only foretell that
which the invariable order of natuie
will necessarily bring about. For they
perceive that in the un- deviating
course of the moon's motions, she
will arrive at a given period at
a point opposite the sun, and become
so exactly under the shadow of the
earth, which is the boundary of
night, that she must be eclipsed.
They likewise know, that when the
same moon comes between the earth and
the sun, the latter must appear
eclipsed to the eyes of men. They
know in what sign each of the
wandering stars will be at a future
pariod, and when each sign will rise
and set on any specific day. So
that you know on what principles
those men proceed who predict these
things. But what rational rule can
guide those men who predict the
discovery of a treasure, or the
accession to an estate 1 And by
what series of cause and effect are
the approach of events of this kind
indicated 1 If these events, and
others of the same kind, happen by
any kind of neces sity, then what
is there that we can suppose to
be brought about by chance or fortune
1 For nothing is so opposite to
regularity and reason as this same fortune
; so that it seems to me that
God himself cannot foreknow absolutely
those things which are to happen by
chance and fortune. For if he knows
it. ilien it will certainly happen;
and if it will certainly happen,
there is no chance in the matter.
But there is chance; therefore there is
no such thing as a pre sentiment
of the future. If, however, you
maintain that there is no such thing
as fortune, and that all things which
happen, and which are about to
happen, are determined by fate from all
eternity, then you must change your
definition of divination, which you have
termed the presentiment of thing's
fortuitous. For if nothing can happen,
or come to pass, or take place,
unless it has been determined from all
eternity that it shall happen at a
certain time what, chance can there
be in anything 1 And if there
is no such thing as chance, what
becomes of your definition of divination,
which you have called "a pre sentiment
of fortuitous events'?" although you
said that everything which happened, or
which was about to happen, depended
on fate. [Nevertheless, a great deal
is said on this subject of fate
by the Stoics. But of this elsewhere.
To return to the question at
issue. If all things happen by fate,
what is the use of divination. For
that which he who divines predicts,
will truly come to pass ; so that
I do not know what character to
affix to that circumstance of an
eagle making our friend King Deiotaris
renounce his journey; when, if he had
not turned back, he would have slept
in a chamber which fell down in
the ensuing night, and have been
crushed to death in the ruins. For
if his death had been decreed by
fate, he could not have avoided it
by divination ; and if it was not
decreed by fate, he could not have
experienced it. What, then, is the
use of divination, or what reason is
there why I should be moved by
lots, or entrails, or any kind of
prediction 1 For if in the first
Punic war it had beesettled by fate,
that one of the Roman fleets,
commanded by the consuls Lucius Junius
and Publius Clodius, should perish by
a tempest, and that the other should
be defeated by the Carthaginians, then
even if the chickens had eaten ever
so greedily, still the fleets must
have been lost. But if the fleets
would not have perished, if the
auspices had been obeyed, then they
were not destroyed by fate. But you
say that everything is owing to fate;
therefore there is no such thing as
divination. If fate had determined,
that in the second Punic war the
army of the Komans should be defeated
near the lake Thra- simenus, then
could this event have been avoided,
even if Flaminius the consul had been
obedient to those signs f and those
auspices which forbade him to engage
in battle'? Cer tainly it might.
Either, then, the army did not perish
by fate — for the fates cannot be changed,
— or if it did perish by fate
(as you are bound to assert), then,
even if Flaminius had obeyed the
auspices, he must still have been
defeated. Where, then, is the
divination of the Stoics 1 which is
of no use to us whatever to
warn us to be more prudent, if all
things happen by destiny. For do what
we will, that which is fated to
happen, must happen. On the other hand,
what ever event may be averted is
not fated. There is, there fore, no
divination, since this appertains to things
which are certain to happen; and
nothing is certain to happen, which
may by any means be frustrated.
Moreover, I do not even think that
the knowledge of futurity would be
useful to us. How miserable would
have been the life of King Priam
if from his youth he could have
foreseen the calamities which awaited his
old age ! Let us, however, leave
alone fables, arid come to facts that
are more near to us. I have
recounted, in my essay entitled "
Conso lation," the misfortunes which
have happened to the greatest men of
our commonwealth. Omitting, therefore, the
ancients, do you think that it would
have been any advantage to Marcus
Crassus, when he was flourishing with
the amplest riches and gifts of
fortune, to have foreknown that he
should behold his son Publius slain,
his forces defeated, and lose his own
life beyond the Euphrates with ignominy
and disgrace ? Or do you think
that Pompey would have experienced much
satisfaction in being thrice made consxil,
and having received three triumphs,
and having attained the summit of
glory by his heroic actions, if he
could have foreseen that he should be
assassinated in the deserts of Egypt
after the defeat of his army, and
that after his death those disasters
should happen which we cannot mention
without tears ? What do we
think of Caesar 1 Would it have
been any pleasure to Caesar to have
anticipated by divination, that one day,
in the midst of the throng of
senators whom he himself had elected,
in the temple of Victory built by
Pompey, and before that general's statue,
and before the eyes of so many
of his own centurions, he should be
slain by the noblest citizens, some
of whom were indebted to him for
their digni ties, — aye, slain under such
circumstances that not one of his
friends, or even of his servants,
would venture to approach him ? Could
he have foreseen all this, in what
wretchedness would he have passed his
life 1 It is, therefore, certainly
more advantageous for man to be
ignorant of future evils than to know
them. For it cannot be said, at
least not by the Stoics, that Pornpey
would not have taken up arms, nor
Crassus passed the Euphrates, nor Csesar
engaged in the civil war, if they
had foreseen the future; therefore the
end which they met with was not
in evitably ordained by fate. For you
insist upon it that all things happen
by fate, therefore divination would have
availed them nothing. It would even
have deprived them of all enjoy ment
in the earlier part of their lives;
for what gratification could they have
enjoyed if they had been always
thinking of their end I Therefore,
to whatever argument the Stoics resort
in defence of divination, their ingenuity
is always baffled. For if that which
is to happen may happen in different
mode;, then, indeed, fortune may have
great power; but that which is
fortuitous cannot be certain. If, on
the other hand, every event is
absolutely determined by fate, and the
time and cir cumstance in connexion
with which it is to take place,
what service can diviners render us
by informing us that very sad events
arc portended for us. They add, moreover,
that when we are duly attentive to
religious ceremonies, all things will fall
more lightly on us. But if everything
happens by fate, no religioxis ceremonies
cau lighten the event. Homer acknowledges
this, when he introduces Jupiter uttering
complaints that he cannot save the
life of his son Sarpedon against the
order of fate; and the same sentiment
is expressed in the Greek verse— Great
Destiny o'ermaster's Jove himself. It
appears to me that such a fate
as this is justly ridiculed by the
Atellane plays ; but on such a
serious subject we must not allow
ourselves to be facetious. I
therefore conclude with this observation.
If we cannot foresee anything which
happens by chance, since that thing
is necessarily uncertain, therefore there
is no divination; and if, on the
contrary, things that are to happen
can be foreseen because they happen
by an infallible fatality, there is
no divination, because you say divination
only relates to for tuitous events.
But what I have hitherto said
respecting divination may be looked upon
as a mere slight skirmishing of
oratory. I must now enter on the
contest in good earnest, and prepare to
encounter the most formidable arguments of
your cause. For you say that there
exist two kinds of divination, — one
artificial, the other natural. The
artificial consists partly in conjecture,
partly in continued observation. The
natural, on the other hand, is what
the mind lays hold of or receives
externally from the divinity, from which
we all derive the origin, and
fashioning, and preservation of our minds.
Under the artificial divination you
enumerate several varieties of divination
connected with the inspection of entrails,
the observation of thunderstorms and prodigies,
and the auguries of those who deal
in signs and omens. And under this
artificial class you include all kindsof
conjectural divination. As to the
natural species of divination, it appears
to be sent forth and to issue
either from a certain ecstasy of the
spirit, or to be conceived by the
mind when disengaged from the senses
and from cares by sleep. But you
suppose that all divination is derived
from three things God, Fate, and Nature.
But as you could give no sound
explanation, you laboured to confirm it
by a wonderful multitude of imaginary
examples, concerning which you must permit
me to say, that a philosopher ought
not to use evidences which may be
true through accident, or false and
fictitious through malice. It behoves you
to show, by reason and argument, why
each circtimstance happens as it does,
rather than by the events, especially
when they are such as I am
quite unable to give credit to.
XII. To begin then with the
Soothsayers, whose science I believe that
the interest of Religion and the
State requires to be upheld. But
as we are alone, it behoves us,
and myself more especially, to
examine the truth without partiality,
since I am in doubt on many
points. Let us proceed, if you
please, first to consider the inspec
tion of the entrails of victims. Can
you then persuade any man in his
senses, that those events which are
said to be signified by the entrails,
are known by the augurs in con
sequence of a long series of
observations [How long, I wonder ! For
what period of time can such
observations have been continued 1 What
conferences must the augurs hold among themselves
to determine which part of the
victim's entrails represents the enemy, and
which the people ; what sort of cleft
in the liver denoted danger, and what
sort presaged advantage? Have the augurs
of the Etrurians, the Eleans, the
Egyptians, and the Carthaginians arranged
these matters with one another ? But
that, besides that it is quite impossi
ble, cannot be imagined. For we see
that some interpret the auspices in
one way, and some in another, and
no common rule of discipline is
acknowledged among the professors of the
art; and certainly if some secret
virtue existed in the victim's entrails
which clearly declared the future, it
must either belong to the universal
nature of things, or be connected in
some way or other with the Deity
himself. But what com munication can
there exist between so great and so
divine a natuz-e of things, one so
beautiful, and so admirably diffused
throughout every part and motion, and
(I will not say) the gall of
the cock, (though that, indeed, is
said by many to be the most
significant of all signs,) but the
liver, or heart, or lungs of a
fat bullock 1 Can such things
possibly teach us the hidden mysteries
of futurity? Democritus, speaking as a
natural philosopher, than which no class
of men are more arrogant, on this
subject, trifles ingeniously enough. Man,
who knows not the common facts of
earth, Must waste his time in
star-gazing. He remarks, that the
colour and condition of the victim's
entrails may indicate the nature of
the pasturage, and the abundance or scarcity
of those things which the earth
brings forth. He even supposes they
may guide our opinions respecting the
wholesonieness or pestilential state of the
atmosphere. 0 happy man! such a
person can certainly never want amusement.
The idea of any one being so
enchanted with such trifling, as not
to see that this theory might be
plausible, if, indeed, the entrails of
all animals assumed the same appearance
and colour at one and the same
time ! But if we discover that
the liver of one animal is sound
and healthy, and that of another
withered and diseased at the same
moment, what indication can we draw
from the state and colour of the
entrails'? Does this at all resemble
the indications from which that Pherecydes,
in a case which you have cited,
predicted the approach of an earthquake
from the drying up of a spring?
It required a little confidence, I
think, after the earthquake had taken
place, to presume to say what power
had produced it ; [but] could they
even foresee that it would take place
at all from the appearance of a
running spring? Many such stories are
recounted in the schools, but we are
not obliged to believe the whole of
them. But even supposing that what
Democritus says is true, when do we
seek to know the general phenomena of
nature by an examination of entrails;
or when did soothsayers ever tell us
anything of the sort from such an
inspection? They warn us of danger
from fire or water. Sometimes they
predict that inheritances will be added
to our fortunes, and .sometimes that
we shall lose what we already
possess. They regard the cleft in the
lungs as a matter of vital importance
to our property and our very life ;
they in vestigate the top of the
liver on all sides with the most
scrupulous exactness, and if by any
chance they cannot dis cover it, they
affirm that nothing more disastrous could
have happened. It is impossible, as I
have before observed, that such a
system of observation can have any certainty
about it; such divination as this
nourished not among the ancients; it
is the invention of mere art, if,
indeed, there can be any art,
properly so called, of things unknown.
But what connexion has it with the
nature of things? And even if it
were united and joined therewith, so
as to form one harmonious whole,
which I see is the opinion of
the natural philosophers, Ulo and
especially of those who say that all
things that exist are but one whole ;
still what correspondence can there be
between the order of the universe and
the discovery of a treasure? For if
an increase of my wealth is indicated
by the entrails of a victim, and
this fact is a necessary link in
the chain of nature, then it follows,
in the first place, that we must
suppose that the entrails themselves form
other links; and secondly, that my
private gain is connected with the
nature of things. Are not the natural
philosophers ashamed to say such things
as these? For, although
there may be some connexion in the nature of things, which
I admit to be possible, — (for the Stoics
have collected many cases which they think
confirm the notion, as when they
assert that the little livers of
little mice increase in winter, and
that dry pennyroyal flourishes in the
coldest weather, and that the distended
vesicles, in which the seeds of its
berries are contained, then burst asunder;
that the chords of a stringed
instrument at times give notes different
from their usual ones; that oysters
and other shell-fish increase and decrease
with the growth and waning of the
moon ; and that trees lose their
vitality as the moon declines, just
as they dry up in winter, and
that this is the time to\cut them.
Why need I speak of the seas,
and the tides of the ocean, the
flow and ebb of which are said
to be governed by the moon ?
and many other examples might be
related to prove that some natural
connexion subsists between objects appa
rently remote and incongruous. Let us
grant this, for it does not in
the least make against our argument ;) —
granting, I say, that there is a
cleft of some kind in a liver, does
that indicate gain to any one? By
what natural affinity, by what harmony,
by what secret accord of nature, or,
to use the Greek term, by what
sympathy can you discern a necessary
relation between a cleft liver and my
gain, or between my gain and heaven
and earth, and the universal nature
of things ? I may even grant
you this, though I shall be greatly
damaging my argument if I allow that
there is any connexion between nature and
entrails. But suppose I make this
concession, how does it happen that
he who would obtain some benefit from
the Gods can discover, just when he
wishes, a victim exactly adapted to
his purpose ? I had thought this
objection was unanswerable, but see how
cleverly you get over it. I do
not blame you for this, I rather
commend your memory. But I am ashamed
of Antipater, Chrysippus, and Posidonius,
who all assert the same proposition — namely,
that the divine and sentient energy
which extends through the universe, directs
us even in the choice of the
victim by whose entrails we are to
frame our divinations. And to improve
upon this theory, you agree with them
in asserting that at the very instant
that the sacrifice is offered, a
certain appropriate change takes place in
the victim's entrails, so that we can
therein discover some sig nificant addition
or deficiency, since all things are
obedient to the will of the Gods.
Believe me, there is not an old
woman in the world so superstitious
as gravely to believe these things.
Can you imagine that the same
bullock, if chosen by one man, will
have the head of the liver, and
if chosen by another will not have
it 1 Can this same head come
and go at the instant just to
accommodate the individual who offers the
sacrifice 1 Do you not perceive that
there must be considerable chance in
the choice of the victim 1 and
in fact the thing speaks for itself,
that this must be the case. For
when one ill-omened victim is discovered
to have had no head to its
liver, it often happens that the one
which is offered immediately afterwards has
the most perfect entrails imaginable. What
then becomes of the menaces of the
first victim's entrails, or how have
the Gods been so suddenly appeased? But
you will say, that in the entrails
of the fat bull which Caesar offered,
there was no heart, and since it
was not possible that this animal
could have lived without a heart, we
must suppose that the heart was
annihilated at the instant of immolation.
How is it that you think it
impossi ble that an animal can live
without a heart, and yet do not
think it impossible that t its heart
could vanish so suddenly, nobody knows
whither? For myself, I know not how
much vigour in a heart is necessary
to carry on the vital function, and
suspect that if afflicted by any
disease, the heart of a victim may
be found so withered, and wasted, and
small, as to be quite unlike a
heart. But on what argument can you
build an opinion that the heart of
this same fat bullock, if it existed
in him before, disappeared at the
instant of immola-lion? Did the bullock
behold Ceesar in a heartless condition
even while arrayed in the purple, and
thus lose its own heart by mere
force of sympathy? Believe me, you
are betraying the city of philosophy
while defending its castles. In trying
to prove the truth of the auguries,
you are overturning the whole system
of physics. A victim has a heart,
and head of the liver : the moment
that you sprinkle him with meal and
wine they depart, some God carries
them off, some power destroys or
consumes them. It is not nature
alone, therefore, which causes the decay
and destruction of everything; and there
are some things which arise out of
nothing, and some which suddenly perish and
become nothing. What natural philosopher
ever said such a thing as this?
The soothsayers affirm it. Do you
then think that you are to believe
them rather than the natural philosophers?
XVII. Again, when you sacrifice to
several Gods at the same time, how
is it that the sacrifice is
favourably received by some, and is
rejected by others ? And what
inconsistency must there be among the
Gods, if they threaten by the first
entrails, and promise good fortune by
the second ! Or is there such strong
dissension among the Deities, even when
they are nearly related to each
other, that certain entrails bode good
when offered to Apollo, and evil when
offered to his sister Diana ? It
is clear that since the victims are
brought by chance, the entrails must
in the case of each sacrificer depend
upon what victim falls to his share,
and that very thing requires some
divination to know what victim falls
to each person's share, as, in the
case of lots, what is drawn by
each person. Then you will speak
of lots, though you are not
strengthen ing the authority of sacrifices
by comparing them to lots, but
weakening that of lots by comparing
them to sacrifices. Do you think, when
we send a messenger to ^Equime- lium
to bring us a lamb to sacrifice,
and the lamb which is brought to
me possesses entrails peculiarly accommodated
to the circumstances of the case,
that the messenger has been guided to
him not by chance, but by divine
direction ? For if you wish to
signify that in this case chance
interferes, as being some lot connected
with the will of the Gods, I am
sony that your friends the Stoics should
give the Epicureans such occasion to
ridicule them, for you know well how
they deride oil such ideas. And,
indeed, it is no hard matter to
be facetious on such an idea.
Epicurus, in order to show his wit
on the subject, introduced transparent airy
deities, residing, as it were, be
tween the two worlds as between two
groves, that they may avoid destruction
from the fall of either. These
deities, it seems, possess bodies like ourselves,
though I cannot find that they make
any use of them. Epicurus therefore,
who, by a roundabout argument of this
kind, takes away the Gods, naturally
feels no hesitation in taking away
divination also. But though he is
consistent with himself, the Stoics are not
; for as the God of Epicurus
never troubles himself with any business,
either regarding himself or others; he,
therefore, cannot grant divination to men.
On the other hand, the God of
the Stoics, even though lie does not
grant divination, must still regulate the
affairs of the universe and take care
of mankind. Why, then, do you
involve yourself in these dilemmas which
you can never disentangle ? For this
is the way in which, when they
are in a hurry, they usually sum
up the matter- — a If there are Gods,
there must be divination; but there
are gods, therefore there is
divination." It would be much more
plausible to say — " There is no
divination, there fore there are no
Gods." Observe how imprudently the
Stoics make this assertion, that if
there is no divination, there are no
Gods ; for divination is plainly discarded,
and yet we must retain a belief
in Gods. After having thus destroyed
divination by the in spection of
entrails, all the rest of the science
of the sooth sayers is at an end
; for prodigies and lightning follow
in the same category. With respect to
the latter, their predictions are founded
on a long series of observations,
while the interpretation of prodigies
proceeds chiefly on inference and
conjecture. What observations, then,, have
been made about lightning? The Etrurians,
forsooth, have divided heaven into sixteen
parts; for it was not very difficult
to double the four quarters, which we
recognise, into eight, and then to
repeat the process, so as by that
means to say from what direc tion
the lightning had come. But in the
first place, what difference does it
make ? Secondly, what does such a
thing intimate 1 Is it not
plain from the astonishment which was
at first excited in men's minds,
because they feared the thunder and
the hurling of the thunderbolt, that
they believed that they were the
immediate manifestations brought about by
the all-powerful ruler of all things,
Jupiter ? This is the reason of
the enactment in the public registers,
that the comitia of the people shall
not be held when Jupiter thunders and
lightens. It was enacted, perhaps with
a view to the interest of the
state, for our ancestors wished to
have pretexts for not holding the
comitia. Therefore, in the case of
the comitia, lightning is the only
vitiating irregularity. But in all other
matters it is a most favourable
auspice if it comes on the left
hand. But we will speak of the
auspices hereafter ; at present we will
confine ourselves to lightning. What can
be less proper for natural philosophers
to say, than that anything certain is
indicated by things which are uncertain
1 I cannot believe that you are
one of those who imagine that there
were Cyclopes in mount ^Etna who
forged Jove's thunderbolt, for it would
be wonderful indeed if Jupiter should
so often throw it away when he
had but one. Nor would he warn
men by his thunderbolts what they
should do or what thoy should avoid.
For the opinion of the Stoics
on this point is, that the
exhalations of the earth which are
cold, when they begin to flow abroad,
become winds ; and when they form
themselves into clouds, and begin to
divide and break up their fine
particles by repeated and vehement gusts,
then thunder and lightning ensue ; and
that when by the conflict of the
clouds the heat is squeezed out so
as to emit itself, then there is
lightning. Can we, then, look for any
intimation of futurity in a thing
which we see brought about by the
mere force of nature, without any
regularity or any determined pei'iods 1
If Jupiter wished that we should form
divinations by lightnings, would he throw
away so many flashes in vain ]
For what good does he do when
he throws a thunderbolt into the
middle of the sea, or upon lofty
mountains, which is very common, or upon
deserts, or in the countries of those
nations among which no meteorological
observations are made ] Oh ! but a
head was discovered in the Tybcr. As
if I affirmed that those soothsayers
had no skill ! What I deny is
only their divination. For the distribution
of the firma ment, which we have
just mentioned, and their various
observations, enable them to note the
direction from which the lightning has
proceeded, and where it falls. But no
reason can inform us of its
signification. You will, however, urge
against me my own verses — The
father of the Gods who reigns supreme
On high Olympus, smote his proper
fane, And hurl'd his lightnings
through the heart of Rome. At
the same time the statue of Natta
and the images of the Gods, and
Romulus and Remus, with that of the
beast who was nursing them, were
struck by the thunderbolt and thrown down
; and the answers of the soothsayers,
with reference to these prodigies, were
found perfectly correct. That also was
a surprising thing, that the statue
of Jupiter was placed in the Capitol,
two years later than it had been
contracted for, at the very time that
information of the conspiracy was being
laid before the senate. Will you,
then, (for this is the way you
are used to argue with me,) bring
yourself to uphold that side of the
question in opposition to your own
actions and writings ? You are
my brother, and all you say is
entitled to my respect. Yet what is
there here that offends you? Is it
the thing itself, which is of such
and such a character, or I myself,
who only wish to get at the
truth ? I therefore say nothing upon
it for the sake of contradiction, and
only seek from you yourself information
respecting all the prin ciples of the
art of soothsaying. But you have
involved yourself in an inextricable
dilemma; for foreseeing that you would
be hard pressed, when I should urge
you to explain the cause of every
divination, you made many excuses to
show why, when you were sure of
the fact, you did not inquire into
its principles and causes, — that the
question was, what was done, and not
why it was done ; as if I
granted that it was done at all,
or as if it were not the duty
of a philosopher to inquire into the
reason why every thing takes place.
At the same time you quoted my
prog nostics, and spoke of the
scammony, the aristoloch, and other herbs,
whose virtues were evident to you
from their effects, though the law of
their operation was unknown to
you. All this is, however, beside the main
question. For the Stoic Boethus, whose
name you have cited, and even our
friend Posidonius have investigated the
causes of prognostics, and though it
is not easy to discover the cause
of such occult mysteries, yet the
facts themselves may be observed and
animadverted upon. But as to the
statue of Natta and the tables of
the law which were struck by
lightning, what observations were made, or
what was there ancient connected with
the matter 1 The Pinarii Nattse are
noble, therefore danger was to be
feared from the nobility. This was a
very cunning device of Jupiter !
Romulus, represented by the sculptor as
sucking a she-wolf, was likewise smitten
by the lightning. Hence, according to
you, some danger to the city of
Rome was threatened. How cleverly does
Jupiter make us acquainted with future
events by such signs as these !
Again, his statue was being erected
at the very same time that the
conspiracy was being discovered in the
senate, and you conceive this coincidence
happened rather by the providence of
God than by any chance of fortune.
And you think that the statuary who
had contracted for the making of that
column with Torquatus and Cotta, was
not so long delayed in accomplishing
his work by idleness or poverty, but
by the special interposition of the
immortal Gods. Now I do not
absolutely deny that such might possibly
be the case; but I do not know
that it was, and wish to be
instructed by you. For when some
things appeared to me to have
happened by chance in the way in
which the sooth sayers had predicted,
you launched out into a long
discourse on the doctrine of chances,
saying that four dice thrown at hazard
may produce Venus by accident, but
that four hundred dice cannot produce
a hundred Venuses. In the first
place, I know no reason in the
nature of things why they should not
do even this ; but I will not
argue that point, for you have plenty
of similar examples, and talk about a
chance dashing of colours, the snout
of a pig, and many other similar
instances. You say that Carneades argued
in the same way about the head of
a little Pan ; as if that might
not have happened by chance, and as
if there must not be in all
marble the raw material of even such
a head as Praxiteles would have made.
For a perfect head is only formed
by cutting away. Praxiteles adds nothing
to the marble, but when much that
was superfluous is removed, and the
features are arrived at, then you
learn that that which is now polished
up was always contained within. Such
a figure, therefore, may have spontaneously
existed in the quarries of Chios. But
grant that this is a fiction, have
you never fancied that you could
discover in the clouds the figures of
lions and centaurs 1 Accident may, therefore,
some times imitate nature, though you
denied that just now. But as we
have sufficiently discussed divination by
entrails and lightning, we must now
consider portents and prodigies, in order
that we may leave no branch of
the system of the soothsayers untouched.
You have mentioned a wonderful story
of a mule that was delivered of
a colt; a strange event, because of
its extreme rarity. But if such a
thing were impossible, it would never
happen at all; and this may be
said against all sorts of pro digies,
that those things which are impossible
never happened at all; and if they
are possible, it need not surprise us
that they happen occasionally. Besides,
in extraordinary events, ignorance of their
causes produces astonishment; but in ordinary
events such igno rance occasions no
such result. The man who is
astonished if a mule brings forth a
colt, does not know how it is
that a mare brings forth a foal,
or indeed how, in any case, nature
effects the birth of a living animal;
but he is not surprised at what
he sees frequently, even if he does
not know why it happens; but if
that which he never beheld before
happens, then he calls it a prodigy.
In this case, is it a prodigy
when the mule conceives, or when she
brings forth 1 Perhaps the conception
may have been contrary to nature, but
after that her delivery is almost
necessary. But we have spoken enough
on this topic: let us examine the
origin of the establishment of soothsayers.
For when we are acquainted with it,
we shall be better able to judge
what degree of credit it is entitled
to. They tell us that as
a labourer one day was
ploughing in a field in the territory
of Tarquinium, and his ploughshare made
a deeper furrow than usual, all of a
sudden there sprung out of this same
furrow a certain Tages, who, as it
is recorded in the books of the
Etrurians, possessed the visage of a
child, but the prudence of a sage.
When the labourer was surprised at seeing
him, and in his astonishment made a
great outcry, a number of people
assembled round him, and before long
all the Etrurians came together at
the spot. Tages then discoursed in
the presence of an immense crowd, who
treasured up his words with the
greatest care, and after wards committed
them to writing. The information they
derived from this Tages was the
foundation of the science of the
soothsayers, and was subsequently improved
by the accession of many new facts,
all of which confirmed the same
principles. Here is the story that
the Etrurians give out to the world.
This record is preserved in their
sacred books, and from it their
augurial discipline is deduced. Now
do you imagine that we need a
Carneades or Epicurus to refute such
a fable as this1? Lives there any
one so absurd as to believe that
this (shall I say god, or man
1) was thus ploughed up out of
the earth 1 If he was a god,
why did he conceal himself under the
earth against the order of nature, so
as not to behold the light till
he was ploughed up] Could not that
same god have instructed mankind from
a station somewhat more elevated ?
And if this Tages was a man,
how could he have lived thus buried
and smothered in the earth 1 and
how could he have learnt the wonders
he taught to others ? But I am
even more foolish than those who
believe such nonsense, for thus wasting
so much time in refxiting them. There
is an old saying of Cato, familiar
enough to everybody, that " he
wondered that when one soothsayer met
another, he could help laughing." For
of all the events pre dicted by
them, how very few actually happen ?
And when one of them does take
place, where is the proof that it
does not take place by mere accident
1 When Hannibal fled to king
Prusias, and was eager to wage war
with the enemy, that monarch replied
that he dared not do so, because
the entrails of the sacrifice wore an
unfavourable aspect. " Would you,
then," said Hannibal, "rather trust
a bit of calf's flesh than a
veteran general?" And as to Caesar,
when he was warned by the chief
sooth sayer not to venture into
Africa before the winter, did he not
cross? If he had not done so, all
the forces of the enemy would have
assembled in one place. Why need I
enumeratethe responses of the soothsayers,
of which I could cite an infinite
number, which have either received no
accomplishment at all, or an accomplishment
exactly the reverse of the prediction
1 In this last Civil War, for
instance — good Heavens ! how often were
their responses utterly falsified by the
result ! How many false prophecies were
sent to us from Rome into Gi'eece
! How many oracles in favour of
Pompey ! For that general was not
a little affected by entrails and
prodigies. I have no wish to recount
these things to you, nor indeed is
it necessary, for you were present.
But you see that nearly all the
events took place in the manner
exactly contrary to the predictions. So
much for responses. Let us now say
a word or two on prodigies. You
have mentioned several things on this topic
which I wrote during my consulship.
You have brought up many of
those anecdotes collected by Sisenna before
the Mar- sian War, and many recorded
by Callisthenes before the un fortunate
battle of the Spartans at Leuctra, of
each of which I will speak
separately, as far as seems necessary;
but at present we must discuss of
prodigies in general. For what is
the meaning of this kind of divination —
this dreadful denouncing of impending calamities
— derived from the Gods 1 In the
first place, what is the object of
the Gods, in giving us prodigies and
signs which we cannot understand without
interpreters, and in advertising us of
disasters which we cannot avoid 1 But
even honest men do not act thus,
giving notice to their friends of
impending misfortune which they cannot
possibly avoid; and physicians, though they
are often aware of the fact, yet
never tell their patients that they
must needs die of the complaint from
which they are suffering. For the prediction
of an evil is only beneficial when
we can point out some means of
avoiding it or miti gating it.
What good, then, did these prodigies,
or their interpreters, do to the
Spartans, or more recently to the
Romans 1 If they are to be
considered as the signs of the Gods,
why were they so obscure ? For
if they were sent in order that
we might understand what was about to
happen, then it ought to have been,
declared intelligibly; and if we were
not intended to know, then they
should not have been given even
obscurely. As for all conjectures on which
this kind of divination depends, the
opinions of men differ so much from
each other that they often make very
opposite deductions from the same thing.
For as in legal suits, the plea
of the plaintiff is contrary to that
of the defendant, and yet both are
within the limits of credibility, — so in
all those affairs which only admit of
conjectural interpretation, the reasoning must
be extremely uncertain. And as for
those things which are caused at
times by nature, and at others by
chance, (some times, too, likeness gives
rise to mistakes,) it is very foolish
to attribute all these things to the
interpositions of the Gods, without
examining their proximate causes. You
believe that the Boeotian diviners of
Lebadia foreknew by the crowing of
the cocks that the victory belonged
to the Thebans, because these birds
only crow when they are vic torious,
and hold their peace when they are
beaten. Did, then, Jupiter give a
signal to so important a city by
the means of hens 1 But do
cocks only crow when they are vic
torious 1 At that time they were
crowing, and they had not conquered.
You say that this was a prodigy.
It would have been a prodigy, and
a very great one, if the crowing
had pro ceeded from fishes instead of
birds. But what hour is there of
day, or of night, when cocks do not
crow 1 and if they are sometimes
excited to crow by their joy in
victory, they may likewise be excited
to do the same by some other
kind of joy. Democritus, indeed,
states a very good reason why cocks
crow before the dawn; for, as the
food is then driven out of their
stomachs, and distributed over their whole
body and digested, they utter a
crowing, being satiated with rest. But
in the silence of the night, says
Ennius, " they indulge their throats,
which are hoarse with crowing, and
give their wings repose." As, then,
this animal is so much inclined to
crow of its own accord, what made
it occur to Callisthenes to assert
that the Gods had given the cocks
a signal to -crow; since either nature
or chance might have done it ?
It was announced to the senate that
it had rained blood, that the river
had become blackened with blood, and
that the statues of the immortal gods
were covered with sweat. Do you
imagine that Thales or Anaxagoras, or
any other natural philosopher, would have
given credence to such news? Blood
and sweat only proceed from the
animal body; there might have been
some discoloration caused by some 22
4 ox contagion of earth very like
blood, and some moisture may have
fallen on the statues from without,
resembling perspira tion, as \ve see
sometimes in plaster during the prevalence
of a south wind; and in time of
war such phenomena appeal- more numerous
and more important than usual, as men
are then in a state of alarm,
while they are not noticed in peace.
Besides, in such periods of fear and
peril, such stories are more easily
believed, and invented with more impunity.
We are, however, so silly and
inconsiderate, that if mice, which are
always at that work, happen to gnaw
anything, we immediately regard it as
a prodigy. So because, a little
before the Marsian war, the mice
gnawed the shields at Lanuvium, the
soothsayers declared it to be a most
important prodigy ; as if it could
make any difference whether mice, who
day and night are gnawing something,
had gnawed bucklers or sieves. For if
we are to be guided by such
things, I ought to tremble for the
safety of the commonwealth, because the
mice lately gnawed Plato's Republic in
my library; and if they had eaten
the book of Epicurus on Pleasure, I
ought to have expected that corn
would rise in the market. Are we,
then, alarmed if at any time any
unna tural productions are reported as
having proceeded from man or beast?
One of which occurrences, to be
brief, may be accounted for on one
principle. Whatever is born, of whatever
kind it may be, must have some
cause in nature, so that even though
it may be contrary to custom, it
cannot possibly be contrary to nature.
Investigate, if you can, the natural
cause of every novel and extraordinary
circumstance: — even if you cannot discover
the cause, still you may 'feel sure
that nothing can have taken place
without a cause ; and, by the
principles of nature, drive away that
terror which the novelty of the thing
may have occasioned you. Then neither
earthquakes, nor thunderstorms, nor showers
of blood and stones, nor shooting
stars, nor glancing torches will alarm
you any more. If you ask
Chrysippus to explain the laws hat
govern these phenomena, though he is
a great defender of divina tion, he
will never tell you that they have
happened by chance, but he will give
you a natural explanation of all of
them. For, as it has been before
stated, nothing can happen without a
cause, and nothing happens which is impossible;
iior, if that has happened which
could happen, ought it to be regarded
as a prodigy. Therefore there are no
such things as prodigies. For if we
place in the rank of prodigies every
rare occurrence, it follows that a
wise man is one of the greatest
prodigies. For I believe there are
fewer instances of wise men in the
world, than of mules which have
brought forth young. So this
principle concludes that that which cannot
take place in the nature of things
never does take place; and that that
which can take place in the nature
of things, is not a prodigy, and
therefore there are no prodigies at
all. Therefore a diviner and interpreter
of prodigies being con sulted by a
man who informed him, as a great
prodigy, that he had discovered in
his house a serpent coiled around a
bar, answered very discreetly, that there
was nothing very wonderful in this, but
if he had found the bar coiled
around the serpent, this would have
been a prodigy indeed. By this reply,
he plainly indicated that nothing can
be a prodigy which is consistent with
the nature of things. XXIX. Caius
Gracchus wrote to Marcus Pomponius, that
his father having caught two serpents
in his house, sent to consult the
soothsayers. Why were two serpents entitled
to such an honour more than two
lizards or two mice 1 Because these
are every day occurrences, you would
reply, while ser pents were comparatively
rare ; as if it signified how
often a thing which was possible took
place. But I marvel, if the release
of the female snake caused the death
of Tiberius Gracchus, and that of the
male was to be fatal to Cornelia,
why he let either of them escape.
For he does not record that the
soothsayers had told him what would
happen if he let neither of the
snakes escape. But it seems T.
Gracchus died soon after, doubtless of
some natural malady which destroyed his
constitution, and not because he had
saved the life of a viper. Not
that the infelicity of the haruspices
is so great that their predictions
are never fulfilled by any chance
whatever. And, I must confess, if I
could but believe it, I should
exceedingly wonder at the story which
you have cited from Homer respecting the
prediction of Calchas, who, from observing
the number of a flock of sparrows,
foretold the number of years that
would be expended in the siege of
Troy. DE NAT. ETC. Q 2-6
ON Of which conjecture Homer makes
Agamemnon1 speak thus, if I may
repeat you a translation of the
passage which. I made in a leisure hour Not for their grief
the Grecian host I blame ; But
vanqui.sh'd ! baffled ! oh, eternal
shame ! Expect the time to Troy's
destruction giv'n, And try the faith
of Calchas and of heav'n. What pass'd
at Aulis, Greece can witness bear,
And all who live to breathe this
Phrygian air, Beside a fountain's sacred
brink was raised Our verdant altars,
and the victims blazed ; ('Twas where
the plane-tree spreads its shades around)
The altars heaved ; and from the
crumbling ground A mighty dragon shot,
of dire portent; From Jove himself
the dreadful sign was sent. Straight
to the tree his sanguine spires he
roll'd, And curl'd around in many a
winding fold. The topmost branch a
mother-bird possest ; Eight callow infants
fill'd the mossy nest ; Herself the
ninth : the serpent as he hung,
Stretch'd his black jaws, and crush'd
the crying young; While hov'ring near,
with miserable moan, The drooping mother
wail'd her children gone. The mother
last, as round the nest she flew,
Seized by the beating wing, the
monster slew ; Nor long survived, to
marble turn'd he stands A lasting
prodigy on Aulis' sands. Such was the
will of Jove ; and hence we dare
Trust in his omen and support the
war. For while around we gazed with
wond'ring eyes, And trembling sought the
Pow'rs with sacrifice, Full of his
god, the rev'rend Calchas cried : Ye
Grecian warriors, lay your fears aside,
This wondrous signal Jove himself displays,
Of long, long labours, but eternal
praise. As many birds as by the
snake were slain, So many years the
toils of Greece remain ; But wait
the tenth, for llion's fall decreed.
Thus spoke the prophet, thus the
fates succeed. Now is not this
a curious mode of augury1? — to conjecture
by the number of sparrows eaten by
a serpent, the number of years
expended in the Trojan war. Why years
rather than months or days? And how
-was it that Calchas selected sparrows,
in which there is nothing supernatural,
for the signs of his prophecy 1
while he is silent about the serpent,
which 1 This is a mistake of
Cicero's. It is Ulysses who speaks.
The pas sage occurs in Iliad . JTU
changed, as it is said, into stone
(an event which is im possible).
Lastly, what analogy or relatkfe can
subsist between the sparrows seen and
the years predicted 1 As to
what you have said respecting the
serpent which appeared to Sylla while
he was sacrificing, I recollect the
whole circumstance ; and remember that
just as Sylla was about to attack
the enemy at Nola, he made a
sacrifice, and that at the moment the
victim was offered, a serpent issued
from beneath the altar, and that the
same day a glorious victoiy was
gained, — not l;wing to the advice of
the soothsayers, but to the skill of
the general. And prodigies of this kind
have nothing miracu lous in them ;
which, when they have taken place,
are brought under conjecture by some
particular interpretation, as in the case
of the grain of wheat found in
the mouth of Midas while an infant,
or that of the bees, which are
said to have settled on the lips
of the infant Plato. Such things are
less admirable for themselves than for
the conjectures they gave rise to ;
for they may either not have taken
place at the time specified, or have
been fulfilled by mere accident. I
likewise suspect the truth of the
report which you have related respecting
Roscius — namely, that a serpent was found
coiled round him when he was in
his cradle. But even if it be a
fact that a serpent was thus in
the cradle, it is not very wonderful,
especially in Solonium, where snakes are
in the habit of basking before the
fire. As to the interpretation which
the soothsayers gave of the circumstance,
that the child would become most
illustrious and most celebrated, I. am
astonished that the immortal Gods should
have announced such great glory to a
comedian, and preserved such an obsti
nate silence respecting Scipio Africanus.
You have related several prodigies
whicli happened to Flaminiusj for instance,
that his horse suddenly fell with him, —
there is surely nothing very astonishing
in that. Also, that the standard of
the first centurion could not easily
be pulled out of the earth. Perhaps the
standard-bearer was pulling but timidly at
the stick which he had fixed in
the ground with confident resolution. What
is the wonder in the horse of
Dionysius having escaped out of the
river, and in his afterwards having
had a swarm of bees cluster on
his mane? But because Dionvsius happened
to ascend the throne of Syracuse soon
after this event, what had happened
by chance was regarded as an
extraordinary prodigy and prognostic. You
go on to say, that at Lacedsemon,
the armour in the temple of Hercules
rattled. At Thebes the closed gates
of the temple of the same God
suddenly burst open of their own
accord, and the bucklers which had
been suspended on the walls fell to
the ground. Certainly nothing of this
kind could have happened without some
motion or impulse ; but why need we
impute such motion to the Gods rather
than call it an accident1? At Delphi,
you say, that a chaplet of wild
herbs suddenly appeared growing on the
head of Lysander's statue. Do you
think then that the chaplet of herbs
existed before any seed was ripened 1
These seeds were probably carried there
by birds, not by human agency, and
whatever is on a head may seem
to resemble a crown. And as to
the circum stance which you add, that
about the same time the golden stars
of Castor and Pollux, placed in the
temple of Delphi, suddenly vanished, and
could nowhere be discovei'ed ; this seems
to me not so much the work of
the Gods, as the sacrilege of
thieves. I certainly do wonder at
the roguery of the Ape of Dodona
being recorded in the Greek histories.
For what is less strange than that
a most mischievous animal should have
upset the urn, and scattered the
oracular lots ? The his torians,
however, deny that this prodigy was
followed by any disastrous event occurring
among the Lacedaemonians. Now to come
to what you have reported respecting
the citizen of Veii, who declared to
the Senate that if the. Lake Albanus
overflowed, and ran into the sea, Rome
would perish, and that if its course
were diverted elsewhere, Veii must fall.
Accordingly the water of the Alban
lake was subsequently drained away by
new channels, not for the safety of
the citadel and the city, but solely
for the benefit of the suburban
district. A short time afterwards, a
voice was heard, warning cer tain
individuals to beware lest Rome should
be taken by the Gauls; and upon
this they consecrated an altar on the
New Road, to Aius the Speaker. What,
then, did this Aius the Speaker speak
and talk, and derive his name from
that circumstance, when no one knew him
; and has he been silent ever
since he has had an habitation, an
altar, and a name 1 And the
same remark will apply to Juno the
Admonitress; for what warning has she
ever given us, except the one
respecting the full sow 1 XXXIII.
This is enough to say about
prodigies. Let me now speak of
auspices and of lots — those, I mean,
which are thrown at hazard, not those
which are announced by vati cination,
which we more properly call oracles,
and which we shall discuss when we
investigate divination of the natural
order; and after this we will
consider the astrology of the Chaldeans.
But first let us consider the
question of auspices. It is a very
delicate matter for an augur to speak
against them. Yes, to a Marsian
perhaps, but not to a Roman.
For we are not like those who
attempt to predict the future by the
flight of birds, and the observation
of other signs ; and yet I believe
that Romulus, who founded our city by
the auspices, considered the augural
science of great utility in
foreseeing matters. For antiquity
was deceived in many things, which
time, custom, and enlarged experience
have corrected. And the custom
of reverence for, and discipline and
rights of, the augurs, and the
authority of the college, are still
retained for the sake of their
influence on the minds of the common
people. And certainly the consuls P.
Claudius and L. Junius de served
severe punishment, who set sail in
defiance of the auspices ; for they
ought to have been obedient to the
esta blished religion, and not to
have rejected so obstinately the national
ceremonials. Justly, therefore, was one of
them condemned by the judgment of the
people, while the other perished by
his own hand. Flaminius, likewise, was
not duly submissive to the auspices;
and that was the reason, you say,
why he was defeated. But, the year
afterwards, Paullus was guided by them.
Did he the less for that perish
with his army in the battle of
Cannes 1 Even allowing the existence
of auspices, which I do not,
certainly those at present in use,
whether by means of birds or
celestial signs, are but mere semblances
of auspices, and not real ones. "
Quintus Fabius, I pray thee, assist
me in the auspices." He
answers, " I have heard."
The augurial officer among our
forefathers was a skilful and learned man
; now they take the first that
offers. For a man must needs be
skilful and learned who understands the
meaning of silence. For in auspices
we call that silence which is free
from all Irregularity. To understand this,
belongs to a perfect augur. It
sometimes happens, however, that when he
who wishes to consult the auspices
has said to the augur whom he
has chosen to assist him, " Say,
if silence is observed," the augur,
without looking above or around him,
answers immediately, " Silence appears
to be observed." On this the
consulter rejoins, " Tell me whether
the chickens are eating." The augur
replies, " They are eating." But
when the consulter fur ther demands,
" What kind of fowls are they,
and whence do they come?" the
augur answers, "The chickens were
brought in a cage by a person
who is termed a poulterer."
Such, then, are the illustrious birds
whom we call, forsooth, the messengers
of Jupiter ; and whether they eat or
not, what does it signify ? Certainly
nothing to the auspices. But since,
if they eat at all, some portion
of food must inevitably fall on the
ground and strike (pavire) the earth,
this was at first called terripavium,
then terripudium, and is now called
tripudium. When, therefore, the chicken
lets fall from its beak a particle
of its food, the augur declares that
the tripu dium solistimum is
consummated. What true divination can there
be in an auspice of this nature,
so artificially forced and tortured ?
which, we have a proof, was not
used among the most ancient augurs ;
for we have an ancient decree of
the college of augurs, that any bird
may make the tripudium. So that,
then, there would be an auspice if
the bird was free to show itself,
and the bird might appear to be
the messenger and interpreter of Jupiter.
But when a miserable bird is kept
in a cage, and ready to die of
hunger, — if such an one, when pecking
up its food, happens to let some
particle fall, can you think this an
auspice, or do you believe that
Romulus consulted the gods in this
manner ? Do you imagine that
those who pretend to augury apply
themselves at the present day to
discern the signs of heaven 1 No ;
they give their orders to the
poulterer. He makes his report. It
has been reckoned an excellent auspice
on all occasions, among the Romans,
when it thunders on the left hand,
except in reference to the Comitia ;
and this exception was doubtless contrived
for the benefit of the commonwealth,
in order that the chiefs of the
state might be the interpreters of
the Comitia in whatever concerns the judgments
of the people, the rights of the
laws, and the creation of the
magistrates. " But," you argue,
" in consequence of the letters
of Ti berius Gracchus, Scipio Nasica
and Caius Martins Figulus resigned the
consulship, because the augurs determined
that they had been irregularly
created." Well, who denies that there
is a school of Augurs 1 What I
deny is, that there is any such
thing as divination. " But the
soothsayers are diviners ; and after
Tiberius Gracchus had introduced them into
the senate, on account of the sudden
death of the individual whose office
it was to report the order of
the elections, they said that the
Comitia had not been legally
constituted." Now, in reference to
this case, observe that they could
not speak by authority of the
summoner of the president of the
centuries, for he was dead; and
conjecture without divination could say
that. Or perhaps what they said was
no better than the result of chance,
which prevails to a considerable extent
in all affairs of this nature. For
what could the sooth sayers of
Etruria know as to whether the tent
they observed was as it should be,
and whether the regulations of the
pomoerium, or circumvallation, were exactly
obeyed. For myself, I agree with
the sentiments of Caius Marcellus rather
than with those of Appius Claudius, who
were both of them my colleagues ; and
I think that, although the college
and law of augurs were first
instituted on account of the reverence
entertained for divination in ancient
times, they were afterwards maintained and
preserved for the sake of the state. Of
this, however, more elsewhere. At present,
let us examine the auguries of other
nations who have evinced therein more
superstition than art. They make use
of all kinds of birds for their
auspices; we confine ourselves to few:
and one set of omens are reckoned
unfavourable by them, and a different
set by us. King Deiotarus often
asked me for an account of our
discipline and system of divination, and
I asked him for information aoout
nis. Good heavens ! how different were
the two methods , in some instances,
so much so as to be downright
contradictory to one another. And he
had re course to augurs on all
occasions ; but how very seldom do we
apply to them unless the auspices are
required by the people ! Our
ancestors were unwilling to wage any
war without consulting the auspices. But
how many years have elapsed since
this ceremony has been neglected by
our proconsuls and propraetors ? They
never take auspices ; they do not
pass over rivers by the encouragement
of omens ; nor do they wait for
the intimation of the sacred chickens.
As to that divination which consists
in observing the flight of birds from
some elevated spot — once considered of so
much consequence in military expeditions, —
Marcus Marcellus, who was consul five
times, as well as imperator and chief
augur too, omitted it altogether. What
is become, then, of divina tion by
birds, which (as wars are carried on
by people who take no care about
any auspices) seems to be retained by
the city magistrates, while it is
renounced by our military com manders
? So much did Marcellus despise
auspices, that when he was proceeding
on any enterprise, he was accustomed
to travel in a closed litter, that
he might not be liable to be
hindered by them. And we augurs
now-a-days act much in the same way,
when, for fear of what is called a
joint auspice, we order the sacrificial
cattle to be separated from each
other. Not that I commend conduct
like this ; for to make these
contrivances, either that an auspice should
not happen at all, or that if
it happens it should not be seen, —
what is it but an attempt to
avoid the admonitions of Jupiter ? It
is ridiculous enough for you to
assert that this king Deiotarus did
not repent of having believed the
auspices which he experienced when he
went in search of Pompey, because he
had, by doing his duty, thus secured
the fidelity and friendship of the Romans
; for that praise and glory were
dearer to him than his kingdom and
possessions. I dare say they were ;
but this has nothing to do with
the auspices. Surely no crow could
inform him that it was a piece
of magnanimity to defend the liberty
of the Roman people. It was he
himself who felt spontaneously what he
did feel; and birds can do no
more than signify bare events, be
they for tunate or disastrous. Thus,
I conceive that Deiotarus in this
affair followed no other auspices than
those of conscience, which taught him to
prefer his duty to his interest. But
if the birds showed him that the
result would be prosperous, they certainly
deceived him ; for he fled from
the battle, together with Pompey, and
a grievous time it was for him.
From this general he was compelled to
separate — another affliction ; and, to
crown his troubles, he soon had
Csesar quartered upon him, both as a
guest and an enemy. What could be
more painful than this ? Lastly ,
Csesar, after having deprived him of
the tetrarchy of the Trogini, and
bestowed it on a certain Pergamenian
of his train, — after having likewise
deprived him of Armenia, which had
been granted him by the senate, — after
having been entertained by him with
most princely hospitality, left his
entertainer the king wholly stripped of
his possessions. It is needless to
add more. I will return to my
original subject. If we seek to know
events by those auspices which are
sought from birds, it appears by this
argument that no birds could truly
have predicted prosperity to king
Deiotarus. If we want to know our
duty, that is not to be sought
from augury, but from virtue. I say nothing, then,
of the augural staff of Romulus,
which you declare to have
remained unconsumed by fire in
the midst of a general conflagration ;
and pass over the razor of Attius
Navius, which is reported to have cut
through a whetstone. Such fables as
these should not be admitted into philosophical
discussions. What a philosopher has
to do is, first, to examine the
nature of the augural science, to
investigate its origin, and to pursue
its history. But how pitiful is the
nature of a science which pretends
that the eccentric motions of birds
are full of ominous import, and that
all manner of things must be done,
or left undone, as their flights and
songs may indicate ! How can their
inclinations to the right or left
determine the power of auspices ? and
how, when, and by wrhom were such
absurd regulations as these invented ?
The Etrurian soothsayers hold as the
author of their dis cipline a child
whom a ploughshare suddenly dug up
from a clod of the earth. Whom
do we Romans look upon as
the author of ours ? Is it
Attius Navius ? But Romulus and Remus
lived several years before him, and
they were both augurs, as we are
informed. Shall we call our system
the invention of the Pisidians, the
Cilicians, or the Phrygians 1 Shall
we, by speaking thus, call men devoid
of all civilization the authors of
divination ? " But," you say,
" all kings, people, and nations
use auspices ; " as if there was
anything in the world so very common
as error is, or as if you yourself,
in judging, were guided by the
opinion of the multitude. How few,
for instance, are there who deny that
pleasure is a good : most people
even think it the chief good. But
is the Stoic frightened from his
creed by their numbers ? or does
the multitude follow their authority in
many things 1 What wonder is there, then,
if in respect of auspices, and all
kinds of divinations, weak spirits are
affected by those popular superstitions,
though they cannot overturn the truth
1 And what uniformity or settled
agreement exists between augurs [The poet
Ennius, referring to our Roman augurs, says
— When on the left it thunders,
all goes well. In Homer, on the
contrary, Ajax,1 making some complaint or
other to Achilles about the ferocity
of the Trojans, speaks in this manner
— For them the father of the
Gods declares, His omens on the
right, his thunder theirs. So that
omens on the left appear fortunate to
us, while the Greeks and barbarians
prefer those on the right. Although I
am not unaware that our Romans call
prosperous signs sinistra, even if they
are in fact dextra. But certainly our
countrymen used the term sinistra, and
foreigners the word dextra, because that
usually appeared the best. How great,
however, is this contrariety ! Why need
I stop to mention that they use
different birds and different signs from
our selves? they take their observations
in a different way, and give answers
in a different way; and it is
superfluous to admit that some of
these modes are adopted through error,
some through superstition, and that they
often mislead. To this catalogue of
superstitions you have not hesi- 1
This is another piece of forge tfulness
on the part of Cicero.— See Iliad,
ix. 236. tated to add a number
of omens and presages. For instance,
you have quoted the words which
./Emilia addressed to Paulus, that Perses
had perished ; which Paulus received
as an omen of success. You quote
likewise the speech that Cecilia made
to her sister's daughter — " I yield
my place to you." Nor is this
all : you cite the phrase, favete
linguis (keep silence) ; and you
extol the prerogative presage derived from
the name of the person who takes
precedence in the elections of the
comitia. I call this being ingenious
and eloquent against yourself; for how,
if you attend to things like these,
can your mind be free and calm
enough to follow, not supersti tion,
but reason, as your guide in action
1 Is it not so ? If any
one, while speaking on his own
affairs, in the course of his common
conversation, drops a word that may
seem to you to bear on anything
which you are thinking or doing,
shall that circumstance inspire you with
either fear or energy? When Marcus
Crassus was embarking his army at
Brundu- sium, a. certain itinerant vender
of figs from Caunus cried out in
the harbour, " Will you buy any
cauneas /" Let us say, if you
please, that this was an omen against
Crassus's expedition ; for that it was
as much as to say, Cave ne eas
(Beware how you go), and that if
Crassus had obeyed the omen he would
not have perished. But if we regard
such omens as these, we shall have
to take notice of sneezes, the
breaking of a shoe-tie, or the
tripping over a pebble in walking.
It now remains for us to speak
of the lots, and the Chal dean
astrologers, vaticinations, and dreams. And
first let us speak of lots. What,
now, is a lot? Much the same as
the game of mora, or dice, ! and
other games of chance, in which luck
and fortune are all in all, and
reason and skill avail nothing. These
games are full of trick and deceit,
invented for the object of gain,
superstition, or error. But let us
examine the imputed origin of the
lots, as we did that of the
system of the soothsayers. We read
in the records of the Prsenestines,
that Numeriua Sufnicius, a man of high
reputation and rank, had often been
commanded by dreams (which at last
became very threaten- ! The Latin
has quod talos jacere, quod tesseras, —
tali being dice with four flat and
two round sides, and tesserce dice with
six flat sides. ing) to cut
a flint-stone in two, at a particular
spot. Being extremely alarmed at the
vision, he began to act in obedience
to it, in spite of the derision
of his fellow-citizens; and he had no
sooner divided the stone, than he
found therein certain lots, engraved in
ancient characters on oak. The spot
in •which this discovery took place
is now religiously guarded, being
consecrated to the infant Jupiter, who is
represented with Juno as sitting in
the lap of Fortune, and sucking her
breasts, and is most chastely worshipped
by all mothers. At the same
time and place in which the Temple
of For tune is now situated, they report
that honey flowed out of an olive.
Upon this the augurs declared that
the lots there instituted would be
held in the highest honour; and, at
their command, a chest was forthwith
made out of this same olive- tree,
and therein those lots are kept by
which the oracles of Fortune are
still delivered. But how can there be
the least degree of sure and certain
information in lots like these, which,
under Fortune's direction, are shuffled and
drawn by the hands of a child ?
How were the lots conveyed to this
particular spot, and who cut and carved
the oak of which they are composed
1 " Oh," say they, "
there is nothing which God cannot
do." I wish that he had made
these Stoical sages a little less
inclined to believe every idle tale,
out of a superstitious and miserable
solicitude. The common sense of men
in real life has happily succeeded in
exploding this kind of divination. It
is only the antiquity and beauty of
the Temple of Fortune that any longer
pre serves the Prsenestine lots from
contempt even among the vulgar. For
what magistrate, or man of any
reputation, ever resorts to them now?
And in all other places they are
wholly disregarded ; so that Clitomachus
informs us, that with refe rence to
this, Carneades was wont to say that
he had never been so fortunate as
when he saw Fortune at Prseneste. So
we will say no more on this
topic. Let us
now consider the prodigies of the
Chaldeans. Eudoxus, who was a disciple
of Plato, and, in the judgment of
the greatest men, the first astronomer
of his time, formed the opinion, and
committed it to writing, that no
credence should be given to the
predictions of the Chaldeans in their
calculation of a man's life from the
day of his nativity. Paneetius, who
is almost the only Stoic who rejects
astro logical prophecies, says that
Archelaus and Cassander, the two principal
astronomers of the age in which he
himself lived, set no value on
judicial astrology, though they were very
celebrated for their learning in other
parts of astronomy. Scylax of Halicarnassus,
a great friend of Pansetius, and a
first-rate astronomer, and chief magistrate
of his own city, likewise rejected
all the predictions of the Chaldeans.
But to proceed merely on reason,
omitting for the present the testimony
of these witnesses. Those who put
faith in the Chaldeans, and their
calcu lations of nativities, and their
various predictions, argue in this manner
: they affirm that in that circle
of constellations which the Greeks term
the Zodiac there resides a ceiiain
energy, of such a character that each
portion of its circum ference influences
and modifies the surrounding heavens ac
cording to what stars are in those
and the neighbouring parts at each season
; and that this energy is variously
affected by those wandering stars which
we call planets. But when they come
into that portion of the circle in
which is situated the rise of that
star which appears anew, or into that
which has anything in conjunction or
harmony with it, they term it the
true or quadrate aspect. And
moreover, as there happen at every
season of the year several astronomical
revolutions, owing to approximations and
retirements of the stars which we
see, which are affected by the power
of the sun, — they think it not
merely probable, but true, that according
to the temperature of the atmosphere
at the time must be the animation
and formation of children from their
mother's womb ; and that their
genius, disposition, temper, constitution,
behaviour, fortune, and destiny through
life depend upon that. What an
incredible insanity is this ! for every
error does not deserve the mere name
of folly. The Stoic Diogenes grants,
that the Chaldeans possess the power
of foreseeing certain events ; to the
limit, that is, of predicting what a
child's disposition and his particular
talent and ability are likely to be.
But he denies that the other things
which they profess can possibly be
known. For instance ; two twins may
re semble each other in appearance,
and yet their lives and fortunes may
be entirely dissimilar. Procles and
Eurysthenes, kings of the Laceduemonians,
were twin-brethren. But they did not
live the same number of years ; for
Procles died a year before his
brother, and much excelled him in the
glory of his actions. But I
question whether even that portion of
prophetic power which the worthy Diogenes
concedes to the Chaldeans, by a sort
of prevarication in argument, can be
fairly ascribed to them. For, as
according to them the birth of
infants is regulated by the moon, and
as the Chaldeans observe and take
notice of the natal stars with which
the moon happens to be in conjunction
at the moment of a nativity, they
are founding their judgment on the
most fallacious evidence of their eyes,
as to matters which they ought to
behold by reason and intellect. For
the science of Mathematics, with which
they ought to be acquainted, should
teach them the comparative proximity of
the moon to the earth, and its
re lative remoteness from the planets
Venus and Mercury, and especially from
the sun, whose light it is supposed
to borrow. And the other three
intervals, those, namely, which separate
the sun from Mars and from Jupiter
and from Saturn, and the distance
also between that and the heaven,
which is the bound and limit of
our universe, are infinite and immense.
What influence, then, can such distant
orbs ti'ansmit to the moon, or rather
to the earth? Moreover, when these
astrologers maintain, as they are bound
to maintain, that all children that
are born on the earth under the
same planet and constellation, having the
same signs of nativity, must experience
the same destinies, they make an
assertion which evinces the greatest
ignorance of astronomy. For those circles
which divide the heaven into hemispheres —
circles which the Greeks call horizons,
and the Latins finientes — perpetually vary
according to the spot from which they
are drawn ; and, therefore, the risings
and settings of the stars appear to
take place at different seasons to
dif ferent races of men. If,
then, the condition of the atmosphere
is affected by the energy and virtue
of the stars, sometimes in one way
and sometimes in another, how can
those children who are born at the
same time in different climates be
subject to the same starry influences
in various quarters of the globe 1
For instance, in the country which we
Romans inhabit, the dog-star rises some
days after the summer solstice, while
among the Troglodytes, a people of
Africa, it is said to rise before
it. So that if I were to grant
that the heavenly influences have an
effect upon all the children who are
born upon the earth, it would follow,
that all who are born at the
same time in different regions of the
earth, must be born not with the same
but with different inclinations according
to the different conditions of climate;
which, however, they by no means
admit. For they persist in maintaining
that all chil dren who are born
at the same period, have at their
nativity the same astrologicl destinies
allotted to them, whatever their native
country may be. But what folly is
it to imagine, that while attending
to the swift motions and revolutions
of heaven, we should take no notice
of the changes of the atmosphere
immediately around us, — its weather, its
winds, and rains — when weather differs so
much even in places which are nearest
to one another, that there is often
one weather at Tusculum and another
at Rome; as is especially remarked by
sailors, who, after having doubled a
cape, often find the greatest possible
change in the wind. When the
calmness or disturbed state of the
weather is so variable, is it the
part of a man in his senses to
say that these circumstances have no
effect on the births of children happen
ing at that moment, (as, indeed, they
have not,) and yet to affirm, that
that subtle and indefinable thing, which
cannot be felt at all, and can
scarcely be comprehended, — namely, the
conjuncture which arises from the moon
and other stars, does affect the
birth of children 1 — What? is it a
slight error, not to understand that
by this system that energy of seminal
principles which is of so much
influence in begetting and procreating the child
is utterly put out of sight? — for
who can help observing that the
parents impress on their children, to
a great extent, their own forms,
manners, features, and gestures. Now this
could hardly happen if it were not
the power and nature of the parents
which was the efficient cause, but
the condition of the moon and the
temperature of the heavens. Why need
I press the argument that those who
are born at one and the same
moment, are dissimilar in their nature,
their lives, and their circumstances?
Besides, is there any doubt that
many persons, though they were born
with great bodily defects, are never
theless afterwards cured of them, and set
right by the self- corrective power
of their nature, or by the attention
of their nui-ses, or the skill of
their physicians? or that many chil
dren have been born so tongue-tied
that they could not speak, and yet
have been cured by the application of
the knife'? Many likewise by meditation
or exercise have removed their natural
infirmities. Thus Phalereus records that
Demos thenes when young could not
pronounce the letter R; but afterwards
by constant practice he learnt to
articulate it perfectly. Now, if such
defects had been occasioned by the
influence of the stars, nothing could
have altered them. Need I say
more? Does not difference of situation
make races of men different 1 It
is easy enough to give a list
of such instances; and to point out
what differences exist be tween the
Indians and Persians, the ^Ethiopians and
Syrians, in respect both of their persons
and characters, so as to present an
incredible variety and dissimilarity. And
this fact proves, that the climate
influences the nativities of men far
more than the aspect of the moon
and stars. For though some pretend
that the Chaldean astrologers have verified
the nativities of children by calculations
and experi ments in the cases of
all the children who have been born
for 470,000 years, this is a mistake.
For had they been in the habit
of doing so, they would never have
given up the practice. But. as it
is, no author remains who knows of
such a thing being done now, or
ever having been done. You see that
I am not using the arguments of
Carneades, but those rather of Pantetius,
the chief of the Stoics But answer
me now this question. Were all those
persons who were slain in the battle
of Cannae born under the same
constellation, as they met with one
and the same end? Again, have those
men who are singular in their genius
and courage, a separate, some peculiar
star of their own too 1 For
what moment is there in which a
multitude of persons are not born?
and yet no one has ever been
like Homer. And if the aspect
of the stars and the state of the
firma ment influenced the birth of
every being, it should, by parity of
reasoning, influence inanimate substances; yet
what can be more absurd than such
an idea? I grant, indeed, that Lucius
Tarutius of Firma, my own personal
friend, and a man particularly well
acquainted with the Chaldean astrology,
traced back the nativity of our own
city, Rome, to those equinoctial days
of the feast of Pales in which
Romulus is reported to have begun its
foundations, and asserted that the moon
was at that period in Libra, and
on this discovery, he hesitated not
to pronounce the destinies of Rome.
Oh, the mighty power of delusion !
Is even the b'irth-day of a city
subject to the influence of the stars
and moon'? Granting even that the
condition of the heavens, when he
draws his first breath, may influence
the life of a child, does it
follow that it can have any effect on
brick or cement, of which a city
is composed? Why need I say
more? Such ideas as these are refuted
every day. How many of these Chaldean
prophecies do I remember being repeated
to Pompey, Crassus, and to Caesar himself
! according to which, not one of
these heroes was to die except in
old age, in domestic felicity, and
perfect renown ; so that I wonder
that any living man can yet believe
in these impostors, whose predictions they
see falsified daily by facts and
results. -It only remains for us
now to examine those ttfo sorts of
divination which you term natural, as
distin guished from artificial — namely,
vaticinations and dreams. With your permission,
brother Quiutus, we will now treat of
these. I shall be very well
pleased to hear you, (answered Quintus,)
for I entirely agree with all you
have hitherto advanced, and, to tell
you the trut, although I have had
my feelings on the subject strengthened
by your arguments, yet of my own
accord I looked upon the opinion of
the Stoics respecting divination as rather
too superstitious, and was more inclined
to favour the arguments which have been
adduced by the Peripatetics, and the
ancient DicEearchus. and Cratippus, who now
flourishes, who all maintain that there
exists in the minds of men a
certain oracular and pro phetic power
of presentiment, whereby they anticipate
future events, whether they are inspired
with a divine ecstasy, or are r.s
it were disengaged from the body, and
act freely and easily during sleep. I
wish therefore to know what is your
opinion respecting these vaticinations and
dreams, and by what ingenious devices
you mean to invalidate them. When
Quintus had thus spoken, I proceeded
again to speak, starting afresh, as
it were, from a new beginning.
I am very well aware, brother
Quintus, I replied, that you have
always entertained doubts respecting the
other kinds of divination; but that
you are very favourable to the two
natural kinds — namely, ecstasy and dreams, which
appear to proceed from the mind when
at liberty. T will therefore tell you
my idea very candidly respecting these
two species of divination, after I
have examined a little the sentiment
of the Stoics, and espe cially of
our friend Cratippus, on this subject.
For you said that Cratippus, Diogenes,
and Antipater summed up the question
in this manner : — " If there are
Gods, and they do not inform men
beforehand respecting future events, either
they do not love men, or do not
know what is going to happen; or
they think that the knowledge of the
future would be of no service to
mankind; or they believe it incon
sistent with the majesty of Gods to
reveal to men the things that must
come to pass; or, lastly, we must
believe that even the Gods themselves
are incapable of declaring them. But
we cannot say that the Gods do
not love man, for they are
essentially benevolent and philanthropic. And
they cannot be ignorant of those
things, which they themselves have
appointed and designed : neither can
it be uninteresting or unimportant to
us to know what must happen to
us, for we should be more prudent
if we did know. Nor can the
Gods think it inconsistent with their
dignity to advertise men of future
events, for nothing can be more
sublime than doing- good. Nor are
they unable to perceive the future
before hand. If, therefore, there are
no Gods, they do not declare the
future to us; but there are Gods,
therefore they do declare. And if the
Gods declare future events to us,
they must have furnished us with
means whereby we may appre hend them,
otherwise they would declare them in
vain; and if they have given us
the means of apprehending divination, then
there is a divination for us to
apprehend — therefore there is a divination."
0 acutest of men, in what
concise terms do they think that they
have settled the question for ever!
They assume premises to draw their
conclusion from, not one of which is
granted to them. But the only conclusion
of an argument which can be approved,
is one in which the point doubted
of is established by facts which are
not doubtful. L. Do you not see
how Epicurus, whom the Stoics forsooth
term a blunderer, reasons in order to
prove that the universe is infinite
in the very nature of things ?
That which is finite, says he, has an
end. Every one will concede this.
What ever has an end, may be
seen externally from something else. This
also may be granted him. Now that
which includes al, cannot be discerned
externally from anything else. This
proposition likewise appears undeniable.
Therefore that which includes all, having
no end, is necessarily infinite. Thus
by the proposition which we are
compelled to admit, he clearly proves
the point in question. Now this
is just what you dialecticians have
not yet done in favour of divination
; and you not only bring forward
no pro position as your premises, so
self-evident as to be universally admitted
; but you assume such premises as,
even if they be granted, your desired
conclusion would be as far as ever
from following. For instance, your first
proposition is this: If there are
Gods they must needs be benevolent.
Who will grant you this 1 Will Epicurus,
who asserts that the Gods do not
care about any business of their own
or of others ? or will our own
countryman Ennius, who was applauded by
all the Romans, when he said —
I've always argued that the Gods exist,
But that they care for mortals I deny
; and then gives reasons for
his opinion; but it is not neces
sary to quote him further. I have
said enough to show that your friends
assume as certain, propositions which are
matters of doubt and controversy. The
next proposition is this, That the
Gods must needs know all things,
because they have made all things.
But how great a dispute is there
as to this fact among the most
learned men, several of whom deny
that all things were created by the
immortal Gods! Again, they assert,
that it is the interest of man
to know those things which are about
to come to pass. But Dicsear- chus
has written a great book to prove
that ignorance of futurity is better
than knowledge of futurity. They deny that
it is inconsistent with the majesty
of the Gods to look into every
man's house, forsooth, so as to see
what is expedient for each individual.
Nor is it possible, say they, for
them to be ignorant of the future. This
is denied by those who will not
allow that what is future can be
certain. Do not you see, therefore,
that they have assumed as certain and
admitted axioms, things which are doubtful
? After which, they twist the
argument about and sum it up thus :
" Therefore, there are no Gods ;
and they do not grant men intimations
of the future." And, having settled
the question thus, to their own
satisfaction, they add, " But there
are Gods ;" a fact which is
not admitted by all men ; "
there fore, they do grant
intimations." Even that consequence I
cannot see ; for they may grant
no intimations of the future and yet
exist as Gods. Again, it is
asserted ; If the Gods grant
intimations to men respecting future
events, they must grant some means of
explaining these intimations. But surely
the contrary may be the case ; for
the Gods may keep to themselves the
mean ing of the signs which they
impart to men ; for else, why should
they teach it to the Etrurians rather
than to the Romans? Again, they
argue, that if the Gods have given
men the means of understanding the
signs they impart, then the existence
of divination is manifest. Biit grant
that the Gods do give such means,
what does it avail, if we happen
to be incapable of receiving them 1
Last of all, their conclusion is ;
Therefore, there certainly is such a
thing as divination. It may be their
conclusion, but it is not proved;
for, as they themselves have taught
us, •' false premises cannot produce
a true result." Therefore, the whole
conclusion falls to the ground. Let
us now consider the arguments of that
most excellent man, our friend Cratippus.
As, says he, the use and function
of sight cannot exist without the eyes —
and yet the eyes do not always perform
their office, — and, as he who has
once enjoyed correct sight, so as to
see what truly exists, is conscious
of the reality of vision ; — so, if
the practice of divination cannot exist
without the power of divination — and
though in the exercise of this power
of divination some errors may occur,
and the diviner may be misled so
as not to foresee the truth ;
yet the existence of divination is
sufficiently attested by the fact that some
true divinations have been made, containing
such exact predictions of all the
particulars of future events, that they
can never have been made by chance, —
of which numerous instances might be
cited. The exist ence of divination
must therefore be admitted. The
argument is neatly and concisely stated.
But Cra- tippus twice assumes what he
wishes to prove ; and even if
we were willing to grant him very
large concessions, we could not possibly
agree with his conclusions. His
argument is this : Though the eyes
should sometimes possess very imperfect
sight, yet, provided they sometimes see
clearly, it is evident that the power
of vision is in them. On the
same principle, if any one has ever
once uttered a true divination, he
must always be considered as possessing the
faculty of divining, even when he
blunders. LIII. Now I entreat you,
my dear Cratippus, to consider how
little is the resemblance between these
two cases. To me there is none
at all. The eyes which see clearly
exert no more than their natural
faculty of sight. But minds, if they
have sometimes truly foreseen future
events, either in ecsta sies or
dreams, have done so by fortune and
accident ; unless, indeed, you imagine
those who believe that dreams are but
dreams, will grant you that when they
happen to dream any thing that is
true, it is no longer the effect
of chance. But we may concede
for the present these two assumptions
of Cratippus, which the Greek dialecticians
would call lem mata. But we prefer
speaking in Latin ; still the presump
tion, which they term prolepsis, cannot
be granted. Cratippus goes on
assuming premises in this manner :
There are, says he, presentiments
innumerable which are not fortuitous. Now
this we absolutely deny. See how
great is the magnitude of the
difference between us. Not being able
to agree with his premises, I assert
that he has drawn no conclusion. Oh,
but perhaps it is very impudent of
us not to concede a point which
is so clear ! But what is clear
? " Why," he replies, "
that many predictions are fulfilled." Yes
; but are there not many more
which are not fulfilled ? Does not
this very variation, which is the
peculiar property of fortune, teach us
that fortune, not nature, regulates such
predictions ? Moreover, if your
conclusion is true, 0 renowned Cratip-
pus ! — for to you I address myself —
do not you perceive that the
soothsayers, and those who predict by
thunder and light ning, and the
interpreters of prodigies, and the augurs,
and the Chaldean astrologers, and those
who tell fortunes by drawing lots,
will all bring forward the same
argument as yourself in their own
favour? Not one of these men has
been so unfortunate as never on any
occasion to find his pre dictions verified.
This being the case, you must either
admit all the other kinds of
divination which you now most properly
reject; or, if you absolutely condemn
them, I do not see how you will
be able to defend those two which
you retain as favourable exceptions. For
on the same principle that you
maintain these, the others also may
be true which you discard. LIV.
But what authority has this same
ecstasy, which you choose to call
divine, that enables the madman to
foresee things inscrutable to the sage,
and which invests with divine senses
a man who has lost all his
human ones 1 We Romans preserve
with solicitude the verses which the
Sibyl is reported to have uttered
when in an ecstasy, — the interpreter of
which is by common report believed to
have recently uttered certain falsities in
the senate, to the effect that he
whom we did really treat as king
should also be called king, if we
would be safe. If such a prediction
is indeed contained in the books of
the Sibyl, to what particular person
or period does it refer ? For,
whoever was the author of these
Sibylline oracles, they are very
ingeniously com posed ; since, as all
specific definition of person and period
is omitted, they in some way or
other appear to predict everything that
happens. Besides this, the Sibylline
oracles are involved in such profound
obscurity, that the same verses might
seem at different times to refer to
different subjects. It is evident,
however, that they are not a song
composed by any one in a prophetic
ecstasy, as the poem itself evinces,
being far less remarkable for enthusiasm
and inspiration than for technicality and
labour ; and as is especially proved
by that arrangement which the Greeks
call acrostics — where, from the first
letter of each verse in order, words
are formed which express some particular
meaning ; as is the case with some
of Ennius's verses, the initial letters
of which make, ""Which Ennius
wrote." But such verses indicate
rather attention than ecstasy in those
who write them. Now, in the
verses of the Sibyl, the whole of
the paragraph on each subject is
contained in the initial letters of
every verse of that same paragraph.
This is evidently the artifice of a
practised writer, not of one in a
frenzy ; and rather of a diligent
mind than of an insane one.
Therefore, let us con sider the Sibyl
as so distinct and isolated a
character, that, according to the ordinance
of our ancestors, the Sibylline books
shall not even be read except by
decree of the senate, and be used
rather for the putting down than the
taking up of religious fancies. And
let us so arrange matters with the
priests under whose custody they remain,
that they may pro phesy anything
rather than a king from these
mysterious volumes ; for neither Gods
nor men any longer tolerate the
notion of restoring kingly government at
Rome. LV. But many people, you
say, have in repeated instances uttered
true predictions ; as, for example,
Cassandra, when she said, " Already
is the fleet,'' ' &c. ; and in a
subsequent prophecy, "Ah! see you
not?" &c. Do you then expect
me to give credence to these fables
1 I will grant that they are as
delightful as you please to call them, —
that they are polished up with every
conceivable beauty of language, sentiment,
music, and rhythm. LuL we are not
bound to invest fictions of this kind
with any authority, or to give them any
belief. And, on the same principle,
I do not think any one bound to
pay any attention to such diviners as
Publicius (whoever he may be), or
Martius, or to the secret oracles of
Apollo ; of which some are notoriously
false, and others uttered at i-an-
dom, so that they command little
respect, I will not say from learned
men, but even from any person of
plain common sense. " What !"
you will say, " did not that
old sailor of the fleet of Coponius
predict truly the events which took
place ?" No doubt he did ; but
they happened to be those very things
which at the time everybody thought
most likely to ensue. For we were
daily hearing that the two armies
were situated near each other in Thessaly
; and it appeared to us that
Caesar's army had the greater audacity,
inasmuch as it was waging war against
its own country, and the greater
strength, being composed of veteran
soldiers. And as to the battle, there
was not one of us who did not
dread the result, though, as brave
men should, we kept our anxiety to
ourselves, and expressed no alarm.
What wonder, however, was it that
this Greek sailor was forced from all
self-possession and constancy, as is very
com mon, by the greatness of his terror
and affright ; and that, being driven
to distraction by his own cowardice,
he uttered those convictions when raving
mad which he had cherished when yet
sane ? Which, in the name of
Gods and men, is most likely; that
a mad sailor should have attained to
a know ledge of the counsels of
the immortal Gods, or that some one
of us who were on the spot at
the time — myself, for in stance, or
Cato, or Varro, or Coponius himself — could
have done so ? I now come
to you, Apollo, monarch of the
sacred centre Of the threat world,
full of thy inspiration, The Pythian
priestesses proclaim thy prophecies. For
Chrysipyus has filled an entire volume with
your oracles, many of which, as I
said before, I consider utterly false,
and many others only true by
accident, as often happens in any
common conversation. Others, again, are so
obscure and involved, that their very
interpreters have need of other
interpreters ; and the decisions of
one lot have to be referred to
other lots. Another portion of them
are so ambiguous, that they require
to be analysed by the logic of
dialecticians. Thus, when Fortune uttered
the following oracle respecting Croesus,
the richest king of Asia, — • "
When Crocus has the Halys cross'd, A
mifdity kingdom will be lost ;"
that monarch expected he should ruin the
power of his enemies ; but the
empire that he ruined was his own.
And whichever result had ensued the
oracle would have been true. But, in
truth, what reason have I to believe
that such an oracle was ever uttered
respecting Croesus 1 or why should I
think Herodotus more veracious than
Ennuis'? Is the one less full of
fictions respecting Croesus than the other
is re specting Pyrrhus 1 For who
now believes that the following answer
was given to Pyrrhus by the oracle
of Apollo ? "You ask your fate;
0 king, I answer you, yEacides the
Romans will subdue !" For, in
the first place, Apollo never uttered
an oracle in Latin; secondly, this
oracle is altogether unknown to the
Greeks. Besides, in the days of
Pyrrhus, Apollo had already left off composing
verses. Lastly, although it was always
the case, as is said in these
lines of Ennius,— " The JEacids
were but a stupid race, More warlike
than sagacious," — yet even Pyrrhus
might without much difficulty have per
ceived the ambiguity of the phrase,
" ^Eacides the Romans will
subdue;" and might have seen
that it did not apply more to
himself than it did to the Romans.
As to that ambiguity which deceived
Croesus, it might even have deceived
Chrysippus. This one could not have
deluded even Epicurus. But the chief
argument is, why are the Delphic oracles
altered in such a way that — I do
not mean only lately in our own
time, but for a long time — nothing
can have been more contemptible 1
When we press our antagonists for
a reason for this, they say that the
peculiar virtue of the spot from
which those exhalations of the earth
arose, under the influence and excite
ment of which the Pythian priestess
uttered her oracles, has disappeared by
the lapse of time. You might suppose
they were speaking of wine or salt,
which do lose their flavour by lapse
of time; but they are talking thus
of the virtue of a place, and
that not merely a natural, but a
divine virtue; and how is that to
have disappeared ? By reason of age,
is your reply. But what age can
possibly destroy a divine virtue ?
and what virtue can be so divine
as an exhalation of the earth which
has the power of inspiring the mind,
and ren dering it so prophetic of
things to come, that it can not
only discern them long before they happen,
but even declare them in verse and
rhythm ? And when did this magical
virtue dis appear 1 Was it not
precisely at the time when men began
to be less credulous ? Demosthenes,
who lived nearly three hundred years
ago, said that even in his time
the Pythia Philippized — that is to
say, supported Philip's influence; and his
expression was meant to convey the
imputation that she had been bribed
by Philip. From which we may infer
that other oracles besides those of
Delphi were not quite immaculate. Somehow
or other, certain philosophers who are
very superstitious — not to say fanatical —
appear to prefer anything to behaving
with common sense themselves ; and so
you prefer asserting that that has
vanished, and become extinct, which, if
it ever had existed, must certainly
have been eternal, rather than not
believe what is wholly incredible. The
error with regard to the divination
of dreams is another of the same
kind ; their arguments for which are
extremly far-fetched and obscure. They
affirm that the minds of men are
divine, that they came from God, and
that the universe is full of these
consenting intelligences. That, therefore, by
this inherent divinity of the mind,
and by its conjunction with other spirits,
it may foresee future events. But
Zeno and the Stoics supposed the mind
to contract, to subside, to yield,
and even to sleep, itself. And
Pythagoras and Plato, authors of the
greatest weight, advise men, with a
view of seeing things more certainly
in sleep, to go to bed after
having gone through a certain preparatory
course of food and other conduct.
Pythagoras, for this reason, coun selled
his disciples to abstain from beans;
with the idea that this species of
food excited the mind, not the
stomach. In short, somehow or other,
I know nothing is so absurd as
not to have found an advocate in
one of the philosophers. Do we
then think that the minds of men
during sleep move by an intrinsic
internal energy, or that, as Democritus
pre tends, they are affected with
external and adventitious visions? On
either supposition we may mistake during
our dreams many false things for
true. For to people sailing, those
things appear to be in motion which
are stationary, and by a certain
ocular deception, the light of a
candle sometimes seems double. Why need
I in stance the number of false
appearances which are presented to the
eyes of men, among those who labour under
drunken ness, or maniacs ? Now,
if we cannot trust such appearances
as those, I know not why we are
to place any absolute reliance on the
visions of dreams; for you might as
well, if you pleased, argue irom these
errors as from dreams. For instance,
that if stationary objects appear to
move, you might say that this
appearance indicated the approach of an
earthquake, or some sudden flight ; and
that lights seen double presage wars,
and discords, and seditions. From the
visions of drunkards and madmen one
might, doubtless, deduce innumerable const
quences by con jecture, which might
seem to be presages of future events.
For what person who aims at a
mark all day long will not sometimes
hit it 1 We sleep every night ;
and there are very few on which we
do not dream; can we wonder then
that what we dream sometimes comes to
pass ? What is so uncertain as
the cast of dice 1 and yet no
one plays dice often without at times
casting the point of Venus, and
sometimes even twice or thrice in
succession. Shall we, then, be so
absurd as to attribute such an event
to the impulse of Venus, rather than
to the doctrine of chances'? If then,
on ordinary occasions, we are not
bound to give credit to false
appearances, I do not see why sleep
should enjoy this special privilege, that
its false seemings should be honoured
as true realities. If it were
an institution of nature that men
when they sleep really did the things
which they dream about, it would be
necessary to bind all persons going
to bed both hand and foot, for
they would otherwise while dreaming
perpetrate more outrages than maniacs. Now
since we place no confi dence in
the visions of madmen, simply because
they are delusions, I do not see
why we should rely on those of
dreamers, which are often the wilder
of the two. Is it because madmen
do not think it worth while to
relate their visions to diviners, but
those who dream do [Once more I
put this question. If I feel inclined
to read or write anything, or to
sing or play on an instrument, or
to pursue the sciences of geometry,
physics, or dialectics, am I to wait
for information in these sciences from
a dream, or shall I have recourse
to study, without which none of those
things can be either done or
explained 1 Again, if I were to
wish to take a voyage, I should
never regulate my steering by my
dreams. For such conduct would bring
its own im mediate punishment. How,
then, can it be reasonable for an
invalid to apply for relief to an
interpreter of dreams rather than to
a physician? Can Esculapius or Serapis,
by a dream, best prescribe to us
the way to obtain a cure for
weak health 1 And cannot Neptune do
the same for a pilot in his art
? Or will Minerva give us medicine
without troubling the doctor? And still
will the Muses refuse to impart to
dreamers the art of writing, reading,
and the other sciences ? But if
the blessing of health were conveyed
to us in dreams, these other good
things would certainly be so too. But
unfortunately the science of medicine
cannot be learnt in dreams, and the
other arts are in a similar
predicament. And if that be the case,
then all the authority of dreams is
at an end. LX. But this is
only a superficial argument. Let us
now penetrate the heart of this
question. For either some divine
energy which takes care of us, gives
us presentiments in our dreams ; or
those who explain them do, by a
certain harmony and conjunction of nature
which they call a~u/j.Tra.Oeia (sympathy),
understand by means of dreams what is
suitable for everything, and what is
the con sequence of everything ; or,
lastly, neither of these things is
true ; but there is a constant
system of observation of long standing,
by which it had been remarked, that
after certain dreams certain events usually
follow. The first thing then for
us to understand is, that there is
no divine energy which inspires dreams;
and this being granted, you must also
grant that no visions of dreamers
proceed from the agency of the Gods.
For the Gods have for our own
sake given us intellect sufficiently to
provide for our future welfare. How
few people then attend to dreams, or
under stand them, or remember them !
How many, on the other hand, despise
them, and think any superstitious
observation of them a sign of a
weak and imbecile mind! Why then
should God take the trouble to
consult the interest of this man, or
to warn that one by dreams, when
ho knows that they not only do
not think them worth attending to,
but they do not even condescend to
remember them. For a God cannot be ignorant
of the sentiments of every man, and
it is unworthy of a God to do
anything in vain, or without a cause
; nay, that would be unworthy of
even a wise man. If, therefore,
dreams are for the most part disregarded,
or despised, either God is ignorant
of that being the fact, or employs
the intimation by dreams in vain.
Neither of these suppositions can properly
apply to God, and therefore it must
be confessed, that God gives men no
inti mations by means of dream. Again,
let me ask you, if God gives us
visions of a prophetic nature, in
order to apprise us of future events,
should we not rather expect them when
we are awake than when we are
asleep 1 For, whether it be some
external and adventitious impulse which
affects the minds of those who are
asleep, or whether those minds are
affected voluntarily by tiieir own agency,
or whether there is any other cause
why we seem to see and hear or
do anything during sleep, the same
impulses might surely operate on them
when awake. And if for our sakes
the Gods effect this during sleep,
they might do it for us while
awake. Especially as Chrysippus, wishing
to refute the Acade micians, makes
this remark — That those inspirations, visions,
and presentiments which occur to us
awake, are much more distinct and
certain than those which present themselves
to dreamers. It would, therefore, have
been more worthy of the divine
beneficence while exerting its care for
us, rather to favour us with clear
visions when we are awake, than with
the perplexed phantasms of dreams; and
since that is not done, we must
believe that these phantasms are not
divine at all. Moreover, what is the
use of such round-about and circuitous
proceedings, as for it to be
necessary to employ interpreters of dreams,
rather than to proceed by a straight
forward course 1 If God were indeed
anxious for oxir interests, he would say,
" Do this — do not that;" and
he would give such intimations to a
waking rather than to a sleeping man;
but as it is, who would venture
to assert that all dreams are true
? Ennius says, that some dreams are prophetical;
he adds also, that it does not
follow that all are so. Now whence
arises this distinction between true dreams
and false ones 1 and if true
dreams come from God, from whence
come the false ones ? For if
these last do like wise come from
God, what can be more inconsistent
than God ? And what can be more
ignorant conduct than to excite the
minds of mortals by false and
deceitful visions ? But f only true
dreams come from God, and the false
and groundless ones are merely human
delusions, what authority have you for making
such a distinction as is implied in
saying, God did this, and nature that
1 Why not rather say either that
all dreams come from God (which you
deny), or all from nature? which
necessarily follows, since you deny that
they proceed from God. By nature
I mean that essential activity of the
mind owing to which it never stands
still, and is never free from some
agitation or motion or other. When in
consequence of the weakness of the
body it loses the use of both
the limbs and the senses, it is
still affected by various and uncertain
visions aris ing (as Aristotle observes)
from the relics of the several
affairs which employed our thoughts and
labours during our waking hours; owing
to the disturbances of which, marvellous
varieties of dreams and visions at
times arise. If some of these are
false, and others true, I shall be
glad to be informed by what definite
art we are to distinguish the true
from the false. If there be no
such art, why do we consult the
inter preters 1 If there be any
such art, then I wish to know
what it is. But they will hesitate.
For it is a matter of ques
tion, which is more probable; that
the supreme and im mortal Gods, who
excel in every kind of superiority,
employ themselves in visiting all night
long not merely the beds, but the
very pallets of men, and as soon
as they find any person fairly
snoring, entertain his imagination with per
plexed dreams and obscure visions, which
sends him in great alarm as soon
as daylight dawns to consult the seer
and interpreter: or whether these dreams
are the result of natural causes, and
the everactive, everworking mind having
seen things when awake, seems to see
them again when asleep. Which is the
more philosophical course, to interpret these
phenomena according to the superstitions of
old women, or by natural explanations
1 So that even if a true
interpretation of dreams could exist, it
is certainly not in the possession of
those who profess it, for these
people are the lowest and most
ignorant of the people. And it is
not without reason that your friends
the Stoics affirm, that no one can
ever be a diviner but a wise
man. Chrysippus, indeed, defines divination
in these words : " It is,"
says he, " a power of
apprehending, discerning, and ex plaining
those signs which are given by the
Gods to men as portents;" and he
adds, that the proper office of a
sooth sayer is to know beforehand the
disposition of the Gods hi regard to
men, and to declare what intimations
they give, and by what means these
prodigies are to be propitiated or
averted. The interpretation of dreams he
also defines in this manner. "
It is," says he, " a power
of beholding and revealing those things
which the Gods signify to men in
dreams." Well, then, does this require
but a moderate degree of wisdom, or
rather consummate sagacity, and perfect
erudition ?and a man so endowed we
have never known. Consider, therefore, whether
even if I were to concede to
you that there is such a thing
as divination which I never will concedeit
would still not follow that a diviner
could be found to exercise it truly.
But what strange ideas must the Gods
have, if the intimations which they give
us in dreams are such as we
cannot understand of ourselves, and such,
too, as we cannot find interpreters
of: acting almost wisely as the
Carthaginians and Spaniards would do if
they were to harangue in their native
languages in our Roman senate without
an interpreter. But what is the
object of these enigmas and obscurities
of dreamers 1 For the Gods ought
to wish us to under stand those
things which they reveal to us for
our own sake and benefit. What! is
no poet, no natural philoso pher
obscure ? Euphorion certainly is obscure
enough, but Homer is not; which,
then, is the best ? Heraclitus is
very puzzling, Democritus is very lucid;
are they to be compared ? You,
for my own sake, give me advice
that I do not understand ! What
is it, then, that you are advising
me to do ? Suppose a medical
man were to prescribe to a sick
man an earth-born, grass-walking, housecarrying,
unsanguineous animal, in stead of simply
saying, a snail; so Amphion in
Pacuvius speaks of — A four-footed
and slow going beast, Rugged, debased, and
harsh ; his head is short, His
neck is serpentine, his aspect stern
; He has no blood, but is an
animal Inanimate, not voiceless. When these
obscure verses had been duly recited,
the Greeks cried out, We do not
understand you unless you tell us
plainly what animal you mean ? I
mean, said Pacuvius, I mean in one
word, a tortoise. Could you not,
then, said the questioner, have told
us so at first? We read in that
volume which Chrysippus has written
concerning dreams, that some one having
dreamed in the night that he saw
an egg hanging on his bed-post, went
to consult the interpreter about it.
The interpreter informed him that the
dream signified that a sum of money
was con cealed under his bed. He
dug, and found a little gold sur
rounded by a heap of silver. Upon
this, he sent the inter preter as
much of the silver as he thought
a fair reward. Then said the
interpreter, " What! none of the
yolk 1 " For that part of
the egg appeared to have intimated
gold, while the rest meant silver. But
did no one else ever dream of
eggs ; if others have, too, then
why is this man the only one
who ever found a treasure in
consequence 1 How many poor people
are there worthy of the help of
the Gods, to whom they vouchsafe no
such fortunate intimations! And, again, why
did this indi vidual receive such an
obscure sign of a treasure o,s could
be afforded by the resemblance of an
egg, instead of being distinctly commanded
at once to look for a treasure,
in the same way as Simonides was
expressly forbidden to put to sea?
Therefore, obscure dreams are not at
all consistent with the majesty of
the Gods. But let us now treat
of those dreams which you term clear
and definite, such as that of the
Arcadian whoso friend was killed by
the inn-keeper at Megara, or that of
Simonides, who was warned not to set
sail by an apparition of a man
whose interment he had kindly
superintended. The history of Alexander
presents us with another instance of
this kind, which I wonder you did
not cite, who, after his friend
Ptolemy had been wounded in battle by
a poisoned arrow, and when he
appeared to be dying of the wound,
and was in great agony, fell asleep
while sitting by his bed, and in
his slumber is said to have seen a
vision of the serpent which his
mother Olympias cherished, bringing a root
in his mouth, and telling him that
it grew in a spot very near at
hand, and that it possessed such
medicinal virtue, that it would easily
cure Ptolemy if applied to his wound.
On awaking, Alexander related his dream,
and messengers were sent to look for
that plant, which, when it was found,
not only cured Ptolemy, but likewise
several other soldiers, who during the
engagement had been wounded by similar
arrows. You have related a number
of dreams of this nature bor rowed
from history. For instance, that of
the mother of Phalaris — that of King Cyrus
— that of the mother of Dionysius — that
of Hamilcar the Carthaginian — that of Hannibal
— that of Publius Decius — that notorious
one of the president — that of Caius
Gracchus— and the recent one of Ceecilia,
the daughter of Metellus Balearicus. But
the main part of these dreams
happened to strangers, and on that account
we know little of their particular
circumstances : —some of them may be
mere fictions; for who are they
vouched by? As to those dreams
that have occurred in our personal
experience, what can we say about
them,about your dream respecting myself and
my horse being submerged close to the
bank; or mine, that Marius with the
laurelled fasces ordered me to be
conducted into his monument? All these
dreams, my brother, are of the same character,
and, by the immortal Gods, let us
not make so poor a use of our
eason, as to subject it to our
superstition and delusions. For what do
you suppose the Marius was that
appeared to me ? His ghost or
image, I suppose, as Demo- critus
would call it. Whence, then, did his
image come from 1 For images,
according to him, flow from solid
bodies and palpable forms. What body
then of Marius was in exist ence
? It came, he would say, from
that body which had existed ; for
all things are full of images. It
was, then, the image of Marius that
haunted me on the Atinian territory,
for no forms can be imagined except
by the impulsion of images. What
are we to think then 1 Are
those images so obedient to our word
that they come before us at our
bidding as soon as we wish them
; and even images of things which
have no reality whatsoever? For what form
is there so preposterous and absurd
that the mind cannot form to itself
a picture of it ? so much so
indeed that we can bring before our
minds even things which we have never
seen; as, for instance, the situations
of towns and the figures of
men. When, then, I dream of the
walls of Babylon, or the counte nance
of Homer, is it because some physical
image of them strikes my mind1? All
things, then, which we desie to be
so, can be known to us, for
there is nothing of which we cannot
think. Therefore, no images steal in
upon the mind of the sleeper from
without; nor indeed are such external
images flowing about at all; and I
never knew any one who talked nonsense
with greater authority. The energy
and nature of human minds is so
vigorous that they go on exerting
themselves while awake by no adven
titious impulse, but by a motion of
their own, with a most incredible
celerity. When these minds are duly
supported by the physical organs and
senses of the body, they see and
conceive and discern all things with
precision and certainty. But when this
support is withdrawn, and the mind is
deserted by the languor of the body,
then it is put in motion by its
own force. Therefore, forms and actions
belong to it; and many things appear
to be heard by, and said to it.
Then, when the mind is in a
weak and relaxed state, many things
present themselves to it commingled and
varied in every kind of manner ;
and most especially do the reminiscences
of- those things flit before the mind
and move about, which excited its
interest or employed its active energies
when awake. As, for instance, Marius
at that time was often pre sent
to my mind while I recollected with
what magnanimity and constancy he had
borne his sad misfortunes ; and this,
I imagine, is the reason why I
dreamed of him. You also were
thinking of me with great anxiety, when
suddenly I appeared to you to have
just escaped out of the river. For
there were in both of our minds
the traces of our waking thoughts. In
both instances, however, there were certain
additional circumstances; as in mine, the
visit to the temple of Marius; and
in yours, the reappearance of the
horse on which I was riding, and
who sunk at the same time with
myself. Do you think then, you will
say, that any old woman would be
so doting as to believe dreams if
they did not sometimes and at random
turn out true ? A dragon appeared to
address Alexander. Doubtless this might be
true, or it might be false; but
whichever the case may have been,
there is surely nothing very wonderful
about it; for he did not hear
this serpent speakinglie onlydreamed that
he heard him; and to make the
story more remarkable, the serpent appeared
with a branch in its mouth, and yet
spoke: still nothing is difficult or
impossible in a dream. I would
ask, however, how it was that
Alexander had this one dream so
remarkable and so certain, though he
had no such dream on any other
occasion, nor have other people seen
many such. For myself, excepting that
about Marius, I do not recollect having
experienced one worth speaking of. I
must, therefore, have wasted to no
purpose as many nights, as I have
slept during my long life. Now,
indeed, on account of the intermission
of my forensic labours, I have
diminished my evening studies, and added
some noonday slumbers, in which I
never indulged before. But yet, though
I sleep so much more than formerly,
I am never visited with a prophetic
dream, which I should con sider a singular
favour now, though engaged in such
weighty affairs. Nor do I seem ever
to experience any more important dream
than when I see the magistrates in
the forum, and the senate in the
senatehouse. In truth, (and this is
the second branch of your division,)
what connexion and conjunction of nature
(which, as I have said, the Greeks
term avp.ira.6euL,) is there of such
a character, that a treasure is to
be understood by an egg? Physicians,
indeed, know of certain facts by
which they perceive the approaches and
increase of diseases; there are also
some indications of a return to
health; so that the very fact whether
we have plenty to eat or whether
we are dying of hunger, is said
to be indicated by some kinds of
dreamn. But by what rational connexion
are treasures, and honours, and victories,
and things of that kind, joined to
dreams'? They tell us, that a certain
individual dreaming of sexual coition,
ejected calculi: I grant that sympathy
may have had something to do in
a case like this,because, in sleeping,
his imagination might have been so
affected with sensual images, that such
an emission took place by the force
of nature, rather than by supernatural
phantasms. But what sympathy could have
presented to Simonides the image of the
person, who in a dream warned him
not to put to sea 1 Or what
sympathy could have occasioned the vision
of Alcibiades, who, a little before
his death, is said to have dreamed
that ie was arrayed in the
robes of Timandra his mistress? What
relation could this have with the
event which afterwards happened to him;
when, being slain and cast naked into
the street and abandoned by all the
world, his mistress took off her
mantle and covered his dead body with
it? Was this then fixed as a
piece of futurity, and had it natural
causes, or was it mere accident that
the dream was seen, and came true ?
Do not the conjectures of the
interpreters of dreams rather indicate the
subtlety of their own talents, than
any natural sympathy and correspondence in
the nature of things? A runner,
who intended to run in the Olympic
games, dreamed during the night that
he was being driven in a chariot
drawn by four horses. In the morning
he applied to an interpreter. He
replied to him, You will win :
that is what is intimated by the
strength and swiftness of the horses.
He then applied to Antiphon, who said
to him, By your dream it appears
that you must lose the race ;
for do you not see that four
reached the goal before you ?
Here is another story respecting an
athlete; and the books of Chrysippus
and Antipater are full of such
stories. How ever, I will return to
the runner. He then went to a
sooth sayer and informed him that he
had just dreamed that he was changed
into an eagle. You have won your
race (said the seer), for this eagle
is the swiftest of all birds. He also
went to Antiphon, who said to him,
You will certainly be conquered; for
the eagle chases and drives other
birds which fly before it, and
consequently is always behind the rest.
A certain matron, who was very
anxious to have children, and who
doubted whether she was pregnant or
not, dreamed one night that her womb
was sealed up; she, therefore, asked
a soothsayer whether her dream signified
her pregnancy ? He said, No ;
for the sealing implied, that there
could be no con ception. But another
whom she consulted said, that her
dream plainly proved her pregnancy; for
vessels that have nothing in them are
never sealed at all. How delusive,
then, is this conjectural art of
those interpreters ! Or do these
stories that I have recited, and a
host of similar ones which the Stoics
have collected, prove anything else but
the subtlety of men, who, from
certain imaginary analogies of things,
arrive at all sorts of opposite
conclusions? Physicians derive certain
indications from the veins and breath
of a sick man; and have many
other symptoms by which they judge of
the future. So, when pilots see the
cuttlefish leaping, and the dolphins
betaking themselves to the harbours, they
recognise these indications as sure signs
of an approaching storm. Such signs
may be easily explained by reference
to the laws of nature; but those
which I was mentioning just now
cannot possibly be accounted for in
the same mariner. But the defenders of
divination reply, (and this is the
last objection I shall answer,) that
a long continuance of observations has
created an art. Can, then, dreams be
expe rimented on? And if so, how1?
for the varieties of them are
innumerable. Nothing can be imagined so
preposterous, so incredible, or so
monstrous, as to be beyond our power
of dreaming. And by what method can
this infinite variety bo either fixed
in memory or analysed by reason?
Astrologers have observed the motion
of the planets, for a certain order and
regularity in the course of these
stars has been discovered which was
no* suspected. But tell me, what
order or regularity can be discerned
in dreams 1 How can true dreams
be distinguished from false ones ;
since the same dreams are followed by
different results to different people, and,
indeed, are not always attended by
the same events in the case of
the same persons? For this reason
I am extremely surprised that, though people
have wit enough to give no credit
to a notorious liar, even when he
speaks the trilth, they still, if one
single dream has turned out true, do
not so much distrust one single case
because of the numbers of instances
in which they have been found false,
as think multitudes of dreams estab
lished because of the ascertained truth
of this one. If, then, dreams
do not come from God, and if
there are , no objects in nature
with which they have a necessary sym
pathy and connexion, and if it is
impossible by experiments and observations
to arrive at a sure interpretation of
them, the consequence is, that dreams
are not entitled to any credit or
respect whatever. And this I say
with the greater confidence, since those
very persons who experience these dreams
cannot by any means understand them,
and those persons who pretend to
interpret them, do so by conjecture, not
by demonstration. And in the infinite
series of ages, chance has produced
many more extraordinary results in every
kind of thing than it has in
dreams; nor can anything be more
uncertain than that
con jectural interpretation of diviners, which admits not only of several, but often of absolutely contrary senses. Let us reject, therefore, this divination of dreams, as well as all other kinds. For,to
speak truly, that superstition has extended
itself through all nation, and has
oppressed the intellectual energies of
almost all men, and has betrayed them
into endless imbecilities: as I argued
in my treatise on the Nature of
the Gods, and as I have especially
laboured to prove in this dialogue on
Divination. For I thought that I
should be doing an immense benefit
both to myself and to my countrymen
if I could entirely eradicate all
those superstitious errors. Nor is
there any fear that true religion can
be endangered by the demolition of
this superstition ; for it is the
part of a wise man to uphold the
religious institutions of our ancestors, by
the maintenance of their rites and
ceremonies. And the beauty of the
world and the order of all celestial things compels us to confess that there isan excellent and eternal nature which deserves to be worshipped and admired by all mankind. Wherefore, as this religion whichis united with the knowledge of nature is to be propagated, so also are all the roots of superstition to be destroyed. For it presses upon, and pursues, and persecutes you wherever you turn yourself,whether you
consult a diviner, or have heard an
omen, or have im molated a victim,
or beheld a flight of birds; whether
you have seen a Chaldean or a
soothsayer; if it lightens or thunders,
or if anything is struck by
lightning; if any kind of
prodigy occurs; some of which events must be frequently coming to pass; so that you can never rest with a tranquil mind. Sleep seems to be the universal refuge from.all
labours and anxieties. And yet even
from this many cares and perturba
tions spring forth which, indeed, would
of themselves have no influence, and
would rather be despised, if certain
philosophers had not taken dreams under
their special patronage; and those, too,
not philosophersof the lowest order,
but men of vast learning, and remai'kable penetration into the consequences and inconsistencies of things, men who are looked upon as absolute and perfect masters of all science. Nayif Carneades
had not resisted their extravagances, I
hardly know whether they would not by
this time have been reckoned the only
philosophers worthy of the name. And it is with those men that
nearly all our controversy and dispute
re specting divination is mainly waged; not
because we think meanly of their wisdom, but because they appear to defend their theories with the greatest acuteness and cautiousness. But,as it is the peculiar
property of the Academy to inter pose
no personal judgment of its own, but
to admit those opinions which appear
most probable,
to compare arguments, and to set forth all that may be reasonably stated in favour of each proposition; and so, without
putting forth any autthority of its own, to leave the judgment of the hearers free and unprejudiced; we will retain this custom, which has been handed down from Socrates; and this method, dear brother Quintus, if you please, we will adopt as often as possible in all our dialogues together.Indeed, said he, nothing can be more agreeable to
me. Having held these conversations we
went away. Alessandro Chiappelli. Keyword: academici, Alcibiade,
Gli Scipione, la dialettica romana, storia dela filosofia romana, Cicerone,
ambassiata, Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external world, internal world,
the reality of the external world, iconography, detailed ecphrasis of “La
scuola di Atene” – dialettica ateniense, dialettica romana. Grice: To Athens,
via Rome. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Chiappelli” – The Swimming-Pool Library
Grice e Chiaromonte: l’implicatura
conversazionale della parola – il cane ha molto. Definizione d’ aggetivo – la
correlazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapolla).
Filosofo italiano. Grice: “Problem with Chiaromonte is that he let things
influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’ –
where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione,
because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what
a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow
theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu
discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista
culturale indipendente "Tempo Presente". Nacque a
Rapolla, in Basilicata, da Rocco e Anna Catarinella. Il padre, medico, si
trasferì con la famiglia a Roma, Sin dall'età di vent'anni si votò
all'antifascismo, dopo una breve parentesi fra le file fasciste, entrando a far
parte della formazione Giustizia e libertà e finendo esule a Parigi per evitare
l'arresto della polizia. Fu in Spagna, combattente repubblicano nella
guerra civile spagnola contro le armate franchiste nella pattuglia aerea di
André Malraux (la figura di Chiaromonte è adombrata in quella del personaggio
dell'intellettuale Giovanni Scali, del romanzo L'Espoir), poi abbandonò il
fronte per contrasto con i comunisti. Allo scoppio del secondo conflitto
mondiale, in seguito all'invasione tedesca della Francia, riparò a New York,
facendosi notare nel gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals. Fu
propugnatore del socialismo libertario che contrappose alle spinte trotzkiste
della rivista politics di Dwight Macdonald, a cui pure si legò in un sodalizio
di amicizia e di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia con
filosofi come Hannah Arendt e Albert Camus, e scrittori come George Orwell, e
collaborò con Gaetano Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.
Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria, anche
per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura
strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di
critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio. Nel
1956, assieme allo scrittore Ignazio Silone, fondò "Tempo presente",
rivista culturale indipendente, esperienza innovativa nell'Italia dell'epoca
che portò avanti, nonostante qualche dissapore con Silone, con grande
attenzione agli autori di notevole spessore che riempivano le pagine del
mensile. Le sue posizioni furono improntate all'anticomunismo ma, a
differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino alle posizioni di
Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana contro l'automatismo
catastrofico della Storia». Nel testo La guerra fredda culturale. La Cia
e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore) della storica e
giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la rivista Tempo
presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua i fondatori
come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e principali
destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in Italia.
Dal gennaio 1967 e fino alla morte, intrattiene una fitta corrispondenza con
Melanie von Nagel Mussayassul, amichevolmente chiamata Muska, una monaca benedettina,
sul tema della verità. Opere La situazione drammatica, Milano, Bompiani, The
Paradox of History, Londra, Le Paradoxe de l'Histoire, prefazione di Adam
Michnik, introduzione di Marco Bresciani, Cahiers de l'Hôtel de Galliffet, Credere e non credere, Milano, Bompiani;
Collana Intersezioni, Bologna, Il Mulino, Scritti sul teatro, Introduzione di
Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Scritti
politici e civili, Miriam Chiaromonte, Introduzione di Leo Valiani, con una testimonianza
di Ignazio Silone, Milano, Bompiani, Il tarlo della coscienza (The Worm of
Consciousness and Other Essays, Prefazione di Mary McCarthy), Miriam
Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino, Silenzio e parole:
scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa rimane, Taccuini,
Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di Bari, Schena, Le
verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La rivolta conformista.
Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te la verità. Lettere a
Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il tempo della malafede e
altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino, Albert Camus-Nicola Chiaromonte, Correspondance,
Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello, Collection Blanche,
Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone Turchetti,
Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare Panizza,
Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto, prefazione
di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli Italiani, XXIV, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri. Gino
Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Roma-Bari,
Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola Chiaromonte, in "Storia e
Futuro", Filippo La Porta, Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una
vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca di Magra Altri progetti Collabora
a Wikiquote Citazionio su Nicola Chiaromonte
Nicola Chiaromonte, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Nicola
Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Nicola Chiaromonte,.
Fotografie e documenti di Nicola Chiaromonte La cultura politica
azionista. "Nuovo Partito d'Azione". Il fondo librario Chiaromonte. Sotto
il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di
esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa
*communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un
mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una
idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare)
colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi,
quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso
a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la
pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto
donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a
chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa
nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione
due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza
psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’
è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si
va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune
che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e
principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta.
PRISCIANI GRAMMATICI CAESARIENSIS.DE VOCE. PHILOSOPHI definiunt vocem effe aerem temuffitmm ftfhtm,uel fiuwm fenfibile ut
ritum, idefl quod propria auribu s accidit*
Et p efl prior definitio ii
fubfhtntia fiumpta, Altera nero d
notione quam graa ivvotav dicunt Jnoc efl
ab accidentibus -Accidit enimuod auditus quantum
in ipfia efl* Vedi autem differentia
fiunt quatitor, arti culato. ,m articulata fit
ter ata, illiterata. A r ticulata efl
qua coarguta , hoc efl copulata cum
aliquo fienfiu mentis eius qui loquitur,
profertur* Inarticulata ejl contraria, qua a
nui lo proficifettur affccfht mentis* Litterata
efl qua ficribipotefl. I J- literafa qua
ficnbi nbpot . r nuenimtur igitur quadam
uocesarticn lata, qua & feribi poffitnt,
& intellig,ut Arma uirtemq;
cano* Quadam qua no peffunt feribi,
mtelligiinturth, ut fibili heminu & gemitus,
ha enm uoces quamus fenfiu.m alique
fignificent proferentis eas, feribi tn no
poffiint* Ali# uero funt qua quantus feribantur, tn inarticulata dicuntur,
cum nihil fignificent, ut coax,cr a* baseni
uoces quanquam intelliginuis de qua fint
noluere proferte, tamen in articulata
dicutur,qma uoxfut fuperius dixi){marticulata
efl, qua a Milio affvfhe profiafdtur.
A lia funt inarticulata & illitterd *
ta,qua nec feribi
pofjunt nec mtelligj,ut fl repi tus, mugitur
, & his fimilia- Scire autem debemus ,
quod has quatuor fpecies uocum p- fidunt
quatuor fuperiores differentia generaliter uoct
aeddentes, bi na per fingulas inuictm
coeuntes * Vox autem didht efl uel d
Uo* cctndo,utduxd ducendo, Uel ccto rojfioxco
jsoco. ut quibufda placet* bE L r fl pars minima uods
compofita,hoc efi l uods qua conflant
compofitione litterarii, minima autem quantum ad
totam comprchenfionem uoaslitterata,ad hanc enim
etiam produrtauoctiles hreuiffima partes in
ueniuntur , uel quod omnium efl breuifjimum
eorum quzdiuidi pof funt, id quod diuidi
non potefl* Vcffumus & fic definire*
Litte ra e nox qua feribi poteft
mdiuidua-uicitur autem littera uel qudfi
. 5 lenter d, eo quod U<gndi
iter prabeat,ue[ a tuaris (ut quilufda
pia cet)qubdplerunq>in caratis tabulis antiqui
fcrilerc [oletans , & pojha delere-
Litteras aut, etiam elementorum uocdbulo nuncu
pauerunt,ad fimlitudmem mundi elementorum- Sicut
enim illa coeutia omne cor fu* perficiunt,
fic etia ha conimfia litterale vocem
quafi corpus aliquod componunt yuel magis
nere corpus na fi acr corpus eji,
& nox qua ex aere icdo confiat,
corpus ejfie cflenditur , quippe cum&
tangit aurem, & tripartito diuiditur,
quod eji finit corpo ris}hoc eji tu
altitudinem, latitudinem, longitudine myunde ex omni
parte potefi audiri- Vraterea tamen fingula
syllabe altitudine qui¬ dem habent m
tenore, craffimdinem nero ct latitudinem in
fpiritu f longitudinem inttmporc- Littera igtut
eji ricta elementi}& uclut imagp quadam
uocis litterata, qua cogmfidtur ex qualitate
& <fti tute figura linearu-Hoc ergo
mterefl inter elementa, & litteras, quod
elementa proprie dicuntur ipfie pronundationes -
n 'ota autem carit littera- Abufiue tamen
& elementa pro litteris, & littera
pro ele* mentis uoatntur . Cum enim
dicimus non poffie conflare m eadem
fiyl labd-K,ante.V, no de litteris dicimus,
fid de pronuntiatione earum- nam quantum
ad ficripturam poffunt coninng,non tamen
etia enu- ciari,nifiipojlpofita-R, ut princeps,
sunt igitur figura litterarum quibus nos
utimur- XXUI- ipfie uero promnciationes
earu multo amplior es. Quippe cum
fingula uocules denos mueniantur habentes fionosyuel
plures, ut putaa, littera breuis quatuor halet
fimi differentias, cum habet afrirationem, acuitur
uelgrauatur,& rurfus cum fime aft iratio e
acuitur uelgraudtur, ut habeo habemus, abeo
abimus- Longt uero eadem fex modis
fionat, cum habet afpiratio - nem,&
acuitur uelgrauatur,ueldrcunfleCHtur, ut hamis
hdmoru hamus - E t rurfits cum fine
afpiratione acuitur uelgrauatur ucl ctr
cunflecntur ,ut dra ararum dra - Similiter
ali* uoatles pofjimt pro ferri- Vraterea
tatnen-i, &.u, uoatles }quando media ; fiunt
alternos inter fie fionosuidetur con funder
e ytefk bonatofiut uir.u,ut optumus, Eti, quidem
quando poft-u, confortantem loco digamma-
V,fi<n<fhm Aeolia ponitur
breuisyfequcnte.d,uel.m,uel.r,ucl.t, Uelx, fonum-y,
gracauidetur habere, ut uideo,um, uirtus ,
uitium, uix-v, autem qudnuts contraftum
eundem tamen fimum, hoc efi y, habet, inter q}
&-efueLiyHela,diphthongum pofltum , ut que
quis qua- tenon inter. gt& ea fidem
uoatles,cmi in una fiyl laba fic
imenitur,ut pin- gtefanguisfiingtta - In
confortantibus etiam fiunt differentia plures,
trdnfeuntmm in alias confortantes & non tr
an femtium, quippe di - uerfie firmi potefiatis
. ’L tL a iij Ccidit
igitur litterae nomen figura, poteffas-Uomen uefo
a ti. a.b.c. Et fiunt mdechna ilia, tam
apud gr aecos eleme- torum nomina ,
qudm apud latinos.siuc p a barbaris
inuenta dicuntur, fiue p fimplicra haec
Z7‘ fktlilia effe debent, qudfi fundamentum
omnis do firmae nnmvbile , fine p nec
aliter apud iatmos poterat effe, cum a
fias uoabus uocztles nominen¬ tur, Saniuocal
es uero in fe de finant, Mutae autem
a fi incipientes uo- atli terminetur, quas
fiflefkts fignificzttio quocp nominum una
eud- nefcit.v ocdlcs igitur (ut difhtm
efi) per fi prolatae nomen fuuofien =>
dunt.Semiuocrtles uero ab. e, incipientes ,
&in je ter minantes. A bfip x,
que fola ab. i, incipit per anafirophen
gracct nominis. xi. quia ne ceffe fuit, cum
fit fiemtuocalts , d uoath vnapere,Zjin fe
terminare . quae.x,nou\ffimcd latinis afjumptaypofi
omnes ponitur litter as,qbus , latina *
dichones egent p autem ab. i, incipit eius
nomen, ofhmdit eti - », am Sergius in
Commento quod fcripfitm Donatum kisuer bis. Sunt,
>, feptem jemiuoatles ,qu<e ita proferuntur
,ut inchoent ab. e, littera, & „
definant innatur ale fonum, ut. fl.m-n.r.s. x-Sed.x, ab. i,
inchoat. \d *> etiam Eutropius confirmat
dicens.Vna duplex. x ,quae ideo ab.i,m „
cipit,quia apud g^ aecos in eandem definit.
Mutae autem d fiincipi - entes, Z^m- e, uo culem
definentes^xcaeptis.K^t.q^uarum alteram a, altera in.u finitur,
fua confiant nomina.H,enim affirationis ma¬
gis eft nota. Eigurae acadunt quas uidemus
in fingjihs litteris • Tote = jhs uero
ipfa pronuaatio, propter qua, Et figura
ZTiwia fiunt ficht . Quidam ena a
dunt ordinem fied efi pars pote
fiatis litterarum. Ex his uocules dicuntur, quae
per fe noces perficiunt uel fi ne
quibus uox litteralis profirn non pote fi,
unde & nomen hoc praecipue fibi
defe dunt.Caeterae enim quae cum his
proferuntur confortantes appellan¬ tur. Sunt
igitur uocules numero quinque. a. e. i. o.u.
utimur etia.y , gr georum cuufia nominum.Q
onfonantiu aliae fiunt fi mino cedes, aliae
mutat. Semiuocales fint ut plerisp
latirwrum placuit fiptemfil-m n-r-s.x. Sed- f.
multis cfienditur modis muta mazis, de
quatpofi do¬ cebimus • Z, quoque utimur
ingruas dcthonibushae ergo, hoc efi fi- miuo
cules, quantum uincuntur d uoculibus, tantum fi
p erant mutas, ideo apud gr aecos quidem
omnes dichones, uel in uocules uel in
fimi- t:ocUlcs,quae fecundam habent euphoniam
,defiment, quam nos fiono- ritatem pofji
mus dhere, apud Iatmos autem, ex maxima
parte, no tamen omnes. Inveniuntur enim quaedam
etiam m mutas definetes. Semeuocules autem
furit appellata, qua plenam uocem non
habent f ut fetnideos & femiuiros
appellamus, non qui dimidiam partem habent
deorum, vel uirorwmfed qui pleni dij uel
uiri non fmt Reliquae funt muta, ut
quibufdam u\ detur , numero nouem. b. c .d-
g.h-k-p-rf-t' Et fnrvt: W1 wn bene hoc nomen putant easaccapi[fy
cumba quoq; partes fintuoctsqui nefiunt ,<p
ad comparationem ue ne fonantiwmita funt nominata
, uelut informis dicitur mulier, non qua
atret forma, Jed qua male eft formata
y & frigidum dia mus eumynon qui
penitus expers efl atlons ,fed qm
minimo hoc utitur. Sic igitur mutas, non qua
omnino noce atrcntfed qua exiguam par
temuods habent- Vocales autem apud latitios
omnes fmt anapites, uel liquida yhoc
efl qua fialemodo produci f modo
corripi pojfunt , Sicut etiam apud
antiquiffimos erant gr acor uni ante
muentionem » quibus inuentis.t, &o, qua
ante anapites erant reman, ferunt perpetua
breues, aim earum produdhtrum loca poffcfft
fint d fupradiths uoatlibus femper longis .
Sunt etiam in confonantibus lo ga,ut
puta duplices. xy&.Zr Slrut enim longa
Uocalesy ficha qucq; longam fidunt jy
liabam. Sunt fimiliter in confonantibus
anapites uel liquida yut.ly&-ryqua modo
longam modo breuem pofl mutas pofita
m eadem fyllaba fidunt fyllabam.his quidam
addunt non irrationabiliter m, &my quia
ipfe quoq; communes fidunt fyllabas pofl
mutas pofita yquod diuerforu confirmatur
aufhritate tamgra eorum, q latinorum . ouidius
in deamo Metamorphofeos. Vifcofimq;
gnidon.gr auidamq, ; Amathunta metallis. »
Euripides iit Vphoemffis . /Wr#i tro c/t
hoc pidjuov tio'punr. In cifdem . xxax
ojuitrSot.Jdco hocmo cmtofeis tihvov , apud
gracos fnnenitur tamen. myante.n,pofita nec
producens ante fe uoctilem mo re mutarum
-Callimachus rcofjutv o juvturx paetos i<pn
£tvof umctw ouvuv. Apud antiquiffimos gr
acorum non plusq fedeam erant littera , qui'us
ab
illis accetptis latmi antiquitatem feruauerunt perpetuam, Nam fi uerxffimt uelimus infpicere edus,fnoc efl fedeam)non plusq duas additas in It tmomueniemus
fermone-V- Aeolicum diqnmma qS apud
antiqwffi mos latinorum eandem uimyquam
apud Aeoles habuit, eum autem prope Ionum
quem nunc habet - V ,fignifiatbat.p , cum
afpiratione. Sicut etiam apudueteres gracos
pro -<p ^tfT-t. Vnde nunc quoque fngrads
nominibus antiquam firipntram fernamus
pro-<p.py&.hy ponentesyut Orpheus vhaethon-pofha
uero in latinis placuit uercis pro.p ,&-h,fjcribitut
fiina,filius.fiao , locoau^m digamma. V,
pro confonante-q od cognatione foni
indebatur affinis cifc diijjmma d
iiij » »9 e i [it ter
4- Qjiare tum- f Joco mutre ponatur ideft
p, & .h y fiue-<p f miror
hanc inter famiUocales pofiiiffe artium
fcriptvres. mhil.n>ali- ud habet nrec
littera femiuoctihs ,nifi nominis prolatione,
epire duo- (yili incipit. Sed h.ec
pote flatem mutare Iit ter re non
deluit, fi enim effet femiuoculis
yneaffario terminalis nomlnu inucniretur quodmi- nime repencs.nec
anted, uel.r, m eadem fyllaba poni poffet ,
qui lo¬ cus mutarum efr duntaxat.nec
communem ante eafdem pofita faceret fy
liabam. Vofiremo grrect (quibus in omni
dottrina auflvnbus utimur) -<p, cuius locum
apud nos. f,optinetyqucdofknditurinhis ma¬ xime
dicHonibus quas d grrecis fumpfimus y
hoc efl fama, fagp, far, mutam effe
confirmant. Sciendum tatne q> hic quoq;
error d quibus *= dam antiquis graecor
um grammaticis inna fit latinos, qui.<p,
6 ,%./£- mtuocztles putabant, nulla alia
cUufa, tiifi q? fpiritus in eis
abwndet induch.quod f effet ueruni, debuit. c,
quoq; uel.t , addita afairatione femiuoculis
cffe.quod omni edret ratione.fpiritus enim
potefhtem /it= terre non mutat, unde
nccuoailes addita ajpiratione alire fiunt,
& alire ea dempta. Hoc tamen fare
debemus non tam fxis labris efi
pronuntianda. fy quomodo. p,&-h,dtq; hoc folum inter efl
inter -f,& phyXftiam duplicem loco,c
,&.s,uel g,&'S,pofiva d grrecis inuetam
afjump fimus yut dux duas yr cx regs.K,enim
&qyqudnuis figura & nomine uideantur
aliquam habere differentiam cum •C.tn eade
tam in fio io uorum q m metro
ycontincnt pote fiatem -^.K, quidem penitus faperuarua
efr pullam, ratio indetur 'cur a
,fequente.K, feribidebe- dt.c rthdgo.n.&atputfiue
per. ct fiue per.K,fcribantur, nullam faciunt,
necm fano nec m potefhte eiufdem
cofanantis differentiam * ytiero propter nihil
aliud feribenda mdetur effeynifl ut
ofiendat feqn era. u, ante alteram Uo calem
in eadem fyllaba pofitum perdere uim litte
r^e in metro. q> fi alia ideo
littera efl exifhmanda q>c,de- bet.gyqncq;
cum fimiliter pr reponitur. u, amittenti uim litterre
alia putari y & aha cum id non
facit rdicimus enim anguis ficuti quis, O4
ruignr fi cuti cur . v nde fi
uelimus cu, ueritate contemplari(ut diximus )
non plus quam decem &ofh litteras, in
latino farmene habemus, hoc cflfadeam
antiquas gr re eorum &.fy&.x,pefka
additas eas quoq; ab eifdem famptas.nam y
y&.^grrecvrum afufia nominum (ut fapra
difhun efl) afamimus.H, aero affirationis
efr nota y & nihil aliud o.tbct
litterre nifii fgurdm/j" q> in
uerfa firibitur inter alia* litteras.Qjeod
fi fa faceret ut elementum putaretur,
nihilominus quo rundam enam numerorum figurae, quia
in uerfiu inter alias litteras feribuntur , quanuis
eis d familes fint, el ementa fiunt habenda
fadmis nime hoc efi adhibend-ctn, nec
aliud aliquid ex accidentibus pro- f
prutatem oflendit Umufcuiufq; elementi,
quomodo potefhs,qua .Uret affiratio- neqenim
uoaths nec confotum ejfe poteflnoculi$ non
e fi. b^quia dfieuocem non fiat, nec
fiemiuocuhs cum mlla fyllaba lati- nauel
grceafper integras dittioes in eamdefnat,
nec muta cum in eadem fyllaba, cum
duabus mutis bis ponitur, ut phthius,
Erichtho = tiius-nulla enim fyllaba plus
duabus mutis poteftbabere iuxta fe po
fitts,nec plus tribus confonantibus continuare
- authritus quoq; tam Varronis q Macri,
teflv Cenforino,ncc-K,nec- q,neq;.h, in numro
adhibet litterarum -Videntur tamen i,gy-u,cum in
conlonantes tra fiunt quantum ad pote
flatem, quod maxrmum efiin elementis, alite
litterte ejfe pr teter fifpradidkts -multum enm
inter efi utrum uoctiles fint an
confonantes-ficut enm , qnanuis in uaria
figura, g? uario fwmine fint-K,gy.q,gj*-c,
tamen quia u/nam um halent tam in
metro q in fono, pro una littera
accipi debent, fle. i, &-u, qnanuis
unum twmcn,g? unam habeant figuram, tam
uocules q con^onan tes, tamen quia diuerfum
j'onum,gj* dmerfim umhabent in metris, g?
in pronuntiatione fy liabar um, non
fiunt in ei fidem, meo iudicio,
(lententis acapiendte-quanuis & Cenjbri/w dothfjlmo
artis gram¬ maticae idem placuit. multa
enim cjl differentia inter confortantes, ut
diximus, gruocttlcs- tantum enmflre interefi
inter uoculcs gj* confionantes , quantum inter animas
g? corpora, anim.e enim per fi mouentur,ut
philofophis uidetur ,gj* corpora monent, corpora
uero nec per fe fime anima moneri
poffunt, nec animas monent, fid ab il
Its moucntur. Vocales fi militer g? per
fi mouentur, ad perficienda fyllabam,g?
confionantes mouent fecum, confionantes uero fime
uoculu bus immobiles fint- Et-J, quidem
modo pro fi mp lici, modo pro duplici
accipitur confonante-pro fimplici , quando ab
eo incipit syllaba in principio dithonis
pofita, fiubfiquente uocztliin eadem syllaba, ut
luno Juppiter . pro duplici autem
quando in medio diflioms ab eo
incipit fyllaba pofiuoatlcm ante fi
pofifom, fu fiquente quoq; uocttli in
eadem fyUab a, ut maius, peius, eius, in
quo loco antiqui folebant geminare
eandem-i,l\tteram,gT maijus,peijus,eijus feribere ,quod
non aliter prominctari poffet quam fi
cum fitperiore syllaba prior I ,cum
fiquente altera proferretur, ut peijus,cijus,tnaijus,
gy duo. ij, pro duabus conjonantibus accipiebant.
nam quantus- T,fit confonans incadcm
syllaba geminatninngi non poffet. ergo non
aliter quam tellus , mannus proferri debuit.
unde Pompeiij quoque genitiuum per tria-i ,
antiqui feribeb aut, quorum duo fiperioraloco
confonatium accipiebant jit fi diats
Pompeiij, nam tribus ili , iunchs qua^
lis poffet fyllaba pronuntiari ? nam
poftremum -l, pro uocttli efi
atcipienc lum . quod C<eftri doihjfimo artis
gramntaticse pla~ citum finjje d Vidvre
quoqu r in arte grammatiat de fylla is com
- probatur-Pro fimphct qucq; in media
dithone inuenitur ,fcd in co~ pofitisfut
iniuria^diungo^iedht^reijce Virilius in BucolicisTityre
pafientes d flumine refice capellas* proceleu fma
ti cum pofuit pro daciylo. Nunquam autem
poteft ante.I, litteram loco pofitnm
confonan- tis,afpiratio mucnin yficut nec ante
. ii, confortantem -unde hiulcus trisyllabum rj7*
, ##//.* (ww confonans ante /e
afpirationem recu pit- V, wcro lo.o
confortantis pofita eandem prorfius in
omnibus uim habuit apud latinos,qudm apud
Aeoles digtmma , F.Vnde d ple~ rui j;
ci nomen hoc datur, quod apud Aeoles
habuit ohmyFy digama i-HdUyab ipfuis uot
profetfhtm tefk Varrone, & D idymo, qui
id ei rujmcn cffecfivndut*pro quo Ccefiar
hanc figuram £,fcnb er e uduit, quod
quarum illt reik mfum efty tamen
confuetudo antiqua fiupera «5 uit-Adco autem
hoc uenvm eftyy pro A e otico F
ydigamma -uyponi- ttrr,quod ficut illi
flebant accrperc diqamma-V,pro confonante fim
phaytefiv Aftyaqy,qm diuerfiis hoc oficndit
uerfibus, ut in hocuerfu o otojucvos
VtAtvHV iAtKcoTiJocfic nos quoq ; pro
fimplia habemus cort fonante
plerHnq;-Hyloco-V-dvgtmma pofitumyuty „ At Venus
haud animo ne quicg exterrita mater •
E fi tamen quando Aeoles idem-F
finueniuntur pro duplici quoq; co fonante
digtmma pcfmffe,ut vt&opct cPt FoJ crouSd
s - Nof quoqiuidemur hoc fequi in
praeterito perfido & plusquam perfido
tertice £r quartce coniugationis ,in quibus ,1
,ante-u ycorfo nantem pofita produ « citur ,
eademqs fiubtradn corripitur yut cupiui cupijtcu
piueram cu¬ pieram, audiui audfiaudiueram
audieram . inuemuntur etiam pro Uocdh
correpta hoc digVHtna illi ufi,ut
Alcman-Ksh jux tj ? n <fx Fiov.pfr enim
dimetrum iambicum , & fic e ft
proferendam, Tr yut factat Ireuem
fiyllabam-Noftri qucq; hoc ipfium fiaffeinueniim
tur,& pro confonante. ii yuoatlcm Ireuem
acc<epiffeyut Horatiusfyl fise trifyllabum
protulit in E podohcc uerjit- » -niuesq;
deducunt I ouem, * Nunc mare
nuncsfi liite; E/r enim dimetrum
iambicum comunfhim penthemimeri heroicae, quod
aliter fhtre non poteft, ucfi fylu.e
trifyllabum accipiatur . Si¬ militer
Catullus V eronenfis <p Zonam fioluit
diu ligtam , inter E nde atfyllabos vhalectos pofitit-ergp
nifi fioluit trifyllabum accipias, uer- fivs
fhtre non poteft. hoc tamen ipfium in
deriuatiuis uel compofltis fi e quentC'
fiolet fieri ,ut Heluo uclutus,foluo follitus ,auts,
auceps, aujfi- PRIMVSdum,m<guriim,<UigupUS,lauo
l*u tu s,fitueo, fautor . F, aigam ma apud Aeoles ejt,
quando m metris pro nihilo decipiebant, ut
4“/“* ^Fetpi vccvro 6 w 7<>i ^vuorotv
Fouiv.Ep enim h exametr u/m heroicum, apud latinas
quoq; hoc idem-u ,inuenitur pro nihilo inmtris,&
maximo apud uetufb.fpmos comicorum, ut Terentius
in Andria - M sine muidia laudem
inuenias,Et amicos pares. eft.niamicum tri¬ metrii,
quod nifi,pne mui,pro tribracho accipiatur, fhtre
uerfus non potejl.jciendu tamen q> hcc
ipptm Aeoles quidem, ubiq; loco ajpira-
tionis ponebant effligentes ffnritus
affcritatem.nos dutmmultis qui dem,non tamen
m omnibus illos faquimur , ut cum
dicimus ueffera, uis,uejhs. hiatus quoq ; atupt
plebant illi mterponer e -F, digama, quod ojhndunt
et Poetae Aeolidae up,AlcmanxsH X" yocrrJ pn
Mio/ et 'Epigrammata, qu£ egmctleg m
tripode uetujhfprrw Apollinis qui pat in
Xerolopho Byzatq pc pripta/nyo<pxFcov ,\oiFonxi uv.Et nas
quoq; hiatus atupt interponimus • V doco digama ,F ,ut
dauus, arduus, pauo,ouum,ouis, bouis.hoc tamen
etiam per alias quapiam cbfonan tes
hiatus uel euphoniae atufa folet peri, ut
prodeft ,cbburo ,fi cubi ,nu cubi,
quod gract quoq; pol ens facere junntr/,oi/
utri. Sed tamen hoc at tendendam efl
quod pr&ualmt in hac littera,idefr,in-u,loco
digam ma pofito,potepas fimplids confonantis
apud omnium poetarum do - {hfpmos.in.b, et
folet apud Aeoles tranfire.F , digama
quotiens ab p, incipit diflio qux folet
a[pirari,ut pdrcop (Spnrup dicunt quod di
gamma nip Uoaili praeponi & m principio
fyliab <e non pottft . ideo autem locum
quoq; tranpmtauit, quia. B, uel diqamma pofx-p, in
ea¬ dem fydaba pronuntiari non pote fl- A
pudrns quoq ; efl munire <p pro.
u,confonante.b, ponitur, Coelebs codcfium uita ducens,
p er. b, feri bitur y.u.corfonans ante
confortantem poni non potep.pcut etia bru
qes 0 Belenam antiquifpmi dicebant tefh
Quintiliano, qui hocofle dit m primo
mfhtutionum oratori arum. nec mirum cum. b, quoq;
m \i,eufhoni& aufa conuertimuenimus ,ut
aufropro a pro. A ff ira tio quoq;
ante uoatles omnes poni potefl,pofl
confortantes autem quattuor tantummodo more
antiquo gr^ecoru. c,t,p,r, ut haheo, Herenni- usberos, hyems, homo,
humus, hylas, Cremes; Thrafo, vhilippus,Vyr rhus-ideo autem extrmpcus afcribitur uoatlibus,ut
minimum fanet, confortantibus autem mtrinfecus, ut
plunmu. omnis enim littera fiue uox
plusfonat ipfa fefe,cum p opponitur, quam
cum anteponitur, q<t Uoatlibus aeddens effe
uidetur-ncc p tollatur e a, perit etiam
uti f- gnipationis , ut fi duztm Erenmus
abfq; afpiratione,qUti uitium ui- dear facere
, intellectus tamen inteqvr permanet .
Confortantibus autem pc cohaer et; ut
eiufdem penitus ptbpantite fit , ut p
aufratur , LIfignifirttionh uim minuat
prorfis-ut fi dica Cremet pro chremes*
unde hac confyderata ratione ygr oecorum
dothffhni,finguld4 fecerit cas quot]; litteras,
quippe pro,th,Ofpro,ph,p, pro , ch,% f feribentet
nos autem antiquam finpturam/eruamus- In
latinis tamen diiho nicits nos queqj
pro ,ph, coepimus fjeribere, ut fi lins,
fima, faga, nifi qnbd^utfupra do mimus) cft
aliqua in pronuciatione eius litterae dif-
firetia^oim fono,ph,ut ofkndit tpfius palati pul
fis, lingua, labro rum-R.h, autem ideo non eji
tranflatum abillis m aliam fibram,
qg nec fle cvhxret huic quomodo mutis
,nec(fi tolla tur) minuit fignifid txonem
,quanuis enim fibtrafot afpiraticne dicamus,
retor , Vyrrus t intellectus permanet ynon
aliter quam fi antecedens Uoailwns au fe¬
ratur. Vnde c frenditur ex hocquoq; aliquaeffe
cognatio-r, litterae cu uocahbus-cx quo quidam
dubitauer ut , utrum proponi debeat huic
af/iratio>an fubiungi^nde Aeoles loco(ut diximus) afpirationis
digamma ponentes in dictionibus ab -p Rapientibus
j olent loco digam ma-B fcnbere /ududntes
debere praeponi diyrtmma qua.fi uoathfeA
rurfis quafi confonanti digamma in eadem
fyllaba preepenere re - cu j, 'antes ,comutxoant
id in-Bfiparcop fcpo Condicentes Sed apud grte
cos hxc littera /idzji ,p -multis modu fungitur
loco uoculif ,ut in decli natione
nondnum in,pcc,& in a puram
dcfmentum,qu<e fimiliter . a, /eruant per
obliques cufis ,ut ui px w pocr^opCoc
<ro<p'*s- Apud lati nos autem non
adeo -Q^ucentur cur inuah &ah poftuocrtles
poni tur afpiratio - & dicimus
quod apocopa fidei efl extremae uoctilif
ai proponebatur afpiratio, nam perfidi uaha aha fint-ideo autem abfdffione fidhi extremce uocztlti,
tamen afpiratio manfitex [k periere pendens
uocrtli, quia fium eji imterictUonis noce
alfcondita profrri-ltaq; pars abfeondii &
extremitatis uidetur congrue in in =
teritVYiefhcnis naturali prclahonercmanfiffe-nec mirum
cum in Sy rorum Acgyptiorumq; dichoni msf
oleant etiam in fine afpirari uo
atles.lnfrricttionum autem pier *q; communes fint
naturaliter omnium gentium uoces-inter-cjine
affiratioruey& cum af/irahoneeft g, inter- tyquoq;
&tih,cft.d,&' inter -p ,gr, ph,fiue-f, efl -b Sunt
iff- tur hae tres, hoc eft -b.gfdymcdice,qute
nec penitus atvent afpiratione, nec eam
plenam pojfident.hoc autem cflvndit etiam
ipfius palati pulfi<s,& linvueucl labroru
confimihs quidem in ternis , inter .
p.&.ph-uel-f&.^.&iurfts inter -c.&.ch .&-g-
fimiliter inter -t &-th-&.d fidin humus
exterior fit puifus/naf/eris interior, in me
dijs inter utrvet; fipradiihrn locu-qdfiale digno
fci 'tur, fi ai te damus in fipr
tdi&ismoiil us ora mirabili natura lege
modulati a noces- Toto aut e e cognatio
earu <p inuice
muemutur pro fi pofitee in qbu
fidit ditfionihusyt ambo pro, u<pu>t luxus
pro w i os, & publicus pro
TouvMHor, trismphus pro dpfocyfros, gubernator
pro HvfitpvSx rnr, gobius pro inofcio, Caere
*Vj' toJ %oupi puniceus <po/vi'*tif deus
Stof purpureum Troptpj piov. Hoe quocp
obfiruanduan efl <p nd computationem
aliarum cofonantium quae [olent mutari uel
abq- dper cti fis , immutabiles funt apud
nos tresl n-r-per cmnes erwn at frs
eaedem permanent, ut fil falis , flumen fluminis,
caefin coefaris-t. quoq; & >c.
quduis m trilus folis mueniantur nominibus
quaepof- fint declinari ,hoc idem firuant,ut
caput rapitis, &ab eo copojita, Ut finciput
fi 'napitis , occiput occipitis, alec alecis, lac l albis,
in quoetia t. additur • quare quibufdam non
irrationabiliter nominatum hoc lath prolatus
inuenitur. Reliquae uero cojonantes mutantur , uel ab
ij cimtur-d-ut aliquid alicuius an. ut templum,
templi, peliumpelij-f Ut magnus magni-x-rex regis,
nix niuis-ln uerborum qucqipraete *= ritis p er
fettis jolent omnes modo mutari modo
manere, cxcaeptis-L p.fx Mae enim nunq
mutantur, ut habeohabui, iubeo iuffi,compefco
compefcHi,dico dixi, afcendo a fiendi, laedo Ufi, lego
legi, pingo pinxi, demo dempfi, pr emo presfi,
moneo monui, fi no fui, nequeo nequi ui,
torqueo tor fi, differo differui,uro uffi,uertouertiftedv
flexi. \llae au tem quattuor ut fiupra
diximus nuquam mutantur, mpraeterito per
fiflv.l. ut caelo caelaui,doleo dolui,uolo
uolui, mollio molhui.p .turpo turpaui,ftupeoftupui,fadpo
fiulpfi, lippio lippiui.fiquaffo quaffik ui, cenfio
cenfiti-arcefjo arceffim-x-nexo nexui. Voatles quoqiin
eifde praeteritis perfiflis quaem principalibus
fy liabis mueniwntur uerborum, modo ex correptis
producuntur, modo mutantur in alias uo cales,
modo manent eaede-Troducuntur plemnq omnes, ut
fiiueo fani, ctiueo cdui, fedeo sedi ,
/ego' legi,uideo nidi, moueo mom, fbueo fo
ui, fugio fugi . Mutantur. a, &. e-a. quidem in. e.
medo produ&tm modo correptam.Vrodu(fhim,uta^p
egi capio cepi facio faa.fi ango fregi. correpta,
tango tetigi, cado cecidi, parco peperci . E.
uero tran- fitm.i.ut eo m,ueUij.Solinus in
colledhtneis uel polyhijhre. Tatius in arce
ubi nuc aedes efl xunonis Monetae ,
qui anno qntv q mgref- ptsurbem
fuerat a lauretibus inter e p tus
efl ,/eptima &uiqvffinia olmpiade hominem
exiuit.Qjteo quiui uel quij. Haec eadem
uoculis penultima muerbis fi eundae
coniu^tiois fepe mutatur in-u.ut do¬ ceo
docuiynoneo monui, doleo doluuquod fimiliter
efl quado in ter¬ tia uel quarta
coniuqntione patitur aut rapio rapui,
aperio aperui M.&.o>manet in principalibus
fy liabis pofitae immutabiles ,tempo Yimquoq
; m quibufdam.ut ruo rui , domo domui,
doceo docui. Hoc queep olfirnandu efl
p mnq in fupradifiv tempore poteft
qeminari m ] i i! -
n VK - - — UBER . Wf
M principio ncq; in fine fyllaba ni
fi qucedtmte incipit - ut ton¬ deo
totondi, pendeo uel pendo pependi , difco
didici f pofcv popofii, tundo tutudi, pedo
pepedi, iungy tetigi, c&do eradi , atdo evadi
, pello pepuli, fxllofifilii^rodo prodidi ,
nendo uendidi-ex quo etiam ap* paret . f .
uvm magis mutce obtinere d quaincipiens
eft geminata fyl¬ laba- S- antvmutem pofita
muenimtur duo uerba epice qeminant fy
liabam m prcetvrito.jb ficti, fiondeo fiepondi
- Antiquiffnni etiam , fcindo fdadi
dicebant ,q> innior er fddi dx erunt ,
ut mpr&terit* perfitfv uerbi ofiendemus -
nec fine ratione • 9. ante mutam
pofita vnuemtur qvminatum uerbum, c/m s- amittit
unn fiiamplcnmcp, fic pofita ante mutam,
wndenec in fecunda fyllaba repetitur- M
-quocf ge minatur , mordeo momordi , quee
loco nuttee in multis fungitur, nam
ante-n pofitx communem fiat fyllabam, ut r
amnes ramnetis , fieut Cremes Cremetis-
lamlicti enim fiunt quee fic declinantur ,
quod Callimachi quoque au thr itato con
fi r ma tu r in A ct ijs
,ficu t i am t :f radicium cfl
hocucrfiu 7w; juiv o uvv <rd paetos t<pn
£tvos uAinr cuvut- nunquam tamen eadem- m
• ante fe natura lonqxm uo- adem
palitar ; n eadem fyllaba ejfe, ut
illam, artem , puppim, i/= Ium ,
rcmjfiem , diem , cum abue omnes
femiuoatles bcc habent , ut Meccenas ,
pcean ,fol, pax, par - praeterea fola
heee femiuocalis pofr-s. ponitur, quod trntar u cfl,
ut fimyrna,fmardgdu6,& ante liqui dam
ut fitmnis,&q> ante-s .pofita in
finali fyllaba nominis , more ma tce
interpofita i. fiat genihuu hyems hycmls,ucl
uti inops inopis, eoe leis ccehbis- Apparet
igitur, <q) elementoru alia funt eiufde yvnerts
, ut uoctflcs,& con fonantes. alia eiufde
fiedei,ut in uocuhbus breues, & longce
, & in corfonantibus fimplicvs,& duplices
, quee halent afiiratione,^ quee non habent
, & earum medice- alice uero fibi
funt affines per c6rmtatione,idefi q>imuicvm
pro fe pofitee inucniim tur,ut breucs,CT
longce quee habent afiirationem, et quee
atrent ea * A lice autem per
coiuqationem,uel cognationem cognatee littorce , 0*jg
feinuicem pofitee, ut. b.p.f.necnon-g &-c-cim afiiratione
fiue fine ea-x»quoq; duplex, fitnilitor-d.&.t.
cum afiiratione uel fine ea,&* cum
his-z-duplcs-unde fiepe-d feribentos latini hanc
exprimunt fi no, ut medidics ,hcdie , antiqui (fimi
qucq;Medentius dicebant, pro tnt fentius -
Qjxinenam.fifimplexhabet aliquam cum fipr adi flis
co¬ gnationem, unde fiepe pro-z-eam folemus
geminatam ponere, ut pa- trifjo pro
-jr<x,7(>i{w pitiffo pro tnaffil pro
juoc(oc-&do, es tj pro <rJ-wndc
nos queq ; tu pro<rj (j* te pro
ri-kttia autem tixAccr- roc pretia Aderret
tipUrTXpro tipvcrrx & httov proi crerov
,& /i/^i jux^os pro <n/'wxXos ,
Romani etiam aiax pro tuus . in
uoatlibus \ V v >••••
V . g quoq; frut affines, e.
correpta fiue produdht cum ei
dipthongy,qH<t ue teres latini utebantur ubiqs
loco -idongee-mnc aut contra pro ea. i.
longa ponimus, uel. e produdhtm, ut v£\os
nilus, uocAAio^reiu allio = peagopci* chorea. e .
pe ?Utitimamodo correpta nwdo produ&t . o
breuisfiue longi cum u. ut hos pro
p>ojr ehur, robur, pro ehor ro~
bor,& platanus pro 'TAocTx/or.A.quoq;
cwn-c.&.i-arceo g? coer¬ ceo. facio infido, nec,
ion alue cum alqs.g?
quia frequenter he m omnibus pene
litteris mutationes non filum perafus,ucl
tempora, frd etiam per figurarum compofitxones
, uel denuationes gj* tran- jlationes
d grreco in latinum fieri filent,
neceffarium efi e arum po nere
exempla .A. correpta conuertitur in
productam, faueofdui, I n. e . correptam
parco peperci , armatus mermis . I n e.
produ - {ktm facio feci, apio cepi producta
quoque- a. im. e .produ<fhtm in¬ venitur, halitus ,
anhelitus in. i . correptam amicus mmlcus
, in c. etiam juxpuocpor marmor, in.
u. fitlfus infrifiis,ara arula-E-cor rep
tatranfit m. e. produchtm, legoleg. in.
a. fero saties ,reor r a tus. in
i correptam moneo monitus , lego diligo,
in- o . tego tvgt . Antiqui quoque
amplofli pro amplctti dicebant . Et
animaduortt fro animaaduerti.in-u.tego tuguriim-Et
apud anttquijjimos quoti € fcuncp.n.d.fecpumtur
vnhis uerbts quee d tertia comugntioe
nafcun tur loco.e.u.fcriptummucnimus ,ut faaundnmjcgundu,
dicundum f Kertundum,pro faciendum, legendwi, dicendum,
uertvndnm-I.tr an jitin.a.ut genus, genens ,ypneranm,
paulus paulipoulatim -tn,e far tis forte
fortiter fapiens fapientis fapienterdn.o. patris
patronus ,& patro uerbumglh pro illifaxi faxofus
. m-u.arnis arrn/frx antiqui pro arnifrx,ut
lucens, pro libes & pe farnus
propefjhm. Sci¬ endum tamen eft q>
pleraq; nomina qu^e cum uer^is fiue
partiapijs componuntur , uel nomiruttiui mutant
extremam fy liabam in-i.cor reptam, ut arma
armipotens ,homo homicida, cornu cor niger
,fivlla fhlliger , arcus araten es fatum fatidicus,
nurum nunfrx,aiifa ctiufi- dicus fadhts
lucificus, cornu cornicen, tuba tubicen, fidis
fidicvnfi^ des plurale , cuius ftngulare fidis
eft,unJe etiam diminutiuum fidi = cula-tibia
tibicen, pro tibfan, tibia enim,
a-md-debuithmitare, ut fit praditfhtm eft ,unde
pro duabus- vj.breuibus una logafadla ep\c[Uod
in alia huiufremodi compofihone non muenies
. uulnus uulm ficus , magnus magnificus ,
amplus amplificus, fruflas fruflificus , opus
opifrx uel gemtna . ut uir uiri , umpotens
, par paris parrict =- da quod uel
a pari componitur , uel ut alij dicunt
d patre . ergo fi efi d
pari-r-euphoni£ dufa additur , find patre
.tdn r. converti¬ tur , quilufdam tamen d
parente uidetur cffc compofitum, g? pro
JLIBER farentidda per fyncopen,&
commutationem -t.fn.r.fadbitn parn^ eida frater
fratris ,fr atruida foror for oris,
foror icida, lux quoqj lu * ets lucifer, flo;
floris florifer , fdcer facri facnficus,ars
artis artifix • p aucti fwit quce hanc
non [eruant: regiam, ut auceps, anes
atpiens0 mtnceps ,mcnteatptus ,municeps munera
cupiens, au^his augufius [milia • &qute
ex duobus nominanuis componuntur , ut puta tufiu
- randum,refpu.non tnutant extremam fy liabam,
fid ea cum defigu* ris dicemus latius
traifhtbimus • O ,aliquot Italia? ciuitates
tefce P linio, non habebant, fed loco eius
ponebant. u . & maxime, Vmbri, <Z?Y
jhufa.o ,tranfit in.a.ut creo creaux-vn e.Ht
tutor , tutela, bonus 6e- ne 71 w genu
wi/rpes . antiqui compes pro compos. m quo
xolesje* nuimur. I Ili enim t^ovioc pro
ocP/vroc dicunt, o . conuertitur vnn,
tsirgo uir <gnis-m-u.tr emo tremui, huc illuc
pro hoc illoc . Virgin yiij. Hoc tunc
ignipotes ccelo defcedit ab alto. et pleraq
; qu& apud grtfcos twminatiuum in,
os. terminant, o.m-u.conuertunt apud nos» Ut h\j'
pos Cyrus , zvovJft o s fpondeus, kv
vrpos cypruS, ^tA ayos pelagus. Multa
praeterea uetufhffimi etiam m principalibus
mutabat fyUabis, ut cungrum pro congrum,
cunchin pro conckm,bumincm pro hominem
proferentes , funtes pro fontes , frundes
pro frondes. Vnde Lucretius m idibro
Angujkq; fretu rapidum mare diuidit undis ,
pro freto, idem in tertio, Atqui
animorum etiam qu<ecunc Ji acherunte profundo
pro acheronte . in eodem • Nec tityon
uolucres ineunt ach er untei acente
m,Qjta? tarnena iutiioribus repudiata fiunt,
quafi ruftico more didht • V, quoque multis
ltalue populis in nfa no erat, fid e
contrario utebantur, o. under ornatiorum quoq;
uctufhffi - mi, in multis dicionibus loco
cius-o-pofiuffe inueniuntur,poblicupro publicu,qi tefhttur
Vapirianusde orthographia, polearum pro pul
chrii,colpam pro culpam dicetes,&hercole pro
hercule,& maxi mc digamma antecedente
hoc faciebant, ut firuos pro firuus ,uolgus
pro vulgus ,dauos pro dauus-Tranfit in.a.ut
ueredus ueredarius, in. e. pondus ponderis, deierat
peierat pro deiurat peiurap, labrum labellum,
[aerum facellum, antiqui auger, & auger
atus pro augur, et auguratus dicebant. I
n.i-cornu cornicen, arcus arcitenens, flucfhis
fluttiuagus ,curfus ,ucl currus curriculus,
uel curriculum in. o. nemus nemoris cbttr
cboriSy robur roboris. Votutur ha?c eadem
littera itt gratcis nominibus modo loco •
oj . dephthong,ut mufia pro juv o-oc
modo prou correpta ut homerus pro
oyupos pro eadem produfhtut fux pro
(pupficute contrario pro p>ojs bos. modo pro
. u .loga,ut probus mus, modo pro
correpta to' pepv pa purpura. In plerisfy
tamen £oles ficuti hoc faarrns. I Ui
enim OQvycin? dicunt pro Suyxrvp.oj.cor?/ **
M »3 ♦5) PRIMVS -
ripientes ,Uel magif.v fino-u. jbliti pronuntiare
, ideoq; afcribunt e . rwn ut
dipbthongum faciant ibifid ut fo ium-
u. colicum ofiendanf Ut Callimachus
HX\hi%tafv %6oviF,ojpi'xs SouyxTup. Qjsod nos
fi cuti u, modo correptam modo productem
halemus , qua usis uidca- tur-oJ -diphtkoYKg
fanmi habere . Pro .0, cpiocp.au , joletrt
frequenter ponere greeti oj pos oj aos pro
5 poto hos, voj <ros pro vo<ros dicentes,
qd nos frequenter habemus in finalibus
maxime fyllabts, ut V namus, pylus, pelium-u,
tamen cvrripientes-lft quando amittit -u^im tam
uo diu q confortantis, ut cum inter. q,
& aliam nodi em ponitur, ficut ia
commcmorauimusyt quifquam • Hor idem pier
unq; patitur etia inter. g,& aliquam
uocalem,ut [anguis lingua. s , quoq; antecedente
u,<& fiquente.a,uel.e,koc idem fepe fu, ut
fiadeo fiuiws fuefio fetus, quod apud
atoles quoq;.y,fepe patitur et amittit uim
litterae m metro, ut <rXT<pu) ,%a\x
Tu/ePtoc eA Sin xor/a-xrtt purx, f
militer W- av/ difyllabuminuenitur apud
cofdcm cnm-y- nonef dipthongus. .quando
tranfit in confomntem idemu,ut vxuthf nauta
, nauita, gaudeo sgtuifus , ficut eamtrafa
confonante tranfit inuodlem ,ut ft - pra diximus,
dueo atutus,foluofolutus,faueo fautor , uoluo uolutus
. fepe. u, interponitur inter ufuelcm, in gratis nominibus,
ut » pxu herculesxcTKXurijs <efculapiHS& antiqui
,x\k,uh'vh dlcununa ,x\- nutum alcumceon • I n
confonantibus quoqi rmltce fune fimiliter
con~ mutationes. L, triplicem ,ut P linio
uidetur fonum habet , exii em, quan
do geminatur facundo loco pcfita,ut ille
,mctellus , plenum . quando fi¬ nit nomina uel
fylldbds,& quando habet ante fi in
eadem fyllaba aliquam confonantem,ut fol,fylua,flauus,
clarus , medium inalijs , ut ledtus ledht
le&um» L, tranfit in. x ,ut paulum
pxuxiUsm,mala maxilla, uelumuexillum,in.r,ut tabula taberna
• M ,ob fimum inex tremitate dictionum fonat,
ut templum apertum in principio , ut
ma gnus}mcdiocre in mcdqs,ut umbra.tranfit
in.n, & maxime, d, ucl t,uel.c,uel.q,fiquenhbus,ut
tam tandem , tantum tantundem, idem
identidem ,nwm nvmcul i,& ut P
linio placet, mnquis, nunquam, an
ceps,proamceps.am enmpr*pofitio.f,Hclctuel.q,fiquetibus in.n,
mutat. m,ut anfi adhts, anci fia, anquiro, uodli
nero fi qu ente interci- pit.b tut ambitus,
amhefi:s,ambufius,amb ages jntenon etiam in com¬
buro combufius idem fit • F inahg
di&ioms fubtrahitur, m, in mtr • plerunq;
fi duodli incipit fiquens diflio,ut lUum
expirantem transfixo pe flor e flammas.
Vetufafflmi tamen non fimper eam
fubtrahelant. 'Ennius in. x. annali ttm .
infignita fire tum millia militum ofh
b ltb er * Duxit
delcftvs b ellum tvller are potentes .
N -quoque plenior in prbnis fionat ,
in ultimis partibus (yllaba - rum,ut nomen,
[hmen, exilior in medijs, ut amnis, damnum,
tran- fitin.g,ut ignofeo, ignauus,igno tu s, ignaris, igno
minia, cogno fco, co= gnatus- poteji tamen
in quii ufdam eorum fermonum etiam
per con - qfionem adempta uideri-n, quia in
fimplitibus quoque potefl inueni r iper
adie^nonem-g, ut gnatus gnarus- & fequente.g,
uel.c, pro ea g, fer ibunt graa.
& quidam tamen uetujhffimi authres
Romano¬ rum eupnonia cuufa bene hoc
facientes, ut agchifes,agcepsyaggulu$, agqvns-qucd
ofhndit v arro.i. de origine lingua latina
his uerbis • Aggflas aggvns agguiUa
iggerunt. In eiufmcdi grati & Attius no
* fvr binam. g. feribunt ,alq-n,& .gyquod in
hoc ueritatem facile uide- rc non
efhjimiliter ageeps & agcora.tr an fit etiam.
n,wd, ut unus ullus, nullus, uvnum uillum, catena
catella, bonus bellus, catinum catil- lum,fimiliter
collega tcolligp, illido, collido, tranfit
m.m-feqmntibus- b-ucl • m-ucl-p. audoee Vhnio
& Papiriano ,& Probo, ut imbibo, wi
o e ilis, bn outus , bn mineo ,
ynwvt t to, im mo tus , improb
u$, imp erator, mpello , ftmiliter in gr
acis nominibus neutris bi.on . definentibus
zrxAAx.Stov paUadium tthaiov pclium, tranfit
etiam in*r.ut corrigo , corrunpo , irrito .
Hanc autem mutationem litterarum / ciendum
ejl quadam naturali feri uccis ratione,
propter celeriore motum lin¬ gua labrorumq;
ad uicincs facilius tranfemtium pulfus . T
rafit fu- pradibht confonans-n, etiam in-s, fando
ftifjus, findo fiffiis , in.t-atnis catulus, catellus- in- c.
ecquid pro cnquid.pxpclhtur -n,d gratis in-w,
definentibus, cum m latinam tr anfaunt firmam, ut
demipho, fimo, leo, draco, fi cut contra additur
latinis nominibus in- o . definentibus
apudgracos ut mm puv }kxtuv tpro acero, cato.
Tranfit m.u.confona = tem,ut,fino fiuiyfivrno,
ftraui-R.fine afiiratione ponitur in latinis,
in graas Ucro principalis uel geminata, m
media ditfione afiiratitr, ut rhetor, rh
entes, rhodus, pyrrhus, tyrrh ems ,orrh ena
y pro quo nuc o fit ena
dicentes afpir ationem poft-r -antiqua feritant
feriptura-tra - fu in -l. niger nigellus- umLr a,
umbella. in-s. ut arbos pro arbor, odos, pro odor
-Plautus in Captiuis- Q^uorum odos fub
bafiliatnos omnes abigit m firu-uerror ,
uerfius.in duas-ffiuro ufifi,gvro gvffifo.H.con-
fi>iantemytero trimfiro feui.in.n, ancus pro
areus-S-in metro apud uetufhffitrws yubn fiam
frequenter amittit . * v irgiiius in. xi.
aneidos, Ponite fies fibi quiscp- idem
in-xiu ^ inter fe eoijjfe
uirosy<& decernere firro . Nf autem
comunthone fequente am apoflropho penitus
tollitur ut uidcn,fiatin,uim,pro uidesne fatifne
uis'ne. necmn etiam in gradi mhUmlus.^-Uet.
es. ter minantibus plermtq; tollitur, cu
fmt pri¬ ma declinationis, ut
Gefa^irrhia^hedria^cherca poeta quoque jo* phijht,fytha
, citharifkt-in quibus etiafner}produ<fhtm a
correptum conuertitur . tranfit hac eadem
in - m. utrurfmn pro rurfus,dun mimo
pro difminuo . T erentius in adelphis
d>mmmetur tibi te¬ rebrum, m- n -
mittitur- s- pinguis fangninis. in . r.
flos floris, ius iu- ris,curfts amiculus
, «e/ curriculum -in- x - aiax pro
ausgr pi flrix propiftris-in quo fequimur
dores.ilh enim o pvtE pro opvis. m-
d- cujks cujbdis , pes pedis ,prafes
pr a fidis, palus paludis . in . t- nepos nepotis
, uirtus uirtutis ,famnis famnitis . in-u.
condonan¬ tem bosbouts . /ape pro
afbiratione ponitur m his dictionibus quas
d gracis fump fimus , ut /emis , fex
,-feptem ,fefal. nam ijulv. eA/. t
vtd . e . «Ar . rfjwd illos
aspirationem habent m principio . adeo
autem cognatio ejl huic littera idefi-s,
cum afbiratione }quoa pro ea in quibufdam
dicionibus [olebant bceoti idefi pro-s-h-fcnbere
, nudi a. pro mu fi, dicentes -huic- s.prapcnitur-p.
et loco. ‘b-grace fungitur, pro qua claudius
Cafar antifigma - X hac fiqaira fcnbi
noluit fed nul¬ li susfi funt
antiquam feripturam mutare, quamuis non fine
ratione kacpuoq; duplex d graas addita
uideatur, nam multo meliorem , & uclubiliorem
fonitum habet-^.qudm-ps.uelds-ha tamen ideft.bs
non alias debent poni pro ^ -hoc ep
in eadem fyllaba coniunfla ,mfi m fine
nominatiui, cuius gimtiuus m bis definit, ut
urbs urbis, coelebs coelibis ,araps arabis -Sicut
ergo-^. melius fonat quam ps-uel.bs.fic .
x-etiam quam- gs- uel.es -&-x- quidem affump fimus -i-
autem non • fed quantum expeditior eft-^-qudm-
ps. tantum ps-qudm bs- ideoq ; twn irrationabiliter
plerisqsloco uidetur .^.ps -debere feribi , quod
de ordine litterarum docentes plenius traChtb
imus -x- duplex modo pro es.mvdo pro-gs.
accipitur, ut apex apicis, grex gr e
gps, tranfit tamen etiam m-u-confonantem ,ut
nix niuispiecmn in. 61. ut nox no5hs,fu -
pellex fupellefUhsSedhac contra regulam declinari
nide ntur-fubit etiam-x. littera loco aflpirationisfut
uehouexi traho traxi-x-uertitur in-f. ut
efficio effero. & /ciendum cp quoticfuncp .
ex - prapofitio , Konitur compofita
didonibus duocahbus incipientibus ,uel ab
peattuor confonantibus , hoc eft.c -p.t.s-
integra manet, ut exa¬ ro, exeo , exigo
, exoleo , exuro , excutio, expeto
f extraho , exe= quor ,exfpes,in quo
uidenmr contra gracormn facere conflatu =
dinem-illi enim. a . fequente nunquam • /
• praeponunt , fcd-n - pro ea tuttK$ot!ri!
. melius ergo nos quoq;. x .
[olam ponimus, que lo¬ cum obtinet, es-
cuius rationem nonfolum ipfe- fonus auriu
iudido pof fit reddere, fed etu hoc
f qemituiru s-Jifta confonante a madente
b ij LIBER. minime potefl
-geminari autem indetur pofr confortantem -s-x*
antece¬ dente ,qu£ loco-c.&.sfrinqjttcr fi
tyfia confequatuT,ut exfrquia ex - [e^uor -quod
fi liceret, licebat etiam pejt -bs, uel- ps. quas loco
- dupli as acapnnus adderes, ut dicer enm
objfiffus, abjfichts , quod minime licet -nunquam
ennn necs,riec aha conjonans geminari poteft,
ut di¬ ximus, alia antecedente confionante-nunc
de mutis dicrmus-B - tranfit in egit
occurro fiuccnrro,m f,ut opfido,fifficto,fiffio,in-g,ut
fuggro, in-myut fivmmitto, globus glomus ,in-p ,ut
fiuppo/io,nj-r,ut fitrnpio,ar rtyio,ms,ut luleo
iufp-nam fiifdpio & fijluli d fitfrum
uel fiurfium aduerbio compofiite fiunt,
wnde fiubtinnio & fihbcumlo non mutauem
runt-b-ins • fijpicor quoque fiffido d
frufim uel fiurfibm cvmpo- nantur , fed abqdum
urnam s -non enm didamus fufjjnao fedfiujpU
do,quia non potejl duplicar i conjonans
alia fu pquente conjonante , quomodo nec
antecedente ,nifi fit mutuante liquidam, ut
fiupplex ptf* fr agor fi\\fifio,€ffiuo,efifirm<g),
quomodo & apud grteccs o-uyypnoopcJ
<njyYvu)f*H}<r\jyyK\j<puy<rvjAfiivn f/cov ,tp6iyy/Ax.
C- tranfit in.u, confio- nantem, ut quiefeo
quieui,pafico paui y afeifeo a fani, in- x, ut
dico dixi, duco duxi, noceo noxa
noxius, ins, parco par fi, uel peperci, m-g,an*
te cedente. n, quadringenta, quingenta, feptmgenfo .
ango quoque pro ancho.et riofond cm
cjr f ante hanc julam mutem finalem
inueniwn fur longce uoatles, ut hoc, hac, sic,
hic aduerbium-nam ante.t,fi qua fnueniatur
uoatlis longa. p er confdfionem hoc euenit ,
ut audit, mu¬ nit fimat,pro
audiuit,munmt,funiauit-necnonpofi:.s,pofita trafit aliquando
m-t,ucl ajjumit cam,ut irafeor iratus,
nancificvr nafhts, nafivr natus , pacificor padhts
,pafivr pafhts. u-tranfit m-c,ut acci -
dit,quicq iam,m g-ut aggero,in-l,ut allido, in. p,
ut appono, in-r,ut arrideo, meridies, antiqui
jjimi uero pro ad frequenti [fime, ar
, pone - bant,aruenas, amentor es, aruoaitDS,ar fines,
aruclar e, arfkri,dicetes, pro
aduenas,aduentores,aducattvsyadfines, aduolare, adfrri .
unde ofienditurrefte arcrjfo dia ab arao
Herbo, quod nuncacao didmus, quodefr ex ad
& do ccmpofitim-arger quoque dicebant
pro agger • tranfit etiam ins ut afifiideo,rado
rafifradeo fiuafi , in duas queep
ffiut cedo affi, fr dio fv/fiis,in.t, attinet,
attamino, attingo, heee eadem tamen -d frequenter
interponitur mcompofitis hiatus atufa prohih
e- di, ut rediw , redarguo, prodejl- fini
trahitur etiam cum fequens fiylla ba
abs-& alia aonjbnante indpit,ut afipiro,
afpido , afeendo , afb - V. multis medis
muta magis ofkndmr , cum pro.p , et afpiratione
qu<* fi militer mute, e fr acdpitur,de
quo fiiffiaeter fiupo ius diximus -qua- q
tam antiqui Romanorum atoles frequentes
loco afpiratioms eam ponebant , effligentes
iffi quoque affirationem • & maxime
atni eonfenante, re rufabant eam proferre
in latino fermone -habebat au- tem haec-
f-littera hmc fenum quem nunc habet
u-loco confemntis fofita,mde antiqui-afpro
abferibere felebant,fed quia mn potefe MU,
idejl diqnmma in finefyllal & inueniriydeo
mutata ejl-fm-b. fi filum quoq; pro
fibilum,tefee Nonio Marcello de do floram
indagi¬ ne, dicebant. G-tr an fit m-;-jfargo
ffarfi, mergo mcrfi,m.x.tego texi, fingo
pinxi,in.fl.agor afht; , legor lebhi; , fingor piflu;.
li. littera nonejfe ofeendjm>ts ,fed notam
afeirationis, quam gr aecorum anti-
qulffe.m fimiliter ut latmi in uerfe
fer ibebant, nunc autem diuiferunt, &
dextram eius p artem fefra litteram p
onente;,pfilen notam ha- bent,quam Remnius
Palcerrwn exilem uocut. Griliuis nero ad
vir - gtium de accentibus fcriben;, lenem
nominat, finijlram autem con * trarix illi
afpirationi; da fiam, quam Grillus flatilem
uocrtt-K-fef er- tutata eft,ut fefra diximus,
qu^e quatmis feribatur nullam aliam
uimhabet quam- c.De-q- quoq ; feffidenter fefra
traflntum efl ,<pA& nifi eandem uim
haberet quam. c. nunquam in prinapij;
infinito¬ rum uel mtcrrogatiuorum quorundam
nominum fofita fer obii * quo; atfe;
in illam tranferet , ut quis cuius cui-
fimiliter d uerbis-q » habentibus in
quibufdam participi j; m-c. tr an; fertur, ut, fequor
feat tu;, loquor locutu;. trd fit in-;. ut, torqueo
torfi, fient gr-c-parco par fifimi-iiter
abqdt.nfn proterito featt &. c . linquo
liqui, umeo mei . tranfit etiamin-x-ut , coquo coxi,
duco duxi, apud antiquo; frequen¬ ti ffimcloco.cn
-fyllab*, qm, ponebatur , & econtrario , ut
arquus eoqm;,oqvHlus,pro ar cu;, cocu;, oculus, qum pro
cu,qnur pro cur. trafit in-; -ut uerto
uerfe;, concutio concuffus, osx grxcnfro
offl.c.uc yo antecedente, tr an fit. t. in -x -ut
peflo pexui,fleflo flexi- v ,& ,(,tan tummodo
ponuntur mgreeei; diflionibus, quantus in
multi; uctere ; haec quoq; rmfaffe mueniantur
, & pro-v.u-pro-'{ - uero quod pro.
ff. conimfli; acdpitur.;.uel-d-pofeiffe,ut
fagtmurrrhapro yuyfjuJ}* fcc, fegunthum mafjk
fro (xHvyffo; juxfa , edor quoq; xtto
toj o'(ciy, fethus fro {»6o; dicente;,
&Medentius pro M efentius.ergp corylus
t? limpha, ex ipfe feripturad graed;
fempta non cft dubium, cum f u -ferio
atur 70 7 no puAo; toj vj^ucpif
Solebat enim Uetufhffi mi gr aecor um-Lpro
-n-ferib ere, unde quinquaginta quoq; numeri fi°
gnum,quod illi per -n ,feribunc, no;
per-l-morc illorum antiquijjl- feribimus -
D c ordine litterarum. Kdo
quoq; aeddit litteris, qui quantus in
;yllabis dignofrf- * tur , tamen quia
conimflu; effe uidetur cmn p ote[ht.teele=
mentorum , non ah fer dum puto ei
nunc illum febiungerc. . b ili
*» w •31 •9 •Jf
t* Uodtes pr<epcfitiu<e
alqs uodlibus fitbfiquentibus in eif dem
syllabis. a. e.o.fitbiu6tiu<ea:.u.ut.ae.au.eu.oe.I.quoqi apud
antt quos pofi. e. ponebatur ^^bdiiphthongum fidebat,
qua pro. omni. i, logt fcribebant more
antiquo gr cecoru.lnuenltur h<ec eademi,pojl
u an grceds nomimbusjut fiipTryctjiam.y .diphthcngus
cfi-Sunt igitur dij. hthongi quibus nunc utimur
quattuor .diphthongi autem dicun¬ tur q>
binos phthongosyhocefi,uoces comprehendunt. nam finqul
<e uo dies (1*04 Uons habent, &. ac.
quando d poetis per di<erefim profer tur
fecundum graecor per. a- & .i.fcribitur
,ut cudat, piffai, pro auU &*pifre-Et Vir
glus in tertio . Aulai in medio
libabant pocula bacchi. idem in cdktuo •
t)iues equum ducs pidhti uefhs &auri
• in gy<eds nero quoties hu^
iufcemcdi fit apud nos di<erefispenultim<esyllab<e.i.pro
duplici con fanante accipitur ,ut maiapro
juou'x aiax pro cuxs. Trafitini , pro
dufhtm,ut qu<ero inquiro, exqui royquanuis
exqu<ero Vlautus dixit in Aulularia. intro
exquire jit ne ita ut ego praedico
. l<edo illido 9 c.edo occido. Vonitur
pro.edongt,ut a-^vd fccena & pro. a. ut
<efiu- lapias pro xraAH^/os, inepto
<eoles fiquimur. illi enim vu^upsus pro
vj fiepoes &<poujlv pro (pari v
diau.t muenitur tamen hac diphthon qus ; n
media dicHone correpta tunc ^quando compofitce
dithonis ante cedentis in fne ejl fiquente
uodli,utpr<eufis.v irglms in fiptimo . Stipitibus
duris agitur fndibn*'ue pueufti -Homerus dv ndo'
ttoAs X* JUOlii/VOU. fiait etiam
longae uodles flent corripi yut
dchifiv,virgi.in quinto - Infindunt pariter
fideos ,totu mq; delvfat , Conuulfitum rernis
roftrisq; tridentil us sequor. G e .queq;
idem pati¬ tur apud grsecos Aefchylnsoizpos
roiujdixs rrccpSivous tuous\/ crcu-Vn de quidam
non fine ratione imum tempus &
fimis fingulas eas ha¬ bere dicunt. idevq,-
fi confiquatur condonans qa<e dimidium
tempus habet ,omni modo producantur • Mt
quocp uidetur quafi pati diuifio nem
cum.i.poft.u. addita ftranfit eadem .Hin cvnf nantium
pctcfkt- tem ut,gtudco gtuifits/udrus
nauitay& vuZ: nauis • tranfit et indo.
uttaufiro ab finii allatus .Et fiicndumi
cp pro ab pr <epofincne.au. po
nitur in his uerbis ,aufugo & aufero. E
contrario queq; frequenter f let fieri
m antecedente. a. C7-H loco condonantis
fiquente ,fi abijeta- tur uocuhs pofitapofi
eam idefi pcfi.u .con fana ntem- au dipht h o ngus
fiat.u.redeunte in Uodlemjut lauor lautus y
fiueo fautor }auis auceps f augurium yaugufiUs . trarfi
i ino.predudhtm more antiquo, ut lotus
pro lautus, ple firum pro plaufiruan, cotes pro
dates, fient etiam cun= trapro.o.au.ut aufirum
proyjl rmiguif culmi pro ofculmfiequcn It
mwvj. ufrim/q; hoc faciebant antiqui, in. u.
quoq; longam tranfit fraudo de frudo,
claudo includo •'tu- tranfit m.edo/igtm,ut A
chiller pro x a<o/V .vlyxer pro
oJvarri^quod o frenditur m gninuo ulyxei,Hora.
« in prime cdrminum, Nec curfar duplicet
per mare vlyxei.in-n.etta mutatur fago pro
epsdyu . oe-eft quando per dicer e [i
m profertur in grecir nermni us
&gr<ectim ) eruat fcnpturam pro. o .
enim &.i. ponitur, que tamen ( jient
fr+pradiflum efr) locum d ipliar optmet
confonanttr ,ut troia pro rr?oix}maiapro
jxoux-in hoc quoq ; <eclcr fa- quimur
fic enim illi diuideter diphihongum ni 7
aqv pro koiaov dicut . Apudgnecor tamen
quoq; .i. fequente producere licet
antecedentem breuem,ut Homerus in hocuerfat
n rtfopx oj h t Ace BtvJ&Xti
Tnvdvrx xip tjuxnr aufertur elidejl-oe.
diphthongo, alter a uoaths faquente. e-
longi more attico,ut poeta pro xamdr, poema
pro xof»/aa,necnon pYo,w/.diph - thong gr nor
hanc idejhoe. ponimus, ut «<y/W/ * comoedia, 7
poc- yufix tragoedia dicentes , nec mirum
cum pro. v. quoq; habemur. o. & pro.'i.e.m
diphthog accipimur. hoc tamen ad imitationem boeo
torum friemur facere. Tranfit in. u. longam ,ut
phoenices ,punicer ,phoe niceon puniceum , poena punio
. Nunquam diphthongir in praeterito
perfiflv mutatur ,ut haereo hefa, audio
audiui,mcenio moeniui , ex¬ cepto c<edo
cecidi -Ei.diphthong nunc non utimur ,fed
loco eius in gr&ctr nominibus- e.uehi.produdhtr
ponimur. Et in priore /equimur Aeoles -
lUiennniw Jh^oo-Suii dicunt pro SHjuotrdtvei
& ixov pro ei xov. Et nor
plerunq; cum. ei . apud graecor fit
purapenulhma , in illis maxime femininis
que per adiechonem affamunt.a.apud gre cor
mutamur. ei. in.e.produfktm, ut ^ni/xeix.deiopea.’ ' hximo'
•xh HXKKio-yreix cztlkopea.nam in illis
quemda-frlum definunt apud graecor raro,fathoc,ut
arga,alexandria, nicomcdia, langa, lampia- Statius in.iiij .
1$ C andensq; iugr Lampia niuofar/idem
in eodem, Hoc quoq; fe creta nutrit
Langa fub wmbraidem in facundo. TWnc
donis Arga nitet , uder q; fororis,
Ornatur facro preculta frperuenit amo.Raro
autem diximus pro - i f&r Medeam, plateam,
niceam-Nam quod Virg. Qui tela tiphoea
i temnis. e. correptam protulit ,doricum efr ,
illi enim frient. a . diph- thong abijeere
. i , In laiinir autem dictioni’ m
difficile (nuentes -i longam ante uoctilem
pe fatam nifa in gnirnts in tus
defi nentibus , ut illius, folius, ullius, quae
tamen licet & corriperem metro &
in ucr bo fiam fias fiat, quod ipfrm
quoq ; contra aliorum eiufdem coniugrt
tionir fit regulam uerborum. I n
tnafatlinis quoq;. ei. pura m.edon - b
iiij M »3 HIBER. grm
conuertitur , £xkk uos Achilleus , a^puos alpheus
caror fu os /pcndcus-non fine ratione
tamen hoc fitySed quia.^purapenultima
ante.us,uciayiiel.umy per mminatmos nm muenitu r
p rodufta in latinis dicncnisiis nif
indifyllabis &ipfis greeas . Nam m greeeis
fepe inuenimus ut chius £r diay &
m tino triJylUbo quod apud M Statium
legiyut licyus- Statius in decimo
Thebaidos. Ad patrias f n quando
domos optafaq; paean. Templa hcyc dabis
tot ditia dona fa * cratis V
ofibuStO4 totidem noti memor exiget auros .
m ahjs nero co fionanteyl y fequente
pro ei diphthongo longrtm.i y ponimus ut
rubos nilus • In femiuocaiiius f militer
fiunt alia prcepofitiuce alijs femtUo-
cahbus m cade fiyilab a ytt.m, fequente.
nyut mnefivus,amnis.Sf quoq» f Ruente. m,
ut finyrnayfmaragdus . nam uitium facium
qui.z,ante m, firibunt . Nunquam enim
duplex in atpite fyilab# pefita potejl
cum aha iwngi condonante . Luatnus
quocp hoc ofendit in deamo. '*
Terga fa dent crebro maculas difhndkt fmaragdo.
nam f effet.^an- te.mfiubtrahi vnmetro minime
peffet tnec fair et uerfus- Syenim irum trofepe
uhn conjonantis amittit. m fine autem
fyllabte omnes liqui* dee f lent ante.s
. poniyut plus hyems fmons yars -fimiliter
dnte.xyexc<e ptn.myut falx lanx arx. In
mutis proponuntur .b ^.g, fequente >d,
ut [ScPihv po ? bdellium genus lapidis ,abdir
,aldomcnfmygdonides.C, uero Zr-p , proponuntur fequcnte.t
}ut a{htsylc£hisyaptusydiphthon gus. Semiuoczths
nulla proponitur mutis nifi.s , fequete.b,
ut afbejhfs ajbufivs.cfuelqyut fcutii fquallor
.p yut [pes /phatra.tjhtfusfihenni- us-Ante
alum autem nullam nuitur um . Mut<e
uero fetniuo atlibus praeponuntur liquidis abfip.
myomnes pene omnibus-bly ut blandus clyut
clarus -dlyabcdlas nomen barbarnrn.fi frauus-gl gladius
gla^ brio.tlytlepolemus ^tlas pl, planus 'bnyabnuo
frd>by magis fiuperio * ns ejl jyilaba:.
cnyc nidus. dnyadnus ariadne. gnygneusanyatna. pn,
therapnefpnus. brybrennusyumbra.crycreber-drydrances.^rygra -
tusfr, frater- prfratum.trsracfhts. Ante. mydutmuetiiutur-c.d.g.t*
ut py r a cmony
alcrneneydragmaydmoistadmetusyagmeytmolus,ifi mos . T
res aut confio nates no aliter
pcjjimt iungi in principio fiyllabce nifii
fit prima. syucl.cyuel py fecunda
pofi.syquidcm.cyuel.tyuel.p. Tofit.ct aute aut- p,prma
pales fiainda.tytertialHchrfd.lyin fiohs illis
quee ab.symapiunt.ut A fclepicdotus, fiyiba fitlopus
fylendidus , fretus . Ingratas etiam. <p ,t fecunda
ponitur qudm nos per.ph,plerunqs ficru
bmus.crypxyit uittrix.fceptrum • Nam pofi.pt
yuehdyfimul iunfkts l non inuenitur iit
cfivndjmus, ipfit fioni natura pyohibente. \n
fine uero aitUonis contra inuenimus primam
liquidam fequentem muta, poftremam- fiut
uris ,fhrps • fin aute\n in cluas
definat confionantes di&io
diMoynecejfe cfi priorem liquidam effe,et
/cquente-s-uelx-ut fitpr* offendimus, ude. ueUt- antecedente.
n,ut hmc,dicunt , amat, hunc, uel loco-i-grace
bsuel ps fcribcrc pro ratione <grutwi,ut
arahs arabis, petopr p elopis, coeleps ccelibis
, princeps principi*. Quii ufdam fame Ut
fupra docuimus ynon aliter uidetur-^- gr<e at
nifi pro-psfcnben = da.quanquam enim ratio genitim
fiipradiflttm exigat scripturam, tamen
cognationem foni ad hoc procliuiorem cjfe
aiunt hoc tamen fci endum eft,cp
principium syllaba omnimodo pro. i. ps
>debcthahere0 Utpfitacns,pfiudolus , ipje,mbo quccp
mp fi, scribo scnpfi faciunt, quanuis analogia
per -b, cogat scribere ,/edeuphonia fuperat , qua
etiam nuptam non nubtam , & scriptum
non scribtum compellit per-p,non-b,dicere &
scribere- PROBI IWSTITVTA ARTIVM. p.
153. M R. P- ^' 30 V. DE
VOCE. Vox sive soDus est aer
ictus, id est percussus, sensibilis auditu,
quan- lUDi io ipso es(, hoc est
quam diu resonat. nunc omnis vox sive
sonus aul articulata est aut confusa.
articulata esl, qua homines locuntur et
5 lilteris conprehendi potest, t puta
^scribe Cicero', ^ Vergili lege' et
cetera UHa. confusa vero aut animalium
aut inanimalium est, quae litteris con-
prehendi non potest. animalium est ut
puta equorum hinnitus, rabies €3Dum,
rugitus ferarum, serpenlum sibiius, avium
cantus et cetera talia; inaDimalium autem
est ut puta cymbalorum tinnitus,
flageilorum strepitus, 10 uodarum pulsus,
ruinae casus, fistulae auditus et cetera
talia. est et con- fusa vox sive
sonus homiiium, quae litteris conprehendi
non potest, ut puta oris risus vel
sibilatus, pectoris mugitus et cetera
talia. de voce sive sono, quaDtum
ratio poscebat, tractavimus. DE ARTE.
15 Ars est unius cuiusque
rei scientia summa subtilitate
adprehensa. Dam el Graeci aico
TtjgciQSTijg, a virlute, censebant artem
esse dicendam. uDde et veleres artem
pro vlrtute frequenter usurpant.
nunc huius artis, id est grammalicae,
omnis dumtaxat Latinitas ex duabus
partibus constat, ' hoc esl ex
analogia et anomaiia, et ideo
utriusque parlis rationem sub20
iriiDus. Analogia est ratio recta
perseverans per integram declinationis
disciplioam, ut puta hic Catilina,
haec lupa, hoc scrijnium et cetera
talia; $cilicet (|uoniam haec nomina sic
per || omnes casus secundum sua
genera 2S in derlinalione perseverant, sic
uli est analogiae rccta declinationis dis-
riplina. 1 PROBI GRAMHATICI
DB OCTO 0RATI0NI8 MBMBRI8
AR8 MINOR. DB VOCE
V Ci COdtParisinus 7519 incipit
tractatos probi granmatici de uocb codex
Parisinus 7494 DE TocB fi: cf. PrUeian.
p. 727 conl. Prob. p. 306 ed,
Find., Pompei. p. 187 ed, lixd. conl.
Prob. p. 236 sqq. ed. f^ind. 4
omnis R communis r 9 ruditus corr,
ragitus R rndttus rv serpentum R
serpentium rv 24 scrioium rv scriptam
R " 26 analogiae recta R
analog^ia recia r analogia e recta v .Anomalia
est misrcns vel inmutans aut deficiens
ratio per declina- tionem. De
miscente. miscens anomaliae per declinalionem
ratio esl ut puta 5 ab hoc
altero, huic aiteri; scilicet quoniam
quaecumque nomina ablativo casu numeri
singularis o littera terminanlur, haec
secundum analogiae rectam rationis disciplinam dativo casu
numeri singularis o iittera definiun- tur.
item ab hac mula, his et ab his
mulabus; scilicet quoniam quaecum- que
nomina ablalivo casu nueri singularis a
littera terminantur, haec secundum
analogiae rectam ralionis disciplinam dativo
et ablativo casu numeri pluralis is
litteris definiuntur. item ab hoc iugero,
horum iugerum; scilicet quoniam quaecumque
nomina ablativo casu numeri singularis o
liitera terminantur, haec secundum analogiae
rectam ralionis disciplinam genetivo casu
numeri pluralis orum litteris definiuntur.
sic et cetera talia, quae contra
anaiogiae rectam rationis^disciplinam miscent per
casus declinatiouuro formas, anomala sunt
appellanda. De inmutante. inmutans
anomaiiae per declinationem est ratio, ut
puta hic luppiter, huius lovis.' sic
et cetera talia, quae conlra analoglae
rectam rationis discipfinam inmutant per
casus declinalionum formas, anomala sunl appeilanda.
De deficienle. deficiens anomaliae per
declinalionem est ratio, ut puta hoc
nefas et cetera (alla;
scilicet quoniam haec contra analoglae
. rectam rationis disciplinam non per
omnes casus in declinatione per- severanSic
iam et per ceteras partes
orationis analogia vel anomalia comsideranda
est, hoc est ut, quaecumque pars
oralionis neque miscet neque inmutat aut
deficil per deciinalionis disciplinam, ad
analogiam pertineat, quae vero miscet vel
inmutat aut deficit per declinationis
discipllnam, anomala sit appellanda.
nunc etiam hoc monemus, quod
analogia maximam partem oralionis contineat,
anomalia vero aliqnam. de anomalia et
analogia, quantum
ratio poscebat, tractavimus. Liltera est
elementum vocis articulatae. eleroen{|tum autem
est unius cuiusqi.ie rei initium,
a quo sumitur incrementum et in
quod resolvltur. accidit uni cuique
lilterae nomen figura polestas. nomen
lilterae est quo appellatur. sane nomen
unius cuiusque litterae omnes artis
latores, prae- cipuequc Varro, neutro
genere appellari iudicaverunt et aptote decllnari
iusserunt. aploton est autem, quando nomen
per omnes casus uno sche- mate
declinatur, ut puta hoc a, huius
a, huic a, hoc a, o a, ab
hoc a. 40 sic et ceterarum
lillerarum nomina genere neulro aptote et
numero tantu esi inmiscens liv neqne inmiscd
Rv sit] sunt Rv orationis o
rationis R in quod v et Diomedes p.
415 in quo R—24 49 p. 1U.56R.
' p. 231.32 V. siflgulari declinaDda
suBt. figura litterae est qua notatur
et qua scribitur. polestas litterae est
qua valet, hoc est qua sonat. nunc
omnes Latinae litterae dumtaxat sunt numero
XXIII. hae nominantur Tocales semivocales
el mutae. sed semivocales et mutae
appellantur consonantes. sane qnae- rilor,
qua de causa semivocales et mutae
consonantes appellanlur. hac de &
causa, quoniam coniunctis iliis vocalibus
sic nomina earundem consonanl. sed cum
ad ipsas litteras pervenerimus, iliic quem
ad modum coniunctis illi.s Tocalibus nomina
earundem consonent conpetenter tractabimus.
Vocales litterae sunt numero quinque. hae
per se proferuntur, hocio est ad vocabula
sua nuliius consonantium egent societate,
ut puta a e i o u, et per
se syKabam facere possunt, hoc esl ut
ipsae inter se tantum modo misceantur
et syilabae sonus efficialur, ut puta
ua ue oe au ui ia et cetera
lalia. Iiarum, id est vocalium, hae
duae, i et u, transeunt in
consonantium poteslatem tunc, cum aut ipsae
inter se geminantur, ut luno viator
15 rultus, vei quando cum aliis
vocalibus iunguntur, ut vates vecors iam
vos maiestas maior et cetera talia.
nunc quaeritur, quando i vel u
litterae loco consonantis- sint positae,
vel quando inter vocales accipi debent
quare hoc monemus, ut tunc i vel
u loco consonantis accipiantur, quaudo
praepositae vocalibus in syllaba scilicet
sua inveniuntur; quando vero subiectae, et
ipsae vocales iudicenlur: ut puta iu,
utique i nunc loco conso- oaDtis et
u loco vocalis accipitur; item ui,
utiqueu nunc loco consonantis et I
loco II vocalis consideratur. sic et
iuxta | vocales alias, si i vel
u litterae in syitaba sua praeponuntur, vim
consonantium habere iudicantur; si vero
subiciuntur, vocalium loco funguntur. Semivocales
consonantium litterae sunt numero septem.
hae secundum musicam rationem per
se proferuntur, hoc est ut ad
vocabula sua nullius vocalium egeant
societate, ut f 1 m n r s
x. at vero secundum metra
Latina et structurarum rationem
subiectae vocalibus nomina sua ao
elficiunt, ut ef el em en er es
ex. sed per se syllabam facere non
possunt, sciiicet quoniam semivocales litterae,
si inter se misceantur, sonum syllabae
facere non reperiuntur, ut puta fl ms
rx ns; et ideo, ut diximus, per
se ^ semivocales syllabam facere non possunt. ex
his autem, id est ex semi<
vocalibus, x littera duplex in
metris sive structuris ludicatur, siquidem
3& geminatarum harum consonantium sono
fungatur, id est gs aut cs, ut
rex et regs, pix et pics. nunc
etiam hoc secundum aliquos reprehendendum
est, quod huic duplici litterae, id
est x, ad exempium genetivum casum
10 Tecors o uaecors R 20 yocalibns
v uocabulU R 22 consonantis el 1
loco ak. R9 ^23 iaxta vocaies alias
v ex codice Parisino 7519 iaxta
ceteras uucaittB •Hu R secundum R
iuxta rv 50 PROBI p. 156. 67
R. p. 232. 33 V. videantur
subicere, ut puta rex r^is, pixpicis;
quod a ratione x litterae, quae
duplex est, longe alienuin esse videatur.
at in Iiog nomine non est simile
huic tractatni, quod est nix nivis.
DE MVTIS. « Mutae consonantium
litterae sunt numero novem. hae nec
per se proferuntur nec per se
syllabam facere possunL per se hae non
pro« feruntur, siquidem vocalibus litteris
subiectis sic nomina sua deOuiuiit, ut
pula be ce de ge ba ka pe
qu te. per se autem syllabam facere
non pos- sunt, scilicet quoniam mutae
litterae, si misceantur, sonum syllabae
facere lonon reperiuntur, ut puta bc
dg tk pq et cetera talia. nunc
et in his mutis supervacue quibusdam
k et q litterae positae esse
videntur, quod dicant c litteram earundem
locum posse complere, ut puta Carthago
pro Kartiiago. nunc hoc vitium etsi
ferendum puto, attamen pro quam quis
est qui sustineat cuam? et ideo
non recte hae litterae quibusdam super-
15 vacue constitutae esse videntur.
[| item ex isdem mutis h aspirationis
notam, non litteram esse existimaverunt,
cum et haec, sic uti ceterae, certum
sonum retineat potestatis suae, ut puta
honos: numquidnam onos? aut cetera talia; et
ideo hoc quoque non recte existimasse
notandi sunt Nunc quaeritur de
consonanjtibus, quare in duas partes
dividantur, hoc est in semivocales et
mutas. hac de causa, quoniam semivocales maiorem
potestatem habent quam mutae. nam cum
omnes artis latores, praecipueque Caesar,
propter rationem metricam et structurarura
quaUta- tes singularum litterarum sonos
ponderarent, hac ratiooe semivocales mutis
praeferendas iudicaverunt, quod semivocales geminatae ad
sonum
vocalibus occurrunt, hoc est ut syllabam facere possint, ut puta fla ars mons iners
et cetera talia; at vero niutae
geminatae, si vocalibus ocAirrant,. nec
syllabam nec sonum scilicet facere possint.
quis enim b cdkpqtg gemi- natas
vocalibus misceat et sonum syllabae potest
audire? et ideo hac pcaelatione semivocaies
mutas rite videntur antecedere. nunc
hoc monemus, quod h iuncla cum aliis
mutis possit vocali concurrere et sonum
syllabae suscitare, ut puta pulcher; et
ideo hic aspirationis nota, id esl
sonus, non littera accipi debet, scilicet
quoniam mutae coniunctae, si vocalibus
occurrant,prohibentur sonum syllabae suscitare. y
aotem et z propter Graeca nomina
Latini accipiunt. 35 Nunc etiam hoc
quaeritur, qua de causa ratio metri
vel musicae proclivior sit ad rationem Graecam quam Latinam. utique
hac de causa» quoniam Graecarum litterarum
vocabula in dimidia parte sunt dtsyliaba
et in alia monosyllaba, id esl ut
XXX et VI sonos contineant. at vero
litterarum Latinarum nomina cum sint omnia
monosyllaba, id est ul XX et 2
atnivis alia manu 'addUa esge in
eodice adnoiatwn esi in R 11
supervacue coniecU ediior Vindobonensis
superuacuae Rv quod r quo R 14
8uper> uacuae R 28
misceat r miscel corr. misceat R. 68
R. p. 233.34 V. sonum contiDeaDt,
necesse est ut et in ratione roetri
vel musicae plus facultatis raUo Graeca
quam Latiua obtioeaL sed boc in
metris vel rousicis conpetenter traclabimUs.
dudc et boc moDemus, quod pauci
sciuDty siquidero ood semper x littera
dupiex sit accipieuda; sed tUDC duplex'
accipieDda, quaudo subiecta syllabam coDfirmat,
ut puta dox et 6 Docs, lex et
legs, felix et felics. et celera
talia, siquidem tuDc et soDum duaruffi
litterarum coutiDeat. at vero qqaDdo
praeposita syllabae existat, noD duplex sed
simplex est accipicDda, ut puta maximus
auxius: Dumquiduam macsimus aut aocsius? et
cetera talia; et ideo, ut diximus,
quotieos X [[
littera praeposita syllabae existat, simplex est supputaada,
sciiicet loquoDiaro cs et gs litterae geroinatae, si vocalibus praepooaDtur, numquam sonum syllabae suscitabuDt
de litteris, quaoluro ratio poscebat, tractafimus.
Etiaro de syllabis, quouiaro dod brevis
ratio est, ideo alio loco cod- i6
petenter cum roetris tractabimus. Partes orationis sunt octo:
nomen, pronomen, participium, adverbium, coniuctio, praepositio, interiectio,
et verbum. Grice: “Italians speak of ‘parola’ easier than they analise it.
I play with ‘word’ and ‘sentence’. ‘Sentence’ of course comes from Cicero,
‘sententia.’ I admit that it may not be possible to provide a formula
‘Expression means …’ unless you specify the ‘syntactic type’ to which E
belongs. I tried for adjectival ‘shaggy’. And even there I got into problems
with the idea of a correlation, where the utterer is asked to provide a
correlation of the type he has just provided!” -- Grice: “La voce e la parola”.
Nicola Chiaromonte. Keywords: parola, parabola, Donatus, Priscianus,
definizione di voce, vox, verbum, word, Grice on ‘word’ – Corleo on ‘parola’
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Chiaromonte” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Chiavacci: l’implicatura
conversazionale poetica di Gentile –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Foiano della Chiana). Filosofo
italiano. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to identify him with
Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than an exegesis of
Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite tracts are
three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were lacking! --, his
little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not appearance, as Bradley
would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin ‘ludus,’ game – His
‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della stagione neoidealista
italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi dell'attualismo
gentiliano. Nato a Foiano in provincia di Arezzo da Enrico
Chiavacci e Annunziata Doni, ricevette l'istruzione primaria a Cortona, e quella
secondaria nel liceo di Iesi. Frequentò la facoltà di lettere del Regio
Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Guido Mazzoni, e
conobbe tra gli altri il poeta filosofo Carlo Michelstaedter, di cui divenne
grande amico, insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni.
Si laureò con una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne
una cattedra di insegnamento per il ginnasio inferiore. Con l'entrata
dell'Italia nella prima guerra mondiale, Chiavacci combatté al fronte come
capitano di artiglieria. Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra
vinse una cattedra per il ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a
frequentare la facoltà di filosofia a Roma, dove incontrò Giovanni Gentile, col
quale si laureò con una tesi su Antonio Rosmini. Dal 1924 cominciò a
insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside di varie
scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne professore
universitario di pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò filosofia
teoretica a Firenze, anche la cattedra di estetica. Entra a far parte
dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi
altri titoli accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti
della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e
Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di
Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non
trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa:
la dottrina dell'atto puro.» (Gaetano Chiavacci, L'eredità di Gentile, in
«Giornale di metafisica». La filosofia di Chiavacci si muove tra l'idealismo
attuale di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Carlo
Michelstaedter dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista
cristiana. Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata
atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a
differenza dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra
un passato e un futuro illusori. Riappropriandosi al contempo del
criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba
a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla
vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».
Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica
che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo
consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso,
realtà attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno
le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta
dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di
mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera
e smarrisce la «fonte della verità». L'atto invece, per Chiavacci,
proprio perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che
sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna
rivivere dal di dentro». Tale consapevolezza interiore che «il soggetto
ha di sè senza oggettivarsi», è per Chiavacci fondamentalmente un'intuizione,
un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel
soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta
un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della
sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione,
«caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da
quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è
l'intuizione costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe
dire sensus sui». Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo
Chiavacci, essenzialmente fede. Opere Tesi di laurea: La Commedia nel
Decamerone (Iesi, tipografia Fiori) Il valore morale nel Rosmini (Firenze,
Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La
Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema
della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in
maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica».
Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto
michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione
umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica
(Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che
affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra
fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che
assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il
fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della
religione. Chiavacci ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter
(Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce
"Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana. A lui si devono
poi altri due saggi sul Rosmini: Filosofia e religione nella vita
spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini
(Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci
Leonardi, introduzione di Eugenio Garin, Firenze, Olschki, GentileChiavacci.
Carteggio, Paolo Simoncelli, Firenze, Le Lettere. Roberto Grita, Gaetano
Chiavacci, su treccani. Antonio Russo, Gaetano Chiavacci, interprete di
Michelstaedter, Trieste. Così Chiavacci ricorderà il suo primo incontro con la
figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello
spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di
comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra
cosa non ha pregio» (da una lettera di Chiavacci a Gentile, cit. in
Gentile-Chiavacci: CarteggioSimoncelli, Firenze). Scheda su Gaetano
Chiavacci [collegamento interrotto], su agiati.org. Cit. anche in G. Chiavacci, Quid est veritas?
Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, Olschki. Gaetano Chiavacci, Il
pensiero di Carlo Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della
filosofia italiana». Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità
dell'atto, in «Giornale critico della filosofia italiana», Gaetano Chiavacci,
Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, Gaetano
Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A. M. Chiavacci Leonardi,
Olschki, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo,
Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a
G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano
Chiavacci interprete di Michelstaedter, Gaetano Chiavacci, su sapere. Gaetano Chiavacci, Michelstaedter Carlo, in
«Enciclopedia Italiana», Roma. Gustavo
Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, La Scuola, Augusto
Guzzo, Gaetano Chiavacci: la "Ragione poetica", in «Giornale di
metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna
di filosofia», Antonio Testa,
Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia», Gianfranco Morra,
La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi», Vito A. Bellezza,
Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e Scuola», Dario
Faucci, L'«attualismo» di Gaetano Chiavacci, in «Filosofia», Antimo Negri, Giovanni Gentile: sviluppi e
incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, Gaetano
Chiavacci (1886-1969) interprete di Michelstaedter, Sergio Campailla, in La via della persuasione. Carlo
Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo (filosofia)
Giovanni Gentile Idealismo italiano Carlo Michelstaedter La Persuasione e la
Rettorica Enrico Chiavacci Gaetano
Chiavacci, in Dizionario biografico degli italiani.
L’encomiabile Bibliografia michelstaedteriana1, regolarmente
aggiornata, che appare sul sito della Biblioteca statale
isontina, ha ormai assunto dimensioni più che ragguardevoli
e, nell’ultimo anno, per via del centesimo
anniversario della sua morte, essa
si è di molto arricchita2.
Sembra, quindi, cosa ardua dire
qualcosa di nuovo su
Carlo Michelstaedter. Un’ulteriore problema, poi, che
presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien conto che con
il giovane pensatore goriziano ci troviamo di fronte ad un intellettuale
anomalo, del tutto sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di solito
gli altri muovono i primi passi nella vita pubblica. La stessa sua opera
principale, La persuasione e la rettorica, era destinata ad essere la sua
tesi di laurea ed è stata data
alle stampe postuma; sicché il riconoscimento tardivo e la fortuna, non
solo nell’ambito del panorama culturale italiano, ma anche di carattere
internazionale, che essa ha avuto, sono in gran
parte dovuti alla devota
sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella
degli altri scritti di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la
sua scomparsa prematura, il merito di aver sottratto alla morte la sua
memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella
ristrettissima cerchia degli amici fiorentini, spiccano
Vladimiro Arangio – Ruiz e Gaetano
Chiavacci.4 Il lavoro paziente e meticoloso del
secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti
di Michelstaedter, con la sua edizione delle Opere
(Firenze, Sansoni), “costituisce una pietra miliare
nella vicenda storico-culturale
e storico-critica del giovane
pensatore goriziano...L’edizione Sansoni del Chiavacci è
all’origine del lavorio critico e interpretativo che è seguito negli
ultimi trent’anni e che non accenna ormai a declinare”
In uno studio su
Michelstedater, non si può allora
perdere di vista questa verità;
e, soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora, affrontare
il compito di chiarire il senso e i termini della ricostruzione del suo
pensiero proposti da Chiavacci e da Arangio – Ruiz.
E parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare
sotto silenzio un autore, Giovanni
Gentile, le cui suggestioni
sono penetrate per canali vari
e hanno raggiunto un’egemonia ancora non del tutto
esaurita nella cultura italiana. Non a caso, con aderenza più
o meno piena, da lui hanno preso le mosse molti autori che poi hanno
svolto idee originali e autonome, accentuando, ripensando o rivedendo
l’uno o l’altro aspetto della sua filosofia. Nella sterminata
letteratura critica che gravita sull’attualismo, i due pensatori
‘fiorentini’ compaiono, sia pure
con caratteristiche proprie che
li distinguono dall’uno e
dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della
sinistra (Vl.Arangio – Ruiz) o della destra gentiliana
(G.Chiavacci)6. Tuttavia, il loro
lungo e travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica, sia pure
ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù non è stato mai messo a fuoco con
efficacia e nei suoi risvolti più significativi ed è stato oggetto solo
di qualche timida e stentata paginaNon deve perciò apparire strano che su
questi problemi e su questi autori, e in particolare sulla loro
collocazione speculativa nell’ambito del panorama attualistico, si torni ad
insistere: essi esordirono come attualisti; poi, seguirono e “amarono”
Gentile9; non persero mai di vista l’approfondimento del
suo pensiero e si riconobbero
in esso nell’arco di alcuni
decenni, giungendo ad un suo “sincero
ripensamento”10. Una lettera di
dedica a Gentile, datata 8
agosto 1943 (che apre il
volume La ragione poetica,
Firenze, Sansoni, 1947), mette
ampiamente in evidenza l’effetto che provocò sul giovane Chiavacci, nel marzo
del 1919, la lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro
:”ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di
comprendere la vita, di potervi trovare quel valore, senza del quale
ogni altra cosa non ha pregio” A questi dati se ne
potrebbero aggiungere molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e
di spazio, occorre prescindere da una approfondita analisi delle
rispettive biografie teoretiche e del contesto. E, poi, per lo stesso motivo,
si rende necessaria una ulteriore limitazione del discorso al solo
rapporto Chiavacci – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio –
Ruiz non ha lasciato un
grosso volume sistematico, ma
solo volumi di saggi;
e quanto a Conoscenza e
moralità, che già subito non lo appagava più...egli
stesso lo considerava un saggio, non un trattato”12; e, poi, egli
fu non tanto un pensatore sistematico, quanto un fine e colto letterato,
un autore “di prosa morale o di polemica antintellettualistica o di
discussione su problemi di estetica e di critica d’arte”.
Infine, tutta la sua opera è pervasa sin dai suoi
momenti iniziali da “una polemica coi suoi più vicini maestri: Croce e
Gentile” 13; invece, le posizioni speculative di Chiavacci presentano
tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo dei
motivi tipicamente attualistici
e culminano con maggior
consapevolezza ed esiti più
cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione
dell’idealismo14. Qui, come
termine di riferimento e di
confronto, occorre prendere in
considerazione l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua
attività didattica e scientifica trovò il suo più maturo affermarsi, a partire
dal 1918 a Roma.15 Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le basi di
un fitto tessuto di relazioni che interviene a
connettere Chiavacci a Gentile, in un rapporto
che diventerà sempre di
più assiduo, “amichevole e
confidente”. La prima domanda da
porsi, per sgomberare il terreno da
equivoci, è di sapere, attraverso l’analisi
puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il consenso e i punti
di dissenso. Ma vediamo i termini del discorso, senza
perdere il contatto con i testi. Gentile si
occupa ripetutamente di Carlo Michelstaedter. Su
sollecitazione di Chiavacci (lettera 14 novembre 1920), che si
era iscritto in Filosofia, a Roma dopo averne letto i testi e ascoltato le
lezioni, interviene presso Vallecchi, una delle sue cittadelle
editoriali, per caldeggiare
l’edizione de La persuasione e
la rettorica data effettivamente alle stampe nel
1922; nel 1933 (lettera a Chiavacci del 21 novembre) chiede allo
stesso Chiavacci di redigere per
l’Enciclopedia Italiana la voce Michelstaedter
di 10 linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per
la stessa voce a 30 righe18. Nel 1922, poi, recensisce l’opera di
Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel
farlo, tributa innanzitutto elogi
all’iniziativa ad opera di
un “fido gruppo di amici”
di Michelstaedter; rileva subito dopo che
si tratta di uno scritto giovanile
in cui non c’è un“approfondimento metodico” degli
argomenti trattati, e né un loro “sviluppo sistematico 19.
Infine, prende in considerazione “il problema dell’opposizione tra
la persuasione vera, che corrisponde al possesso della vita, e la
falsa persuasione, scopo della rettorica”20. Per
Gentile, in Michelstaedter la persuasione serve ad indicare
il fatto che il “possesso della realtà e della verità...non cerca
vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è caratteristica “della
sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La persuasione del vero
sapere, come lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul
punto che è il centro del suo mondo: nel suo animo”21. Di contro, la
rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e
s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco
dell’uomo, gli fa credere di vivere in mezzo ai piaceri”;
la rettorica uccide la
vita, irretisce l’uomo “nella
vana teoria dei concetti”,
“sdoppia il sapere e la
vita”, oppone “alle cose
direttamente affermate il pensiero che afferma le cose” e così
mostra “l’insufficienza delle cose che hanno nella persona il loro
correlato e l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo
termine integrante”Tuttavia, per Gentile,
anche se il Michelstaedter
sceglie giustamente a suo bersaglio
la rettorica, alla quale dedica gran parte delle proprie forze speculative e
del proprio lavoro di tesi, “non ha né tempo né animo per considerare
direttamente e con pari studio la persuasione. Sono
accenni qua e là, e
qualche spunto del suo
pensiero positivo si può
scorgere” nelle Appendici e, più
precisamente, ne Il prediletto
punto di appoggio della
dialettica socratica24. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene
definita come caratteristica “di chi permane. L’unica via di chi permane
è la sua forza; la forza di non asservirsi al futuro, e tenere raccolta
nel presente la propria vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine
poetica, non con un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò
interrogativi sul cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito
indiscusso del Michelstaedter, il suo guadagno speculativo
più cospicuo, secondo Gentile,
consiste nel mettere in
rilievo un universale aspetto di
verità, che consiste nel fatto che
l’uomo “rientra in se stesso, liberandosi
della rettorica e gettando la salda ancora della vita nel porto
della persuasione”26. Quali furono le reazioni di Chiavacci
a questo giudizio di GentileUno sguardo da vicino all’elenco
dei suoi scritti e una loro attenta
analisi consente di accertare che
la sua personalità speculativa,
ma anche quella di Arangio
– Ruiz, nasce dall’incontro con Carlo
Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo
“culto” per l’amico comune “restò fino all’ultimo sempre vivo”27.
Entrambi gli autori, poi, pur se procedono con diversa,
e non certo marginale, fisionomia sistematica e speculativa,
fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto
le suggestioni di Michelstaedter, nel
tentativo di riguadagnare, come
nel caso del Chiavacci,
l’essenza dell’attualismo e così
di offrire un contributo,
“perfettamente consentaneo”, alla
sua più compiuta espressione28.
L’intero percorso speculativo di Chiavacci, ad esempio, manifesta fino in
fondo la fedeltà a conservare queste istanze, comunque egli si muova,
quali che siano gli andarivieni del suo pensiero. In particolare,
egli dà alle stampe nella “Rivista di cultura”, di cui
Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due
nature29. In esso, egli affronta il problema del rapporto
tra finito e infinito, sostenendo che “l’infinito ideale non
può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del
finito”30. Il testo viene pubblicato con una postilla dello stesso
Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita a non insistere tanto
sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e,
soprattutto, ad approfondire meglio gli aspetti relativi
al ruolo della “negatività nella dialettica propria dell’idealismo”,
con particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione
in cui si deve cogliere una attività che passa e supera il limite che si
è posto e si afferma nella “sua libertà da ogni limite”, come valore o
realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una trascendenza,
ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza dello spirito nella
sua concretezza”. Dopo
questo intervento, due anni
dopo, ossia nel 1924, e
sulla scia evidente delle
sollecitazioni di Gentile, nel Giornale critico
della filosofia italiana, la rivista
fondata e diretta dallo stesso Gentile, Chiavacci dà
alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in cui cerca di
mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il
pensiero di Michelstaedter non è
riconducibile ad “una realtà
negativa”, ma è “la positività
dell’atto negante, in quanto vero atto, cioè vita”; esso non
è “pura negatività”, e tutta la sua novità consiste nel
fatto che “il positivo di Michelstaedter è l’attività che crea se stessa
dal nulla” e perciò è senza condizioni o, in termini gentiliani,
“libertà senza limiti”32. Tutto il testo
di Chiavacci è una serrata, e pacata, replica e a Gentile, in
cui si pone il problema di precisare
e difendere le giuste
esigenze, quasi come una
esplicitazione in positivo del pensiero di
Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi
su La persuasione e la retorica. Già
il titolo dell’articolo di Chiavacci
è una risposta a Gentile, che negava
al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria dottrina filosofica,
di un approfondimento metodico
e di uno sviluppo
sistematico e parlava piuttosto
di “personalità filosofica”33. Per Chiavacci,
invece, Michelstaedter “non parla direttamente della persuasione”, ma non
per questo è “giusto dire che ne dia pochi cenni...della persuasione si parla
in tutto il libro, perché essa è il criterio della lotta
contro la rettorica”34. Egli non ne fa la teoria, “come non fa la teoria
del positivo della persuasione, così si rifuta di considerarne il risultato,
come un fatto staccato dal processo”35. Il criterio che Michelstaedter usa
non è una nuova teoria accanto a tante altre teorie che si sono avute nel
corso della storia del pensiero, ma “è Michelstaedter stesso vivente.
Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il
suo organismo vivo che non può contraddirsi”36; e perciò la definizione
della persuasione risulta “da tutto il libro”37. Una tale filosofia, nel
nucleo essenziale del suo pensiero, è l’attività vera, la vita, non
ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita” 38. “La via della
persuasione è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la
vita dell’infinito nell’individuo finito, è la vera vita del finito: è
processo, vita”39. Michelstaedter non è un mistico; il suo
ideale non è un qualcosa di trascendente, “ma è la realtà
stessa più profonda del soggetto”;
quel che egli nega del
particolare “è insieme affermazione,
come dice l’idealismo”: si
nega la particolarità del
particolare, “nella sua 32 G. Chiavacci, Il
pensiero di Carlo Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia
italiana”, pretesa immediata, quel che si afferma è
quel che implicitamente era in lui di
universale, senza di che non poteva neppure esser particolare: è lo
sviluppo della sua parte migliore che dormiva. Quel che di lui perisce
era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che del
particolare ci deve premere, la sua aspirazione
all’universalità, quella non perisce, ma s’invera. E’ in
fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla dell’immortalità”41.
Questo particolare, questo esserci del mondo come particolare, come
finito, non è possibile senza “la richiesta dell’universale”, è “il campo
in cui lo spirito si celebra e trionfa...’è il lampo che
rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è
dato. La convergenza delle due posizioni, e su punti e
aspetti decisivi della vulgata attualistica, diventa qui profonda. In
concreto, l’idea di individuo, non più un essere naturale e che “non si
restringe nei limiti del particolare: perché egli non può né pensare, né
sentire, né altrimenti realizzarsi, che in
un modo universale”43, caposaldo
e tipica espressione dell’attualismo
gentiliano chiamata in causa nel testo di Chiavacci del 1924, viene pienamente
accolta. E si pongono così le basi di un consenso che non si discosterà
molto negli ulteriori svolgimenti del confronto tra i due autori.
Per cogliere ulteriormente i tratti principali del
consenso tra Gentile e Chiavacci, al di là dei punti di
convergenza fin qui messi in risalto,
è necessario tener presente i
principali scritti di Gentile di quegli anni, in cui la sua attività
didattica e scientifica “trovò…il suo primo affermarsi con
volontà rivoluzionaria. Si determinava una
svolta essenziale del suo pensiero e della sua azione”.
Gentile, infatti, al culmine della propria maturità
scientifica, iniziava il corso
di Storia della filosofia. E,
nel concludere la sua prolusione, tracciava
le linee direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia, con
l’intento di “rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come
parla”45, perché “il vecchio letterato è morto…l’accademia
e la filosofia da eruditi devono essere
davvero un passato irrevocabile” : la vita deve
diventare una milizia continua46. Come
documento più significativo di questa svolta può essere preso il
proemio (del 19 ottobre 1919) del primo numero del “Giornale critico
della filosofia italiana”, la rivista della Scuola romana gentiliana, in
cui viene portato avanti lo stesso discorso della prolusione. Non a caso, in
esso, Gentile “propone di guardare all’avvenire” per incominciare una
nuova vita, uscendo dall’individualismo
e dall’egoismo. E, per farlo,
egli dice, occorreprecisare il rapporto tra scienza e
filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una parte
c’è la scienza e
dall’altra la filosofia. La
prima presuppone il proprio
oggetto di conoscenza ed è analisi disgregatrice
“sintesi impotente a ricreare la vita distrutta...la quale se potesse
veramente realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi
inesistente: critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita
restandone fuori”; la seconda, invece, e lo stesso discorso vale per la
religione, “non presuppone, ma pone; non guarda, ma crea; non analizza
perciò, ma vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema
di questo rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e
costituisce l’aspetto fondamentale del programma della nuova rivista 49.
Gentile parla qui di sviluppo dialettico che si risolve e si supera
in un dramma eterno,
che, proprio perché continuo
superamento, rinvia necessariamente
al continuo superato,
all'oggetto nel soggetto. Cosicché
la realtà, o atto spirituale, è una
unità, ma non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto,
ossia della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico
dello spirito, ribadita a più riprese, significa che la
filosofia non è più "teoria e contemplazione
del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso.
Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza di
agire''. Tanto che, come
afferma Spirito, "l'idealismo
trionfa veramente di ogni intellettualismo
non in quanto esso rimane una teoria dell'atto,
ma solo in quanto si attua, sicché il suo valore
teoretico è assolutamente nulla
(intellettualismo) se non diventa etico (attualismo)''.
Gentile insiste, in altre parole,
sul valore dell’attività creatrice dell’uomo e sviluppa il
concetto di un mondo che noi facciamo e
dobbiamo fare. Anzi, esso è l’unico
veramente esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato
dall’esigenza pedagogica e dal posto che il problema dell’educazione
occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo centro della sua
concezione” e mette in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta
raccolta in quell’umanesimo, che
dà significato fin da
principio alla teoria e
alla storiografia dell’attualismo. La
vita spirituale è educazione, anzi
autoeducazione...questa affermazione non ha
un significato parziale, e
relativo ad una determinata
questione, ma rappresenta l’essenza del
concetto di spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile”.51 E,
perciò, per intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre
”guardare al lato più propriamente etico della sua filosofia: a quello
cioè per cui la filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio
significato intellettualistico, si afferma come
identica alla vita, come il valore stesso
della vita. La filosofia
del Gentile è tutta
Etica o meglio Pedagogia.
Poiché una filosofia che non
è concetto della realtà,
ma autoconcetto, non può
essere più teoria e
contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso”52.
In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può
indulgere a nessuna inerzia. Una tale filosofia, infatti, non può
risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il
filosofo poteva rintanarsi
nell’ozio speculativo, far propria
una ideologia estetizzante da
filosofo - letterato, ed avere come unico compito quello di guardare e
giudicare, per intendere una realtà altra ed indipendente da lui. Si
trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per il suo stesso
esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col Gentile, invece, cessa
ogni dualismo e ogni astratto concetto di filosofia. Quest’ultima, anzi,
diventa, azione consapevole di sé, vita umana, sociale, e quindi anche
educazione e politica. Vi è identità di conoscere e fare e
viene meno la separazione meccanicistica, e con essa
ogni residuo dualistico, tra le varie sfere dell’attività
umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti termini
sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e responsabili del
nostro mondo e di conseguenza natura, società, storia, ecc. non
costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è assolutamente
immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non è più
quella degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma “quella
della nostra personalità, più profonda che non è di fronte ad altre
personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo seno in una
vita unica che deve farsi sempre più una,
e cioè sempre meno particolare ed
egoista”53. Così viene vanificata la nozione
individualistica della persona, nel
tentativo di guadagnare una societas in interiore
homine, perché, per usare le stesse parole del Gentile
della Teoria generale dello spirito come
atto puro :“altri, oltre di noi, non
ci può essere, parlando a rigore, se
noi lo conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è identificare,
superare l’alterità come tale.
L’altro è semplicemente una
tappa attraverso di cui
noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire
alla natura immanente del nostro spirito
: ma passare, non fermarci”54. Questo stesso
concetto, poi, verrà ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi e
struttura della società, dove si afferma che l’individuo non da considerare
come un atomo; ad esso, infatti, è :”immanente al concetto di
individuo è il concetto di società. Perché non c’è Io, in cui si realizzi
individuo, che non abbia, non seco, ma in sé medesimo, un alter, che è il
suo essenziale socius”.55 L’uomo, allora, non può più rinchiudersi nella
sua angustaempiricità e nella sua particolare competenza, ma deve invece
realizzare se stesso e la propria “personalità nella coscienza di una
vita universale”.56 Gentile, secondo Ugo Spirito,
non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà, ma con la
propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della
nuova idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita
sociale si sono realizzate nella sintesi più concreta
e consapevole. Egli, perciò,
nel significato più proprio
della espressione hegeliana, è
un individuo portatore dello
spirito57; anzi, “è il
simbolo, e, meglio, che
il simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua
umanità non si riduce ad una vuota e vaga astrazione,
ma egli è un uomo intero,
appunto perché è quella “universalità
che si concretizza nella storia e nell’individuo...vive
concretandosi nell’individuo”58. Il che, nei
suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che Chiavacci
aveva svolto nel suo articolo del 1924. Per il filosofo fiorentino,
infatti, come abbiamo avuto modo di vederlo più
sopra, anche Michelstaedter non elabora
una teoria della persuasione, e il
criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non
sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo
organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo essenziale del
suo pensiero, quindi, è l’attività vera, la vita,
che non ha fuori di sé la vita “perché deve
essere essa la vita”60. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine
fuori di sé. Essa intanto è la
vita dell’infinito nell’individuo finito, è
la vera vita del finito: è processo,
vita”61. Lo stesso tema verrà
ulteriormente ripreso dal
Chiavacci negli anni successivi. Il suo volume
Illusione e realtà, del 1932 e
sua prima opera sistematica di
filosofia, per usare un’espressione
di Eugenio Garin, può
essere intesa “come una sorta
di esplicitazione in positivo”62 del pensiero di
Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua
tesi su La persuasione e la retorica volta a metterne in risalto gli aspetti
per così dire positivi, cioè il tema della persuasione. Dopo
pochi anni, ossia nel 1936, dà alle stampe un
Saggio sulla natura dell’uomo (Firenze, Sansoni)
animato dal proposito di tradurre nella tensione dialettica di
natura/uomo la precedente coppia di termini illusione/realtà e, così, di
continuare la chiarificazione delle
principali istanze michelstadteriane
in rapporto alle posizionigentiliane.
Tale compito campeggia sin dalle prime battute discorsive del saggio,
che perciò viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che
“dovrebbe riuscire ad una riaffermazione
di idealismo”.63 Nell’Epilogo, poi,
il risultato dell’argomentazione
discorsiva, considerato nelle sue
rigorose e ultime conseguenze,
lo porta ad individuare nell’atto
gentiliano, ossia in quella che egli chiama la ragione poetica, il punto focale
della riflessione attorno a cui
disegnare il tracciato del
confronto Michelstaedter – Gentile.
E questo atto consiste in una liberazione e in un distacco da
tutto ciò che è caduco e relativo; epperò, nello stesso
tempo, conduce “a vivere con
altra mente la vita che
ci troviamo a vivere, un consistere nel qualunque punto
la sorte ci abbia gettato, è accettazione, perché tale atto “non cerca
nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica pura gioia, se tale può dirsi – è
lo stesso suo puro conoscere, la stessa sua assoluta liberazione
interiore”64. In un altro saggio del 1947, apparso ancora una
volta nel “Giornale critico della filosofia italiana”, Chiavacci
affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della speculazione gentiliana:
l’attualità dell’atto. Nel farlo ammette
che il centro dell’attualismo è
l’attualità dell’atto, ossia l’affermare la
realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e non è”,
atto come processo che è “assoluto possesso, realtà attuale immanente al
suo farsi”. Per spiegare come sia da intendere questa affermazione di
carattere fondamentale, Chiavacci analizza alcuni dei principali
testi del Gentile; mette in
evidenza, poi, che la realtà
di cui il filosofo di Castelvetrano
parla non è un fatto, ma libera creatività “che sfugge ad ogni metro di
criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal
di dentro”66. In questo processo, il finito, l’io empirico, il mondo,
“che deve essere negato nella sua pretesa sufficienza, nella sua pretesa
di sostituirsi all’infinito”, non viene abolito, ma “acquista tutto il suo
valore, quando, vedendosene l’insufficienza
in sé, è considerato
nel suo essenziale rapporto
con l’infinito...perché visto con
altri occhi nella sua vera
realtà” Per Chiavacci, in questo consiste la verità
elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il
gentilianesimo indica quando parla di attualità dell’atto. Non più
filosofia in senso logico, ma vita in atto, attività giudicante e nello
stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto più importante,
avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito,
in cui “il processo è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne
novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre
identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e vivere. In
questa concezione, per Chiavacci sembra
annidarsi, comunque, una difficoltà di fondo, cioè: anche
l’attualità dell’atto sembra essere una forma di mediazione, di
logica, e quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra cadere
nell’accusa di panlogismo già rivolta a suo tempo contro la filosofia
hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per
Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come “spirito,
non fatto ma atto, farsi. Viene facilmente pensato
che questa sia la nuova mediazione;
giacché un farsi, un divenire, non può essere in
sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere
all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione
di questo problema è di capitale importanza per poter
intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far si che esso non
sia da abbandonare come una realtà del passato definitivamente tramontato, ma
sia “più vivo che mai”. Per sciogliere
i nodi del problema e dissipare
i dubbi, in modo da comprendere
l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo, occorre tener presente
che la mediazione attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il
suo modo di intendere l’atto in atto, “è una mediazione non di
opposizione, ma di distinzione, in cui non si afferma
né si nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in
quanto si vive la vita altrui, e si vive l’altrui in quanto
si vive la nostra”70. Questo è il
vero e incontestabile attualismo, ossia “lo spirito
che sempre si fa, sempre non è, e che pure giunge a vivere questo suo non
essere (cioè questo suo superare il finito) come l’eterna assoluta realtà
(cioè come vita del finito in cui si realizza l’infinito)”71.
Nei testi Filosofia dell’arte e Genesi e struttura della
società, in particolare, Chiavacci trova conferma a questa sua rilettura
del Gentile, soprattutto quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano
dell’individuo all’interno della Società trascendentale o societas in
interiore homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già nel
suo principio, non un’unità semplice, un io
indivisibile, un individuo atomistico: ma è unità
fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per
la quale soltanto ci possono essere
l’io e l’altro” 72. Si tratta
di fondare una società, in cui
“l’io, essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato
con gli altri, e la vita di ciascuno è la stessa, identica vita di tutti.
Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si crea
per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io
nella sua più vera realtà, ora consapevole
e perciò soltanto ora veramente
reale nella sua
concretaindividualità”73. Si tratta
in altri termini di
una dialettica tra logo e
attualità o attualità dell’atto, che
consente al Gentile, secondo Chiavacci, di prendere le distanze e di
realizzare un fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel.
Gli stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui
illustrati (ma poi anche quelli di “illusione” e “realtà”) traducono in
linguaggo attualistico la distinzione michelstaedteriana tra persuasione
(vita del finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si
celebra e
trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo atomistico, ecc.).
A ulteriore dimostrazione di
quanto fin qui affermato, c’è
un altro testo di
Chiavacci, datato 1952, significativamente
intitolato L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice
che non si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi
per lui ‘individuo’ “. Per cogliere il vero senso del pensiero di Carlo
Michelstaedter, occorre allora tener presente che “egli è un uomo
d’azione: il suo parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare
una nuova realtà, in cui il mondo e gli altri siano a lui
identici, siano una cosa sola con lui, in quanto egli abbia
raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che perciò sia giusta
verso tutti, perché abbia raggiunto quel valore individuale che fa
vivere ‘le cose lontane’ “. E, nella stessa pagina, nell’intento di
mettere a in luce e cogliere il vero significato del pensiero di
Michelstaedter, Chiavacci ribadisce ulteriormente che :”il valore
individuale...è la concreta consapevolezza che la nostra essenziale
esigenza trascende ogni singola determinazione. In tal modo si porta a
una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità
reale, che né spazio e né
tempo potranno minacciare, e
il molteplice del mondo
si unificherà anch’esso e si farà a noi interiore”. Giunti
fin qui, il quadro che nei suoi
tratti più peculiari ci si
presenta agli occhi, in particolare dopo la
sintetica analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata
attualistica e dei testi dati alle stampe da Chiavacci nell’arco di alcuni
decenni, è quello di un tentativo di
riguadagnare il più profondo
significato dell’attualismo. Chiavacci,
in altri termini, a
partire dai primi anni
Venti, riprende un motivo
tipicamente attualistico, espressione di
quell’idealismo che egli considera
come la “più ricca eredità tramandataci
dalla storia della filosofia moderna”77, e cerca di mostrare
i legami di fondo che stringono Gentile a Michelstaedter.
Colloca così in primo piano i
punti di forza del momento dellapersuasione
e, nello stesso tempo, del momento dell’attualità
dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono, seguitando a
dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e rinnova il
problema della persuasione e di
Gentile quello dell’atto in
atto, che si fa continuamente,
che è vita. Il suo
intento è quello di collocarsi
all'interno dell'attualismo nell'intento di chiarirne
alcuni suoi problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più
recondito, del lascito gentiliano - e de La persuasione e la rettorica -
e di non lasciare che esso venga ridotto
a teoria, ad una
chiusura sinteticistica o una
formulistica ripetuta pedissequamente.
Lo stesso Gentile, per Chiavacci, non
sempre ha avuto piena coscienza degli
ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione
dell’attualità dell’atto, e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il
significato profondo di questa sua conquista, ma questo non autorizza ad
arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una ripetizione puramente
verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo “sarebbe non solo tradire
lo spirito del suo pensiero, ma addirittura contravvenire al suo
esplicito imperativo, di superare perennemente le forme individuate in
cui il pensiero via via si realizza”.78 Così Chiavacci
ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme maitresse,
la cui chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo attribuisce
all’individuo, come una di quelle verità fondamentali che una volta
scorte non possono più essere perse di vista, ma che possono
essere pienamente accolte e fatte
oggetto soltanto di ulteriori
svolgimenti e approfondimenti. Questa caratterizzazione
dell’individuo, non più inteso come atomo e che perciò non può più
rinchiudersi nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso
nella coscienza di una vita universale - cioè far si che nasca in noi “una
nuova realtà, così che il mondo sia con noi una sola cosa”79 -, e
che perciò “sceglie di permanere, sceglie l’ora, il qui,
convertendoli in sempre e dovunque :
sceglie la qualunque situazione che si
trova a vivere, e esaurisce in
essa l’infinita sua esigenza:
far finito l’infinito, far
vicine le cose lontane”80, rientra,
sul terreno speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della
sua dottrina dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale
convergenza con essa, al di là di un differente uso
terminologico e di enunciazioni
gentiliane non sempre rigorosamente
univoche. Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi
scritti dati alle stampe tra il , Chiavacci conferma
e sviluppa ulteriormente queste
posizioni, sempre sullo sfondo
del dialogo con Michelstaedter e con
Gentile, ancora una volta nel tentativo di
conciliarne leesigenze di fondo. Così in un saggio del 1955,
significativamente incentrato su L’eredità di Gentile, si
propone il compito di
individuare e descrivere ciò
che deve al filosofo di
Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi termini:” Se mi domando...che
cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il
nucleo più vitale della sua dottrina, che egli lascia come preziosa
eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che sentono l’impegno di
non disperderlo, così come i figli buoni sentono il dovere di non dilapidare,
ma anzi accrescere, il patrimonio che il
padre per amor loro onestamente aveva guadagnato e
saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una parola,
risposta più esatta di questa: la dottrina dell’atto puro”81. Su questo
terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed
è un io senza residui intellettualistici che, per
poter assolvere opportunamente il
suo compito e realizzarsi senza impietrarsi, non deve avere
alcuna realtà presupposta, ma deve “reintegrare la realtà
dell’oggetto, senza farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo
qualcosa fuori di questo” Si tratta qui di un io il cui
carattere peculiare è di avere una infinita
apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica formale,
di una natura presupposta, di un
mondo di idee già codificato
e platonicamente costruito sin
dall’eternità -, che si
alimenta tutto e sempre
“sull’infinita, indefettibile, unica attualità
dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite
individuazioni storiche” o “la consapevolezza che
l’atto ha di sè
come forma immanente dello
stesso suo concreto e
individuato agire”, “assoluta responsabilità
di chi si assume attualmente
la responsabilità della propria vita nel cui infinito anelito è
implicata la vita dell’universo”.83 Sicché non può esservi altro
che una “eternità che sia il senso immanente della temporalità...un infinito
che si realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è
il guadagno speculativo più cospicuo dell’attualismo gentiliano, ossia
“la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno, e tale da
aprire la possibilità dei più felici sviluppi”
Tuttavia, secondo Chiavacci, il
filosofo siciliano non è
riuscito a dare alla
propria riflessione una formulazione in
tutto e per tutto univoca; e anzi ha
mantenuto aperte due possibilità interpretative, che
hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo pensiero, col rischio
di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In particolare, Gentile non
avrebbe assolto pienamente al
proprio compito di riformare
la dialettica hegeliana :
avrebbe sì investito in maniera
efficace e acuta Hegel
dell’accusa di intellettualismo, per
esser eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non
avrebbe tratto tutte le conseguenze di questa sua
battaglia e sarebbe ricaduto
egli stesso in una
dialettica a sua volta
intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa
il movimento per il quale il reale è; è il concetto
dell’autoconcetto, per dirla con Gentile¸ e
cioè non l’autoconcetto stesso, che per essere tale non può essere
concetto, ma autocoscienza superante il concetto”.85 In altri termini,
una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella
sua attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità
non può essere colta da una teoria ad essa staccata e
sopranuotante che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo
in sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due
momenti. Cosi facendo, per Chiavacci, si ricade soltanto, e ancora una
volta, in una forma di platonismo o di dualismo; invece, la vita
interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non
può esser conosciuta che per
la consapevolezza che il
soggetto ha di sé
senza oggettivarsi, consapevolezza immanente al
processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è conscio del
suo rapporto all’altro, così che il
soggetto come vivente relazione non è terzo oltre i due momenti, ma è tra
i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno di essi è
per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non
può essere che una monodiade”.86 Il passo che Gentile avrebbe
dovuto compiere per condurre a rigorosa coerenza il suo
discorso filosofico consisteva nel far
propria l’esigenza di una “dialettica
attuale, fra momenti attualmente vissuti
nella loro reale soggettività...la dialettica
triadica degli opposti era un dannoso impaccio”; occorreva
intendere “l’atto come il vivente attuale processo unitario in cui gli
oppos ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando
la proprio apertura infinita, supera le
determinazioni intellettive e attua quella coincidenza di
individuale e di universale, così profondamente vista e così suggestivamente
proclamata tante volte dal Gentile, la
quale mal si concilia con
la solitudine del logo
come sintesi. Essa richiede invece un
interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben si può scorgere nel
più profondo dell’esigenza gentiliana”. Solo
così, ossia liberando la dialettica
dai residui intellettualistici che
ancora ne gravano la comprensione
e il pieno sviluppo,
è possibile riaprire il
discorso e operare un
rinnovamento dall’interno dell’attualismo, per farne
fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto
l’intenzione fondamentale che pervade anche
gli altri, successivi, scritti
di Chiavacci - tutti
volti alla miglior comprensione e
all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che aspira a
connotarsiquesta sua più significativa
e innovativa scoperta90; ed
egli resta in definitiva
ancora impigliato nelle stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi
conto di queste conclusioni, secondo Chiavacci occorre porsi all’interno
della filosofia di Gentile e prendere in esame il problema del processo
dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema dell’intuizione,
ossia dello spirito che vive
nell’intuizione91; e poi è
necessario cercare di
rispondere all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se stesso
dal suo opposto, e nascano insieme soggetto e oggetto, nasce cioè la
coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri
dell’attualità dell’atto, per così dire mortificati da certe
inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.
In un altro, denso e
complesso, saggio della tarda
maturità su L’autocoscienza nella filosofia di
Gentile, le posizioni fin qui prese in esame
ricompaiono, imperniate sul bisogno di fornire ulteriori precisazioni e
sviluppi alle stesse istanze teoretiche. Esse, infatti,
ruotano sempre attorno al
problema dell’atto e ai
vari aspetti ad esso
strettamente correlati, e si concentrano soprattutto sulla dottrina
dell’autocoscienza e sulle sue articolazioni, perché essa, in quanto
“intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui consiste l’essenza
e l’esistenza concreta dell’Io,
diviene il centro che sostiene
la realtà di tutto l’universo”.Per
Chiavacci, tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto
il pensiero gentiliano, negli scritti del filosofo siciliano,
tranne qualche sporadico cenno, non compare una esposizione
adeguata del modo in cui l’Io trascendentale
ha coscienza di se stesso. Nella Teoria generale
dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia e in
qualche altra opera, ad esempio, si dice quà e là, e in maniera
stringata, che l’Io, l’atto, in quanto realtà presa nella sua infinità,
come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito si conosce
per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una trattazione
esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non
v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si riconosce
che ogni grado della consapevolezza
(sensazione, percezione, rappresentazione,
intuizione, sentimento, e così via) è cosciente perché si tratta di
distinzioni relative di certi atti psichici con certi altri,
e in quanto tali, sul terreno del logo astratto, esse sono
sempre espressione di un
pensiero logico. Tuttavia,
affinché l’atto spirituale sia
veramente uno, questa distinzione per
gradi tipica della psicologia empirica e
di una concezione analitica dell’anima
umana, nell’attualismo viene abbandonata.
In forza di queste considerazioni,
Gentile, secondo Chiavacci, per evitare di ricadere in una visione
cristallizata dell’atto e così di considerarlo come mero fatto, oggetto
tra oggetti, individua e ammette nell’intuizione una forma di logo che
non è quella astratta del logo oggettivo, epperò la traduce in termini
diversi da quello di intuizione, ossia con auto-concetto,
facendo valere la distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Tuttavia,
pur se questa via è in
profonda dissonanza con i modelli della
comune concezione psicologica precedente, sfugge al Gentile la piena portata
dPer Chiavacci, la distinzione tra i due termini del discorso emerge in chiaro
soltanto nel momento in cui c’è una forma dell’io che conosce se
stesso distinta da quella con cui l’io conosce l’oggetto,
perché nel lessico gergale idealistico, stricto sensu parlando,
l’io non ha alcun contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in
quanto forma e contenuto si identificano. Questo è un
aspetto che orienta tutto il quadro di
pensiero di Gentile -
e su cui egli
è costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza unitaria e
monistica della sua filosofia – la cui chiarificazione comporta la necessità di precisare come concepire
l’autocoscienza e “quell’autotrasparenza per la quale
mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in atto di
conoscerle” .Si tratta qui di una iniziale intuizione di sé, che si svela
ancora una volta come un atto logico, perché senza la mediazione
propria del pensiero pensato, concettuale e oggettivante, “non ci sarebbe
neppure l’intuizione del soggetto”. Questo atto iniziale però ha un
carattere intuitivo, la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si
prende in esame il processo della conoscenza sin dal suo
primo momento e se si tien conto,
secondo Chiavacci, di come a partire da esso si
articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto. Ci si accorge allora che
si tratta di “un atto di analisi che dà per risultato due termini
intuiti, cioè conosciuti, come reali, concreti, come due sintesi.
Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che anche
l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in cui il
soggetto si riflette, il contenuto della sua vita, il mondo che
costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il mondo che
vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale
si può dire propriamente che nasce il concetto”. Negli
ulteriori svolgimenti discorsivi, poi,
sul terreno che in termini
attualistici viene coperto dall’area
semantica del pensiero pensato, in
cui si analizza il contenuto
sintetico datoci attraverso l’intuizione e si costruisce un
fitto tessuto di relazioni concettuali, cioè la kantiana
sintesi a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non
perdere di vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già
nell’oggetto sintetico analizzato”, per esplicitarla in
maniera analitica. Una cosiffatta mediazione concettuale, infine,
da punto di vista del filosofo di
Castelvetrano non può non riconoscere la
propria astrattezza, cioè la coscienza
di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si distacca dalla
sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un
contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l’intuizione costitutiva
dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus
sui”. Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato
che per quanto utile e per certi aspetti finanche necessaria,
come momento essenziale dello sviluppo dialettico, se abbandonata a
se stessa verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice
vaniloquio, ma che invece se si alimenta alla fonte di
ogni mediazione, che è la consapevolezza di sè dell’io,
crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione,
cioè nella concreta unità dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e
certezza della verità, la sua vera e proficua radice.
Questa certezza Chiavacci la chiama anche fede, un termine contro cui si
sono addensate non poche critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto
adeguatamente dell’apertura alla religiosità della
vita spirituale mostrata da
Gentile in tutto l’arco
della sua produzione scientifica
e, in particolare, negli ultima anni della sua vita. L’atteggiamento del filosofo siciliano nei confronti della religione,
tuttavia, in proposito
avrebbe potuto essere più evidente e di
maggior respiro, se egli
avesse stabilito con chiarezza inequivocabile
come individuabile specificazione
dell’autoconcetto ciò che esso
veramente è: intuizione o
sentimento Nel tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile,
invece, è proprio questo il punto più debole e
bisognoso di una riconsiderazione
critica. Per Chiavacci,
infatti, la sua costruzione logica, pur se
foggiata in maniera geniale e improntata a una visione metafisica di
grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte
le metafisiche, di oltrepassare con la costruzione
intellettuale, col loro logo pensato, l’unica
autentica fonte della verità, il logo pensante, in
quanto trasparenza della nostra vita a se stessa nell’attualità
dell’atto”. Questo non significa affatto sminuirne l’importanza e
le grandi possibilità che essa ci
dischiude; anzi, il valore
sostanziale delle sue tesi
comporta il più ampio
riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a profitto ciò
che egli solo ci ha insegnato, riprendendo l’aureo filone dell’analisi
dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e arricchendolo nella sua
maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò fin
dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra,
quando ero quasi giunto al mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di
grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi permise di
riprendere il mio cammino attivamente. E di questo
non cesserò mai di sentire gratitudine. E’ una gratitudine
non minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi sempre incoraggiato
e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”. Questa
conclusione riassuntiva implica il riconoscimento dell’importanza
fondamentale della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta
anche l’impegno a farne fruttificare il più genuino e fecondo lascito.
Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria dell’atto ad
approfondimento e revisione interna,
in un ampio, continuo e
serrato dialogo, con una disamina volta
a stabilirne una più rigorosa coerenza
che valga a guidare e inquadrare la
propria riflessione speculativa. In particolare, la prospettiva a cui giunge
Chiavacci, nel corso del suo lungo cammino
intellettuale, presa nel suo
complesso, comporta in definitiva un
triplice guadagno: 1) un riuscito tentativo di promozione dell’opera
dell’amico goriziano, per accreditarle una sua peculiarità e dignità
filosofica, col metterla a confronto con la speculazione
gentiliana; Chiavacci nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale
elaborazione teoretica dell’attualismo; 3) gli spetta così il merito, con
questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori citati, non
solo di aver speso con efficacia le sue migliori fatiche in difesa dell’amico, ma
anche un posto d’onore, con una sua originalità e competenza, nell’ambito della
letteratura che gravita su Gentile e
l’attualismo, tanto da poter essere considerato come espressione di un indirizzo del pensiero filosofico
contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli che più sono progrediti”. Senonché, a parte i
riconoscimenti fin qui menzionati che gli sono stati variamente tributati, le acute indagini e la argomentazioni del
Chiavacci, volte a svolgere una vigorosa opera di individuazione e
di messa in
chiaro di un
comune ambito teoretico
tra Gentile e
Michelstaedter, non sempre trovarono unanime consenso; in alcuni casi
esse suscitarono non poche perplessità.
E’ questa, ad esempio, la convinzione di Ugo Spirito che, nel concludere
la propria risposta
all’amico Chiavacci, non
esita ad affermare:
“a me sembra
Chiavacci, profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle
michelstaedteriane, non abbia potuto
conciliarle fino in fondo,
sia rimasto in una
posizione intermedia tra la
concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto adialettico”.
Su questo punto, comunque, la riflessione critica che gravita sugli autori fin qui presi
in considerazione (alquanto lacunosa, a dire il vero, soprattutto negli ultimi anni e per
quanto concerne l’esigenza
e il compito
di saggiare storicamente le
posizioni di Chiavacci!!) a
tutt’oggi non è
concorde e perciò il
problema della conciliazione tra la
speculazione gentiliana e
quella di Michelstaedter ci
sembra tuttora aperto
a ulteriori sviluppi
e approfondimenti che sono ben lontani dal venire realizzati, come un
compito non ancora del tutto assolto.
Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto
delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come
un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a
sostegno della prosecuzione del discorso Gaetano Chiavacci. Keyowords: poetico,
critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo,
carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Chiocchetti: l’implicatura
conversazionale prammatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Moena).
Filosofo italiano. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are
unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on
Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he
went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and
his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of
abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a
‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford
being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused
term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici,
or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a
little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” -- Emilio Chiocchetti (Moena) filosofo. Nato a
Moena, in Val di Fassa, vestì l'abito francescano nel 1896 e l'anno successivo
concluse gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si
appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità
di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la
Facoltà teologica di Vienna. Nel 1903 venne ordinato sacerdote. Fino al 1908 studiò filosofia a Roma presso
il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per
insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò
un'assidua collaborazione, su invito del padre Agostino Gemelli, alla Rivista
di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione (1909). Progettò uno studio sistematico sulla
filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente nel 1910 per
approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro
degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per
ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come
uditore le lezioni di psicologia di Wilhelm Wundt. Tornato all'insegnamento a
Rovereto nel 1912, assunse la direzione della Rivista tridentina. Note
Chiocchetti, Emilio, su siusa.archivi.beniculturali. 20 marzo. G. Faustini,, Emilio Chiocchetti, Antonio
Rosmini e la cultura trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa,
Trento, Pancheri, 2008 G. Faustini,, Emilio Chiocchetti: un filosofo
francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia
e cultura, Trento, Pancheri, 2006 Padre Emilio Chiocchetti un filosofo
francescano tra il Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso
dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento il 3 dicembre 2004,
"Archivio Trentino", Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica
tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-Chiocchetti
(1911-1949), Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2004 R. Centi, Un filosofo
francescanoEmilio Chiocchetti, Trento, Gruppo culturale Civis, C. Coen,
Chiocchetti Emilio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1981 (Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati,, diEmilio Chiocchetti filosofo trentino (Moena
1880-1951) rettore generale francescano e professore di storia della filosofia
moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, Emilio
Chiocchetti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Emilio
Chiocchetti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per
le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Emilio Chiocchetti,. Pubblicazioni di Emilio Chiocchetti, su
Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation. LE GRANDI CORRENTI DEL PENSIERO
(COLLEZIONE DIRETTA DA VALENTINO PICCOLI (L20560 E.
CHIOCCHETTI (0. F. M.) È della Università Cattolica di
Milano IL 5a PRAGMATISMO agi E 7
EDIZIONE ATHENA MILANOVia Vigentina' 7-9
s santo, MRETTRI ProPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
(ORC) s» , è ita, canina eno er insit)
miri iztarta e ea Nihil obstat quominus imprimatur 19
Mediolani, 26 Apr. 1926. : Mons. G. Bernareggi. Nihil obstat
quominus imprimatur Mediolani, 26 Apr. 1926. Mons. Can. Cavezzali. ALL'AMICO
P. ARCANGELO MAZZOTTI CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ TENUE SA
CERCARE E COGLIERE LA FILOSOFIA sg AL
LETTORE ca Ripubblico, a richiesta d'amicì, in volume
questi «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi anniì sono
nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per- chè il Pragmatismo
contiene aspetti di verità che non A vanno dimenticati. Quali siano
quest» aspetti verrà rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo
i Uue principali rappresentanti di esso il James e lo Schiller.
f In questa esposizione ho introdotto solo mulazioni accidentali,
più che altro verbali, che mettano quella corrente nei tempi
suoi, già mollo lontani spiritual- mente dai nostri. a E.
C. | L LINEE
FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Sommarto. II Pragmatismo. Pragmatismo e Umanismo.
Pragmatismo e conoscenza. Nell' Inghilterra e nell'America, come è noto,
la filosofia ha avulo sempre un carattere prevalentemente pratico, cioè, ha
studiato con particolare predilezione quei problemi filosofici che si
riferiscono alla teologia, alla morale, al diritto e alle scienze
pratiche, in generale; e, anche quando si è sollevata alle più alte
speculazioni, non ha mai perduto il contatto intimo con la vita pratica «ed è
stata più sollecita della ricerca del vero in vista dell'orga-
nizzazione della vita reale, che non dell'astrazione collivata per sè
stessa e per la sodisfazione dello | Spirito » (1). Per ciò che
riguarda l'Inghilterra basta pensare alla filosofia di Hobbes e di
Bacone, all filosofi cmpirica e crilica di Locke, alla filosofi
naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei De (3) Cfr. «Revue
Néo-Scolastique», dove son tiLortate dall'opera: La Philosophie en
Amérique del VAN B CELAERE' (New-York) le parole citate. La «Revue
Néo-Sc Stiquen ne di un amplo riassunto col titolo: Le mouveme
hilosophiqgue en Amérique, p. 607 seg. Vedi anche i riassunti cli
relazioni sullo stato della filosofia contemporanea in Inghil- Mica in
America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N. IL SEE.
(6) Linee fondamentali sti, alla fase clica del movimento empirico
del se- colo XVIII, all'Associazionismo e all'Utilitarismo. —
Nell'America i primi a interessarsi di speculazioni filosofiche
furono i colonizzatori della nuova Inghil- terra, degli inglesi emigrati,
i quali naturalmente portarono al di lù dell'Oceano la caratteristica
della filosofia della madrepatria: l'atteggiamento pratico, che
assunse allora, per speciali circostanze storiche, un carattere
religioso. È vero che, nell’Inghilterra, «una corrente più profonda non
ha mai cessalo di rimontare in senso opposto (alla corrente
empirica). Essa si manifesta con Herbert di Cherbury, con i
Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del ‘senso comune, e
apparisce nella sua forma più sor- prendente in Berkeley, fondatore
dell'’idealismo in- glese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte,
Hegel e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha mai perdulo
il'carattere pratico, sperimentale, e tende ad appoggiarsi più volentieri
sulla volontà e sul sentimento e a trascurare le categorie puramen-
le logiche dell’Idealismo tedesco » (1). Lo stesso sì deve dire della
filosufia in America. Quando la rivoluzione americana pose fine al
pe- Tiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a manilestarsi
varie e nuove correnli filosofiche — ppiella del senso comune, il
Trascendentalismo di Kunt e de’ suvi discepoli, specie di Hegel;
l'Ideali- smo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre la
tendenza ad avvicinare la speculazione alla vita, a non perdere il
contatto con la realtà, a far risal- lare il carvaltere pratico dei
problemi filosofici. « Ne- gli scritti, p. es., dei seguaci
dell'Idealismo Kan- liano non è la critica che tiene il primo posto, ma
la psicologia cosidella scientifica in opposizione alla psicologia
metufisica» (2). (1) Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
» (1 i S- sunto della relazione del MACHENZIE: La EIA nea in
Inghilterra, donde sono prese le parole citate. (2) «Revue Néo-Scolastique
», I. c. rat ET tit, 0 ELLI a_n GI Il Pragmatismo
('S Allualmente i due indirizzi filosofici predominanti nel
mondo inglese-americano sono o erano qualche anno fa il Neo-hegelianismo
e il Neo-volontarismo. Quale dei due trionferà? Se la storia ci può
ammae- strare, se il carattere cinico dei due paesi può servire di
fondamento a una previsione, se, sopratutto, i sc- si guì dei
lempi sono veridici — intendo la reazione "i Vivissima contro
l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI denza della filosofia
contemporanea a dare il valore Li principale della valutazione delle
vedule speculative i al sentimento e alla volontà — possiamo
applicare anche all'Inghilterra quello che il Turner scrive del-
l'America: « È verosimile che il corso fuluro del pen- | siero filosofico
non subisca tanto l'influsso dei Neo. hi legeliani quanto quello
dei Neo-volontaristi ». Ebbene, poichè il Neo-volontarismo americano
non è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse lo studiarlo,
lauto più che esso non è più limitato a quelle regioni, ma ha suscitato
anni addietro vivo a interesse in lutto il campo filosofico, dove,
accanto e ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi
nu espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-. n° no, con lono
da epinicio, il trionfo sicuro su tutte le filosolie avversarie. Già lo
Schiller aveva annunziato il maturarsi di grandi eventi nel mondo
intellettuale à danno delle antiche forme di pensiero e a tulto
vantaggio di una forma nuova. È, come a sintomi | di un tempo propizio a
nuove intraprese filosofiche secondo la nuova forma, egli guardava con
compia- cenza al successo che ha avuto l'opera del Balfour: «Le
basi della fede»; alla serie di opere popolari. del James: «Lu volontà di
credere, Immortalità _ mana, Le varie forme della cuscienza
religiosa» | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È |
Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da Oxforà, «una volla centro
di Idealismo, un manifesto così dace com'è «L’'idealismo personale» dello
stesso | Schiller e di altri membri dell’Università, e ai lavori Linee
fondamentali della scuola di Chicago (alla testa della quale slava
è il Prof. Dewey), pubblicali nelle « Decennial Publica ‘ tions»
della Università (1). i; Quivi afferma pure che il Pragmatismo «non
passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase del «batti ma ascolta!»
e quando i falsi concetti, È dovuti a prella mancanza di famigliarità con
la dot- |A — trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile
D applicazione ». D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è
* affermato con sempre crescente energia, suscitando vive
polemiche, incontrando simpatie e disprezzo, seguaci c avversari, così
che polè scrivere il James: «Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine
delle .. © riviste filosofiche » (2). E ancora: «Parecchi indirizzi
di pensiero che mancavano di un denominatore comu- ne lo trovano nella
parola Pragmatismo » (3). Esso ha avuto in tutte le nazioni
rappresentanti di grande valore, fra quali, i principali sono: in
America il James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Ger-
mania il Simmel e il Jerusalem (4), in Ilalia gli seril- tori del
Leonardo, specialmente il Papini; in Francia , (1) ScHiLcen,
IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri; (9) Der Pragmatismus.
Ein neuer Name fr alte Denkmetho- «en, trad, in tedesco dal Prof.
\VILHELM JERUSALEM, p. 29, Leip- zig 1908. Verlag. von Dr, Werner
Klinkhardt. Di questa tradu- zione tedesca mi servo nella esposizione del
Pragmatismo. (3) Zbid. (4) Sì è voluto vedere un
Pragmatista anche nell'Eucken. In s tà il suo «ttiwismo non ha niente a
che vedere col Pragma- tsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate
presupposizioni metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico;
a eno il Pragmatismo inglese e americano, «Il ripudiare com fa
l'Eucken, Ja concezione intellettualistica della vita, non è una
caratteristica del Mo- | | talismo e di Misticism
ca À « n Pragmatismo ma di
ogni specie di (OA 2 vrib CE: Il
Pragmatismo . il Blondel, il Le Roy, il Bergson e molti fra i
moderni- sli più avanzati (1). Come si vede, aveva un po'
ragione lo Stein quando scriveva: «Abbiamo di nuovo una « parola
d'ordine» filosofica, che è diventola grido di guerra di un nuo- vo
indirizzo di pensiero, di un movimento filosofico che passa potentemente
dall’ America sul vecchio mondo e comincia a incerospare la superficie -
delle nostre acque stagnanti (2) ». Facciamoci a considerare
davvicino una tale filo- sofia, allenondoci specialmente ai suoi due
rappre- sentanti più illustri: il James e lo Schiller. gs 2 —
Il nome «Pragmatismo » viene dal greco «pragma» che significa «azione,
operazione », vie- ne dalla stessa radice che ha dato origine alle
parole «prassi, pratico»; perciò, più italianamente sì chia-
- mercebhe praticalismo. Jl primo a introdurlo nella fi-
losofia fu Charles Sander Peiîrce (3) «nel senso di un metodo che
consiste nel giudicare del valore di una affermazione dalle sue conseguenze
nella pra- lica », ossia di un metodo che era già stato applicato
dall’Empirismo inglese alla valutazione delle cono- scerize umane. Ecco
in breve Ja sua dottrina. È un falto psicologico che il dubbio,
l'incertezza producono in noi uno stato di malessere, di irrita- zione;
uno stalo spiacevole insomma, Per uscirne — e noì vogliamo uscirne
— è neces- saria una convinzione, una credenza in cuì l’attività
del pensicro possa riposare: la credenza attutisce le
sofferenze del dubbio. Produrre la credenza è la sola funzione del
pensiero: il pensiero in altività — non persegue allro fine che il
riposo del pensiero e lo distinguono profondamente
dall'inglese-americano. (2) «Archiv. fur system Philos.» (3) Egli espose il suo sistema fino dal 1878,
ma non fu che — | dopo essersi servito lungo tempo della parola CART
EVA nella conversazione, che la stampò nel 1902 in un articolo
. | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le Pragmatism
Bi. Alcan, Paris 1908, p. 6. Lan "a
(1) IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie che. 2A
f 10 Linee fondamentali quindi tutto
ciò che non contribuisce alla formazione della credenza non fa parte del
pensiero propria- mente detto. La credenza, poi, ha per fine di
pro- durre un'abiludine alliva, che diventa regola per fazione. Se
le credenze mettono fine allo slesso dub- bio, creando la stessa
abiludine e la stessa regola d'azione, non diversificano fra loro.
Per sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non c'è da far altro
che determinare quali abitudini essa produce, poichè il senso d’una cosa
consisle sempli- cemente nelle abiludini che essa implica. Il
caral- tere di un'abiludine dipende dal modo con cui essa ci fa
agire in ogui possibile circostanza... e il fine dell'azione è di
condurre a un risultato sensibile. Noi prendiamo, così, il sensibile e il
pralico come base di qualunque differenza di pensiero, per quanto
sottile possa essere. Non v'è nuance di sigmificalo così sottile da non
polev produrre una differenza nella pratica (1). In allre parole: Il
pensiero crea la “convinzione, la convinzione è regola dell'operare
e in tanto vale in quanto ci fa operare; fine dell’ope- l'are è il
risullato sensibile, pratico: questo, dunque, deve servirmi di crilerio
per giudicare del valore del pensiero, per conoscere con chiarezza il
significato dei concetti. Come render chiare le nostre idec? In-
lerpreliumole dal punto di vista pratico, domandia- nio ad esse quale
efficienza pralica contengono, quali Sensazioni possiamo aspellarci
dall'oggetto che ci bappresentano, e quali reazioni dobbiamo
preparare. La rappresentazione di questa efficienza pratica, me-
diaia 0 immediata, costituisce per noi l'intera rap. presenlazione
dell'oggello e in ciò sla tutto il signi- ficalo positivo della
rappresentazione. « L'idea di una cosa è l’idea dei suoi effelli
sensibili », dice il Peir- ce (2). «E contradittorio il dire che si
conosce con (1) Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear
pub pippoz pt Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto
«Rev HosophiQuew 1879-VII: «( x È ados sansa DI phig TO-VII Comment
vendre nos (2) « Revue philosophique» 1. c. p. 47.
| IRIS Il Prugmatismo
precisione l'effetto di una forza, ma che non si com- prende ciò
che è la forza in sè slessa; conoscendo gli effetti della forza si
conoscono tutti i fatti impli- cili nella affermazione della esistenza
della forza e uon v'è più nulla da conoscere » (1). Come render
chiare le nostre idee? «Pensando », risponde il Des Carles, conducendole
alla evidenza della proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo, ri
sponde il Pcirce; rendendo esplicita la potenzialità ‘* d'azione che è in
esse, nell'oggetto rappresentato: è ciò che agisce, è distinto ciò
che produce effetti di- stinti nella vila pralica: dunque al: «Cogito
ergo. sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la funzione
della filosofia è di scoprire quale differenza definitiva forà a ine 0 a
te in definiti istanti della vila se questa è quella formuia del mondo
fosse la vera. 4 Tale è il principio del Pragmatismo. Rimasto
inos- servato per venVansi fu mpreso dal James ed appli calo alla
religione (2), prima, alla conoscenza 10:C Ca nerale poi. D'ullova in por
tanto il nome quanto i principio hanno falto forluna, così che i due
leader: pragmalisti ce no possono dure una esposizione co vaggiosa
e abbastanza sistemalica in due opere ap parse nel niondo anglo-sassone e
diffuse rapidamen- te fra i cultori di filosofia. “a Per
comprendere l'importanza del principio enun: 3 ciato, ci avverte il James
(8), bisogna abiluarsi ad applicarlo vi casi particolari, come fece con
perfetta | chiarezza, senza nominare il Pragmatismo, l' Osl- -
wald nelle sue lezioni sulla filosofia della. nalu -. TTI) Ivi, p.
92. Ne (2) Tm una conferenza tenuta nel 1898 davanti alla società.
fil “sofica di Howison nella università di California, Al JAMES il
n | me non Dpince, ma ormai «è troppo tardi per cambiarlo »; egli
dice nella prefazione al « Prugmatismus», D. X. (3) Zweite Vorlesung, P.
29. 12 Linee fondamentali conforme a ciò che egli stesso
scrisse al James: « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare
c ? questo influsso è quello che per noi esse significano. - Nelle
mie lezioni iv sono solito domandarmi: in qual differente rapporto
starebbe ‘il mondo se fosse vera questa v quella alternaliva? Se non
trovo niente per cui sarebbe differente, l’alternaliva non ha sen-
si so » (1). Che è quanto dire: le opinioni rivaleggianti, «nel caso.
hanno identico significato pratico e non esiste che un solo significato:
il pratico (2). Ossia: qual'è il valore di un’idea? Risolvetela in fatti;
il valore di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E poichè i
falli in tanto sono in quanto sono da noi csperimentali, il valore di
un'idea mi è dato se la risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo,
p. es., sil principio del Pragmatismo all'idea di sostanza. Una
sostanza noi la conosciamo per i suoi attributi (accidenti) ai quali si
riduce tulto ciò che di essa si può esperimentare: che sotto gli
accidenti ci sia o di essi, è pralicamente indifferente, lanto
che, se Dio, lasciando l'ordine degli accidenti, distruggesse la
sostanza, noi non lu potremmo neanche sapere. Se del legno mi resta la
combastibililà e la struttura Vascolare che può imporlarmi del quid in sè
inacces- sibile ad ogni forma di esperienza? d Dunque Ja sostanza
come un quid in sè distinto dagli accidenti non ha valore alcuno: per me
la so- | Slanza non è che il complesso de' suoi accidenti. L'unica
applicazione pragmatistica dell'idea di so- Stanza si ha nell'Eucarislia,
dove, per il caltolico non sono gli accidenti che valgono, ma la
soslanza del corpo e del sanguc di G. C. Così la crilica del
Berkeley della sostanza materiale è affatto pragma- lîslica, e
pragmalistica è la critica del Locke e del- l'Hume della
sostanza Spirituale, e, per parte del Bea, o n
() P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato f | dlallo SCHILLEK e dal
JAMES; a ragione, secondo SIT RESTRA 3 oro, secondo il Croce. Cfr.
« Critica» A. VI, {. IÎT ; (2) Ibfa. A non ci sia un quid
come soggetto, sostegno, substrato. ià It Se
ll Pragmatismo 13 Locke, è
l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un dato istante della vita,
ci ricordiamo di quello che eravamo in altri istanti e sentiamo questi
istanti co- me parli della stessa serie personale di avvenimenti
vissuti. Se, nella ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci to- gliesse
l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe la so- slanza dell'anima? Ed ecco
perchè l'Hume e, dopo di lui, la maggior parte dei psicologi empirici,
negò l’anima addimttura (1). Altro esempio. Il teista afferma
che il mondo l'ha cercato Dio; il materialista lo dà come il risultato
di forze fisiche, cieche. Ebbene, le due teorie sono
identiche, se il mondo si. considera come un tutto terminato, completo.
Poi- chè «che valore ha Dio per il mondo, per noi, se Egli non lo
può mutare e far procedere di un passo? Sé il mondo fa lutto quello che
Dio fa?» Ma se il mondo non è al termine della sua evoluzione,
allora la questione: «Materialismo e Teismo» acquista una
importanza vitale. La ‘scienza della natura pre- “dica che la fine di
ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà
come non fosse slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli ideali,
i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola del materialismo! Ma se Dio
esisle, se è Dio che dice al mondo l’ullima parola, allora potrà perire
il mon- do materiale, ma gli ideali saranno conservati e
lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine morale e recide le
speranze che su quello si fonda- no; lo Spiritualismo afferma un eterno
ordine mo- rale del mondo e lascia libero spazio alle speranze
(1) Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha
dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart Mill, confes-
sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Giovanni Stuart
MIN, dal quale ho imparato la prima volta la pra- gmatica apertura dello
spirito e che, nella mia fantasia, figuro. così. volentieri come il
nostro duce, se vivesse al presente Non per nulla il sottotitolo
aggiunto al Pragmatismo suon . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere
di pensare», sua: sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio
Empirismo inglese, 14 Linee fondamentali
dell'uomo (1). Lo slesso principio si deve applicare alla
questione della finalità nella nalura e della li- bera volontà. Dio,
finalità, volontà libera, pragmati- slicamente hanno un senso;
intelleltualisticamente nessuno (2). ) x Empirismo, dunque, e
Pragmatismo applicano lo stesso principio, giungendo, naturalmente, alle
stes- se conseguenze. Con una differenza però, tiene a dirci il
James. I vecchi empiristi non fecero che un uso frammentario del
principio pragmatislico: ne era- no un semplice preludio. Il Pragmatismo
rappre- senta l'empirismo in una forma più radicale e meno aperla
alle obbiezioni. Esso volta le spalle risoluto, una volla per sempre, a
una mollitudine di abitu- dini antiqualo, care ai filosofi di
professione: alle astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni
puramen- le verbali dei problemi, alle argomentazioni «a prio- bi»
ai principî fissi, ai sistemi chiusi, all’assoluto e all'originario, alla
vecchia melafisica intellettuali- sfica, Insomma, la quale, quando ha
dato al princi. pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia,
ragione, assoluto, energia, crede di possedere il si- smficalo ullimo
dell'essere e di aver raggiunto il fermine delle sue ricerche metafisiche
13). — L'atteo- giamento di opposizione del Pragmatismo all’intel-
Ieltualismo, alla filosofia dell’assoluto, all'a priori è dci più decisi
(4). Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, al-
l'agire, alla forza, è signore della disposizione em- pirica, ama l’aria
libera e le molteplici formazioni della natura, sì oppone al dogma, alle
artificiosità, alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva
(9). (1) Dritle Vorlesung, p. 59 sgg. (2) Ibid. p. 76. «Eine
andere als dicse praktische. Bedeu- tung haben die Worte: Gott,
Will Z, - MO ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber (3) Zweite
Vorlesung, D. 31-33. (4) E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più
che nel James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si
trova di fronte ad un hegeliano Vi gni ig non meno
aggressivo, quale è {l (5) IUid. p. 32. ne 1° MN i
14 PACI ZZZ
Il Pragmatismo 15 Il Pragmatismo è radicalmente empirico e anti
intellettualista perchè vuol essere una dottrina per la vita prima
che della vita, un metodo ordinato alla sodisfazione dei bisogni umani
quotidiani. « Esso non ha dogmi, non ha dottrine, non ha che il suo
me- lodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî, dulle
calegorie, da presupposle necessità, e ci fa volgere lo sguardo alle cose
ullime, ai frutti, alle conseguenze, ai fatti (1). Perciò non accella
nulla, non ripudia nulla a priori. a “sso chiede a tulte le teorie,
a tutti i sistemi, a sa lulli i concelli: qual'è il vostro valore
pratico? siete. utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica,
— all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura all'uomo?
L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e di principî, di scienza e
di religione. Ebbene, quale filosofia si offre all'uomo per soddisfare a
questi suoi bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo
Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo religioso bensi, ma
lontano da ogni contatto col mon- : do, colle nostre gioie e coi noslri
dolori e per il quale le cose reali sono un niente: è questo il dilemma
at- luale nella filosofia (2). ma Il Pragmatismo invece può
soddisfare ambedue quei bisogni: può conservarsi religioso come i
si- 9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione coi
falli (3;. Il Pragmatismo, come dice il Papini, si. trova nel mezzo delle
teorie come un corridoio in un albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo
che la-. vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza
ulligua un allro chiede a Dio con la preghiera fede «e forza; in una
{erza un chimico ricerca le proprietà dei corpi; nella quarla sì sta
abbozzando un sistema »
Vily] (1) Ib2d. n». 34.
«Er hat keine Dogmen und keine Leh ausser . seiner Methode. Die
pragmatische Methode bedeutet. Keineswegs bestimmte Ergebnisse, sondern
nur eine orlentie- — * rende Stellungnahme ». >» (2) Il
JAMES consacra alla illustrazione di questo dilemma tutta la prima
lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der — Philosophie ».
(3) Erste Vorlesung, DD. 10-12.
o x è 16 2
Linee fondamentali di metafisica idealistica, nella quinta un
Tizio dimo- stra la impossibilità di ogni metafisica. E il
corridoio appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare se ab- SE
bisognano di una via praticabile per entrare e per hi uscire (1). ,
Così il Pragmalismo è anzilulto un metodo: il suo fine è di por terminc
alle beghe filosofiche presen- ì lando un criterio Pratico per giudicare
del valore di NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è una uni B va
plicità? — Vi domina il fato 0 vi è una volontà li- bera? — È materiale o
spirituale? — I giudizi dati in Proposito valgono tanto che niente e le
discussioni sono interminabili. Ebbene, in questi casi il metodo ;
Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare a ognuno di questi
giudizi dalle sue conseguenze pra- i tiche. Quale differenza pratica
risulterebbe per qual- cheduno se fosse vero l'uno o l'altro di quei
giudizi? Se nessuna, i due giudizì opposti si equivalgono r.ra-
icamente e ogni discussione è oziosa (2): dove 1.n c'è differenza di
Significato pratico non vi può es- sere differenza di significato
teoretico. Con questo metodo, sempre secondo il James, si sare gli
allriti, attenuare le contese ie intelligenze, riuscire alla concordia e
alla pace, Esso © dunque un mataviglioso eirenicon perchè «non
«Vale la pena di opporre l'una all'altra nel campo «della speculazione
due teorie che abbiano le medesi- f me fo eguenze
pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE Pi» (3). . :
Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo
Pragmalistico non permette ecc. come lermine ultimo
della ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente dell'espe- — rienza:
le teorie non sono soluzioni, ma programma per nuovo lavoro;
non risposte definitive, ma stru- menti d'azione, ma indice che cj
addita i mezzi per. Ì ) di considerare le parole : È __ Dio,
materia, energia, ty Gazelle Vorlesung, p. 34, 2) p.
28. Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il Lettura seconda: «
]J'gs will der Praggn, tall, J ll Pragmatismo?), er Pragpmatismus?
(Cosa vuole “Ri ORANDO, La Mlosoha | «Rivista
Rosminiana » A Apologetica Moderna]
dell'azione e vr » N. I,
1906, not? PO UTNE e ne I Il Pragmatismo
1? k i) | 1 quali le realtà esistenti possono esser
mulate e adattate all'uomo (1). Il Pragmatismo toglie così alle
i leorie la loru rigidezza, le rende malleabili, le fa la- j
vovare (2). Esso si accorda col Nominalismo nello È i attenersi al
parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es | cenluare gli oggetti
pratici, col Positivismo nel di- , i sprezzo delle questioni
inutili, delle soluzioni ver- “@ i bali, delle astrazioni
metafisiche, di tutto ciò in- somma che non serve all'uomo nella vita
reale. Per- chè luomo è il centro dell'universo, afferma l'Uma-
nismo (3) conlro il Noaluralismo che considera l’uomo | è. come
parte della natura e contro l'Idealismo che lo son subordina ad un
Assoluto. Alla concezione cosmo- centrica (Uanlica) e alla
teocentrica (la medioevale) ani deve sosliluirsi l'aniropocentrica.
«L'uomo è la mi- sura di tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo-
È prolagorista, con Prolagora l’umanista (4). L'Uma- nismo
consiste semplicemente nel rendersi conto che sono degli esseri umani
coloro ai quali è proposto. il problema filosofico, degli esseri umani
che si sfor- zio di comprendere un mondo di esperienza umana | coi
mezzi che fornisce lo spirilo umano. Secondo l'Umanisimo sono «il
sentimento e la vo lonlà che custiluiscono l'interesse centrale
dell’es- sere che usa i sensi e la ragione come suoi strumenti nel
mondo esterno ». (1) « Theorien werden... zu Werkzeugen », p:
33. (2) Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n. (2)
Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal James, c'è
differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil- «_ ler l'Umanisino è
più largo, il suo metodo sì applica a tutto: i d@ll'etica, all'estetica,
alla metafisica, alla teologia, mentre il Pragmatismo non si applica che
alla teoria della conoscenza. In realtà Je applicazioni che fa lo
Schiller del suo metodo, — È le sa o le accetta anche il James, Lo
confessa il James stesso, ] P. Al. n° AE | _.,(4) Protagora
l'umanista, è il titolo del «Saggio XIV» d Gli: Studies in Mumanism, p.
302. A p. 36 egli stesso chiam il suo sistema « Nèo-Protagoreanismo »,
> o ip”
td 54 18 - Lince fondamentali
Perciò l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia la filosofia più
autropocentrica che si possa dare. L’«ago ergo sum», del Pierce può
essere sostituito «dal «volo ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un
melodo: ciò che lo caratterizza è il suo alleggia- mento benevolo di
fronte a tutte le concezioni, pur- che non si voglia erigerle a un che di
« assoluto ”, ma sì prendano come pure interpretazioni umane 5,
dell'esperienza umana. Non si dimentichi — avverte lo Schiller — «che
l’uomo è la misura di tutte le cose, cioè di iullo il mondo
dell'esperienza... non si dimentichi che l'’uomu è il fattore delle
scienze che servono aì fini umani» (1). Tutto dall'uomo, tutto
all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il Pragmatismo accetta
questa dottrina umanistica, e «io — dice il James — la tratto sotto il
nome di Pragmmalismo » (2). L’Uinanismo è, per così dire, il
soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma- | lisliche: non
ha valore che ciò che ha un significato per l'uomo. $ 3. —
La logica finora ha tentalo di essere una pscudo-scienzu di un, processo
non esistente e im- | possibile chiamaio pensiero puro. In nome di
essa ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero Ogni traccia
di sentimento, d'interesse, di desiderio © di emozione, come le Diù perniciose
surgenti di er- tore. Così la logica fu ridolta ad una pura rappre-
| Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al- luale,
perchè non si è voluto osservare che quegli __ inMussi (sentimento,
emozione) sono egualmente fon- le di verità e pervadono tutto il nostro
processo co- | gilulivo (3). Poichè «il Primo passo nella acquisi-
(1) Humanisme, (Prefazione) p. xx. (2)
Lettura seconda, p. 4I, (8) ScHirLen, Humanism, p. X. E allo
Sc € dobbiamo principalmente 10 SEITE ELE 0 logico e
gnoseo- zione di nuove conoscenze è l'intervento di
un postu- lato emozionale » (1). Non si può passare dal noto
all'ignoto, o, certo, la natura data di un conosciutu non può formare il
a fondamento logico per la inferenza di caratteristiche 0 opposte
nel non conosciuto, se non c'entra il deside- |. Ù rio. Come posso, p.
es., inferire dal male che c’è nel ò mondo la necessità dell’esistenza di
un mondo mi: gliore, sc il ragionare — come afferma la logica tra-
dizionale — è il prodotto di un pensiero puro non affetto da
volizione? «Sollanto se una trasfigurazione sconosciuta del-
l'altuale è desiderata, può esser pensata e, in parec- chi casì, ‘rovata.
Tutte le concatenazioni di un pen- siero puro non influenzato
dall'affetto non potrebbero mai raggiungere e ancor mero giustificare
quella conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero de- ve
ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri menti della volizione e
del desiderio » (2). La ragione - «pura» e una pretla finzione c una
impossibilità si psicologica; lu strultuva reale della ragione
attuale E è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata fino n]
nelle midolla (permeated (lhrough and through) da ulti di fede, da
desiderì di conoscere e da volontà di credere, di non credere, di far
credere. E altrove: Dini” La intellezione pura non è un fatto che abbia
luogo | in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il * a
nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo, dai nostri
interessi e dalle nostre preferenze, dai | Il
Praghiatismo 19 / i | nostri desiderî, dai
nostri bisogni e dai nostri fini. x Questi formano il potere movente
della nostra vita intellettuale. « Vi souo ragioni del cuore
delle quali la testa non 3: sa nulla (3), postulati di una fede che
sorpassano la È 2 (1) Ibid. p. XI. >»
(2) p. XII «To attain it, cur thougth needs to be impelled vi ‘na guided
by the promptings of volition and desiro ». - POS) (3) L'aforismo, citato
dallo Schiller, è di BIAGIO PASCAL, — _(Pensées), LA
4 20 Linee fondamentali intelligenza
pura e possiedono una razionalità più alta che un gretto inlellettualismo
non è riuscito a comprendere. L'irrazionale si trova ad ogni passo,
in ogni processo della vita conoscitiva ». La fede «sla a base di
ogni «ragione» e la pervade, anzi la razionalità stessa è il
supremo postulato della fede. Senza fede non c'è ragione; la fede è un
ingrediente nel progresso della conoscenza; realizza sè stessa
nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula alle conquiste fulure. Così
sparisce l’antitesi tra fede e ragione perchè la razionalità pura non
esiste (1). Il carattere leleologico della vita mentale influenza e
pervade le nostre ullivilà cognoscilive più remole. Questo, secondo lu
Schiller, è il pensiero centrale del Pragmatismo: ne dà la vera
definizione (2). Il pen- siero Non è un prosesso aslrallo, ma si svolge
in una - psicologia concrela, è una funzione vitale è perciò
finalistica. L'uomo non pensa per pensare e il Prag- malismo è:
«una prolesta sistematica contro l'igno- vanza della finalità
nella‘conoscenza » (3). La volontà, lintenzionalilà è da per tutto: il
Volontarismo si constata nella psicologia, nella logica e nella
meta- fisica, È questo uno dei lralli caratteristici del Punto di
visia leleologico. Il Pragmatismo si formula da per lutto in funzione
della finalili.. «La ragione è un'arma nella lolla per
l'esistenza cun mezzo per l'adattamento » (4). Ne segue che l’uso
pratico che ha presiedulo al suo (della ragione) (1) Questi
concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i JI S ° seialmenie in
un articolo: NFailh, reason and religion pubblicato SI The Ilibbert
Journal» 1V, 2. Vi si dice, tra l'altro, che è base es- senziale in
scienza e in religione partire da supposizioni che TS OLolale provate o
che non possono provarsi. Così, se ; Viviaino per fede può anche esser
veri r - Ralemo pen pata L e esser vero che cono (2) Mumanism, D.
8. Cfr. anche Stud. in Ium, p. 4, 5. (3) Stud. in Hum Essay, I
& * Èssay, I $ II — È ques a ses sette definizioni che lo
Schiller ci dà del PRE Se nite e collegate l’una con l'altra
nei S S b ;3 (4) «I cannot but conceive the Or AR] In the
struggle for existence and tation è. pag. 7, Humanism,
reason as being... a weapon a means of achieving adap-
à, cea Il Pragmatismo i svolgimento, deve
essersi impresso profondamente nella sua strullura, se pure non
l’ha formata da istinti prerazionali. Una ragione che non ha valore
n pratico ai fini della vita è una mostruosità, una aber-
razione morbosa, una mancanza di adattamento che la selezione
naturale presto o tardi deve far spari- re {1). Quindi, da questo
punto di vista il Pragma- lismo polrebbe definirsi: « Una
applicazione coscien- le alla epistemologia (0 logica) di una
psicologia te- < leologica, che, in ultima analisi, implica una
metafi- sica voloniaristica » (2). pis TANA Nice di questa
psicologia felcologica applicata alla conoscenza i problemi della logica
devono appa- rire sotto un aspelto nuovo e si deve dare una im-
porlanza decisiva ai concetti di proposito e di fine. Ta conoscenza
presuppone essenzialmente uno sfor- zo diretto a conoscere, che, come
ogni sforzo, è te-: leologico, ispirato da un bene che si vuol
consegnire. SI Non cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza è
una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore di bene
(3). Lo aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il |
Lofze, come è noto, insegnava che «la scienza, come TU la logica, che ne
è lo strumento, e come la metafi- sica che ne è il coronamento, ha il suo
fine e la sua giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento
| slabile e sicuro in quel primo dato originario e di | Ù conoscenza
immediata che è la nostra vita interiore, i col suo ricco contenuto di
sensazioni, rappresenta zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo
corredo di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr
scindere in qualsivoglia nostra concezione e valut zione» (4). (1)
Mumanism, p. 8. (2) È la settima definizione del Pragmatismo. Le altre
Je AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragma- |
smo. - ae p (3) Humanism, p. 10. — Cfr. anche sl quarto «Essay»
di questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i » = (4) L,
AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm otze — «La Cultura
Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295,
ai dui # iii ar E° vee
Linee fondamentali Non è qui il luogo di dimostrare che, se il
Lotze ha dei punti di cuntalto con l'Umanismo, egli perè non è un
umanista alla Schiller. La ragione nelle sue esplicazioni
molteplici, è una strumento ordinato ai fini della vita. È questa
la concezione strumentalistica della conoscenza esposta dal Dewey e
dallo Schiller (1) e accettata dal James. Essa è un portato del metodo
evolutivo e della con- cezione biologica della conoscenza. Darwin con
la teoria della «lotta per l’esistenza » e della « selezio- “ne
naturale» aveva insegnato «che nulla può sus- Sistere o svolgersi che non
abbia un determinato Significato per l’intera concatenazione della vita
». Scrittori posteriori (Spencer, Romanes, ecc.) sosten- nero che
lu vita è un continuo accomodamento alla natura circostante, fisica,
sociale, morale. E ora la teoria della evoluzione è chiamata da molti a
spie- gare anche il sorgere e il progressivo. svilupparsi ella vita
cognoscitiva (2) e così i principt evolutivi di cambiamento, di
relalività e di movimento sono ipplicali a spiegare l'origine e ‘lo
sviluppo del pen- siero in generale, il suo carallere, il suo valore,
allo 2 Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia- i __Te c
spiegare l'origine, Îo sviluppo, il significato, il — Valore della
stutlura, degli organi, di fulte le dif- __ Ierenziazioni biologiche.
Come in bio non ha valore nè senso che per la sua ulili dine
all’adatlamento dell'individuo condizioni fisiche circostanti, ha, cioè
un valore e un senso puramente Pratico, così in psicologia qua- ai
5 ao (1) L'opera principale del
Dewey è: Studies 1 Theory bey John Dewey, with the Cooperation of
embe Fellows of the Departement of Philosophy. Decennial Pubbli- 1
one of the University of Chigago — Second Series vol. XI e» Peli ha esposto
le sue teorie anche in: The esperimentai Pe: # in: eguig otel Mina (N. S.
59) 1906, Vol. XV Pp. 293-307; din; nd the Criterion uti Of Tdeas (N
Sì 6) "Vol NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S.
Lol), Cir. Baowr, 7hioughi and rh; i * AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11
Salto; Vol. 1: Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha
parecchi puntf Il Pragmatismo 23 lunque
differenziazione : sensazione, coscienza, pen- siero ecc., trova tutta la
sua raison d’étre e la sua giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze,
nella ef- ficacia pratica. La questione di valore non si può
scindere dalla queslione di origine e di sviluppo; la considerazione
statica deve dar luogo alla conside- vazione dinamica e quindi, per ciò
che riguarda il pensiero, la logica formale alla logica funzionale
(1). La concezione biologica della conoscenza (2) ha fatto un
passo innanzi: non ha detto semplicemente : applichiamo alla psicologia
il metodo evolutivo, (il che, per sè, non inchiude la riduzione della
psico- logia alla biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti del
pensiero teorelico hanno un carattere utilitario » (biologico) «cioè
servono come strumenti al conse- guimento di fini essenzialmente
biologici, perchè mi- rano a dare soddisluzione alle esigenze
dell’organi- smo cioè ai bisogni della vita» (3). Questa
subordinazione della vita teoretica alla vita pratica è capilale per il
Pragmatismo: nessuna ma- raviglia quindi se i suoi leaders l'hanno
accettata e fatta oggetto di studi speciali (4). Il Dewey,
oltre alla funzione generale della cono- scenza, ha soltoposto ad analisi
il suo aspetto tipico: il giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato
partico. larmente degli assiomi primi della conoscenza. S'è
veduto in che cosa consiste la concezione stru- mentalistica 0 umanistica
della conoscenza ; in base (1)
Baldwin, Op. c. 1. c. passim. (2) È sostenuta specialmente
dall’Avenarius, dal Mach, dal Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal
Simmel. Cfr. le monografie di A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull
Ost- wald in «Cultura Filosofica» a. II, n. 3, 5,7% a. DI, n. 3, 4.
. Lo Psicologismo logico dì A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4,
specialmente pp. 242-255. Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo
anglo-americano, — « Cultura Filosofica » a. III, n. 2. (3) A.
LEVI, Lo Psicologismo logico, La « Cult. Fil.» a. IMI, n. 3, p. 254. pà
& {4} Intendiamoci: hanno accettato la dottrina della subor-
‘dinazione della vita teoretica ai fini pratici, in generale, no ai fini
biologici esclusivamente, È 24
Lince fondamentali ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato
in ter- mini di funzione; esso è una armonizzazione di varie parti
della esperienza; è uno sforzo « per determi. nare gli elementi che
realmente procedono di con- serva e per respingere quelli che solo si
collegano apparentemente »: così esso si forma, per differen-
ziazione, sotto l'impulso del bisogno di armonia e di unità nelle
esperienze (1). To Schiller (2) afferma e dimostra, a modo suo, che
gli assiomi fondamenlali della conoscenza o primi princip! (di identità,
di contradizione, del terzo esclu- so, di causa) sono dei semplici
postulati. Un postu- lato è «una supposizione, che senza dubbio
l’espe- rienza ha suggerilo ad una mente che ricercava, ma che non
è, nè può essere lenuta come provata, poi- chè spesso di poi la si assume
solo perchè la desi- deriaumo, contro tulta l'apparenza dci fatti» (3).
I postulali sono domande che noi facciamo alla espe- rienza;
processo di esperimento ordinato a porre il mondo in armonia coi nostri
desiderì; sono perciò un processo di sviluppo non dissimile dalle altre
at- tività e funzioni umane, derivando dalle esigenze dell’uomo,
dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal suo volere: sono quindi un
prodolto della attività umana voliliva e affelliva. Noi desideriamo che
una cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre Db, ecc.
perchè diversamente, come polremo conoscere la sua condotta futura
rispetto a noi? e, per conse- g&uenza noi desideriamo che nulla venga
a distrug- gere quella idenlità: così nascono il principio di
identità e di contradizione, che sono due aspelli (po- Silivo e negalivo)
dello stesso principio, Noi esigia- Mo delie distinzioni precise, delle
disgiunzioni com- plete, perchè con esse possiamo dominare (assimi-
(1) Op. cit. II, passim, Vedi anche N. c. 257 dove si trovano le
parole da’ (2) Personal Idealism — « Arioms 902. La
Cultura Filosofica » me citate, Macmiizs o! as Postulales n —
London, (5) ScHILLER in 3 «The Hibbert Journal» },
e, Il Pragmatismo lando ed eliminando) il lusso
ininterrotto della espe- rienza: vogliamo che una cosa sia o non sia:
ecco il principio del terzo escluso. Noi desideriamo di pro- si
durre degli avvenimenti utili alla vila e di impedire i nocivi; per agire
abbiamo bisogno di un mondo connesso, ordinato, postuliamo, cioè, una
causa € una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto di-
venta; l'identità perfella non esiste. La enntradizio- ne è pensata
frequentemente contro la grescrizione - della legge; l'esperienza non
sodisfa le nostre esi- ae” genze, perchè in essa non v'è una ragione
suMceiente, e ve la poniamo noi. A chi opponesse a questa
concezione volontari- slica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di
uni- versalità e di necessità, lo Schiller risponde che: «Ia
universalità di un postulato deriva dalla sua stessa natura, inquantochè,
quando ci serviamo di una proposizione di cui abbiamo bisogno,
intendiamo di farne uso ogni volta che ci piacerà; la neces- sità
di un postulato designa semplicemente il biso- gno che noi ne abbiamo,
ossia... deriva dalle esì- senze di una volizione intelligente e
finalislica; la incapacità di pensare il contrario di una
proposizione si riduce... ad un nostro rifiuto di compiere un certo
atto del pensiero ». Il James accetta e fa sue le dottrine dello
Schiller e del Dewey (1) ce proclama: «Dalla logica scienti- fica è
stala cacciata la necessità divina, e al suo. posto fu messo l’arbitrio
umano ». E altrove: pla mostri melodi fondamentali di pensare sono inven-
— . zioni dci nostri antichissimi antenati e si sono. potuti —
conservare attraverso {tutte le esperienze successive. — pe
(1) Il James considera gli « Studies in Logical Theory » com | fondamentali
per il Pragmatismo. Cfr. Der Pragmatism Vorwort, XI, AI
ve, 26 Linee fondamentali
Essi formano ciò che si chiama «il senso comune », che, in filosofia
significa l’uso di certe forme dell’in- lelletto e di determinate
categorie del pensiero. Noi pensiamo per calegoric: esse ci sono
necessarie per mettere unità e ordine nella piena confusa, nella
Varietà sensibile delle esperienze, per combinare con meno dispendio di
forze possibili le nuove con le vecchie esperienze, per fare i nostri
piani, per con- neltere il iontano dell'esperienza col vicino, per
adat- lare, in una.parola, la esperienza ai nostri bisogni
dopo averla dominata. E la dominiamo razionaliz- \ zandola.
i «Se fra le impressioni dei sensi e i concetti pos- è».
cai È, t ATI tas siamo trovare rapporti univoci
abbiamo già razio- nalizzato le impressioni sensibili. I senso
comune > mette questa razionalità nelle esperienze
(vollzieht diese Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei
î sà quali i più importanti sono i seguenti ; 4 = Cosa
(in sè) —- Identità e Diversità — Specie — Spi- x , rili -— Corpi —
Un lempo — Uno spazio — Soggello b e ullributo — Influsso causale —
Immagini fanta- > stiche — Realtà (1). 9 Queste
categorie lrovale forse in momenti felici ai nostri antenati si sono
conservale e sono dive- nule la base del nostro pensiero per la loro
sufficien- za a servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe
possibile che calegorie diverse dalle enumerate po- __lessero servirci,
come quelle che usiamo ora, alla elaborazione della nostra esperienza.
Del resto il Senso comune non è che una fase della evoluzione dello
spirito umano, c, nonostante che la filosofia _bemipatelica abbia tentato
di fissare per sempre le Sue categorie, concatenandole ordinandole in
si- _ stema, Mon si può dire, tuttavia, che la concezione
MICCCALVII È a più i DI lipi o fasi di pensiero: il naturalistico 6 il
car a scienza della natura e la filos riti hanno. rotto i
limiti del pensiero ATao CECI (1)
Finfte Vorlesung. Con la scienza della natura cessa il Realismo in-
genuo. Le qualità secondarie perdono la loro realtà: non restano che le
primarie. La filosofia critica di- strugge lutto: le categorie del senso
comune non si- gnificano più nienle di reale. Esse non suno
che astuti provvedimenti del pen- siero umano; sono l'unico nostro mezzo
per isfug- gire alla inquietudine in cui ci getta l'incessante cor-
rente delle sensazioni (1). Noi abbiamo così tre tipi
caratteristici e diversi di pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il
natu- ralistico, almeno, può vantarsi di aver servito ai fini
pratici quanto il senso comune; si pensi al Galilei, ad Ampere, al
Faraday! ìl critico invece, pur trop- po, nun ha dato che soddisfazioni
teoretiche, 0 qua- si); nessuno di essi è assolutamente più giusto e
più vero degli altri (2). e; La loro verità dipende dalla
loro utilità nei casi particolari. Questo il Pragmatismo nel
suo metodo e nelle sue presupposizioni gnoseologiche fondamentali:
melodo & presupposizioni che ne costituiscono la vera es-
senza. Il James dice che un aspetto essenziale del Pragmalismo è anche la
sua leoria genetica della ve- rità (3). Lo Schiller, dal canto suo,
scrive che: «pa- rallela alla teoria della verità è quella della realtà
», e perciò la trallazione della prima non può andar disgiunta
dalla esposizione critica della seconda (4). A me pare che tanto l'una
che l'altra, più che dottri- ne essenziali del Pragmalismo, siano
corollari, 0 applicazioni del metodo alle due forme oggettivo-
soggettiva c oggettiva dell’essere. E Di queste due applicazioni
dobbiamo ora occuparci lrattando della teoria della verità e della realtà
nel pragmatismo. \ (1) Ibid., p. 117. (2) Ibid:; p.
118 Par (3) Der Pragmatismus, p. ki: Das wdre das Wesen des
Pragmalismus: erstens eine Methode und zweilens cine. gene tische
Wahrhettstheorie », (4) Stud, tn Hum., p. 284, "E
lla ate RA A da LTL LA TEORIA DELLA VERITÀ E
DELLA REALTA. La Condotta. La dottrina della verità. La dottrina della
realtà. Che cosa ci sa dire la filosofia intorno alla condotta? La pone
in allo o in basso, la esalta ponen- dlola sopra un piedestallo
all'adorazione del mondo 0 | la deprime perchè venga calpestata dalle
persone i Superiori? In allre parole: qual'è, secondo la filoso- |
fia. lo relazione della lcoria colla pratica della vita, della cognizione
coll’azione, della ragione teoretica colla pralica? » (1). Così comincia
lo Schiller il suo primo saggio del volume: « Umanismo, — La
base È elica dellu metafisica ». E continua: «La dottrina di È,
questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più in- bi tricali della
storia del pensiero. Da questo capitolo della storia risulla
chiaramente un fatto: che le pre- lese delle teorie antagonistiche
(leoreticiste e prali- gra * cisle) sono così larghe e così insistenti da
rendere impossibile ogni compromesso fra loro; bisogna sce-
pai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la vita. i O è nulla;
0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì un sogno: aul Caesar aut
nullus » (2). Noi sappiamo a giù quale dei due estremi abbia
scelto il Pragmati- sil smo. Invece di supporre che il pensiero sia altra
cosa o dall'azione, esso tralta il pensiero come una forma di , È
condotta, come una parle integrale della vita attiva.
(1) umanism, Invece di considerare i resultati pratici come poco o
affatto importanti, fa dei valore pratico un deter- minvute della verilà
teoretica. Im una parola: la condotta, in luugo di svanire nella nullità
di una il- lusione, è ristabilita nel potere di controllo di ogni
dominio della vila. Dal punto di vista pragmatislico della
psicologia le- leologica, inlcsa come s'è vedulo, tanto i problemi
logici quanio i metafisici si presentano in una luce | nuova, poichè vien
dala una importanza decisiva i | concetti di proposito e di line.
SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica contro l'abitudine di
iguorare, neile nosire lcorie sul pensie- ro e sulla realtà, la finalità
del pensare attuale © i rapporti delle nustre realtà attuali ai fini
della vila; è r'aflermazione delta basc chica della iogica e della
id metafisica. « La valutazione (cologica è una sfera speciale della
ricerca clica, € quindi il Pragmatismo, To con la sua accentuazione della
teleologia in ogni (campo del pensiero, assegna al metodo lipico
«della elica una validità metalisica » (1), alfermando la su-
preva autorità della concezione etica di bene sopra | da concezione
logica di vero € la metafisica di reale. II bene, il valore pratico © un
determinante essen- ziale così della verità come della realtà. La
condotta è la sostanza del tulto. La nostra apprensione del reale,
la nostra comprensione delia verità si effet luano sempre in esseri che
tendono al consegui- mento di qualche bene: sono penetrate,
informate “dalla tendenza a un fine pratico, dalle esigenze della
condotta. pt g 2. — Chi studia seriamente i processi
conoscitivi della intelligenza umana viene subilo a trovarsi d
fronte al problema dell'errore. Tulte le proposizioni La teoria della
realtà e della verità logiche hanno l'audace pretesa, senza riserva e senza
d riguardi alle pretese delle altre, di esser vere. Eppure gran
parle di esse non sono che delle menzogne : non sono realmente vere e la
scienza deve respin- gere la loro pretensione. Per far questo è
necessaria una scella di ciò che è realmente vero dalle verità
apparenti: una condanna del falso ed una ricogni- zione del vero; il
logico, in altre parole, deve valu- tare le ioro prelensioni di verità
(1). Con qual crì- levio? Come dislinguere fra proposizioni che
preten- dono di esser veré c non sono, e le pretese buone che
pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il carattere distintivo della
verità? Così si pone il pro- blema crileriologico; e una teoria della
conoscenza che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@). ©
Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una proposizione alla quale è
stato in qualche modo al- luccalo (attached) ialtributo «vero» e che,
conse- __Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La ve- Tila è
la lolalità delle cose alla quale e stato appli- «cato o è applicabile
questo modo di lraltamento sia | ©hesi eslenda o meno alla totalità della
nostra espe- _ Rienza» (3). È una qualità di certe rappresentazioni
«© precisamente: l'accordo di certe rappresentazioni con l’oggello {4). È
questa la definizione comune che | accellano, come qualcosa di evidente,
intellettualisti * pragmalisti. Il dissidio fra le due parti
comincia Quando si tratta di sapere che cosa propriamente si- —_
Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà » con la Tuale
devono convenire le nostre idee (5) |, Secondo la concezione Opolare | n
BRA { ot ROIO Popolare l'accordo consiste > In una copia
dell'oggetto. Alcuni idealisti affer ne ue le nostre idee sono vere
quando corrispondono. a or \<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno
al loro alla /eoria della *&gello, Altri,
streltamente fedeli (1) ScHmzLER: Stu (2) Id., Jvta.
(3) Id., p. 14. Essay Y. @ JAMES, Der Pra i o
gmatismus, p, i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor], dies in
MHumantsm, D. 3. Essay I Il Pragmutismo_ 31 i ì tre idee
in copia («copytheory»), dicono che le nostre in nilo sono vere in
quanto corrispondono ai pensieri elerni dell'assoluto. Vediamo quanto
valgano queste concezioni. ; Intanto la verità
assoluta, scrive lo Schiller, non esiste. La storia del pensiero umano è
caratlteriz- zata dalla inslabilità delle opinioni, dalla
mutabilità delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, In-
somma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per verità, Ogni verità
umana, com! è attualmente e com'è stata storicamente, sembra fallibile e
transi- toria... le verità del passato sono riconosciute come
errori al presente; quelle del presente sono in via di essere
riconosciule erronee in un domani più o meno lontano. Quindi la verità
umana non può affacciare pretese di assolutezza. Per isfuggire allo scetticismo
che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. ri- valutazione e
transvalutazione delle verità, che for- ma la storia della conoscenza, si
è ricorso ad una verità assoluta trascendente indipendente dalle
vicis- situdini della verità umana; la quale verità assoluta si
concepisce come un modello da imitarsi, come una misura per la
valutazione delle verità nostre, come una rocca inespugnabile in cui non
può penetrare cangiamento alcuno (1). i Si slabilisce, cioè,
una distinzione fra verità al luale o umuna e verità assoluta, ideale,
che è posta al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le
nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri . flesso
imperfetto, ma valido, misleriosumente tran- sustanziato per la immanenza
in esso dell'Assolulo e per la partecipazione della sua stessa
sostanza. i Mau l'espediente è fulile e dannoso. | l'utile
perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e im- a mutabile, non può
discendere dagli eccelsi cieli della logica a
trasformare le nostri ‘i Ì La, e verità e a togliere la
transitorietà alle nostre concezioni; la verità umana, (1)
ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay VIII, p. 204. 32 La teoria della
realtà e della verità dal canto suo, non può SORIrare alle
prerogative so- Rraumane dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta
non può identificarsi, in qualche modo con la umana, e se la cognizione
umana non può diventare assolu- la, non può congiungersi con l'Assoluto,
l'Assoluto per nvi non esiste e non può quindi redimere dal ilusso
perpeluo le nostre verita. I che lale unione luon esista, anzi che sia
impossibile, si deduce dal contrasto di caralleri fra la copia (verità
umana) Cc tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità
lrascendente). La verità umana è fluida, non rigida; temporale
e lemporanea, mon elerna e perenne; arbitraria, non necessaria;
scella, non inevilabile ; nata, come Afro dite, di passione e di slancio
da un Inare schiumoso di desideri, non puramente intellettuale e spassio-
nata; incomplela, non perfetla ; fallibile, non iner- tante ; assorbita
nella tendenza di ottenere ciò che ion c uncora compiulo; non beala
nella. sua com- iiulezza. Questi caratteri della verità umana
risul- tano dalle condizioni stesse onde ha origine ogni ve- tilà.
Essa è discorsiva perchè non puo abbracciare lutta la realtà; © fallibile
perchè è ‘essenzialmente parziale € puo quindi Sempre venir corretla e
com- pletala da una cosuizione più vasta. Invece la ve- rità
assolula si estende al lutto e dipende dalla cogni- zione del lutto. Li
sua ussolulezza si fonda sulla sua onMucomprensività (2). Se non V'è
conoscenza conm- pielamente adeguata all'intero sistema della
reallà _ on vi può essere verita assoluta (3). Orbene, la
no- stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Ap- punio
perchè parziale, la verità umana poggia su dati parziali, è generala
dalle parzialità dell'alten- stone selelliva ed'e diretla a fini
parziali. Un abisso Separa le due specie di verità: fra loro non vi può
essere ne Corrispondenza nè interazione (4). È quindi verità
attuale sia in « accordo con la b RP assurdo che Ju he
(I) SCHILLER, 07, cl, 7. E (I Ide TER OD. ci, p, 207, via {9) Id.,
4bid. E (4) SCHILLER, 1a., p. 2, i Le
Lia - di asta ideale, eterna,
Irascendente » come pretendono gli as- solutisti. be La concezione
della verità assolula è anche perni ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la
differenza fra ia verità assoluta e la relativa o non la
percepisce. Nel primo caso egli disprezzerà le verità umane, 1m- .
perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo | Scelticismo sarà
inevitabile. CIÒ è tanto vero che, ‘anche attualmente, la linea di
divisione. tra questa specie di assolutisti e gli scettici è molto
indecisa: insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà come
assolute anche le nostre verità. E poichè l’as- soluto non soffre aumento
nè alterazione, egli non _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi,
rigetterà come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso al- cuno
nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'as- surdo Ja rovina della
teoria della conoscenza. Nel nostro conoscere c'è aumento, c'è
alterazione: e una teoria della conoscenza che non li può spiegare,
anzi li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenera- zione, e
non ci salverà dallo scellicismo, reso anci ui tabil ; SE ’ «anche
du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di ‘0 FUNe I nostro
reale progresso cognosellivo: ud est verilas? È forse un
«accor realtà ; La Accordo » Questa ipotesi reatitiae csfetto, del
fallo. sterno? A LI ‘a — dice ancora lo Schiller ci
conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5 CIOS alermare degli
incredibili paradossi, con la cha: 1 SE Rc e
die n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI » che «eg
hipothesi » 16/x trascende SD i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS
È e] | Pragmatismo - 3 x = SONA È [e
È |< PRE e %% È Da teoria della
verità e della realtà c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che
la «corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso fuorì della
noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare nella nostra conostenza, è in
qualche modo perfelta e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non
pos- siamo conoscere indipendentemente da un lato il pen- _ siero,
dall'aîtro Voggello esterno. Nè si può dire che la verilà consista nella
« cocren- za sistematica ». Nell’universo non v'è delermina- “zione
assolula e perciò la verità c la realtà possono «essere costruite im
diverse maniere, cioè in diversi Sistemi, con diverse «cocrenze »
sistematiche: biso- cana lener conto delle possibilità pluralistiche (2).
RR . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero e quale è
falso? » Im che consisle la verità del «sistema coerente? » Dal
punlo di visla del razionalismo, cioè «a priori », on è possibile dare
una risposta reale alla questio- ne; non si può indicare nessun metodo
praticabile di ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se
non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con- | seguenze, di
saggiare la validità delle rappresenta- zioni (c dei sislemi di
rappresentazioni); se non rica- | Noscendo uno stadio intermedio, nel
facimento della s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero
e tn ideale completo di verità assoluta (3). Il Pragma- smo
è appunto il tentativo dì tracciare il modo del > (I) Id, p.
181, Essay, VII. (2) Di qui 11 nome di pluralismo dato a
dottrina _pragmatistica della verità e della A ita «ex professo «
nella quarta lezione (del vol. cit.): Etn- lett uni Vielheit « Unita e Pluralità.
— © pluralismo è la gucazione Metafisica della realtà come di una
molteplicità di ct Separati, indipendenti. Si divide in matcrialistico
(Ato- TRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in duatistico
(Dua» smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES ulte-
ente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London, Longman
Green 1909, tradotto in f [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN e
pub- mar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam-
(3) SCHILLER, Stud. in Hum. facimento aztuale della verità, le maniere
attuali di distinzione tra vero e falso per giungere alle sue ge-
neralizzazioni circa il metodo di determinare la na- tura della verità
(1): mette in luce, in altre parole, lo sladio intermedio del divenire
della verità, il modo della convalidazione delle pretensioni di verità.
Or- bene, come s'è veduto, non si può spiegare il movi- mento del
pensiero verso qualche cosa senza fare appello a motivi psicologici:
desiderio, sentimento, interesse, attenzione ecc. ; non è possibile
descrivere cosa alcuna in puri termini logici e senza costante
ricorso alla psicologia (2), ec quindi «i termini ullimi della
definizione della verità sono anzitutto psicolo- gici»; ogni verità
attuale è, in primo luogo «un pro- cesso psichico, c, come tale,
condizionato dalla va- rietà degli influssi psicologici sentimentali e
voliti- vi» (3). i E così anche i sistemi di verità.
L'esistenza di un numero di giudizì cocrenti connessi in sistema
non basta per avere da noi la ricognizione della verità. li
«sistema» per esser vero, deve anche aver valore ai nostri occhi; la
tendenza al «sistema» è parte della tendenza più vasta all'«armonia
attuale », 0 per lo meno ideale, della nostra esperienza. Il si-
stema non è semplicemente un tutto di consistenza logico-formale, ma
anche il prodotto di influssi ema- <ionali. in vista di soddisfazioni
emozionali. Perciò nessun sistema è giudicato intellettualmente «
vero » se non è migliore — in rapporto alle nostre esigenze -— di
un altro, se non abbraccia e non soddisfa qual- cosa di più che gli
aspetti intellettuali astratti delle. esperienza (4).
(1) 1d., ibid., p. 4-5. « Pragmatism essays to trace out the actual
«making of truth», the aciual ways In which discri- _minations between
the true and the false are effected, and derives from these its
generalisations about the metliod of determining the nature of truth ».
? (2) Id., Humanism, Essay III, p. di. NI (3) Id.,
ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Spe- cialmente p. 152
Sgg. (4) ScuiLLer, J/umanism. Essay II, D. 42-50.
‘36 La teoria della realtà e della verità Vi sono dei
sistemi che, nonostante la loro coeren- za, non hanno valore di
verità, perchè non TiMUON Î no e non risolvono un senso di disaccordo
finale nel- l’esistenza; tali sono i sistemi pessimistici (1); e
n sono delle verità, valutate come tali, per la loro effi-
cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-| slema (2).
Non si dimentichi mai — ci avverte conti- nuamente lo Schiller —
che la nostra conoscenza èi maleriata di inleresse, di desideri e di
sentimento; che la verità e il sistema della verità è il prodotto
dei mostri sforzi lelcologici (3). Da ciò risulla che il pro- hlema
della verità è essenzialmente psicologico, € deve essere formulato così:
« Qual’è la natura psi- chica della ricognizione della verità? A qual
parte della nostra esperienza è applicata questa ricognizio- ne?»
(4) N Pragmatismo risponde : «La verità è una ferma di valore; la natura
psichica della sua rico- gnizione è la valutazione » (3). « La
valutazione della nostra esperienza è un processo naturale
ininterrotto in una coscienza normale. Sponlaneamente, neces-
sariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat. live », «belle » e «
prulte », «vere» e «false». È l’osi- stenza di quesl’abito che fa sorgere
le scienze nor- mutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le
diverse valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valuta- zioni
del «bello» e del « brutto»; Peolica » per le valutazioni del «buono» e
del « cattivo »). Anche la (1) 1d., tDid. «AI pessimismo in
filosofia » lo Schiller consa- cra il IX Essay del sno /umanism. Anche il
« pessimismo, come ogni sistenin, è un determinato atteggiamento di
fronte alla grande classe di tiudizi che sono conosciuti come giudizi
di valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo
dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se no, il
suo valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel pri- Rpanraso
abbiamo l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo LA . (2)
Mumanism, D. 50, (5) Specialmente là dove tratta del ri a e
Re ti el rapporto fra logica (4) Humanism, Essay III, p. 54.
(5) «Truth is a form of a Value ».. Would be no «tru
ren o na er at - * Without valuation
there Ri the at all» tv p. 55. (4 4umunism, Essay II, p. 55.
> 7 Il Pragmatismo . 37 logica è una scienza
normativa che ha per fine di re- golare e di ridurre a sistema le nostre
valutazioni di «vero » e di «falso » (1). Come in ogni altra
classe di valulazioni anche nella valutazione della verità (2)
l'inleresse umano è vi- tale, il che vuol dire: che una verità ha
conseguenze (ciò che non ha conseguenze è senza significato), ha
una portata sopra qualche interesse umano, e che le conseguenze debbono
valere, debbono essere conse- guenze per qualcheduno, in vista di un fine
determi- nato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ». berciò, a
tulle Ie asserzioni che prelendono di esser vere noi dobbiamo intimare: «
Mostrateci che siet> buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo
pet tali. Voi non avete una ragione intrinseca di verità; noi
dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze: dal frutto conosceremo l’
albero n. Una asserzione che soddisfa un interesse umano pratico, che
corrispon- de al fini pratici dell'uomo è «vera»: è vero ciò che è
praticamente buono; è falso ciò che è praticamente cattivo (3). 1 predicati
«vero» c «falso» non sono in fondo che indicazioni di valore logico,
comparabili come valori, coì valori «elici» ed «estetici» (4).
Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo, invece di considerare
la verità intellettualisticamen- le, cioè, come un rapporto puramente statico
fra rap- presentazione e oggetto, si pone, di fronte ad ogni
pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una rappresentazione 0 un
giudizio affaccino la preten- sione di verita, noi chiediamo: Quale
diffevenza con- creta produce nella vita concreta di un uomo quel
tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà es- sere vissuta? In che
sì moditicherebbe il complesso dell'esperienza se quel tal giudizio fosse
falso (0. 3 (1) Id., bid. La parentesi è mia
|’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità », perchè que- |
Sta fla verita) non è che il processo della valutazione. Ingl, |
«truth-valuation ». ‘ | (8) Stud. in Hum, p. 5-8: 38
La teoria della realtà e della verità vero)? Qual'è il valore
della verità se noi la cambia: mo în moncla di esperienza? » (1) ue
Per il Pragmatismo porre la questione è scioglier- la: «Sono
vere quelle rappresentazioni che possiamo far nostre, cioè che possiamo
far valere, lrasforma- — re in forza e «verificare», sono false quelle
che non sono suscettibili di lule trasformazione in valore
pra- tico » (2). La verità di una rappresentazione non è
una proprietà immobile che le è inerente: la sua ve- rità è
un accadimento: una rappresentazione non è vera, ma divien vera; è
un divenire, è il progresso della sua auloverificazione (der
Vorgang ihrer Selb- È stbewahreilung); 1 valore della verità non è
altro che il processo del suo farsi valere (3). E si fa va- È:
lere, e si verifica con le sue conseguenze pratiche, con la sua utilità:
anzi il farsi valere e il verificarsi non sono in fondo che queste
conseguenze (4). Dalla definizione della verità come vulore logico (5)
— segue che lutte le verità debbono essere verificate. Una
rappresentazione che non vuole o non può sol: tomettersi alla
verificazione è già condannala. Essa | può avere lull'al più una verità
potenziale, senza si- «| _°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o
congetturale, e dipendente “fl da condizioni non uvverate. Per diventare
realmente da 3 (1) Der Pragmatismus, VI
Vor, p. 125. < è» (2) « Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir
uns aneigqneny die wir gellend machen, in Kraft setzen und
verifizierem hòn- pe; nen, [alsche Vurslellungen sind solche bei denen
dies alles ("g nicht moglich ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il
Jaines stesso che n sottolinea. : % (3) Id., 126. E lo SCHILIER:
«Che cosa erano le verità prima p di venir scoperte?» La questione
è oziosa, Se «vero» significa «valutato da noi» è naturale che
ogni verita diventa vera quando è scoperta... Noi possiamo concepire tre
stadi, mel LA processo della verità: verità da venir fatta, verità
diveniente, i verità fatta. Il processo è unico e identico per tutte le
verità a. _ Stud. in Huni. p. 195-199. i (4) JAMES. fui.
SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono que: Sei in fondo, che formazioni
e syolgimenti del principio del EIKCE. \ (5) È la prima
definizione del Pragmatismo, secondo lo. Schiller: «'The doctrine that
lrw{hs are logical values» (Stud in Hum.) p. 5. Me:
ati t 44 vera deve venir dichiarata e provata, e non
si dichia- ra nè si prova che nell'applicazione, nell'uso che 30.
ne fa: la verità di un'asserzione dipende dalle sue applicazioni (1). Le
verità astralte, come tali, non sono verità. Perfino le verità
aritmetiche derivano il loro esser vere dall'applicazione
all'esperienza. Osservale per esempio ll’ enunciazione
astratta: 22=4. Esso è incompleta. Noi dobbiamo, prima di aderirvi,
conoscere a che cosa si applicano 2 e 4, poichè l’enunciazione non
sarebbe ugualmente vera applicata a due leoni e due agnelli; a due
piaceri e due dispiaceri, a due + due goccie d'acqua, ecc. Così si
dica delle verità tutte in generale (2). Vi sono delle verità fuori
d'uso, e vi sono delle verilà che chiedono d'essere incarnate nella vita
con- creta. Finchè non operano nel mondo della esperien- za
immediala sono ambigue (3); solo la potenza e le conseguenze del loro
operare le tolgono all’ambi- guilà mostrandole, con la verificazione
esperimenta- M le, vere o false. Le verità sono regole per
l'azione; ma una regola che rimane nei campi dell’astratto non
significa nulla, non regola nulla: il significato d'una legge sla nelle
sue applicazioni (4) ec ogni st gnificato dipende dal proposito (5),
perchè qualunque applicazione della verità all'esperienza è in
istretta connessione con qualche fine il quale determina ta natura
dell'intero esperimento. Per ragione della di- pendenza della logica
dalla psicologia, ogni signifi- (1) E la seconda definizione del
Pragmatismo (ivi p. 6). (2) Stud. in Hum. p. 9. ; Ria ioè:
sono in potenza alla verità € alla falsità. 0) mind di questo AT delle
idee astratte lo SCHILLER nana consacrato un saggio intero: il V (Stud.
in Hum): «The ambiguity of Trutn» p. 141-162. > (4) Secondo ALFRED
SinGWicK_ — seguito in questo dallo | ScuiLcer — le parole sot.olincate
contengono l'essenza del med todo |pragmatistico, e ne sono la terza
definizione (Stud. in Hum, p. 9). . , (5) Questa defin. del
Pragmatismo risulta dalle due PD denti. (Id., ibid.). ib pi
A 40 La teoria della verità e della realtà cato è
selettivo e teleologico: il giudizio logico è «va- lutazione » (1).
° Resta da rispondere alla seconda questione: « A qual parte
della nostra esperienza è. attaccata la ri- cognizione della verità? » i
Re: _Ciot: a che cosu riconosciamo o neghiamo noi 1l valore di
verità? Qualìi sono i principi direttivi nella valulazione della nostra
esperienza? È «vero» ciò che è praticamente buono, sta bene; ma che cosa
chiamiamo noi «praticamente buono?» (2). «La risposta a quesla
questione — dice lo Schiller — ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo,
ci spiega in che senso il Pragmatismo professi di avere un criterio
di verità » (3). E la risposta non è diflì- cile. Il nostro pensiero
tende all’armonia e alla quic- te del pensiero, a ridurre a sistema, con
un lavoro di selezione guidala dall’interesse, il complesso della
esperienza, a coordinare, in visla d’un fine, tutti gli elementi della
vilu: quindi è vero, (cioè buono, il che è, per lo Schiller lo stesso)
«ciò che armonizza con le leggi proprie del pensiero e con tulta la
nostra esperienza anteriore » (4) e ci serve di base e di cen- tro
vitale per ulteriori esperienze. È vero ciò che ci fa progredire. Il
possesso della verità non è fine a sè stesso, ma mezzo per la
soddisfazione di qualche ne- cessità della vita (5). La verità non è
altro che la via, per la quale noi siamo condotti da un fram- mento
dell'esperienza ad allri frammenti che mette conto di far nostri (6). La
verità è una guida all’a- zione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una
selva în pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa che
assomiglia ad una strada, immagino in fondo ad Cssa una casa; mì melto in
viaggio e mi salvo. La (1) Stud, in Hum, Essay I e V, 9 e 154,
passim, (2) Id., ibid. (3) Id., ibid. (4)
IZumunism. Essay JII, p. 57. (5) JAMES, Op. €. VI, Vorl. 127.
(6) JAMES, Op. c. p. 128. 2° Il Pragmatismo
| I rappresentazione della casa è vera perchè è verifi- \i
cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi prendere | la strada che vi
conduce (1). Questo semplice e per- | severante carattere di « guida» che
possiede e mo- | stra una rappresentazione è il vero prototipo del
pro- cesso della verità. È vera quando, finche-e in quante |
«conduce n: e si intende vera di verità reale; poten-
zialmente è vera la rappresentazione alla a condur- _ ve, falsa la
inutlu. ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso di valutazioni
soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte- da ressi
psicologici e mirano ad una soddisfazione s0g- — gettiva, non può formare
che un complesso di verità soggellive, individuali: la mia esperienza è
soltanto n la miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto
valulazioni mie: come si esce dal soggettivo? non x | siamo in pieno
«solipsismo? » (2) No — risponde lo eo Schiller. Nessun protagorcamisla
(umanista), facendo na dell'individuale il suo punto di partenza, intende
fili fermarvisi. Egli sa che 1 giudizi individuali non sono
che una piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi. Sa
che l'uomo è un animale sociale e che la verità è in gran parle un
prodotto sociale. La verità non ‘si salva finche rimane pura valutazione
individuale: Ra. bisogno di una ricognizione sociale, deve
trasformar- si in proprietà comune, E diventa sociale appunto per
lu sua utilità ed efficienza. Come nell’individuo 3
(1) 10, p. 19). — Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con: duciveness a
«proprietà di condurre», come di un criterio di Verità, Le «conseguenze
pratiche» non sarebbero in fondo, che questo « Hinfùhren» che permette
poi uni specie di «previ-. sione » di cio che è utile, Cf, a questo
proposito: «La previ- stone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento
A. I, Fa- ‘scicolo II, 1907) CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: «
Per conseguenze pratiche» vanno intese le esperienze particolari
‘che la dottrina o l'affermazione in questione permette di pre-
«vedere» p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non |
solo della verità e della falsità ecc...» Id., ivid. -& (2) Del
«solipsismo» lo SCMILLER si occupa nel X Essay (Stud. in Hum.) «
Absolutism and Solipsism» 258-265. Per | questione se «l'empirismo
radicale» sia «solipsistico» ctr ournal of Philosophy, vol. II, N.
V e IX. li 42 La leoria della verità e della
realtà Îl criterio dell'uso, della ulilità regola Ie
valutazioni soggellive, consolida e subordina i vari interessi ai
fini principali delia vila, così lo stesso criterio (del- lVuso) fa una
selezione lra le valutazioni individuali e cosfruisce, con maleriale
delle valutazioni scelle, la verità oggelliva che ottiene la ricognizione
sociale. Ciò che non è socialmente ulile, elliciente, operativo,
presto o lairdi viene eliminato. L'utilità sociale è così l'ultimo
delerminante della verità (1). Protagora ha detlo: «L'uomo è la misura
delle cose ». 1 commen- latori sì domandano: uomo si deve intendere in
sen- so individualislico 0 generico? Tutte e due le inter-
pretazioni sono esatte — dice lo Schiller. L'umani smo di Proiagora era
abbastanza vasto per esten- dersi all'uomo individuale e agli uomini (2),
Egli ri- conosce dolie distinzioni di valore fra le diverse per-
cezioni individuali (3): fra i giudizi di valore indivi- duali si
stabilisce una selezione dei migliori, che so- pravvivono agli altri e si
consolidano in grandi siste- mi di verilà oggellive accettabili da tutti
(4). Ed ora SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is
made), «come viene prodotla dalle nostre operazioni sui dali
dell'esperienza umana. La conoscenza. cr'e- sce in estensione e in
fidalezza (trustwartiness) per la fecondità e la buona riuscita del suo
funzionamento, per l'assimilazione e incorporazione di nuovo mate-
riale da parte dei complessi organici preesistenti di cognizioni. I
sistemi (come organismi viventi) sono Im un conlinuo processo di «
auloverificazione » di (1) Humanism. Essay l1I, p. 58-50.
(2) «His Humanism Was Wide enough to em and men», Stud, in Hum.,
Ess. JI DI 34. RIS a (2) Nel Teeteto (16G-S) di Platone sì fa dire
a Protagora che, se le percezioni di uno non possono essere più vere di
cuelle MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di mo
ignorante o rdinario sta È saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo
ASI LUoO (4) Humanism, p. 59: «Fra due teorie rivili noi
accettiamo come vera la migliore, quella che possiede «greater
conduci- Veness». Con questo criterio (sclusivamente sì C
astronomia copernicana, così semplice troppo complessi. (Id.,
ibid.) Il Pragmatismo 49 prova della
propria validità dalle conseguenze e dal potere di assimilare, predire,
controllare fatti nuo- vi (1). Ma, a simiglianza di quanto avviene nel
pro- cesso biologico, così anche qui assimilare significa
transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle nuove, per la
compenelrazione delle nuove, assu- mono un aspetto dillerente e cambiano
in realtà, in- Irinsecamente poichè diventano più operalive ed effi-
cienli in causa della loro maggior coerenza ed orga- nizzazione; ci
conducono meglio ai nostri fini, acqui- slano maggior capaciià di
armonizzare le esperienze future in reiazione a noi, al nostro interesse
e ai nostri desideri (2). In realtà siamo noi che facciamo la verità.
Dipende da noi l’accettare o il respingere falli nuovi, muove esperienze:
il fattore della sele- ‘zione, è il nostro interesse, è la loro
utilità rispetto a noi. È questo processo di fare la verità è
continuo, progressivo e cumulativo. La soddisfazione di un intento
conoscitivo conduce alla formulazione di un altro; una verità nuova
diventa presupposizione di ulteriori imdagini (3). I così
all’indefinito: la conqui- sla della verita assoluta, cioè della
verità adeguata ad ognì fine umano non è che un ideale, com'è pura:
mente ideale la verità stabile, immutabile, eterna (4). Ogni verilà può
esser mulala da una nuova espe- rienza. La Verità non esiste: esistono le
verità. « La Verità con leltera maiuscola è un mito. In realtà esi-
stono nel mondo umano soltanto le verità, altrettante quanti sono
gli: uomini, cioè le rappresentazioni e le affermazioni praliche di cose
che non sono, ma di- vengono, e divengono per il polere che l'io
esercita su di esse, lanto più eflicace, quanto più, con l’azione
esso passa dall'incosciente al consapevole ed al ri- liesso
(5). 4 (1) Stud. in Iuni., «The Making of Truth», VII Ess. 194-195.
(2) Id,, ibid. 23, (3) «A new truth, when established, naturally
becomes ti e presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.)
E, 4)Id,, Ess. VIII, par. 8, Pp. | ILEN a GIULIO VITALI, Note
pragmatistiche. (Rassegna Nazio ita le, 18 Dicembre ‘1906, p. 646,
S6g.). de 4h La leorìa della verità e della
realtà Qual'è dunque il senso accettabile della nola defi-
nizione della verilà: «accordo con l'oggelto, con lu realtà? » «La parola
accordo — dice James (1) — comprende ogni processo mediante il quale da
una tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avve- himento
fuluro corrispondente ai nostri interessi v bisogni, cioè utile alla
nostra progressiva evoluzio- ue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e
di ricono- scere la verilà non è che una parte del dovere ge-
herale di cercare e di riconoscere ciò che torna conto. Il tornaconto,
contenuto nelle idec, è l’unica ragione che ci obbliga di allenerci ad
esse» 3). k lo Schiller: «La risposla alla questione » Che cos'è la
verità? è la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della
verilà-valutazione, là verilà può definirsi: «la fun- zione finale
(ullimate) della nostra allività infellel- liva; se si ha riguardo agli
oggetti valutati come Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì
rende Utili primariamente ad ogni fine umano, ultimamen- le allu
perfetta armonia della nostra vita intera che cosliluisce Ja nostra
uspirazione finale » (4). $ 3. — La dottrina della realtà è affine
a quella della verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con
essa. ll principio umanistico di Prolagora è universale: umano
genera e informa lutto ciò che è; anzi...j ma uscolliamo i due leaders
del Pragmatismo. Il Pragmalismo segua un passo in avanli
nell'a- niutusi della nostra esperienza è, quindi, un prog) sso
ln quella cognizione di noi stessi dalla quale dipende. li-cognizione del
mondo. ‘ale passo in avanti non è Ineno imporlanie di Quello che, nella
storia della fi- losofia, ha fatto compiere alla questione
cpistemolo- logica la priorità sulla questione ontologica (5).
(1)-1d., {bid., Vorles, VI, p. 135-136. (2) Id., ibid. e passim in
tutta la medesima lezione. ° (5) «Das Lolnende, das unsere wahren Ideen
enthalten, ist ner DES Grund, der uns verpflichtet uns an sie zu
halten» (4) SCHILLER, Humanism » III, p. 60-61.
(5) Id., Ibid., p. 85. : <> at loin
| + cat ” Il
Pragmatismo : 45 Che cos'è la realtà? Così, cioè in lermini
ontolo- gici, era posta ia questione fino a Kant, Ebbene, fino a
tanto che non si melle in chiaro come la realtà possa venire in noi, è
impossibile qualsiasi risposta alla questione; non esisfe, per noi,
nessun reale se non in quanto è conosebile; una realtà
inaccessibiie alla nostra cognizione è inutile e quindi si
distrugge. Perciò la vera formazione del problema metafisico è
questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? (1). La dollrina della
reallà è condizionala dalla dottrina della conoscenza; la ontologia
suppone come fonda- mento la epistemologia: ecco quella che Kant
chia- mava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ».
Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora il Pragmalismo
rispello alla formula epistemologica. lisso dice: ta nostra conoscenza
non è una operazio- ne meccanica di intelletto puro. spassionato: i
nostri interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a noi delle
reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto quegli aspelli che sono
termine di un nostro deside- rio attuale, di una tendenza a conoscere:
tutti gli altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali (2).
(1) Id., Ibhid., p. 9 (2) Il BERGSON +- il rappresentante,
in Francia, della Philo- sophie nouvelle — scrive: «La vita esige che noi
apprendiamo le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere
con- siste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti
sol- tanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, «
Noi cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o
queto, in qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0 di
attitudine dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Méta- pliysigue). Cfr.
anche La cultura dell'anima, Vol. 8. ENRICO RerGSON: Lu filosofia
dell'intuizione, trad. del PAPINI, p. 43. Il Bergson è pragmatista?
Risponda lui stesso: « Bisogna distinguere due maniere profondamente
differenti di conoscere una cosa... la prima si ferma al relativo,
l'altra ragglunge l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per
simboli, per concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno
all'og: getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di
simpatia intellettuale per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto
| per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenzi
d'inesprimibile; con l'assoluto »... «La prima nasce dalle esi- genze
della vila pratica e non è filosofica, ma empirica: lil seconda nasce
dall’affrancamento dagli schemi pratici, dal concetti-ctichette ed è
quella per cui è possibile la vera meta- 46 La teoria della verità
e della realtà Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se
non ciò che è oggetto di una nostra tendenza, di un no- stro
desiderio e volere; e non si desidera, non sl vuole che il bene. Dal che
si inferisce: nè la questio. «me di fatto (ontologica), nè la questione
di conoscen- 3a (cpislemologica) sono possibili a considerarsi in-
— (ipendentemente e senza coinvolgere come loro base la questione di
valore (psicologico-etica) (1). Le nostre | valutazioni pervadono la
nostra esperienza tulla «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni
cogni- zione. Perciò la verità della formulazione epistema- logica
del problema della realtà è incompleta finchè «non realizza, tutto quello
che è implicito nella cogni- zione nostra: cioè il desiderio, la
tendenza, l’inte- SEEGS 3 La completa il Pragmatismo così: Che
cos'è la realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» si- gnifica:
reale per qual proposito? per qual fine? per qual uso? (2). È la «volontà
di conoscere » che pons la questione e quindi non potrà venir risolta che
in termini della volontà di conoscere (3). Ecco la spie- | gazione.
della diversità di dottrine che intorno al «reale» ci hanno dato le
scienze e le filosofie. La di- x rezione della sforzo determinata dalla
«volontà di * conoscere» entra come fattore necessario e isradica-
IN Di ar v fisica, cioè la
cognizione dell'assoluto » (Ibid.} passim). E an- cora: «Il faut
s'habituer à penser l’'Étre directement, sans faire un détour.. Il faut
tAcher ici de voir pour voir er non plus de vor pour agire. (L'Evolutlon
creatrice, p. 323). JI Bergson riedifica sulla intuizione il tempio
dell'Assoluto che prima aveva fatto crollare dimostrando l'inanità
dell'ana- list, della cognizione per idee astratte. Poco importa che
non ci sia riuscito. (Cfr.; La filosofia di Enrico Bergson di Gius.
PREZZOLINI, Rocca S. Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA, L'intui- zionismo
contro la filosofia, La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT ecc...) La
distinzione delle due differenti maniere di conoscere; in- tuitiva
(metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente inconciliabilità
dei passi citati e d'altri ancora, (1) Z/umanism, I, p.
9-10. (2) Id., Ibil. (3)... the answer... comes in terms of
the will to know which puts the question» Ibid., p. il.
Il Pragmatismo urti . bile (ineradicable) in ogni
rivelazione della realtà a nol. i La risposta alle nostre
questioni dipende dal loro carattere, ma questo dipende in tutto da noi.
Siamo noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è del tutto
nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della nalura o
l'astenercene; dipende da noi il formulare le nostre domande alla natura.
Se la domanda è falla bene la nalura risponderà; se è fatta male
non risponderà, e noi dobbiamo ritentare la prova (1).
ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con or- dine.
Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at- « lribuiscano alla
realtà le scienze. . Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è
trattata nelle scienze, la realtà presenta i seguenti
caratteri: a) non è rigida, ma plastica e capace di sviluppo.
h) non è reale assolutamente e incondizionatamen- le, ma relaliva
alla nostra esperienza e dipendente dallo stato della nostra
cognizione. 7.6) La concezione che noi abbiamo della realtà
cam- bia e perciò: d) riduce spesso all'irreale ciò che è
slato accettalo lungo fempo come reale. e) Una
«realtà iniziale» (come una «verità ini- ziale») è reclamala da ogni cosa
sperimentabile: è necessario, CENCI un principio selellivo che ci
serva come di criterio a distinguere fra «realtà iniziale » e
«realtà reale » (2). (1) «M vecchio oracolo ammonisce: ogni cosa
ha due ma- Michi: bada di prendere quello giusto ». Emerson,
American È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La
natu- ta, quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... «
Natura Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti
bene Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in
corri. spondenza con altre loro asserzioni. (2)
SCHILLER. Stud. in Hum. Essay VIII, p. 214. Vedremo tto Ja differenza fra
realtà «iniziale» (primaria) e realtà reale». : VELA
i 48 La teoria della verità e della realtà
Contro la dottrina scientifica il Razionalismo af- ferma: «La
reallà è immutabile, è finita e completa . da tutta VPeternità
(1). Essa è una perehè ha un fine uno, forma un sistema, narra
un'unica storia (2). La nostra esperienza della realtà è mulevole
come la nostra cognizione della verità, non perchè verità e realtà
divengano, mutino, ma perchè la esperienza dell'una e la cognizione
dell'altra sono processi psi- chici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e
Realtà sono indipendenti da noi: noi le scopriamo, cono- scendo,
non le fucciamo. La realtà è-stalica, rigida, uon migliorabile; è e sarà
quello che è stata; non diviene 4). Il Pragmatismo si pone
dal punlo di vista delle scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e
dan- nosu come la verilà assoluta per le medesime ra- gioni. Lu
concezione della realtà assoluta non entra nelia nostra cognizione
attuale della realtà (5); non e conoscibile, il che è quanto dire: non
esiste. Non esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre
esperienze, che crescono e decrescono. Fingiamo che le realtà ora
conosciute e accetlate siano un milione : tsse non esauriscono
tulle ie possibilità dell'univer- SO: VI possono esistere accanto ad esse
allri dieci milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come
lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in mostro potere:
molle realtà in potenza, cioè irreali, al presente, possono venir
realizzale dai nostri sfor- zi E viceversa: molle delle realtà conosciute
pos- sono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate ir- leali e
rigellale (6). Non v'è nulla di assolutamente posto. La
realtà come la verità, diviene senza posa (7). La natura (1)
James, #0id., VI, Vorl. p. 143 (2) Id., ibid., IV Vorl, p.
ot. (3) Id., ibid., D.. 143. (4) Id., tbid.,
passim. (5) SCHILLER. Stud. in Juri, VITI D. 219, (6) Stud.
in Mum., p. 218. (7) 1d., ibid. È lui che
sottolinea. iii - — —_ _—_ Sali I
Il Pragmatismo 49 delle cose non è delerminata
ma determinabile come quella dei nostri simili. Prima del nostro
esperimento su di essa è indeterminata non solo per la nostra
ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto di vista, cioè anche realmente
(oggellivamente); si de- termina sotto i nostri esperimenti come il
carattere umano. La nozione del «fatto in sè », come quella della
«cosa in sè, è un anacronismo filosofico (1). Noi chiediamo allo
Schiller: su che cosa facciamo i nostri esperimenti se la reallà non c'è
e se è di pendente da noi? Schiller risponde: Noi ammelliamo
bene, a guisa di postulato, una base iniziale di fallo, come condi-
zione dei nostri esperimenti (2), ma quesla prima base è affatto
indelerminala e plaslica: può diven- lare tullo quello che nvi vogliamo
che essa diven- li {8). Fra le infinile possibilità noi possiamo
sce- gliere e realizzare la migliore (4). Noi chiediamo
ancora: «qual'è la natura delia realtà iniziale prima, della base di
fatto dei nostri esperimenti? » E come può ammetterla il
Pragmatismo se essa sfugge alla nostra esperienza, se non è
conoscibile?» Schiller risponde: «La difficoltà di concepire
nel Pragmalismo l’accellazione del falto come base non dev essere
traltala come obbiezione ai metodo prag=* matico, ma come un mezzo per
mettere in rilievo lulto il suo significato. Dalla
pertrallazione di essa potrebbe ricever luce la distinzione importante
tra realtà che è «fatta» soltanto per noi, soggettivamente, cioè
«scoperta », e ciò che noi supponiamo che venga «fatto » real
(1) Humanism, p. 12 in nota (2) Stud. in Mum. vp. 428-XIX. x
- (8) EMERSON scrive: «Com'era plastico e fluido nella mano
di Dio, così Il mondo è in mano nostra». Queste parole sem: brano un
commento alle parole dello Schiller: « Noi possiamo quanto può Dio nello
schema intellettualistico di Leibniz». «E il nostro dovere e il
nostro privilegio di cooperare nella formazione del inondo »,
ibid. (4) Stud. in Hum. mente, oggettivamente, in sè (I). Che noi
facciamo tale dislinzione è chiaro, ma perchè la facciamo? Se tanto
ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della rcalla» {making of
reality) sono il prodotto dello slesso processo cognoscitivo, sotto
l'impulso degli sforzi soggellivi, come può sorgere o mantenersi,
da ullimo, quella distinzione? Ebbene: anzi tutto è chia- «ro
che l'accellazione del metodo pragmatico nè ci ; costringe ad
ignorare quella distinzione, nè ad affer- i mare «the making of
reality » in senso oggettivo. Sia È può benissimo concepire quel
facimento come pura- | mente soggettivo, solo in rapporto alla nostra
co- quizione della realtà e punto in relazione alla sua esistenza
abituale. Il Pragmatismo non fa della me- lafisica, ma della epistemologia:
si può essere prag- mualisli in epistemologia e realisti in metafisica
(2). Sia che si ammetta, sia che si neghi che la realtà è fatta da
noi anche oggettivamente resta sempre vero che sono necessari i nostri
sforzi per iscoprire la _‘—‘vcealtà, che i nostri desideri, i
nostri interessi deb- è bono anticipare le nostre «scoperte» e
farci la via id esse e che, perciò, la nostra concezione del mondo
.clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva di Giò che cì
inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi- stenza (3). }
.__,Noicì proponiamo i nostri fini, noi scegliamo i no- Sti mezzi;
noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel Jlusso omogenco degli eventi
(4). Per noi la realtà iniziale è pura potenzialità, come la.
verità iniziale è «Je» {materia prima) di tullo | ciò che è deslinalo a
diventar reale (5). È un concetto # Ride: un: punlo, di appoggio, e
di partenza delia ; U.C0E e; è la possibilità indeterminata
di __ lutto cio che sarà, di lutto ciò che noi facciamo, co-
nuscendo: ogni realtà attualmente riconosciuta si () Id., ivu., p.
428, XIX Gi (2) Id., ibd., p. 42) «in nota», (3) Id., 40id.,
p. 499-XIX «in nota», i) Jd, ibid, IN p. 299. (9) Jd., ibid., XIX
p. 222. (6) Ia., ibia., p, 12 in nota, È Il
Pragmatismo 51 deve concepire come evoluta dal processo e nel
pro: cesso conoscitivo nel quale ora la osserviamo e come destinata
ad avere una storia (1). Per la teoria prag- inalica della conoscenza i
principî iniziali sono lel- teralmente dei semplici termini @ quo, scelti
varia- mente, arbilrariamente, casualmente, nella speran- sa e nel
tentativo di avanzare verso qualche cosa di meglio (2). lullo
ciò che è, è reale. Bisogna distinguere fra vealtà «primaria» (primary reality)
e reallà reale (real realtty). La realtà primaria è semplice
domanda di divenir reale: è la realtà non veryicata © com- pele
anche alle «apparenze ». Non c'è distinzione nè criterio di distinzione a
priori fra apparenza e realtà. La distinzione sorge soltanto quando la
mente, mos- sa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa
passa a controllarla (3). La reallà «primaria » che ri- sponde alle
noslre domande interessate diventa real- la «reale»; quella che non
risponde ad esse si ma- nifesta come apparenza. La realtà «reale» non
è che la realtà primaria passata a traverso il fuoco del criticismo
esperimentale e promossa a un grado su- periore (i). I poiche gli
interessi crescono. e variano continuamente e i propositi sono
continuamente dif- terenziati, anche la realtà « reale » cresce in
comples- stla, viene dillerenziala in serie, le serie si ordinano
in sistemi, i sistemi vengono coordinati e- subordi- nati fva loro
(5). E così all'inciciimto. Il processo della nostra co-,
suizione della realtà (= della nostra creazione delle reullà) si estende
dal caos assoluto fino alla saddi- sfuzione assoluta (6).
(1} 14. td. (2) ju., tbid., p. 439. (3) Id., IX, p. 233-234,
«Watever is, is «real» ls what we begin with,.. (4) Id., p.
244... «real» reality which has survived the fire of criticism and
been promoted to superior rank. - Le conse- % | guenze provano la realtà
come provano e fanno la verità, (6) Id., ebid., VIII 221.
SCART ROTA À ge 52 La teoria
della verità e della realtà La realtà è plastica. Forse (1) la
lasticilà del reale dipende (anche) da una vena di indeterminazione,
di libertà che corre per l'universo: questo giustifica il nostro
trattamento delle idee come di forze reali e Passerzione cho il nostro
fare la verilà è necessarla- menle il /ure ia realtà (2). Conoscendo
facciamo la verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva.
della nostra esperienza «reallà» e «verità» cresco- no pari pussu (3).
Realtà significa « realtà per noi» precisamente come verità è «verità per
nol». Noi assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto » ciò
che giudichiamo come « Vero » (4). E il vero è il bene, l'ulile; l'elica,
dunque, è la base della me- lafisica e della logica. È il
James: « Keallà è ciò di cui le nostre verità debbono dar ragione,
debbono controllare. Da que- slo punto di visla la corrente delle nostre
sensazio- ni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci sono
imposte, ci vengono non si sa donde. Non ab- biamo nessun controllo sulla
loro natura, sul loro ordine e sulla loro quantità (5). Esse non sono
nè vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù che noi
diciamo di esse, i nomi che diamo loro, le teorie intorno alla loro
natura, al loro essere, ai loro rapporti possono essere veri o
falsi. Il secondo elemento della realtà è costituito dai
rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella 4 (1) Siamo in
piena metafisica e come! Non solo la livertà è nel reale ina anche la
cognizione. « L'usare e l'essere usato implicano «conoscere a cd cssere
conosciuto («to use and to be used includes to know and to be know»). La
nozione della « materia » morta... non trova più favore nella scienza
mo: derna » — «Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa:
l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilo- zoisino »
0 « panpsichismo » posto cne siano utili alla interpre- tazione del basso
(inferiore) in termini del superiore, « Sebbene non sia che un metodo,
tuttavia esso inclina a questa 0 & quella metafisica secondo che
meglio corrisponde a’ suoi ca- noni fondamentali ». -— Stud, in Hun, p.
422-4na. (2) Id., p. 427. (3) Id., p. 426.
(4) Id., 20i4, (5) JAMES, iUid., Vorl. VII, p. 155. vr
arde è RS | eee VI Il Pragmatismo
nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e ac- cidentali; p. es.
quelli di spazio e di tempo, altri sono sempre uguali a sè slessi ed
essenziali perchè si fon- dano sulla intima natura degli oggetti
corrispon- denti. Gli uni c gli altri di questi rapporli
vengono perce- pili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe-
cie di falli più importanti per la teoria della cono- Fi scenza è
l'ullima, perchè comprende le relazioni e- sas terne, le quali vengono
apprese ogniqualvolta gli Da i oggelli sensibili sono messi in rapporto
fra loro e | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero lo- e
> gico-matematico. : Il ferzo elemento della realtà
consta delle verità È antecedenti che debbono esser prese in
considerazio- es ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci
oppone | molto minore resistenza degli altri due: finisce
quasi ty sempre col cederci il passo (1). i Ora, sebbene questi
elementi della realtà siano un po’ fissi, tuttavia, operando in
essi godiamo di una cerla libertà. Le sensazioni, p. es., sono, è vero;
il loro essere non dipende da noi; però dipende da noi, dal nostro
interesse di rivolgere l’attenzione a que- ste più tosto che a quelle;
dipende da noi di tener + a conto di alcune e di tralasciare le altre; dipende
da noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza de- + cisiva
alle prime 0 alle seconde (2). LS Noi leggiamo le stesse cose
diversamente secondo il punto di vista da cui le guardiamo. La
battaglia di Waterloo è considerata come riltoria da un ingle- ‘se,
come sconfitta da un francese. Così l’ottimista. legge nell'universo la
parola « vittoria», il pessimi. (1) Id., îbid, Come? tra le verità
antecedenti vi sono ancl le relazioni elerne fondate sull'intima
struttura dell'oggett mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore
non è i discutibile? non formano esse la struttura del nostro
pensiero? ‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero
logico-matematico? À parte questa incoerenza, è certo che il James non sl
pre «senta con le audacie quasi spavalde dello Schiller: a vol
sembra di trovarsi, leggendolo, davauti a un realista e intel |
lettualista autentico. Cfr. « Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15, «Bulletin
d’Epistemologie » p. 278-298. = (2) James, î'2d., p. 156, pers i: La teoria della
verità e della realtà È, sta la parola «sconfitta».
«La esistenza della real- © tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo
di- pende dalla nostra scelta, e la scelta dipende da | noi»
(1). La realtà è muta. Le sensazioni dei rap- (SAh porli loro non ci
dicono niente intorno alla propria natura: siamo noì che parliamo per
loro. Noi rice- 2 viamo il blocco di marmo, ma siamo noi che vi
scol- piamo la statua. Giò vale anche per le parli « eterne »
della reallà. Noi scompigliamo le nostre percezioni Mei
rapporli inlrinseci e le ordiniamo a nostro pia- . cere; le
classifichiamo in serie, le raggruppiamo in classi, consideriamo ora
l'una ora l’altra come fon- damentale, finehè le nostre credenze formino
quei sistemi di verilà che conosciamo solto il nome di lo- gica, di
geometria, di aritmetica. Im ognuno di quesli ‘sistemi la forma e
l'ordine è evidentemente opera (umana (2). È difficile parlare di
una realtà indipen- «| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce
al concetto di ciò che è già nel campo dell’esperienza, ma non
è | @ncora denominato, oppure all'assolutamente mulo, o
a, un limite puramente immaginario della nostra coscienza (3). Ad
ogni modo è inaccessibile, inaffer- | rabile: quando crediamo
d’'averla còlla noi ci tro- viamo lra Je mani un semplice surrogato, una
crea- . lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega-
lala per il noslro uso e consumo (4). La corrente delle
sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi di- ciamo di quel
flusso è creazione nostra dal principio sino alla fine. Noi
condensiamo la corrente plastica | în cose, a nostro capriccio: noi
creiamo i soggetti e 1 predicali*dei nostri giudizi veri e falsi:
tutto cià «che è, è frutto della nostra elaborazione. «Il
mondo «| non è — come vogliono i razionalisti — l'edizione in
(1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr,
aber hr Inhalt hingt von der Auswal ‘ RO vahl, und die
Auswahl hangt (8) 1d., p. 159. | (a) Ia., ivia.
Il Pragmutismo 56 folio infinita, l'edizione di lusso
elernamente com- plota che le coscienze individuali non riescono a
de- cifrare nella sua interezza e rifanno in lante piccole edizioni
finite, piene di errori di stampa, più o meno deformate e mutilate; ma è
un’edizione non ancora perfetta, che viene completandosi a poco a poco
spe- cialmenle per l’attività degli esserì pensanti » (1). E questi
la stampano nelle loro edizioni; la plasmano nei loro schemi
connoscitivi, in mille modi diversi, secondo i loro diversi fini. E quei
modi son lutti veri, hanno tutti lo slesso valore di verità se
rispondono al fine per il quale furono elaborati. L'anatomico con-
sidera l'individuo come un organismo: la sua realtà sono i suoi
organi ; l'istologo vede in esso un comples- È so di cellule, il chimico
un insieme di molecole (2). Il n numero 27 si può considerare come
la terza potenza di 3, come il prodotto di 3 e 9; come la somma di
26 + 1, come 100 — 73, ecc. ecc. Noi siamo creatori nel 0, conoscere come
nell’operare. Il mondo aspetta la sua forma _finale dalle nostre mani,
Così il Pragmatismo apre nuovi orizzonti alla forza divino-creatrice
del- Puomo (3); così il pensatore è rivestito di dignità
LI nuova piena di responsabilità. 6 i Noi «solleviamo ad
altezze nuove la realtà pree- » sistente » se sappiamo credere, agire,
lottare: la fede ci fa salvi, ci porla alla conquista
dell'universo, ul niglioramento progressive della realtà (4) La no:
stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il fata- lismo, il
quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar: cobaleno: vi troviamo
tutti i colori, a nostro grado: la noslra azione ve li crea (9). a
VP | (1) 10. ibid., pi 165... Cfr.: La cultura filosofica,
N. 2, Pi 124, > dove ho tolta la traduzione delle parole qui
citate. i (2) Id., p. 161-161; passim. Ù (8) La frase
è del PAPINI, «der Fiihrer der italienischen V80 Pragmatisten » come lo
chiama il JAMES, ibid., p. 104. NP». int (4) Le parole sono prese
dall'EuckeN ima non si ha alcuna e) citazione di opera; EUCKEN parla di
una « Erhohung des vorge- i fundenen Dascins » -- p, 163.
ine. (5), James, p. 170 sgg. SCHILLER: «like a rainbow Life
glitters ti în all the colours». /fum, 16, \?, uindi, o
uomini, imparale a conoscere voi stes- vi consapevoli delle vostre
vocazioni; in- allargate le vostre finalità: sollevatevi i |
dominazione in dominazione; sappiate volere e sappiate creder?, cioè
uermare con tutto il vostro essere che le cuse stanno realmente come voi
le po- ele, © le cose vi ubbidiranno, e la fede \} farà salvi, ioè
vi permetterà di conseguire i. fini della vostra esistenza. Sappiate che
dopo lutto la verità non esi- ste in sè; ma parlate, pensale, agile come
se real ente fosse tal quale voi la vedete, voi non servi, na
padroni suoi © suoi fallori» (1). ‘Questa è lu dottrina della
realtà sostenuta dal agmalismo. INI. LA
RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO “Sommario: x l. Le
preoccupazioni etiche e religiose. — $ 2. L'esistenza di Dio. — $ 3. Il
concetto di Dio. — \ 4. Religione e religioni. g. 1. —
Esporre con una certa ampiezza le dottrine pragmaliste, senza fare un
posto speciale al modo con cui in esse sono presenlali e risolti i
problemi religiosi, sarebbe una mancanza grave. — Chi ha
studiato o lello con amore, le opere — al meno le principali — dello
Schiller e del James, sa “che, allraverso ad esse, si sentono passare,
come n fremito, più o meno distintamente, due preoccu- | pazioni;
luna, più generale, che tulto pervade, tulto “colora, tulto
fondamenla: la preoccupazione etica: l’altra, più speciale, che nasce
dalla prima come condizione necessaria o postulato del coronamento
dei valori e delle esigenze eliche: la preoccupazione — religiosa (I).
È vero che questa (la religiosa) nello Schiller non è così intensa
e così manifesta come nel James; lo (1) Per questo io credo che,
se si può e si deve parlare di nn pragmatismo religioso (e così pure di
uno epistemologico, metafisico ed estetico) come di un complesso di
applicazioni del principio del Peirce alla religione (alla metafisica
cecc.), non si può invece parlare di un pragmatismo etico, come di
lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragma- ismo è etico:
l'etica è alla base della epistemologia, della me- a Lab della SESLIgione
°, della IOICUCE Di quest'ultima non È ames e Jo Schiller non se ne son Ù
A articolare, Il non ne sono occupati 5
0 58 La Religione nel Pragmatismo Schiller —
il véro filosofo del pragmatismo, sebbene meno popolare del James — ha
lavorato sopratlulta a stabilire e consolidare la base stessa
dell’edificio: il carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra
at- tività e di ogni prodotto dell’altività umana: tutta- via sono
numerosi i saggi nei quali egli si occupa ex-professo, più o meno
largamente della religione, V, e da per tulto si sente che per lui la
religione vale. - Del resto: non ci dice lui stesso, espressamente,
che il pragmatismo «non è soltanto un movimento che riguarda un
insieme di dottrine tecniche intorno al 7 problema della conoscenza, ma
anche un tentativo di determinare i rapporti tra «fede, ragione e
reli . gione?» (1). Quanto ai James è nolo — per la sua
stessa con- fessione — che la prima applicazione da lui falla del
principio del Peirce fu un'applicazione ai problemi KS. religiosi
(2). Ed è noto del pari che, dal giorno del ; suo primo discorso
pragmatista all'Università di Ca- È lifornia (1898) fino all'opera:
« A _Pluratistic Univer- | Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le
varie forme dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism », lulte le
volte che gli si presentò l'occasione, ha posto \ e risollo, a modo suo,
i più fondamentali tra i pro- i blemi della religione. Il James fu un?
anima carat- - leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: :
«Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per il inisticismo
del grande pensalore svedese Swe- dlenborg, il principio del quale era la
relazione tra’ gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa
«dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la opera del James»
(3). Egli lrovava «la forza e lu pace del cuore e dello spirito nella
fedeltà alla crc- denza che fuori del mondo del nostro «pensiero
co: Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le energie
capaci di arricchire e di trasformare la no- 4
(1) Studies in Humanism, Essay XVI, p. (2)
Pragmatismus, p. 29. |. 13) E. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5
Novemira, 1919, Db, isa ( © Metaph. et de Morale, 349, SEE.
culi * Il Pragmatismo 59 stra
vila» (1). «Chi sa — scriveva egli, conchiuden- do un’opera classica
sulla religione — se la fedeltà di ogni uomo alle sue umili credenze
personali non possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen-
{e ai deslini dell'universo? » (2). Aggruppo l'esposizione intorno
a questi tre punti: 1.) Esistenza di Dio; 2.) Concelto di Dio; 3.)
Reli- gione e Religioni. «2. — Cominciamo col James,
La storia della filosofia è in gran parte la storia del conflitto
dei temperamenti umani, Ogni filosofia è l’espressione, il riflesso del
carattere intimo del- l'uomo, la traduzione in idee del lemperamento;
ogni intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più nè meno che
un complesso di reazioni del carattere umano assunte, o a propria insapula,
o deliberata- mente, in faccia alla realtà (3). Questo spiega il
sor- gere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi.
Noi possiamo distinguere due principali tipi spi- rituali d'uomini
aventi caralterisliche affalto diver- se: l'uomo dalla (empra tenera
(lender-minded) e l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il
tipo simpatico c il cinico (4). Mettele questi due tipi
profondamente diversi in faccia all'universo e chiedele loro una
dottrina: a- vrele da una parle il malerialismo sensualista, con
lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo, come traduzione
del temperamento rude e cinico; dall’altra lo spiritualismo con contenuto
ottimistico, quale espressione deì tipo dalla tempra tenera.
L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto dei due
lemperamenti malcrialistico e spiritualisti co assumono tulto il
loro speciale rilievo di opposi- | zione davanti al problema
dell’esistenza di Dio. Il (1) L'Expérience religleuse, p.
436. (2) /ui, p. 437. : Li Mi (3) JAMES, Der
Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ; Universe, p.
20 (4) Der Pragmatismus, ivi, p 7: A Plural. Univ. p. 29. »
- ? 60 La Religione nel Pragmatismo
complessa delle cose che vediamo, che esperimentia. mo e che abbiamo
convenuto di chiamare « mondo » sono il prodotto della materia o di Dio
esistente fuo- ri e sopra la maleria? «La materia produce tulte le
cose 0 e'è anche un Dio?» (1). Ecco il problema. Il quale non sarà
risolto mai — e la storia è là a di- mostrarlo — in base alle vuote,
astratte e. sottilis- sime discussioni sull'essenza intima della materia
€ sui suoi caratteri osservabili o su pretese visioni h-
telleltualistiche de! Dio che è in questione (2). Ogni speculazione è
impotente — di fronte al materiali- smo ateo — a dare una solida base
razionale alla re- ligione: i due grandi (entativi sistematici di
dimo- strazione dell’esistenza di Dio — il teismo scolasti-
‘co e l'idealismo trascendentale — hamno fallito al loro scnpo.
‘Tulli conoscono gli argomenti classici della filo- solia
Scolastica. Ebbene, Hume, col cacciare per sempre la causalilà dal mondo
fisico, ha reso impos- sibile ogni inferenza dal creato a una causa
prima; del resto l'idea di causa è troppo oscura per servire di
fondamento a tutta una teologia. Dopo Hume, Kant ha dimostralo che, Dio,
l'immortalità e la li- berlà, non avendo alcun contenulo sensibile,
sono parole vuole di-senso dal punto di vista della cono- scenza
(corica, e ha fatla giustizia una volta per sempre della vecchia
leologia, che ora non regna che nel volto e non è difesa che da qualche
ritardatario. Il darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova
per mezzo delle sue cause finali. L'ordine e il disor- dine che noi
troviamo nel mondo non sono che in- venzioni umane: chiamianio ordine ciò
che corri- sponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne
(1) I metodo praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (tra-
duzione PAPINI). (2) Occorre far notare che questa visione degli ontologi
non è da confondersi con la ?n!uizione del sentimento, intuizione
sorda e vivente, della «philosophie nouvelle»? Vedi: PIAT, Insuffisance
des Philosuphies de l'Intuition, p. 129, Sg. Il Pragmatismo
61 allontana (1). Finalmente il pragmalismo, cacciando - dal
mondo la necessità logica, ha tollo ogni speran- a di una soluzione per
coucetti del problema in que- stione, di modo che le prove dell’esistenza
di Dio non sono valide che per coloro che già credono in Dio
i e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3 3
i A “pre credenza (2). ; L'idealismo
trascendentale non è più felice nel suo SG tentativo di dare una base
solida alla fede: vedremo quali assurdilà sono implicite nel concetto di
una coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima de! x - inondo:
vedremo a che si riduce l'Assoluto. e «E allora? Quale altra via rimane
aperta per risol vere il problema? Già nell'opera : La volontà di
cre- dere, il James assegnava ai molivi emozionali un valore
definitivo, nel casu che l'intelletto non poles- E se offrire delle
ragioni sulficienti per l'adesione a i doltrine di caraltere religioso.
La via è aperta: met- liamoci in essa. La questione: « Dio esiste? »per
il pragmatismo si risolve in questa, più determinata e più chiara:
«Quali conseguenze pratiche importa (| per la reallà, per noi,
l'esistenza di Dio?» Se prali- = camente, cioè dal punto di vista del
criterio della uti- .lita pratica, la negazione dei malerialisti vale
quan- lo l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equi-
valenti in lutto poichè delle teorie non esiste che il di lato e il
valore pratico (9). 7 | Ebbene, la questione se il mondo sia creazione
di Dio o prodotto delle forze materiali può essere con- pe sideralo
da un doppio punto di visla: relrospettivo + e prospettivu. lFingiamo che
il mondo sia completo. ti ed evoluto in tutte le sue partì (punto di
vista retro- | spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri
sultali buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun- (1) Jaars,
L'Expérience religicuse, D. 418 (in nota), p ce 369-331. ia
a JAMES, L'Erpérience reliyicuse, p. 368-309: « Pour celui qui déjà
croit en Dieu ces arguments sont solides... La On {ltoure... des
arguments pour défendre ces croyances le doit les trouver ». :
di Ò NI Vol., p. 59; L'Experience (3) JAMES,
Der Prugmatismus, religlouse, pas. 132. INA La
Religione nel Pragmatismo que aumento e qualunque alterazione. Da un
mondo lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da temere,
perchè il potere creativo, qualunque fosse slato, si sarebbe esaurito
tutto in quello che è, che è irrevocabilmente, in tulle le sue
particolarità: uno dono che ci è stato dato e che non può essere ripre-
ì so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il valore «di Dio, sc
ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo mondo già trascorso? » (1).
Egli non varrebbe niente più del suo mondo; da lui, come dal suo mondo,
non avremmo nulla da sperare e nulla da lemere, poichè egli,
secondo tale ipolesi, nulla potrebbe togliere 6 aggiungere a ciò che è. A
un Dio simile noi saremmo riconoscenti per quello che ha fallo, non per
altro. lì ora prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le
parlicelle di materia, seguendo le loro «leggi» po- lessero fare lullo
quello che, nell’ipotesi precedente Da fatto Dio: saremmo noi loro meno
riconoscenti che a Dio? «In che soffriremmo noi mancanza se
lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo respon- subile la sola
maleria? Come, essendo l'esperienza definitivamente cd irrevocabilmente
ciò che è sfata, “polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più
vi- vente e più ricca al nostro sguardo?» (2) « Chiamia- mo materia
la causa del mondo e non leviamo nep- pure una parle di quelle che lo
compongono; nè, sc chiamiamo Dio la causa, esse aumentano ». Dunque
«materia e Dio significano precisamente la stessa | cosa, cioè il potere,
nè più né meno, capace di fare | questo mondo celerogeneo, imperfello e
tuttavia ter- | Minato », e perciò «la dispula tra il materialismo e
il leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifi- ante». Se la
presenza di Dio «non porta un giro v lin risultato differente all'insieme
del mondo, non Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al:
RE TIE (I) JAMES, 12 metodo
pragmatista, in Saggi È : MES, li SI, gi pragmatisti, x D.
15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da 3 Saggi
pragmatisti, e messe tra virgolette sono della traduzione | del PaPINI e
del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL Metodo | pragmatista
dall'inglese, | (2) James, 0 Metodo Prag matista, pp. 16-17;
Dì mus) ip, 06 g Dp. 16-17; Der Pragmatis: — mondo) verrebbe nessuna
indegnità se Dio non hi fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch
È scena» (1). È saggio colui che volta le spalle a siffat- ‘la
inulile discussione (2). 3 ‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un
punto di visla prospellivo; poniamoci « questa volla nel inondo
reale in cui viviamo, mondo che ha un fulu- ro, che è tullavia
incompleto... ». ; 3 «In questo mondo non finilo l’allernativa di
«ma- lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa si può
formulare così: «In qual modo il programma della nostra vila è allo a
variare, secondo che si con- siderano i fatti dell'esperienza come
configurazioni di atomi senza finalità (materialismo), oppure come
dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero che in questo mondo non
finito la materia fa prati camente lutto ciò che può far Dio, che essa
equivale u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima ri-
chiesta della sua esisienza? E vero che «la materia, di cui paria
Spencer, per la quale si compie il pro- i cesso dell'evoluzione cosmica,
è veramente un prin- | cipio di perfezione infinita quanto Dio? ». (8)
Vediamo. Secondo il materialismo e la sua « teoria dell'evoluzione
meccanica, le leggi della distribuzione della materia e del moto» sono
rivolte incessante- _Inente al disfacimento del mondo, «a dissolvere
tutte le cose che hanno falto evolvere ». Così il Balfour cl rappresenta
l’ullimo previdibile stato dell'universo quale ce l'ha dalo la scienza
evoluzionista: «Le e- Nergie del nostro sistema si consumeranno ; la
gloria del: TR cselrata, e la terra, inerle e desolata, a
disturbato 1a oltre la razza che per un momento E SS GLILI a sua
soliludine. L'uomo cadrà nel EF va suoi pensieri periranno. La
inquieta a... le «azioni immortali » moriranno, e l'a- i More, più
forte che la morte, sarà come se non foss _ mai slalo. Nè vi ‘'à Il i i
sli se 1 sarà nulla che sia meglio o peggio i fu) Ivi, PP.
17-18; pp. 59-63. a (2) Ivi, p. 81; p. 61. (8) d04, DD. 18-21, pp.
63-64/ 64 La Religione nel
Pragmatismo per lulto ciò che il lavoro, il
genio, la devozione e la sofferenza dell'uomo avranno fentalo di
effettuare durante età innumerabili » (1). Dunque la sorte ulti-
ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmica- mente evolute è
tragedia. Nulla rimarrà di ciò che è slalo: non un'eco, non una memoria:
la rovina sarà universale. È si noti: « questa rovina e trage- dia
finale sono nell'essenza del materialismo scien- lifico. Le forze più
basse, e non le più alte, sono le forze eterne o quelle che sopravvivono
ultime nel solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definiliva-
mente vedere » (2). Ma se Dio esiste, i risultati pratici
dell'evoluzione dlel mondo saranno ben altri. « Un mondo che con-
lenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi ar- derè o ghiacciare,
ma però noi pensiumo che Egli pensa sempre ar vecchi ideali e ne assicura
che al- riveremo a goderne; perciò il naufragio e la disso- luzione
non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno di un ordine morale eterno
è uno dei più profondi bisogni del noslro cuore... ». «Qui
giacciono i significati reali del materialismo e leismo...; matlcrialismo
signitica Ja negazione del. l'ordine morale eterno e l'esclusione delle
speranze ultime; il teismo significa l’afiermazione di un eler- no
ordine morale e dà libero corso alla speranza » (3). Un'altra
conseguenza pralica di grande importan: za deriva dalla affermazione
feislica: il sentimento d'intimità col mondo. I mulerialismo
con la sua visione impersonale dell'universo ci pone di fronte a una
realtà muta, in: differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò
che crea, senza curarsi del bene e del male, e dei biso - gni
umani. I bisogni umani! Ma che cosa è ma l'uomo per il quale si dovrebbe
avere dei riguardi: L'individualità di ciascuno di noi è come una
(1) BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede) p. 30,
citato dal JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in. Der Pragmalsmus,
pp. 64-65. (2) JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D.
66. (3) Zuî, pp. 23-24; p. 66 sg. Il Pragmatismo
= rrasca, 7 are in burra sopra: unt ma senza tre- qui
epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT sj venti e le onde c iizoirenomoni
Uasc due i i non siamo che degli €} gli eventi (1). Come otza (dol
flusso irresistibile deG Letta così falla? È Si simpatia e amore per o a
senoi mettiamo 6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono n
Dio una som idenzar allora. lime al nostro cuo- | ù calde, viù vicine a e
voni saremo più estra- "o pensiero : > e al Nostro La non
lo saranno a noi. Ri Mg ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe
dire Da un punto di vista DER fra il maferialismo e il le la
differenza che passa fra de senlire i no: CE "nali el concepire e
sentire ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE BLOGO SÌ
differenza sociale. £ i rapporti col mondo è una eee iamo
malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn {ra socio, il mondo, difidenti e
USE E guardia che non ci GU slringorit Spiritualisli noi possiamo
fidare li, S SECOLI Nexbitualisti SIAE n ere fidenti sulla nostra
" tai Ise peosstere ident so utile, che on ai Rostri bisogni
emozionali, che ci fa ‘Procedere coraggiosi nelle nostre esperienze
sulla Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do- —
mande che le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della | Verità, noi dobbiamo
concludere che il (eismo è vero © il materialismo è falso. Vi
sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare conclusione in favore
dell’esistenza di Dio. Se Dio, Egli produce differenze prati porti
call'universo; se c'è un Dio, renze « nella sorte finale del mondo
: lo. Ma possiamo dire d questa c'è un che nei
nostri lap- questo s'è vedu- i produca differ .
Ina durante tutto il ere che l’esistenza di Mella sorte
finale do» (3) Ammetl ì, L'Expérience
religieuse, D. 409, 411. >, Il Metodo pr agmut., p. 15; 4
Pluratistie Univer Il Met. Ppragm., p. 25. Egli produce
diffe È più: se c'è un Dio noi possia-. no aspellarci che
egl enze non solo, | corso del mon- Dio non possa a
66 La Religione nel Pragmalismo
— cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare
‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla ap- punto in quelle
differenze che debbono essere ammes- se nella nostra esperienza, ove il
concello sia ve- “ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un
‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La Z esperienza
fisica, o percezione degli oggetti esterni, e la esperienza psicologica
pura c semplice limitata alla tà percezione deil'io, non colgono la
realtà tolale e pie- ‘q namente reale, e non sono le uniche forme di
espe- ricoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che (ci dà
una massa di esperienze concrele affalto ori- «_—‘ginali. «Se voi
chiedete cosa sono queste esperienze vi dirò che sono conversazioni
coll’invisibile, voci e visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di
cuore, Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura
zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si mettono in una cerla
attitudine interna, con certi modi appropriati. Il potere viene, va e si
perde, e può esser trovalo soltanto in una certa direzione de-
terminata, proprio come se fosse una cosa concreta e maleriale» xl},
Vedremo più sotlo perchè pratica- mente parlando è cosa di poco momento
che il Dio della teologia sistemalica esista o non esista; «ma se
il Dio di queste particolari esperienze è falso, è una cosa lerribile per
quelli la cui vita è poggiata su tali esperienze » (2). _,
Concludendo: «la controversia teislica assume un lreniendo significato se
noi la saggiamo coi suoi re- ; sultati nella vita attuale » (3). Il
naluralismo, il posi- ARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con
cu- lusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fa- talmente
nella tristezza e nello scoraggiamento inerte. Se invece, come afferma il
teismo, la nostra vita ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un
universo mo- rale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre
sofl- a O TAES: ALI
relty., ). 432. ‘ AMES, Mel. pragm., pp. 28-29. — Sono appunto
queste | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci CRA la e la
materia di: L'Experience — (3)/£ Metod. Pragni., pp. 29-30.
a N ll Pragmatismo 67°
ferenze ha la sua ragion d'essere e il suo valore; se il cielo sorride
alla terra e se gli dei vengono a visitare gli uomini; se la fede e la
speranza sono come l'atmosfera della nostra anima, allora la no-
stra vila scorre abbondante © colorita in mezzo a grandiose prospellive
(1) i Possiamo tirar subito una conseguenza importan- le dal
punto di vista pragmatlistico ; la speculazione è- impotente a condurci a
Dio; noi affermiamo la gran- de probabilità della sua esistenza in base
alle con- seguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che
derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmen- te, e lo vedremo
sotto, il pragmatismo non può darci più che una probabilità.
Lo Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse conseguenze.
Col James egli rigetta le prove tradi- zionali dell'esistenza di Div e fa
una guerra spietata alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli
idea- lisli trascendentali. Per lui la comune insufficienza
delle prove tradi- zionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti,
sono applicabili alla concezione di un universo qualsiasi, non ul
nostro mondo particolare. Per esempio: l'ar- gomento cosmologico inferisce
Dio dal fatto che vi è eausazione in astratto; l'argomento
fisico-teleologico è costruito arguendo, in maniera affatto
generale, dall'ordine un ordinatore (2). Ebbene questi argomen-
‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo. Dal
momento che si possono applicare ad'ogni sol- ta di mondo, buono o
cattivo che esso sia, ne segue che la divinila inferita con questa specie
di argomen- tazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo,
al bene e al male che esso racchiude: è un Dio amorale, che si può
inferire così bene da un universo ollimo come da uno pessimo. La
inferenza di Dio dal mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel
l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a Dio attribuli
morali sono condannati a ;certo insuc- (1) Ivi, p. 30. (2)
JAMES, L'Experionce religieuse p. 117. 4
Se | il |
cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mon- do come si
può giungere a un principio morale gli esso? Ebbene, non è di codeste
prove che noi abbia- mo bisogno; non chiediamo una prova
dell'esistenza di Dio che sia valida per ognì universo pensabile,
mù per il nostro mondo aituale, che tenga conto del con- tenuto
concreto, reale delle cose che noi: esperimen- liamo; ci occorre un Dio
il quale ci dia sicurezza, che nel nostro mondo vi è un polere capace e
disposto a dirigerne il corso (1). È È Il dialogo: Gods and
Priestes (Dei e Sacerdoti) (2) è lullo una critica birichina degli
argomenti raziona- li (teorici) dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi
pa- re che Vesislenza degli Dei si possa inferire dall’esi- stenza
dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero, e che ci starebbero a
fare i sacerdoli? » Un argomen- lo puerile, a dir poco, come si vede.
Eppure Anlino- ro risponde: «Questo argomento è... migliore della
più parte di quelli dei teologi » (3). Più oltre Antinoro dice: .« Finchè
il Dio ignoto non è desideralo è inco- moscibile » (4). Noi sappiamo che
« inconoscibile », per l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma
dunque il nostro desiderare, volere Iddio è creare, fare Iddio?
Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. « Gli dei sono reali in
quanto responsi ideuli ai reali biso- gni umani, che ci funno realmente
agire» (5). Dio 6 un postulato della fede ed è delia stessa nalura
dei postulati della scienza (6), cioè una supposizione uli-
(1) SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82. = lo non
posso indugiarmi a esporre largamente le teorie re- liglo5e dello
SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un articola non basta a ciò, Del
resto non è neanche necessario, perchè lo SCHU.LER, quando pula di
religione. si appoggia spesso al JAMES, €, sostanzialmente, lo
riproditeo (2) ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay XV, pp.
326-348. (3) Ivi, p. 227. (4) Ivi, p. 347.
(5) IVI, pp. 340-341: «They (gods) nre real as the ideal re-
sponses to real human needs, which really move us, (6) Studies in
Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La tolontà di credere del
James, = "i si » etiam Lu e e ir__nnnn_nn_
RPEI EN oli Pragmulismo le, una domanda di qualche
cosa che corrisponda alle esigenze dell'uotno e mella armonia in una
speciale sfera di esperienze. L'uomo fa la verilà e la realtà, come
s'è veduto: È è vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la
soslanza è allivilaà, e l'attività non esiste se non come attività per
noî. La domanda di Dio non è la doman- da di un essere lrascendente, ma
di uno perfezio- È nante la esperienza nostra (1). Perciò la questione:
LI, Dio esiste? significa: Qual'è il valore per noi del con- X cetto di
Dio? | siecome le concezioni di Dio sono mol- | le, qual'è il valore di
esse, 0 dei varì tipi ai quali lulte sì possono ridurre? E qual'è il
migliore fra i concetti di Dio? $ 9. — Nella filosofia
spiritualisla noi troviamo due specie di (eismo in senso largo: il leismo
dualistico, o teismo propriamente detlo, e il leismo monistico o
panteislico. Il primo è la elaborazione teologica della filosofia
scolastica, il secondo è proprio dell’idea- lismo posl-kanliano, 0
idealismo assoluto, o ideali- smo simpliciter, che si voglia chiamare
(2). Esponia- noli brevemente ed esaminiamone il valore alla luce
del pragmatismo. >» Il'ieisino scolastico insegna che Dia è la Causa
Pri- ma, la quale differisce tolo genere dalle sue creatu- re. La
sua essenza è di essere a sé. L'ascità è la fon- le di ltulli gli altri
allributi metafisici: necessità e assolutezza, immaterialità e semplicità,
infinità e per- sonalità metafisica, ecc.; e degli attribuli
morali: sanlità e onvipolenza, onniscienza e giustizia, im
mutabilità e amore, ecc. (3). Ebbene, applichiamo a -
(1) ScuuLer, ivi. Considerazioni simili a quelle del James contro
ia visione materialistica della vita nol troviamo li — Humanism, Ess.
XIV, pp. 250 seg.: «The ethical significance. of immortality ». Vi
dintostra che la vita non è degna d'esser "vissuta se non sono
conservati i valori ideali. / (29) JAMES, A Pluralistic Universe
pp. 23-24; Der Pragma- lismus, VIII Vorl. p. 192. a (3) JAMES,
L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376; Saggi prag- mat., IL metod. pragm.,
pp. 25-20. ) ar n .
70 La Religione nel Pragmatismo RO T questi attributi
di Dio il principio del Pierce ec vedre- L mo che fra essi ve n'ha di più
e di meno importanti. i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che
diven- N gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol
attributi morali? Quali effetti possono produrre sulla nostra condotta?
Che cosa importa per la vita del. l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti
a sè stesso, che Dio non appartenga & nessun genere ecc. ecc.?
«Come può mai l'« aseità » di Dio loccarmi inlima- mente? Quale speciale
cosa posso io mai fare per adattarmi alla sua « semplicità? n «O
come devo de- terminare lu mia condotta da qui innanzi se la
sua «felicità» è assolutamente completa?» Anche quan- ‘do di quesli
attributi ci si desse una dimostrazione logica rigorosa noi dovremmo confessare
che essi non hanno senso, 4 poichè sono lontani dalla morale,
lontani dai bisogni umani (1). ‘Non è così degli attribuli morali.
Essi risvegliano il limore e la speranza e sono il sostegno
dell’ani- ma. Se Dio è santo non può volere che il bene; se è
onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la sua onniscienza ci vede
nelle tenebre; per la sua iustizia, Egli punisce le nostre colpe anche
segrete. ègli è tulto amore, dunque perdona; è immutabile e quindi
possiamo contare sul suo amore. i Iddio, nella creazione, si è proposto
come fine la manifestazione della sua gloria; « questo dogma ha
certamente una qualche elficace connessione pratica ©. colla vila, 0,
meglio, Phu avula per l'enorme influen- | za che ha esercitato sulla
storia ecclesiastica e per ? ripercussione sulla storia degli Stati
curopei» (2). Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezio-
ne monarchica del mondo, di una divinità con la sua corle e le sue pompe
non corrisponde più alla nostra mentalità, ma gli aliri attributi hanno
un valore re- ligioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica
(1) JAMES, L'Excpérience religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod.
Pragm. (op. c.), p. 25-27. .(2) JAMES, L'Expérience religicuse, p.
376; Il Metod. Pragm. (op. c.), pagina 27-28. i LA
4 s = lì Pragmalismo 1 polesse stabilire
in modo irrefutabile che Dio li pos- e) siede (gli attribuli morali},
darebbe una base solida si alla religione. Ma, come per
l’esistenza di Dio, cusì 19 per gli allribali morali essa ba fallito nel
tentalivo sl {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può provare
d storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È suno.
Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno | che dubita della
bontà di Dio, che Dio è buono per- ì chè non vi è non-essere nella sua
essenza! (1) Quegli ni altribuli hanno valore non perchè e in
quanto sono dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi
du- (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto
ur; eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A livo e
fanno appello a qualche particolare condotta = da seguire» (2), non
quindi in base a speculazioni, | Pi - ma per la loro efficacia
pratica. |, V'ha di più. La concezione leistica (scolastica)
di- pingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una dall'altra,
anzi come affatto diversi, mette il soggel- lo umano fuori di ogni
contatto con la più profonda realtà dell'universo. Dio è separato dal
mondo e dal- . l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot=
in - lo unilaterale, non reciproco. La sua azione può toc- :
carci, si afferina, (conte possa toccarci è un misleto) ma Lui non
può essere affetto dalla nostra reazione. Il rapporto fra noi e Dio non è
sociale: i due terni. | ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore
del nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma nostro maestro e
giudice, ll nostro dovere inorale è di obbedire ineccanicamente a’ suoi
comandi, di aderire pussivamente alle verità che non noi faccia
> mo, ma che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE ‘ decrec» (4). Ebbene,
lutto questo meccanismo LEO= N logico, che ha parlato così vivamente
all’animo dei nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, |
con la sua creazione dal nulla, con la sua moralità ta W) JAMES,
L'Erper. relig., DD. 370-977. “26 o). - (2) JAMES, IL Met. pragm., PD. 26
. Ca ye 2 (3) JAMFS, A Plural. Univ., pp. 25-27. “i | (4)
James, «Ad Plural. Univ., pp. 27-23. * |
72 La Religione nel Pragmalismo giuridica ed
escatologica, col suo gusto per le ricom- pense e le punizioni, col suo
considerare Dio cone un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al
piu di noi come se si trattasse di una religione selvag- gia di
stranieri. Le ampie vedute aperte dall’evolu- Zionismo scientifico e lo
marea monlanie degli ideali delia democrazia sociale hanno cambiato il
tipo del la nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico è
vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mon- do dev'essere più
organico G più intimo. Un creatore esteriore e lc sue islituzioni pussono
essere professa- le ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule
che sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è lontana da
esse, non lano più adito nei nostri cuo- sti (1). Quel magnifico uomo nou
naturale (2) che è il ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il
livello delle idee morali correnti e perciò condannato dal-
l’'alinosfera morale regnante, divenula per noì indi. spensabile.
«I frulli che un tal Dio ha dato ai nostri avi hanno perduto ogni
valore per noi, le idee morali e sociati nostre ci costringono, sc
abbiamo bisogno di Dio, a foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni
e agli ideali del lempo nostro (3). Ed ecco che l'anima
contemporanea ha veduto la possibilità di una più intima Weltunschauung;
la vi- sione panteislica di un Dio immanenfe come sostar- za inlima
del mondo, e il mondo come parle di quesia profonda realtà. Questi
concezione hu assunto due forme diverse: la monistica e la pluralislica
(4). (1) Ivi, pp. 29-30. — Lo stesso pensiero è espresso più
lar- gamente in: L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la
Saintele, pp. 250-284 (2) La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural.
Univ., p. 24. (3) JAMES, L'Ewper. relig., p. 282. — Si è detto
che”il Dio tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè
così porta la moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare
«il complesso delle idee morali e delle forme sociali» di una data epoca,
l'osservazione è giusta; se per moda s'intende quel- la brutta cosa che
tutti conoscono, non credo che sia esatto il dire chè il James giudica di
Dio in base ad essa. Cfr.. L'Erpér, relig., 1. c. (4) JAMES,
LI Plural. Uniw., pp. 30-31. Secondo il monismu la sostanza umana (e
mondia- ©. le) si identifica bensì con Ja divina, ma non
diventa veramente tale che nella forma della totalità. Lo spi- -
3 rifo finito non ha realtà che neila comunione con lo pi
spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste autenticamente È solo quando
è esperimentato nella sua assoluta l0- rà lalità. Pev il monista
essere significa due cose: se si È predica delle cose finite
significa: essere un oggetto Ì dell’Assoluto; se si predica
dell’Assoluto stesso vuol i dive: essere il pensamento dell'insieme
degli oggetti. " LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente
come noi, nei sogno, facciamo gli oggetti sognandoli, o, in una
storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e asso- julo sono la stessa
cosa espressa con nomi diversi: " pensiero e pensato (Gedanke
und Gedachles). «Quale grandiosa concezione nella sua terribile unità!»
esela: ma il James (1). Quale intimità fra il mondo e 1 AS- solulo!
> Ma, pur troppo, a un esame diligente questa 31 LI
St x. milà ci apparisce illusoria e materiale; in realtà il
divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo monarchico (2). E in
vero: per lassolulisla noi, POSI ad uno ad uno nella nostra
finilezza empirica non abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per
far (parle di esso dobbiamo perdere l'essere nostro indi- vidnale
con la sua limitatezza e coi suoi difetti. L'As- Ea solulo è noì e lutte
le allre apparenze, ma non è I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel
tutto TION x siamo « trasformati» diventiamo altra cosa. Dio qua-
Fat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus humanam wr mentem
conslituit — ha scritto lo Spinoza, il primo ; grande assolulisla (3). La
vera conoscenza di Div = serive l'Hegel — comincia quando conosciamo che
le cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han: ‘no verilà
(4). L'Assoluto — secondo il Taggarl — non è processo, ma stato immobile:
il movimento (1) JAMES, ivi pp. 34-37, (2) Zbta. (3) James, A
Plural. Univ., pp. 40-47, (4) Ivi, p. Di. » DI art ri È
aaa” * -- ul = Pa. ASTRA La Religione nel
Pragmatismo il cangiamento sono assorbiti nella sua
immutabili È i come forme di mera apparenza (1). Che cosa più DA
estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza nè volontà, nè una
persona, ne una collezione di per- sone, nè vero, nè bello, nè buono nel
senso che noi diamo a queste parole? — come. ha scritto il Brad-
ley (2). Che cosa facciamo di questo mostro metafi- sico incapace: di
odiare e di amare, di soffrire e di desiderare? (3) L’Assoluto non può
essere personale nel senso ordinario della parola; dunque non può
interessarsi delle persone: la sua relazione con ess? è tutt'al più una
relazione di inclusione, puramente logica, quindi, non morale (4). Io non
posso avere nè cuore nè pensiero per un essere che nulla ha co-
mune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitu- dine non s’inleressa
di me come posso io interes- sarmi di Lui? (5) = Non solo
l'Assoluto non è un principio morale, ma non ha neppur valore
scientifico. Per aver valore scientifico dovrebbe essere un aiuto alla
compren- sione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso non è la
ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ; ticolare (e l'universo si
compone di cose particolari) > appunto perchè è la ragione esplicativa
di ogni cosa î in generale; e qual'è il valore di una spiegazione
ge- merale che non spiega nulla in particolare? (6). È, come
si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat- lezza dei concetti
con i quali sì prova, in teologia, 2 che Dio esiste e se ne deiermina
l’essenza, secondo lo Schiller. s (1)
JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p o i ud. in Hum. Essay XII,
passim; (2) JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e:
(Essr IV, pagine 111-140. — IDRA RRE (3) JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER,
Ess. JV. (4) ScHILLER® Stud. in Hum,, D. 287. | (5) James, A
_Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. — bp, 391; « If th» One is
neither of these {hings (beautiful and | good), I will not worship it.
nor call it Good. If it is indif- ferent to 9ur Gocd, I am indifferent to
its existence n. (6) SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25).
db Ît Pragmatismo Ti) Ma c'è di
più. Uno dei problemi che ha maggior- mente alfalicalo il pensiero umano
è il problema del î male, il più fondamentale e il più pressante dei
pro- blemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico.
Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» — Il
prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor- ge
dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio. con la sua onnipolenza
e con la sua infinità. Se Dio è il tutto, la perfezione assoluta,
senza limitazione nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se
Dio è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru
il male? (1). li panteismo assolulista ci dice che la periezione di
Dio è la sorgente delle cose; ebbene, guardate: il primo altu di questa
perfezione è la spa ventevole imperfezione di tutto il finito
sperimenta bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede
7 queste schifose forme di vita che troviamo nella real- tà? (2).
Ecco il problema che nessun assolutista € . nessun infiniusta potrà maì
risolvere. Negarlo nou è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la
im- pertezione del tuito non è che apparenza, una illu- sione degli
esseri finiti, che il maligno non esiste 0 è assorbito con Dio nella sintesi
superiore dell’As- soluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma
ingarbugliare il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene.
L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x la quantita
del male che è nel mondo? ». Il lato pra- tico del problema, chie è il
solo veramente impor- tante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò
che è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto : ogni cosa l
determinata nel suo essere e nel suo di- venire; ia connessione fra le
cose è assoluta, ogni —— evento è determinato da lulti gli eventi (3).
Non esi- lai” sad (1) SCHILLER, Ivi, po 287-258.
nati (2) James, 1 Pturat. Univ. p. 117, — Una simile domanda
è rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può |
rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural. Univ., vp.
119 120. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo imperfetto, e non si
contenta di contemplarlo nello schema ideale perfetto? » >
95 James, 4 Plural. Univ., pp. 55 © 77. 2a La Religione nel
Pragmatismo ioni; i é che stono possibilità di nuove
connessioni; non vi è c ; DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP
DESeRa silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR na sono
chimere. Ecco a che conduce. la Assoluto. Eibovo queste terribili
accuse ACCIAIO deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan nato
alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO amet no RO . Dal punto di vista
intel: ì es (1), E ris : ) 5 : CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL
SDOlai elipotesi RO se l'Assoluto rende dei ser- Di all'uomo.
Orbene, quantunque l'Assoluto sia e non possa essere il Dio della
religione popo- laure ordinaria e non si debba confondere col Dio
del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa — ne vedremo più sotto il perchè
— tuttavia è stalo e può essere il Dio di una certa classe. d'uomini, che
in Lui solo trovano la pace {?). Ciò che sembra logica- nente
assurdo c impossihi può essere dimostraio in q non
le — dice lo Schiller ualche modo con una fede eroica e
palelica, Non v'è materiale così poco pro- Inettente che non possa
divenire il fondamento di una veligione. Non' vi sono conclusioni così
bizzarre che non possano essere accellale con fervore religioso.
Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfa- zione non possa essere
riguar data come un atto di cullo (3). Perciò
l’assolulo può esistere ed esiste come Dio se ha una reale iniluenza
s ulla vita umana, se è qual- “ehe cosa di vitale e di valutabile
pragmalicamente. Ebbene, la storia delle religioni ne ha dimostrato
l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una sicurezza assoluta che
l'esito del mondo sarà buono, che l'universo non audrà in isfacelo sotto
il COZZO (1) Zut, p. 110, (2) Jul, pp. 110, Iii, 1923;
Der Pragmatismus, VIII Vorl., ASSI, (3) SCHILLER, S/ud. in Ilum.,
p. %6. i
Iîì Pragmatismo Ti degli clementi instabili e fortuiti; lale
sicurezza non può aversi che ammettendo un'assoluta necessità e una
interna coerenza del mondo, una determinazione a priori del futuro.
Vi sono anime che provano un sentimento d’orgo- glio al pensiero di
essere una parle, una «manife- stazione », un «veicolo» o una
ripreduzione della Mente Assoluta (1). Vi sono quaggiù anime
stanche, accasciate sotlo il peso del male, incapaci di trovare in
sè stesse la forza di vincerlo; la loro vita si sfa- scia ed hanno
bisogno di risolversi nell’Assolulo, co- me una goccia d'acqua nel mare.
Noi tutti abbiamo dei momenti in cui aspiriamo al Nirvana, alla
libe- razione di noi stessi dalla esperienza finita. Questo stato è
proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì certi temperamenti mistici ai
quali è conforto ed ebbrezza il sapere « che tutto è necessario ed
essenziale, anche l’uomo col cuore e con l’anima ammalati: che
tutto è uno in Dio e che in Dio lullo è buono. che in que-. slo
mondo di apparenze, qualunque sia il nostro suc- cesso, siamo sempre dei
miserabili » (2). Vi è dunque un istinto dell’Assoluto.
L’Assoluto può servire all'uomo, e perciò, nonostante le sue as-
surdilà, il pragmatismo lo rispetta — ci dicono a una voce il James. e lo
Schiller — poichè gli istinti uma- ni sono preziosi © sacri (3) e tutto
‘ciò che opera è vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo sotto le
grandi ali della misericordia... del pragmatismo. , Il quale
pragmatismo inclina tuttavia ad un'altra concezione del mondo e quindi di
Dio. L’'Assoluto mena necessariamente all’indifferenlismo e al
quie- lismo; non è uno sprone al lavoro audace dei forti che non
rifuggono dal male della vita ma lo affron- tano pur nel dubbio di
trionfarne, esso è per le ani- me un oppio spirituale; è il Dio dei
deboli, degli stan- (1) JAMES, Mer Praymatismus, VITI Vorl., pp.
174-194, passim; SCHILLER, Stwal. in Mum., PP. 289-290. (2)
JAMES, ivi, pp. 187-188. Numerosi esempi di questo singo- lare stato
d'anicao ha offerto il James in: L'Expér. relig., Chap. X, pp.
353-358, (3) JAMES, Der l'ragmat., p. 176; SCHILLEK, op. c., p.
YI. fo) La Religione nel
Pragmatismo chi (1); il pragmatismo non può accertarlo. Si è
aC- cusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però. Non è a
credere che la dottrina pragmalista, rigel- tando VAssoluto e il Dio del
teismo monarchico, ne- ghi che il mondo contenga in forma di coscienza
qual- cosa di più grande e di meglio che la nostra co- scienza.
Forse che la nostra fede istintiva in esseri superiori, il nostro
persistente rivolgersi verso una società divina non è che una illusione
patetica di anime incorreggibilmente sociali e immaginative? (2).
No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia reale; per quanto
possano essere gravi le difficoltà che le si oppongono, l'esperienza
dimostra che essa opera. Il problema di Dio consiste in questo:
come elaborare l'idea di Dio in muniera di farla entrare in accordo
con le allre verità operative? (3), Ebbene, è logicamente possibile di
credere in esseri sovruma- ni senza punto identificarli con l'Assoluto.
Il con- _celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo idea-
listico ; il concetto pragmalista di Dio sla in funzio- ne del
pluralismo: è la forma pluralistica del pan- teismo religioso. Il
pluralismo — in quanto ha rapporto con la re- ligione — ammette col
monismo la immanenza di Dio nel mondo, come vita e sostanza profonda
delle “cose, sostanzialmente identica con la vita e con l'es- sere
più vero dell'uomo (4), ma differisce inconcilia- bilmente dal monismo
negli svolgimenti ulteriori della lesi unica. — Per il pluralismo
la vera realtà delle cose è la loro individualità. Il mondo è collezione,
non unità. Ogni (1) JAMES, iui, pp. 176 @ 188. (2)
Jimes, Her Praugmal., pp. 178-192, Anche lo Sc È Ste 4 DI È 162, A
o SCHILLER pro- is contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove
dottrine f adley, Cfr: Stud. in Mum., D. 195. — Per Îl res della
citazione, vedi; A Plural, Unlv., n° 133. Per E (3) Jamrs, ber
Pragmat., p. 192. (4) James, A Plarai. Univ, p. 31 -- Lo Schiller
parla del Pluralisino in generale in: Stud. in Human D 907 è 459;
vl ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la relazione del. plu-
ralismo con l'Umanismo, vedi. Humanism, pagina XX PI
LA SE cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un
ambiente esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU inclusive). Nessuna
inchiude lulte le cose assorben- done la realtà tutta, nessuna domina su
tutte. Men- {re la realtà del monismo è caratterizzata dalla All
form (formia del tutto o dell'uni-tulto), quella del plu- valismo è
caratterizzata dalla Zach-form (forma del le individualità o
distributiva, come altrove la chia- ma il James): è la forma dataci dalla
esperienza im- inediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una
repub- blica federale che un impero, un regno. L'unione delle cose
singole — atomi e unità spirituali — non è compenetrazione di tulte in
ognuna, non è il tipo del la unione monislica della tosalità-unità
(Alleinheit), non è complicazione universale, ma contiguità, con-
tinuità, concatenazione di individui; è il lipo di unio- ne synechislica
(1), quindi vi è dislinzione e indipen- denza. Perciò nessun centro di
coscienza, nessuna azione puo lutto abbracciare: qualche cosa
sfugge sempre e non può mai essere ridotta all'unità to) Non c'è
un'assoluta unità causale del mondo; non cè un'assolula unila generica;
non e'è un'assoluta unità teologica e morale; non c'è un’assolula
unità estetica, non c'è un’assolula unità noelica attuale
(1) JAMES, A Plural Univ., pp. 34, 321, 325. — Il «synechi- smo» è quella
tendenza del pensiero filosofico che fa dell’idea di continuità una delle
più Importanti in filosofia. Il continuo è inteso come qualens cosa le di
cui possibilità di determina- zione sono inesavribiti. (2)
Oltre questo synechismo — che è metafisico — ve n'è uno
epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica come
gradualmente approssimabile, ma non mai interamente taggiunsipilo dal
pensiero. I.'uomo tende a una interpreta- zione scinpre più razionale e
coupleta dell'universo, ma ogni fase del processo conoscitivo non è che
una razionalizzazione parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE
Pragmatism nel ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce
il | Pragmatismo è parte deila dottrima più larga del synechismea.
(Credo che il nemne sia del Peirce). Cfr. la bellissima opera Thegries of
Knowledge, del P. WALKER S. T., TLongmans, Lo; dra 1910: da essi
ho prese queste cliazioni n proposito del symechismo, dal
7 9 80 La Religione nel Pragmalismo
dell'universo (1). Vi sono «reali possibilità, reali indelerminazioni,
reali incominciamenti, reali finì, roali mali, reali crisi, reali
catastrofi e reali scom- pi (2). Nel mondo accanto all'ordine vi è il
Cso ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a bello il
brutto, accanto al bene il male: non vi è dunque perfetta, unità, ma
molteplicità reale neil u- nità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi
sarà mai; forse non potranno essere liberate dalla di- sgregazione
e dal disordine che certe parli del mon- do, quelle alle quali si estende
la nostra allivilà uni ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà
pos- sibile, nella ipotesi pluralista non è al priucipio ma alla
fine, non un primo ma un ultimo (3); la salute — ogni salule, anche ia
parziale — non è necessa- ria, certa a priori, ma solo possibile. Nella
concezio- ne assolulista il fondamento della realtà è l’unità sta-
tica; nella pluralista sono delle possibilità, pure pos- sibilità. Il
pragmatismo riconosce un valore reale al- la prima, ma preferisce la seconda,
come più in ar- menia col suo temperamento, poichè essa è alta a
suscitare nel nustro spirito un numero maggiore di esperienze future e
sprigiona in noi determinate al- livilà. Il suo effetto sull'uomo non è
il quielismo, 1a il lavoro strenuo, poichè com’essa insegna, da lui
{dall’uomo) dipende la vittoria sul male: vittoria pos- sibile a prezzo
di lotta contro i pericoli e la resi stenza della realtà ad essere
redenta è unificata. Così il jvagmatismo tiene Ja via di mezze fra
l'ollimismo — per il quale la salvezza del mondo e dell’uomo è
“sicura — e il pessimismo per il quale ogni salute an- che parziale è
impossibile. Il pragmatismo è melio- tristi: per esso il fuluro sarà di
più in più migliore del vresente come il presente è migliore del
passato. E la possibilità anzi la probabilità della salvezza per
(1) JAMES, Mer Pragmatismus, p. 79-102; A Puwal. Univ.
specialmente Zesi. VIII pp. 303-331. (2) JAMES, Will to Believe,
p. IX { Schiller: In Huinanism, pagina SI p , Gitato dallo Schiller
(1) JAMES, Der Pragmatismus, pp. 79-102 e 180. _
i mo. il Pragmatismo 8
ja liberazione dal male e per la diminuzione della moltiplicità
non unificata aumenta in proporzione del numero e della bontà delle forze
iiberatrici. Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e
lot- tano con noi? Allora la incertezza della salute è
ridoita di mol- lo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà
buo- no. Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipo- lesi di
Dio; per questo gli uomini religiosi del tipo pluralistice hanno sempre
credulo in Lui (1). Ma chi accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze
sovru- mane (2), deve elaborare il concello di queste in mo- do da
accordarlo con le esigenze e con le verità ope- rative di tale dollrina.
Quindi: la realtà divina (o le lealtà: vedremo più sotto se al singolare
o al plura- le) deve coesistere con lulte le altre realtà indivi-
duali inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussiste- re le
possibilità, le indeterminazioni, la libertà e quin- di la incerlezza del
futuro; dev'essere personale al iagdo nostro, poichè diversomente ci è
impossibile 1 mità con essa: in una parola: può e deve es-
SIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente RT Ta Tio
onnipotente. Noi non sappiamo che Alon Si Di s7ranico alla nostra natura;
noi vo: FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in Tondo dr 5 amen e
umano, al mondo in quanto è ONT sperienza. Noi e il mondo di cui
siamo Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia; RSA la f
apporti reali, non puramente astrat- CES col mondo deve esistere nel
tempo e una storia, deve quindi escludere la staticità
È RE Der Pragmat., pp. 182, 183, 191. IESUe i celli accetta il pluralismo
con tutti i suoi pericoli e Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du
solo per rendere Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui
reli- Tenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al
tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo sulla AT i mezzo
— che è la via aurea — perchè conta a dleì temperamenti umani. I più
degli sono dai i . I pi egli uomini : si EONANO I SIANZA dei due
temperamenti opposti: a questi mamente ul tipo meltorislico del
telsmo,. Ivi, p. 193- Pragmatismo - 6 v
PEPE], Pg ASS RE. I RARE 1 pragmatismo
È s2 La Religione ne ,” ed avere Un ambienté
esiratemporale dell'Assolulo esterno come noi. essere, IN una
arola, uno degli euch, UD mombro del mondo pluralistico, una conti
nuazione di esso (1). i ; Uno o più? Monoteismo 9 polteismo? Si può
con: cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente _. ‘dice il
James — purchè sj ammetta la sua finità; è Vunica via per sfuggire a
tutti gli assurdi e gli 1n- convenienti che por sè l Assoluto (2).
Tuttavia il pragmatismo inclina evidentemente al politeismo, alla
concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss! occupa di una frazione
dell'universo; © di una ge- rarchia di coscienze inferiori che vanno
dalla c0- d una suprema, senza soluzione scienza della razza
® | i a non è infinita perchè di continuità; © la suprem
infir ‘sintesi di coscienze finite (3); © è — dice il Boutroux —
‘un sostituto pragmatistico dell'Uno astratto degli idealisti; in
essa € per essa le coscienze inferiori pos- sono entrare in relazione fra
loro, amarsi e compren- dersi (4): sla qui il suo valore pratico.
‘Tanto il James come lo Schiller tengono molto a rovarci che la
loro concezione del divino sì accorda perfettamente con la religione
pratica, con la espe- rienza religiusa dell'uomo ordinario, e con la
teolo- ia orlodossa non inquinata dal veleno monistico. — «Ne
Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre Ce- Jeste del Nuovo hanno nulla
di comune con l'Asso- julo se non questo, che lutti e tre sono più
grandi dell'uomo. Difficilmente io posso concepire qualche
fn 9” cosa di più diverso dall'Assoluto del Dio di David 0
(1) JAMES, A putrat, Univ., DI. 318. (2) JAMES; Ivi, p.
310-311. 13) È la teoma di Fechner che il JAMES €S sone nella IV
Let ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning. Fechner »:
133-177 0 oo : ì questa coscienza feclneriana « esistente
dietro le quinte ; da È del mendo» e non ienulicabilc con l'Assoluto dei
° rascenden- ‘ ° talisti, il James sveva già pirlato in una conferenza «
sull'im- i Saggi “Pragmatisti: « L'ime | i |
mortalità dell'anima » nel 1898, Cfr: (mortalità dell'anima » p.
199, (4) Op. c. Di JI. = Il Pragmatismo
83 di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente fini-
to... nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti locali e personali »
(1). La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio par-
ziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi po- veri framinentli
finiti del tutto (2). In nessuna religione il Divino, il principio
dell'aiuto e della giustizia, è ri- guardalo come onnipolente in pratica
(3). Il politeismo originario dell'umanità si è svolto solo
imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il monoteismo stesso, in
quanto è veramente una reli- gione e non il tema di conferenze
universitarie, ha sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un
primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che pre- sicdono alla
storia del mondo e la formano {4). Il tei- simo pratico e popolare è
sempre stato piu o meno francamente un pluralismo, per non dire un politei-
smo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo risullante di più
principì indipendenti gli uni dagli al- tri, purchè gli sì permetta di
credere che il principio divino (dal quale viene l’aiuto) sia il
principio supre- mo, al quale gli altri sono subordinati (5). E vero
che questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filo- sofi, di
qualcuno di quegli attributi melafisici che ab- bianìo così severamente
giudicali. È «unico », è «in- finito »; l'idea che possano esistere -più
dei finiti nn è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto che il
po- polo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti di
unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In reullà la credenza
religiosa è semplicemen'e la fede in qualche cosa di più grande in cui si
può trovare la liberazione dal male. I bisogni pratici e le
esperienze (i; James, A Plural. Univ., pp. 110-111 Cc 194,
(2) SQUILLER, Stud. in Zum., p. 280, Lo Schiller aveva difesa. e
svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz Cfr.: Le
Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos., VIIL, Dp. 447-457, anno
1906. (3) Scun LER, Stud, in IHum., p. 19ì. (4) TAMES, Der
Pragmat., p. 192. (5) JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p.
pormi —_—T—_u__oei”niuocoenau<{iite0tt@ en
TEZZE RR a ge 84 La Religione nel
Pragmatismo dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza
che esta: esisle per ogni individuo una porsnza supe: riore &
lui, e a lui favorevole, alla quale può \.nirsl perchè parlecipa della
sua stessa nabvura. Per susci- tare la confidenza dell’uomo pasta che
quel potere sia assai grande, sia più grande dell'io cosciente, non
è necessario che sia infinito © unico. Si potrebbe conce- irlo come
Un “ jo» più grande € più divino, del quale io attuale non sarebbe che
l'espressione in piccolo: Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic
di questi «io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti usso- luta.
Questa specie di politeismo è sempre stata la religione del popolo e 10 è
ancora (1). La credenza opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni
provVI- denziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il mondo
ideale è il mundo reale, i supporre che le po- lenze spirituali
intervengano nel gioco delle forse tisi- Vide che a determinarne gli
avvenimenti particolari ». Qui sta il vero valore di Dio o del Divino e ì
praginaUusti sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.
smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja mes; e io sono
persuaso che questa è L'ipotesi che sod- ita disfa un più gran numero di
legittime aspirazioni del cuore e dello spirilo: per questo il
pragmatismo la fa sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da
ai cerle esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate st Riti sanno
che nol abillamo in un ambiente spirituale in- visibile, donde ci viene
l’aiuto; che la nostra anima è misteriosamente una con un'animu più vasta
di cul noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che uesta
anima sla intinita, perfetta : l'ipotesi più nalu- rale e più probabile è
ammettere che VI ha un Dio, ina finito, sia in potere 0 in sapere 0
nell'uno e neli'al- } tro (2). 1:4% (i)
gas, L'Erpér. relig., DD, 194495 - 7 i, (2) JAMES, LED. 131-193, dove si
trovano le parole sottoli î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli.
— A_PAE: 125 è più Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2
Giovanni Mul il quale DI aveva detto che bio non può essere oggetto di
religione ine L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: “ To
credo che : unicamente un Dio finito è degno di questo nome »,
appunto perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione.
* bd mici dissi a = o Ie Les E così
è sciollo il problema del male. Im questa con- cezione Dio non è
responsabile dell’esistenza del male, non lo sarebbe nemmeno se il male
non dovesse mai esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto,
- il male, come ogni altra reallà, deve avere il suo prin- cipio in
Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale asso- lutaumente alla religione
— dice lo Schiller — come sì salva? Ebbene ammettiamo che fin
dall'origine il mon- do è un insieme di principî distinti, che il male
non è parte essenziale, ma un elemento indipendente e la bontà di
Dio è salva: il problema teorico del male è- sciolto. E col
leorico anche il pratico. Se tullo ciò che è, è essenziale, come parte
dell'Assolulo, il male è indi- struttibile; se invece è elemento non
appartenente al- essenza della realtà, noi possiamo sperare di
poter- Ì lo espellere (il male) presto 0 tardi (1). Perciò lutte a
le forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee ha subito
l'influsso degli assolutisli, concepiscono di fulto il male come dovuto a
un potere che non è Dio e ne è in qualche modo indipendente: è
denominato variamente: «materia », « volontà libera », 0 « il dia-
volo ». La onnipotenza di Dio dei teologi non è quella dell’Assoluto:
essa è dipendente da necessità metafi- siche (2). HE
Concludendo: In questa concezione di Dio elaborala col criterio del
valore pratico sulle rovine della critica. È dell'Assoluto e del
leismo scolastico e in armonia col si pluralismo, abbiamo tutto ciò che
corrisponde alle. 4 esigenze umane del divino; è salva la libertà
del- l'uomo: è dato un fondamento alle sue speranze è al suoi
desideri di salule ed è resa possibile la massima. intimità fra il mondo
c Dio: intimità di sentimento e intimità morale, cioè la vera religione,
che tanto ha operato e opera sulla condotta. : Noi chiediamo ; « Di
che natura sono le reallà spl TOA =
(1) L'Expér. relig., Chap. V, D. 107. .
“A () ScHILLer, Stud, in Mum., p. 288; JAMES, 4 Plural. Uniw,,
- -.86 La Religione nel Pragmatismo ;
P, rituali più alte? » « Io l’ignoro » risponde il James (1).
Chiediamo ancora: ‘ esistenza di Dio è un puro "contenuto
soggettivo, ovvero è oggettiva? » Poichè am mettiamo bene che
l’azione di Dio, nell'esperienza re- | ligiosa, è reale, che ha
un'efficacia reale e che tutto | accade come Se una forza sopramondana agisse
diret- tamente sul mondo dell'esperienza umana (2); am mettiamo
bene che l’esistenza di Dio ha un reale va- lore pratico quando è
affermata con fede, specialmente coloso com'è quello del pluralismo
; ‘in un mondo peri ina noi sappiamo dal James stesso « che
certi oggetti ovocano in nol delle reazio- uramente
intellettuali pr C i C î ‘così 0 più forli che gli oggetti sensibili o
reali (3). Ora è precisamente questo che domandiamo: le realtà
sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen- dente per
sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in- dipendente solo perchè
noi, con Patto di [ede, V'alfer- - miamo lale? e
TS il pragmatismo questa domanda non ha sen -S0; richiamiamoci alla mente
la sua dottrina della verità, della realtà e della conoscenza.
Una dottrina che nega il valore rappresentativo dei concetti e
professa il nominalismo; che dichiara di te abbandonare la logica
francamente, recisamente © irrevocabilmente (4) » non può condurre che
all'agno- slicismo e allo scetticismo. È Ben poco ci rimane da dire
dell’applicazione pragmalistica del criterio delle conseguenze alla
reli- gione dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui. Che
cos'è la religione? È assai probabile che nen e che quindi è
impossibile definirla. « Religione » non designa un principio unico, ma
piuttosto una collezio- ne: non v'è un'emozione religiosa elementare,
come (1) L'Expér. relig., D. 136. (2) James, L'Erper.
relig.. D. 433, (3) Zut, p. 45. ù (4) A_Plur, Univ., p. 24.
arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »-
Il Pragmatismo 87_ non esistono nè un oggelto
religioso nè un atto reli- gioso specificamente determinati. Se è
impossibile da- re una definizione astratta della essenza della
religio- ne non è però impossibile delimitarne il campo e in-
chiudere in una formula i lraiti caratteristici empimci délla religione.
Una divisione salta subito agli occhi: tra istituzioni religiose (0
religioni stabilite) e religioni individuali (0 personali). La religione stabilita
è un in- sieme di istituzioni, di cerimonie, di riti, di sacrifici
propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si può definirla:
un'arte pratica di assicurarsi il favore della divinità, La religione
personale è la vita interio- re dell'uomo religioso; gli atti che
essa produce sono | personali, non rituali ; l'individuo sbriga da
sè i pro- pri affari con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli,
coi suoi sacrumenti e con tutti i suoi intermediari passa in ultima
linea. Si può definire: «le impressioni, i sentimenti, gli atli
dell'individuo preso isolatamente in quanto si considera in rapporto con
ciò che gli ap- parisce conie divino » (1), comunque poi s'intenda
que- sto divino: come legge dell'universo, come anima del mondo o
come un Dio personale. Parliamo anzitutto del valore della
religione in senso personale e poi del valore delle religioni o
istituzioni religiose. — Per quanto grande sia la differenza con
cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli altri elementi del
pensiero, anzi, per quanto diverso sia il principio stesso religioso
nella molteplicità delle sette, dei credo, e dei tipi religiosi (2), noi
possiamo affermare che le credenze più caratteristiche della vita
religiosa sono: 1.° Il mondo visibile non è che una parte d'un universo
invisibile e spirituale, dal quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine
dell'uomo è l'unione intima, armoniosa con questo universo.
(1) James, L'Expér. relig., D. 2427. — « Nous entendrons exclusivement
par le divin une réalité première de telle na- ture que l'individu se
sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle ‘une attitude solennelle
et grave, en Jaissant de coté tout blasphème et toute plaisanterie » (p.
34). — Son io che sot» | tolineo. (2) JAMES, L'Expér,
relig., P. 406, tas dee tie. nea
880. La Religione nel Pragmatismo 9.0. La preghiera, cioè la
comunione con lo spirit dell'universo — sio esso un Dio 0 solamente
una ; legge — è UV atto che non resta senza effetto: ne i risulla
un influsso di energia spirituale che può mo- “A ‘ dificare in una
maniera sensibile (anto i fenomeni materiali quanto quelli
dell'anima (1). (ei Nella valutazione di queste credenze il
criterio non sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eolo-
gico, ma i frutti, le conseguenze pratiche : dal frutto . sì conosce.
l'albero. E poichî nella religione il senti- mento vi ha la parte
fondnmentale, vediamo qual'è il valore affettiva della religione. Tolstoi
ha detto che Ja religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veli-
gioso è uneccitazione giocunda, un'espansione dine- mogenica che tonifica
e rianima la potenza vitale: aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli
oggetti più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se la
religione non avesse che questo valore soggettivo, IR
non fosse che una serie di fenomeni psichici, senza } $ nessull contenuto
intellettuale, vera 0 falsa che cessa RAI — fosse, nol sarebbe meno una
delle funzioni biologi- UU: che più importanti della specie umana;
ciò che ha SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non
è 373 Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio 2:
non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta (2). Ma la religione ha
anche un'immensa fecondità pratica sociale. JI frutto della
vila religiosa è la santità, che inchiu- de in sè tutto ciò che di meglio
ci abbia dato la sto- ria. La santità ha avulo bensì delle
manifestazioni ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE
n'ha di quelle — e SONO più numerose — che ci rive- lavo nei santi dei
precursori © dei creatori. La san- lità accresce nel mondo în somma di
energia mora: le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con
la (1) JAMES, Ivi, p. 405. — Nol sappiamo già a quale fra le
varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza e per quali
ragioni. 2 (2) Citato dal JAN:S, ivi, D. 199-193: «Il ne faut Pas
dire que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire
que l'on s'en serta, sua forza d'animo, col suo amore eroico
pei mise- rabili più ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è
un fallore essenziale del benessere sociale. La reli- gione è la
condizione necessaria di certi effetti, la «fonte dei quali nè l'individuo
nè la società hanno sa- | puto trovare altrove: il disinteresse,
l'energia, la per- severanza (1). : 2 BAR Olire questo valere
affettivo, o biologico, indivi duale e svciale, la religione ha anche un
valore in- lelleltuale? Questa questione si divide in due — dice il
James: — «Solto la moltitudine delle credenze vi sono delle affermazioni
comuni? » E: «sono vere tali affermazioni?» La risposta alla prima
questione è affermativa: in tutte le religioni vi sono due stali —»-
—. d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che <S in noi
c'è qualche cosa che va male, e il sentimento che noi siamo salvati dal
male entrando in rapporto con esseri superiori — con qualche cosa più
yrande di noi: lotta e liberazione: ecco la sintesi della reli-
gione personale e il perchè del suo immenso valore sulla vita. Ma che
cos'è questo qualche cosa di più grande? È reale o immaginario? Come
possiamo en- {rare in rapporto con lui? Qual'è, insomma la verità
della religione? Xispondeve a quesle questioni impiicile
nelia se-. conda è costruire delle sopracredenze
(surcroyances) individuali e collettive, tutte buone se aiimentano
il nucleo vitale della religione. Vi possono essere e vi sono di
fatto tante aggiunte individuali alla credenza unica quanle sono le anime
o i lipi religiosi (2), Il «rapporto col divino potendo essere, o essere
inter- { pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale,
«Si capisce come possano nascere delle costruzioni 7A _ losofiche e
leologiche — delle quali abbiamo visto | Valore — e anche come sorgano le
Chiese (3). . James, e con lui, naturalmente, più o meno tuil
SA (1) JAMES, L'Expérien. relig., Chap. VIII e IX.
E) (2) JasrEs, ivi, pp, 406 e 423-125, — Ci è nota la sua
croyance. 0% ‘La Religione net Pragmatismo pragmalisti
— non ama — a dir poco — le Chiese, con la loro organizzazione, coi loro.
dogmi, con le loro tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita
inte- AQ ogni modo e dogmi e culto e mi debbono es: sere
giudicati daì frutti individuali e social, e i frutti della vita
religiosa sono sommessi alla giurisdizione del buon sense (2) e dei
pregiudizi filosofici e istinti morali — dice allrove (3). Ed essendo
questi pregiu- ‘dizt, questi istinti e questo buon senso frutti,
essi stessi, dî una. evoluzione empirica incessante, anché le idee
religiose si andranno incessantemente modi- ficando. Dal giorno che ìi
frutti di una data forma re- ligiosa perdono ognì valore, dal giorno che
la vec chia credenza è in contraddizione con un nuovo idea- le; dal
giorno che la ragione la dichiara lroppo pue- rile, troppo assurda o
troppo immorale... essa cade trascinando, nella sua caduta, il Dio creato
dall'uo- | mo per «servirsene » (4). E noi confessiamo che in i una
dottrina interamente antropocentrica, nella qua- d le l'uomo è la misura
di iulte le cose, cioè, le esi» È enzo, i desideri e gli interessi umani
nel modo che s'è veduto, lutto ciò è logico ©... anche utile, fino
& un certo punto: Ed è naturale che il pragmatismo creda di
fare un mondo di bene alla religione € alle religioni. Ci dice lo
Schiller: Il pragmatismo jo uma nist,0) ha dimostrato che la volontà di
credere sta. ulla base, non solo della religione, ma di qualunque -
gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e che, quindi, la sfera dei
iudizi di valore non è coestensiva solo | |» alle verità religiose, ma a
qualunque verità: la fede i lia così cessato dì essere un ‘avversario e
un sosli- i | futo della ragione ed è diventata un suo costitutivo
| essenziale. ‘ Come potrà la ragione contestare la validità
della dor: L'Erpér. relig., speclalinente Chap. IK, pp.
281-293: IA Ivi, p. 293. (9) /vi, p. 281. 7 (4) Ivi, p.
272. — Pel «s î actetta: p. 27 Pel «servirsene» cita ancora il Lepba
L lì Pragmatismo dI fede, se la fede è essenziale alla
sua stessa validi- tà? (1). — E altrove: « Tutte le religioni
(concrete) possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che
l'umanismo assume davanti agli istinti religiosi del- la nalura umana e
verso le evidenze e i metodi delle religioni. 1l pragmatismo, affermando
il fatto reli- gioso e il suo valore sulla base dell'esperienza
inte- riore e dei risultati individuali e sociali, rende vani gli
altacchi razionalistici e mette la religione al sicu- ro dalle
confutazioni dialettiche. Il pragmatismo inol- (re, come si è mostrato un
eccellente « eirenicon » tra le dottrine filosofiche, apparirà un
«eirenicon» non meno efficace tra le religioni. Non è vero che
lutte operano (in senso pragmatista) in una cerchia più o meno
vasta? Ma allora esse sono identiche nella loro parle veramente vilale,
attiva: e che importa sc dif- feriscono teoricamente? Terzo beneficio:
il: pràgma- lismo libera, così, le religioni da ciò che vi è in
esse di non-funzionale, dalle incrostazioni parassilarie ed
csiziali, e, per tal modo, le rinvigorisce. — Che cos'è la parte
non-funzionale della religione? È il suo lato teologico (2). 18 qui una
tirata contro i sistemi teolo- gici, contro le infiltrazioni della
metafisica greca nel « Credo atanasiano » e contro l’identificazione di
Dio con «l'Uno». Già! — La conclusione possiamo ac- cettarla anche
noi, ma basandola su fondamenti af- futio diversi da quelli del
pragmatismo: «La reli- 5 gione più vera è quella che proclama una vita
mi- $ , gliore e la promuove» (8). ; (1) Stud. in Hum., pp.
352-353. | (2) ScurLrer: Stud. in Hum., p. 363. | ,..(8ì E la
conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri ligion in: Stud.
in Humarism, p. 369: «the truest reli tons that Which issues in and
fosters the best life», Rd A eri della
Logica formale nella con= Sommario: S 1. Caratt — { 2. La
validità formale. cezione dello Schiller. gi. Lo
Schiller (1) sotto il nome di « logica formale» inchiude e condanna non solo
quella che da al tri è designata col nome di « logica formalistica »
mn anche la logica formale propriamente detta, e, cri
| licando e condannando quella, presume di aver cri ficato e
condannato anche questa, cioè, in blocco, . tulla la logica tradizionale
e classica, alla quale do- vrà sostituirsi la logica psicologica, 0
psicologistica, cioè quel complesso di leggi o regole o norme del
pensiero che risultano dall'analisi psicologica del pen siero,
ossia dalla considerazione dei processi del pen- | siero, non in
una pretesa forma di esso di materia idel concetto, del giudizio, del
raziocinio con: siderati astraltamente nella loro forma verbale di
temine, proposizione € sillogismo considerai9 esso pure, a sua volla,
astrattamente), ma nel loro sor- gere e syolgersi allraverso la fitta
rete psichica di Fferessi, di desideri, ecc. : la logica dello
psicologi smo e della forma speciale di esso offertaci dal prag-
matismo, insomma. Una logica & posteriori risut 1) F. C. S.
SCHILLER. — Formul Logic. A sclentifle and s0- cial Problem. ——> Un
yol, in:8 pp. XII-123, Macmillan and 0.9, ‘London 1912.
stinta dalla | er selezione, non a priori, una logica,
pare, SOA sì, ma indotta in base a postulati, non dedotta. Il
pensiero puro, così come la forma pura del pensiero non esistono; quindi
ogni logica è neces- sariamente empirica nella sua origine e nel suo
va- lore. E così con la logica sillogislica è condannata anche la
logica del concello col solo semplicismo che abbiamo imparato a conoscere
altre volte nello Schil- ler. Ma, evidentemente, prima di condannare in
bloc- co, bisogna vedere se tra la logica formale e forma- lislica
c'è idenlità, o se non c’è invece una diiferen- za radicale che impone
una pertraltazione a parle e radicalmente diversa di quelle due
discipline. La lo- gica formale vera è la dottrina della forma unica
del pensiero: il concelto, come sintesi di individuale c
come concelto universale contro, come scienza del concetto puro. Per essa
la forma verbale in cui si suole incarnare generalmente il concetto non
ha nes- sun valore logico e si guavda bene dal cousiderane le
distinzioni verbali come distinzioni conceltuali 0 l’identità di forma
verbale come identità concettuale. La logica forinalislica invece,
trasporta nei concetti le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta
nei giudizi le modalita e le specie delle proporzioni, lra- sporta
nei raziocinì le figure e ì modì dei sillogismi: anzi la distinzione
stessa delle forme logiche in con- celti, giudizì e raziocini è nient’allro
che una proie- zione di forme verbali nell’altivita del pensiero.
Per- ciò la logica formalistica qua talis, non ha valore
speculativo (logico in senso vero), ima solo empirico © UCSCLILLvo; ci
dà, Massunti, con piu o meno pretese (il copielezza, i modi piu consueti
dei quali l'uomo 51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e
ncila "a discussione delle idee; è un'arte in senso di
tecnica, 9 meglio, è una collezione (non connessione) delle forme
del discorso empirico umano, una specie di leltorica 0 grammatica messa a
servizio non del par- lur bello ma del parlur giusto. Può essere ed è
fino a un certo punto praticamente utile come tutte le.
discipline descriltive assunte a discipline nurmative d
universale, come storia o guidizio sintetico, a priori, . DA |
Sèhiller e la Logica Kormale e precettistiche, ma non ha valore
speculativo, ron ci dè, anzi ci nastonde la forma intima. del
pensiero necessario € unico, © SÌ contenta di offrire! le
forme esteriori, arbitrarie è quindi componibili € combina:
bili all'infinito. - . I Jo Schiller na un buon gioco @
mostrare il caral- tere arbitrario di questa logica, la astrallezza di
essa, la îmulilità e perfino il danno non leggero che essa può
anrecare allo sviluppo Serio delle scienze © della mente individuale. Ha
ragione lo Schiller: « IL îs nol .? ossible t0 abstract {rom the
aclual use of the logical | material and lo consider — forms ol lought —
@ 4 Ihemselves, voilout incurring thereby @ total loss, 1’
hi nol only of Wrui, but also of meaning ” (IX). i s
2. — Ma con ciò non si è déito che ba ragione @ | ‘non riconoscere altre
logica ché que:lu psicolugica, | tutt'altro. Oltre la logica formalistica
(0 tormale cu- | mè la chiama erroneamente lo Schaller), c'è la logica
i formale vera secondo la quale la maleria è fusa nel la forma,
poichè per èssa la forma logica, concel- ‘tuale, sintesi di materia e
forma, di pensiero e lup- ‘esentazione: è forma Non astratta me
concrela ; e tulto il pensiero reale storico
perchè appunto sun: f (esi univarsale individuale: è il razionale-reale,
il fl concetto. È Dio ci salvi dalla logica psicologica 0
psicologi- | stica! Poichè in essa, oltre che non trovare nulla di
# meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì ì trova
neanche quella apparenzà di necessità e di as- Solutezza che la logica
tradizionale ci oifre, sia pure solto una forma astratta e verbalistica.
Finchè non si accetta e non SÌ capisce la logitù del concetto puro
e semplice, ogni tentativo di riforme logiche sarà nulla più che un
saltare dall'arbiltàrio all’avbitrario, dall'astratto ali’astratto e un
aggiungere al mele 131 nuovo male o una forma nuova del male. L per
yite- nere questo scopo non mette certo conto di scrivere un grosso
libro come questo. Sé lo Schiller avesse rinesso bene su quelli che
lui ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1o- Ml
Praqmalismo' (h) gica formalistica e cioè: I° la credenza che sia
pos- sibile considerare la «validità formale» come una cosa a parle
e indipendente e astrarre dalla verità «materiale »; 2° la credenza che
sia possibile tratta- re la iogica senza riguardo alla psicologia e di
aslrar- re dal contesto atluale in cui le asserzioni sorgono,
tempo, luogo, circostanze, Scopo, personalilà, ecc. (P. 375) e se avesse
poi esaminato con più spassio- natezza la logica del concetto-sloria, non
avrebbe for- se futto giustizia sommaria di lutta la logica tradi-
zionale cd avrebbe trovato che parecchie delle sue critiche sono state
già fatte da altri, i quali non sen- lirono però il bisogno di
sostituire, come fa lui, le elichelte psicologiche alle elichette della
logica for- malistica. In questo libro c'è molto del buono anche
perchè dai principio alla fine corre nelle pagine una domanda sempre
crescente di concretezza ce, anzi, pare a volte che lo Schiller abbia
colto il centro della critica e della ricostruzione. Purtroppo i:
pregiudizi pragmalislici gli impediscono di assurgere ad un punto
di vista superiore; anche lui, pur nella lotta contro gli schemi e !e
elichetle, maneggia schemi ed etichette; meno mole, anzi molto bene che,
da buon pragmatisla, ne è consapevole. := & | La
reazione contro l'intellettualismo. — Verità e ‘utilità. | gi, —
Del pragmatismo non si parla più che com di un indirizzo di
ricerche e di asserzioni, che ha avi | {fo il suo proverbiale quarto
d'ora di celebrità pei scomparire per sempre e senza visibili influssi
sullu svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata da une
reazione all'intellettualismo razionalislico ed empiristico, che non
sapevano valutare l'attività de: soggetto nella creazione del mondo del
pensiero € della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:; nistico
o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha sapulo nè volulo evilare,
con una doverosa distin: zione dì logica e psicologia, lo scoglio
terribile dellà formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte lt
cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici sino, È inulile she
ci ripetiamo. Iidotla la filoso; fia a un prodolto dell'individuo, © ad
espressioni del la nostra soggellività volitiva e i giudizi
scientifici speculativi a semplici giudizi morali; negala la pos
sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima immanente e ascendente
dell'essere o del divenire con l'affermazione della universale
soggettività e Ie ‘natività; posto l’utilitarismo a base di ogni
costruzio: ne concelluale e considerati, quindi, i concetti com‘
funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0 ciale, il
pragmatismo si risolve logicamente in uni rinunzia a fi osofare. Può
essere metodo per sè, I i UT Il Pragmatismo : i lla vita
colta non filosofia sc IRRMIgSORE E So nella sua razionalità e nei
s o ve omalismo profes- E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: «esso
non ha sa di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan: dog int aa
istcao mon è forse una dottrina? Magli vamestto he riassume il me-
Non è una dottrina la formula c arsi tutte todo pragmatistico: « Sono er
6 da acco utili le neri SAS SIE n è forse implicito alla svitaza
in: ilitari ico e, insieme, il n più Sconto no leorecot È esp ducslo
ab: Dima definito, credo, Felino due aspetti più es- ziali la
teoria pragmati nd AR Sa CLES Della quale non è qui il luogo di
TISIRLS estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D
pensiero in due parole: il pragmatismo è andato al- l'eccesso opposto
nella sua reazione all intellettua- lismo, perchè ha negato addirittura
il concetto come tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso,
vano, perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'in- dirizzo,
quella che, purificata di tutto l’utilitarismo + materialistico che
troppo spesso la intorbida, si può esprimere nelle parole evangeliche:
«Dai frutti co- noscerete l'albero ». L'utilità — nel senso
spirituale altissimo della parola — è un aspetto della verità: la
verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma, non
dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a propriamente parlare,
perchè e in quanto è utile, ma è utile perchè‘vera. .La
verità metafisica e logica di una idea e di un Sistema d’idee è il
fondamento di tutti gli altri at- tributi dell'idea e del sistema e di
tutte le loro cor- rispondenze alle esigenze etiche dell'uomo.
Yogi Pragmatis Rimandiamo alle seguenti pibliografie:
« The Pych Zev. » Parini, Sag- gì pragmatisti, R. Carabba,
Lanciano; Ugo SPIRITO, JI pragmatismo nella Jilosofia contemporanea,
Firen- ze, Vallecchi Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su James,
Milano,. Ed. Athena 1924. | Segnaliamo poi, nella ricchissima
bibliografia del- argomento — oltre ui molti scritti segnalati
occasio- almente nelle note — le seguenti opere: G. VAILATI,
Scritti, Firenze, Secher 1911; G. Papini, Sul Pragma- | lismo, Milano,
Libr. Ed. Milanese 1913 (ripubblicato ‘dal Vallecchi nel 1920); M.
CALDERONI è G. VAILATI, IL $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba, U.
SPr- “RITO, op. cit. ; M. CaLpeRONI, Scritti, a cura di O. CAM- 7
Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», 1924.
IT. I. III. — INDIVI
- LUO LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Il Pragmatismo
anglo-americano. Pragmatismo e Umanismo.Pragmatismo e conoscenza. LA
TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTÀ.La condotta.La dottrina dolla
verità. La dottrina della realtà. LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO. Lo
preoccupazioni etiche e religioso. L’esistonza di Dio. Il concetto di
Dio.Religione e Religioni. SCHILLER E LA LOGICA FORMALE.Caratteri della
logica formale nella concozione dello Schiller. La validità formale Ù 5 5
9 - VALUTAZIONE CRITICA. La reazione contro l’intellottualismo.Verità e
utilità . È. NOTA BIBLIOGRAFICA . I MAESTRI DEL PENSIERO.
VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE
i) ei n VALENTINO PICCOLI À { Bi: INTRODUZIONE DELLA
FILOSOFIA. ROTTA PAOLO ROTTA. ARISTOTELE BERKELEY | IALENTINO SETCOO LI !
GIUSEPPE TAROZZI | PLATONE LOCKE | S: PICURO. E. PAOLO
LAMANNA AAA ° "KANT 6000 V. ARANGIO-RUIZ na * LOTINO
GIUSEPPE MAGGIORE |» FICHTE HQ P. E.
CHIOCCHETTI AGOSTINO PIETRO MIGNOSI E. CHIOCCHETTI SCHELLING
| "S TOMA ASO GIUSEPPE MAGGIORE | CHIOCCHETTI HEGEL i S.
PONAVENTURA Big ni x TISSI c ARTESI O SCHOPENHAUER i Fa
PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI o SPINOZA STUART MILL “50 »ALENTINO
PICCOLI E. MORSELLI Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI È Pubblicati: P.
ROTT _ SEINOZS x ì. MiGGIONE HEGE ZINI =. 2 SoioFENnAUER P.
LAMANNA — KA MAGGIORE — FIGI TITE . E. CHIOCCHETTI — S.
TOMASO VICO "TISSI _ GATESIO MORSELLI. COMTE
BOT. ARISTOTELE. SCHELUINO IRINA Kc} fe3: Emilio
Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know
that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher,
and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica,
Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Chiodi: l’implicatura
conversazionale dell’esistenti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like
Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian
language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to
play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians
only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent
‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” -- Pietro Chiodi
(Corteno Golgi) filosofo. Figlio di
Annibale e Maria Romelli, frequentò le scuole elementari al paese natio e le
medie inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida del prof. Credaro, che lo
avviò allo studio della filosofia. Dopo aver conseguito nel 1934 l'abilitazione
magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò il 27 giugno 1938 in pedagogia
sotto la guida di Nicola Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di
storia e filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò per
18 anni. Qui entrò in contatto col professore di lettere Leonardo Cocito, del
quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi lo scrittore Beppe
Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i
loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano
Johnny, il personaggio di Monti. Grazie
ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, Chiodi entra
far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di battaglia
di “Piero”. Venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi compagni, e
deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck. Aiutato dal
comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio. Era alla
stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse
nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il nome di
battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della
CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi
a Carignano (località pilone Virle) il 7 settembre 1944, insieme ad altri
patrioti. Narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile
nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei
primi memoriali di deportati politici italiani.
Dopo la liberazione di Torino nel 1945, Chiodi era tornato
all'insegnamento ad Alba. Si trasferì come insegnante al Liceo di Chieri e poi
al Liceo Vittorio Alfieri del capoluogo piemontese. Ottenne la libera docenza e
fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla
Facoltà di Lettere e filosofia a Torino, insegnamento che ricoprì fino alla sua
prematura morte nel 1970, affiancandolo all'incarico di Pedagogia. L’Accademia
Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica
Istruzione per la filosofia e negli fu conferito il Premio Bologna. Alla ristampa di Banditi Chiodi premise
questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente
ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel
loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso,
vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque
ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici,
la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano
ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia». Raccolse grande stima ed affetto tra suoi
allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido
esempio di tolleranza e serenità di giudizio.
Attività filosofica L'attività filosofica di Pietro Chiodi si concentrò
specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte
delle sue opere è dedicata a Martin Heidegger.
Egli fu il primo traduttore in Italiano di Essere e tempo, e il terzo in assoluto a realizzarne una
versione in un'altra lingua, dopo il giapponese e lo spagnolo. Proprio a Chiodi
si deve la definizione della terminologia heideggeriana in Italiano, divenuta
poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione del
tedesco Dasein con l'italiano Esserci, capolavoro di sintesi ed efficacia,
spesso e volentieri non ancora raggiuntain questo specifico casoin altre
lingue. Al filosofo tedesco dedicò anche, ovviamente, diversi saggi:
L'esistenzialismo di Heidegger, L'ultimo Heidegger, Esistenzialismo e
fenomenologia. Fu, inoltre, traduttore di L'essenza del fondamento e Sentieri
interrotti. A Immanuel Kant dedicò, invece, La deduzione nell'opera di Kant e
ne tradusse la Critica della ragion pura e gli Scritti morali. È infine da
ricordare il suo interesse per Jean-Paul Sartre, del quale si occupò nell'opera
Sartre e il marxismo. L'esperienza
partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di Pietro Chiodi,
per cui il valore della libertà occupò sempre il primo posto. Non è un caso che
Fenoglio faccia rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio
questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la
libertà». La sua breve e unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non
solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Davide Lajolo
«Il libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana»
(L'Unità) e da Fortini «quasi un capolavoro. Ci sono dei tratti straordinari,
nel tragico come nel comico». Opere
Chiodi Pietro, Banditi, con introduzione di Gian Luigi Beccaria, Torino,
Einaudi, Chiodi Pietro, Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Giuseppe
Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, Deportati Politici Italiani, su
restellistoria.altervista.org. Chiodi, Banditi, Torino, Einaudi, Conoscere la
Resistenza, Milano, Unicopli, Resistenza italiana Deportati politici italiani
Esistenzialismo Martin Heidegger Opere di Pietro Chiodi,. Biografia di Chiodi nel sito
dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi 'Beppe
Fenoglio'CHIODI Pietro, su centrostudibeppefenoglio. V D M Antifascismo Filosofia
Filosofo del XX secoloPartigiani italiani Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia
e LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla
annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical
reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality,
maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Chitti: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Citanova). Filosofo italiano. Grice:
“I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and
law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack
of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles
of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di
quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione. Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla
Gran Corte Criminale di Reggio e di Saveria Barbaro, nativa di Napoli. Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli,
alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara
in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti
patrioti del tempo. Ferdinando I delle
Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese
Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, Maria
Grimaldi-Serra, ultima principessa di Gerace, davanti alla regia commissione
feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la restaurazione ebbe la nomina di
segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia di Emanuele Hipman,
un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Fu coinvolto nella rivolta
contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, fu quindi
privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di
ritornare a Napoli, ma ebbe l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale.
Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si recò a Bruxelles. In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di
economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si
fece un nome. Il governo belga gli conferì la licenza di professare Economia
Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue
quattro letture furono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale»,
compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento.
Pubblica altre opere ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli
conferì la carica di Professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In
Belgio pubblica la maggior parte dei suoi lavori e strinse amicizia con
Gioberti, che lo definirà valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non
torna a Napoli ma rimase in Belgio ancora per parecchi anni fino a quando partì
per il nuovo mondo. In America, tenta varie imprese commerciali, ma difficoltà
sopravvenute gli fecero abbandonare presto i suoi progetti e si stabilì a New York.
Altre opere: “Trattato di economia politica o semplice esposizione del modo col
quale si formano, si distribuiscono e si consumano le ricchezze; seguito da
un'epitome dei principi fondamentali dell'economia politica di Giovanni
Battista Say” (Napoli, Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo
Schiavo, Four centuries of Italian-American history, Vigo Press. The New York
Herald morning edition mercoledì. New York Daily Times pag. 4 Daily Free Democrat. The American almanac and
repository of useful knowledge, Center for Migration Studies Special Issue:
Four Centuries of Italian American History Wiley Online Library Vincenzo De Cristo, Prime notizie sulla vita
e sulle opere di Chitti Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana, Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Per una rassegna delle interpretazioni
dell’azione economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti
di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno, Sono ivi
ricordati i contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo
dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : « Homo
Oeconomi- cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti.
Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio
dell’economia corporativa, tralasciando di segnalare gli studi,
nume¬ rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di
consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della stessa realtà
politica corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza
Fascista in Giornale degli economisti, Arias G. : L’Economia Nazionale
corporativa, Roma, Libreria del Littorio, idem. idem. Economia Corporativa,
Firenze, Poligrafica Universitaria, Amoroso L. e Stefani A. : Scritti
cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. :
Cenni di teoria della politica economica, in « Giornale degli Economisti
». Classifica le varie politiche economiche. Carattere di quella
corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di emanare
misure rispondenti, nei rami particolari, alla politica economica
generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni
sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di
interventi statali, in «Archivio di studi corporativi », Anno IV, Fase.
III, Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti
di politica economica corpo¬ rativa; Carli F. : Teoria generale della
economia politica nazionale, Milano, Hoepli, e dello stesso: Le crisi
economiche delV ordinamento corporativo della produzione, in « Atti del
II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e
forme delT attività economica, in «Rivista di Politica economica »
Secondo questo autore J economia corporativa non è altro che un’ economia
di complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua realta
concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell individuo con la
società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e nuovo
corporativismo economico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in onore
di Prato», Torino, In questo studio l’autore conclude che il corporativismo
italiano pur traen¬ do alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal
Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste in quanto che
inquadra le sue idee in una concezione piu larga, che non tiene solo
conto degli interessi dei singoli, ma anche di tutta la collettività
nazionale, che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli
interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli
Espinosa A.: La forma e la sostanza della economia corporativa, Firenze
Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW
ordinamento corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società
pel Progresso della Scienza», riassunta in « Lo Stato »
settembre-ottobre 1930; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo
in « La Riforma Sociale », ; e dello stesso: Corporazione aperta in «La
Riforma Sociale » Fanno M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla
teoria delVuomo corporativo, in « Studi sassaresi », ; Ferri C. E.:
L’ordinamento corporativo dal punto di vista economico, Padova, CEDAM,
Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e dello
stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Problemi del
Lavoro», Politica economica ed economia corporativa, Ediz. «Diritto del
lavoro»; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.:
Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa,
in : « Rivi¬ sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene
questo A. che tanto la politica economica corporativa, quanto l’attività
corporativa come condotta ipotetica de¬ gli individui dei gruppi animati
di una coscienza corpo¬ rativa sono teorizzabili: il secondo per
definizione, e in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla
coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto perchè conforme
alle direttive del Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione,
ossia il massimo benessere individuale compatibile col benessere della
Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza
(univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio,
non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente legittimo
fare della economia corporativa una « economia » astratta, trovare il nocciolo
razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della
economia corporativa, « Giornale degli economisti», ottobre 1930; Galli R. :
Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico Universitario, e
dello stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico
Universitario; Jannaccone P.: La scienza economica e Vinteresse nazionale
(Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di
Torino, e dello stesso : Scienza,
critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di
economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso A.: Il contenuto dell’
economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », ed Economia corpora¬ tiva
e politica economica, in « Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore
di produzione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo Stato come
inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche Ettore Lolini, a
parte la sua antipatia per la scienza economica tradizionale e la
notevole incompren¬ sione degli economisti ortodossi i quali riescono
interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li- erali o di
altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un
carattere di socialità, che concili l’interesse privato con quello
sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla
totale abolizione dell’economia privata ed alla identificazione dell’
economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale col porre
erroneamente al centro dell attività economica umana la produzione
e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la sintesi dell’
interesse individuale e dell’ interesse sociale, perchè nello scambio,
mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del
tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei
valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F
iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica pubblica o
statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬
nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni, di
desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini,
differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai
riu¬ scito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia
corporativa la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione
economica della produzione invece dello scambio, inteso nel senso della
ripartizione del prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i
fattori della produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del
lavoro, del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli
intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la
definizione dei fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso,
infatti, si dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬
mica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e
con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia
pub¬ blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬
sumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la
funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo
economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la
parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di adeguare l’andamento
dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di
questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia corporativa, in «
Critica Fascista »; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e
metodo¬ logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con lievi
modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito
di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in « Fiamma italica »,
e dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in «Giornale
degli economisti», (in questi
scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa del Fovel.
Contro questi si schiera anche Bru- guier nello scritto sopra citato ed
anche noi nei nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri);
Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-
rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933; Serpieri A.: Lo
Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista », giugno-luglio 1927 e, dello
stesso : Economia corporativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di
studi sindacali e corporativi», Ferrara; Spirito U.: La critica
dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello stesso: I fondamenti
dell’ economia corporativa, Milano, Treves, e Capitalismo e corporativismo,
Firenze, Sansoni, 1933. L’interesse suscitato degli scritti
filosofici di questo A. sono dovuti a ragioni di carattere
esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane
filosofo. Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che
ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai seguaci della
scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia
liberale. È confusa la scienza economica con la praxis dei governi
liberali e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che
ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha espresso nella sua
opera monumentale sul capitalismo e quanto altri economisti contemporanei
hanno scritto contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda
bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra
capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m
Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi di
costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare
delle dichiarazioni della << Carta del Lavoro» che rincalzano la
propria tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa n clini
entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pen- siero
di Hegel e di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica
la quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis- sione
della corporazione come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il
partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e già discusso
ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere
nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per cui dopo
aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire meno
di prima. E non m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi
dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come per es. su
quelle in cui consiglia per il nostro Paese una industrializzazione ad
oltranza, la emissione di prestiti esteri, una politica commerciale
che sara forse realizzata, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.:
Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze). Contra a Spirito,
si vegga: Arias, cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti,
appresso cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.:
L’economia filosofata e attualizzata, in «Critica»; Galli R. : SulF identità
delV individuo con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre;
(jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corporatina, m «Atti del
Secondo Convegno di Studi Sinda¬ cali e Corporativi », Ferrara;
Brucculeri: L economia corporativa, in «La Civiltà Cattolica», e dello stesso:
Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc. Cesarini-Sforza in
un lucido scritto: Individuo e Stato nelle Corporazioni (Archivio di
Studi Corporativi) mostra come la formula dell identità è chiarissima nel
pensiero dei socialisti e dei liberali. L’individualismo moltiplicando le
sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato
del Corporativismo è la disciplina economica nazionale. Con il
Corporativismo si passa dal soggettivismo all’og¬ gettivismo. Alla
organizzazione professionale è affidata, sopratutto la oggettivazione
delle scelte economiche. Il nuovo modello della realtà economica non
potrà non essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è
scienza senza determinismo. Caratteristica delle conce¬ zioni dello
Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato Corporativo non vi saranno
più disoccupati!). La nostra divergenza ideale con l’economia degl’idealisti
non va assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un
intervento che oggi chiedono e ieri respingevano, nè con le
interpretazioni di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!
Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della Scienza Economica
e l’economia corporativa («Rivista di Politica Economica»). Il M. rifiuta
1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando ® correggendo le
opinioni di Arias e Fovel considera l’economia corporativa come una
economia non euclidea. Papi U. : Un principio teorico deW economia
corpo - rativa, in « Giornale degli Economisti », e più
diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e Corporativa», voi. Ili,
Gedam, Padova. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento
corporativo traduce nel diritto positivo un complesso di norme di diritto
naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un
diritto corporativo, definizione giuridica della libertà economica c e
sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la figura dell’uomo
corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa
importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema organico,
razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il contrasto
fra l’essere e il dover essere della vita economica. Dover essere:
razionalità (teoria economica pura), eticità (politica economica).
Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano
regolatore). Vinci F. : Il corporativismo e la scienza
economica («Rivista Italiana di Statistica» etc.. Questo A.,
conscio delle interdipendenze fra i vari fat¬ tori di produzione e fra le
varie imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato
che la « disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse fino
ala determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente
dalle attribuzioni del¬ l’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i
rapporti reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Corporazioni,
imponendo al Consiglio Nazionale delle Corporazioni un continuo, pericoloso
compito di revisione e di conciliazione in base a valutazioni
complicatis¬ sime, a criteri di difficile determinazione oggettiva
». Sulla Finanza Corporativa. Si espressero anni
addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di guerra e
riforma tributaria, in «La Riforma Sociale», pag. 150-174. Contro
il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed
oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini,
loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in « Echi
e Commenti », e dello stesso : Ordinamento corporativo e ordinamento
tributario, in « Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi »,
Ferrara; Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello
Stato, « Dir. e prat. trib. »e dello stesso: Lo Stato corporativo e
la sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357; Uckmar :
Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, e dello stesso: Verso
una revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto del
Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato corporativo, in «
Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Finanza corporativa, in « Diritto e Pratica
Tributaria ». Roma, ed infine, sempre dello stesso: Ordinamento
corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II Convegno di Studi
Sindacali e Corporativi », Ferrara. Fra questi autori la corrente radicale
trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri. Uckmar ritiene che la
finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un senso meno
individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che trova
consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che riconoscono
doversi inserire nell’ordinamento cor¬ porativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri fascisti.
Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬ sione fiscale e
riforma tributaria («Augustea», N. 4 del 1929), e Genco («Comunicazione
al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero
arrivare all’abolizione o per lo meno alla riduzione degli organi
finanziari statali ed alla loro sostituzione con le Corporazioni!
Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere impo-
sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra
i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano
dalle Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza
oltre a presentare un contenuto politico, riveste un con¬ tenuto tecnico
con il quale male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali
rimarrà la soddi- stazione di essere considerati rivoluzionari al cento
per cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non avere
incoraggiato i salti nel buio che in materia finan¬ ziaria si scontano
amaramente dalla Nazione, e perciò si ritengono solleciti dell’interesse
nazionale e cioè non meno rivoluzionari dei loro colleghi che
manifestano i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra
tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che
accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in ™° m A a C °p 1
^gamzzazione corporativa: Garino Ca- Problemi di Finanza, Torino,
Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato
Cor- porativo in « Echi e Commenti », e dello TTr- A r- ,ane
r e in «Giustizia tributaria»,; Gangemi L- rinanza
Corporativa, in « Rivista di Politica Economi- Stato C marZ °. 192
. 9, e dell ° stesso: La finanza nello Stato Corporativo, in « Commercio
», Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r” cernii in «Rivista di
Politica Economica», 1931, fase. VII-Vili (e una carica a fondo
contro la funzione graduale, ransitona e limitata del contingente come è
propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo ha espresso la
sua tesi nella Rivista «Il Commercio» f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i
Toselli Colonna: Teoria e problemi della- economia finanziaria
corporativa, Ales¬ sandria Colombani (è questa una diligente rassegna dei
problemi corporativi della finanza). Infine, si segnala 1 eccellente
studio del Borgatta: Le funzioni m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo
Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi
nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione
Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin associati. Le
associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad
assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado
di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade- guatezza dei
mezzi che hanno a propria disposizione, anche a prescindere dal giusto
timore dei dirigenti di potersi creare m tal modo animosità lesive di
quella compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce uno
dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini propostisi dal nostro
legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini.
La ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto
riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte
dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul
patrimonio-. Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il
procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni
pongono in evidenza i tributi globali e personali come il fondamento di
un corretto sistema di imposizione di¬ retta in luogo delle imposte reali
imperfette e causa di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro
sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da una
imposta personale, la complementare, che con i procedimenti fatti
approvare dal Ministro Jung pre¬ senta una struttura che le consente di assolvere
agli im¬ portanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma
proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema
d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi e
ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e
sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una
riforma così vasta e complessa che le condizioni dell’economia nazionale e
della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente tranquillità
e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è consapevole.
Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le due opposte
opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non
esiste sostiene una terza e differente che trova riscontro nei
seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello
Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla
trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al Primo
Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.
glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le finanze pubbliche e
l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non
erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate in modo da
rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬ stema tecnico e
razionale che sodisfi anche i criteri della giustizia nella ripartizione
dei carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata ed
economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza
fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste idee
evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente
sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che
reggono l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si
aggiunge un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato
». . Nello Stato corporativo anche la politica finaziaria deve
necessariamente seguire le direttive, che non coincidono nè con quelle
del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più vicine)
nè con quelle del sistema collettivista. Essendo l’imposta
uno dei principali strumenti di cui lo Stato — qualora rispetti il
principio della pro¬ prietà privata — si può valere, per intervenire nel
campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso
uno Stato, che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse
nazionale lo richieda. E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,
mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale: mentre nel sistema
liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che
vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle forze
individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato
corpora¬ tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa
esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti,
non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi
iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali
all’ob¬ biettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa nota
senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato
Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse
nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale,
economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cicerone: l’implicatura conversazionale
di Marc’Antonio – filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ciceronian implicaturum:
Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone
ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo
romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone
IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to
provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I
would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for
the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to
Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty
recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome
in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely
class, notably the Scipioni!” -- Marcus
Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important
not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines
is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways
that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier
works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive
products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus
insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the
best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were
inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking
over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by
divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law.
For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in
particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against
which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so
closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish
a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not
its particular details, established a lasting framework for anti-positivist
theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and
Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of
dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic
philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa
and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of
dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian
doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he
does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe
that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no
infallible criterion for distinguishing true from false impressions is
available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can
be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of
Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism
and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later
writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to
criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three
connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey
Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy.
Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and
skeptically detached much in the manner
of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to
emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are
“persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic
doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions,
and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan
Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system
based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of
an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become
authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness
and originality. “Cicero = Tully” Grice:
“Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a
description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed by the
triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along
with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the
Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never
quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed
courage. Cicerone affronta e sviluppa la problematica
semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: le opere di
argomento retorico; e le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo
in considerazione il primo di questo ambito – le opera de argomento retorico
--, possiamo osservare che l'interesse per il concetto di segno non è
ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da una parte, ci sono il “De
oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo genere oratorum” -- che
affrontano una problematica a carattere socio-politico, volta a definire la
figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua
posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In queste opere
tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica -- e
con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova indiziaria)
appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si configura come
un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora
solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona
o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il “De inventione”,
le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere molto diverse tra loro, ma
accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazione e di
sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono l'apparato tecnico
della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è rintracciabile nella
minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il parossismo,
come nel “De inventione”, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione
teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di queste opere che è dato
rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria
ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa l'ampia tradizione retorica
che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale che al suo interno si
trovano riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in
quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la concezione del segno
in forma proposizionale, come antecedente p che permette discoprire un
conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario --
l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indizio di
colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua
relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità, contemporaneità,
posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche
dire che la classificazione del segno proposta da Cicerone è in larga misura
diversa da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno della teoria
dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono
addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra
essere qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra
cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ) , o la dimostra
in un modo necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza
argomentativa debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza necessaria –
“necessarie demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato
diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è
stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv. ,
l, 86. Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum
priore necessario posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto
di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" --
De inv., l, 46. Con questa definizione, Cicerone mette in evidenza due caratteri:
quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele
attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due
esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama
suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv., I, 46). In essi compare anche il
tipico rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile --
Arist., Rhet., 1357a. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere
nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non
sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria
di “signum”, poi, compare come una sottopartizione del segno non necessario,
accanto al “credibile” -- all’ “iudicatum”
e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum,
comparabile -- appaiono distinte in base a criteri estrinseci (e scompariranno
nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una categoria di
fenomeni abbastanza particolare. "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei
nostri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra derivato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" -- De inv. , I, 48. Ne sono esempi: "il sangue",
"il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta,
come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile, scarsamente
codificato e generalmente non volontario. Qui sono presentati in una forma non
proposizionale. Ma niente vieta che venga sviluppato in proposizio ni, come
dimostra il caso dell’indizio "polvere": "Se c'era molta polvere
nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne
suddiviso secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones
oratoriae”a classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze
e peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come
sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo.
(·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se
ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luoghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione”
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di
sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione ordalica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto semiotico,
anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è
un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si
ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La congettura
può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria rei (
Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos” aristotelico,
di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota propria rei” e
definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una
cosa certa, come il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evidentemente,
del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso
dell'aggettivo “propria”, che rimanda alla nozione di fdion semeion -- segno
proprio. Per Aristotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un
certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità,
segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carattere di necessità e
si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De signis, l, 12-16). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei
quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non define QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, Cicerone è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora
si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano
la retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe
si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non
direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene
operata una distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e
altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•)
es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine ·
coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam
alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa
dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova
extratecnica corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone polemicamente rileva (De div. , II, 55), il segno della divinazione e
talvolta interpretati in maniera diametralmente opposta, proprio come avviene
nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni diverse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della divinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellettuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della filosofia a fondamento
razionalistico, e contemporaneamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione
romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena
la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal
coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la
religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga limitata la
libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della
repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deorum, nel
De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in
forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte
divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione
all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria sostenuta
da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e
propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in
negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli
dei si pongono come fonte dell'informazione e come emittenti nei processi di
comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinatari. Ma, a
seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo comunicativo si
struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono
dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni sono
legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col
divino, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai
vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del
codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che
Cicerone muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti
specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega
valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e
cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non
si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conseguente. Per
distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione,
Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina,
la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e
deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div. , II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci
sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista
semiotico. Le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente
opposte (De div. , Il, 83). Si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali (De
div.). L'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni necessità di
rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66). In certi casi
l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e quindi è priva
di oggettività (De div., II, 74).Grice: “Most English gentlemen knew
Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit for the
gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes
dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation,
/kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of
attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to
cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses
Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS –
virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in
keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to
the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the
‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and
future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first
beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a
lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming
free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the
Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is
a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN
man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was
that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN
man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his
SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be
a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this
‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it
was the job description of a job he never applied to. The other very useful
institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically
between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some
overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no
reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution
by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary.
Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to
pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please.
Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a
latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED
to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as
self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act
would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all
this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be
ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of
the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire.
When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they
were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not
represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law
against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the
two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and
literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic
references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and
eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair
with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls
Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS,
dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner
subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In
general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on
rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based.
His idea is that if x, y. x is a sign of
y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as
part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is
interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard,
Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what
signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said
there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero
was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and
Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic
of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which
are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot
to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked
Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il
Cicerone di Rensi. Spero enim homines
mtellecturos quanto sit omnibus odio crudelitas et quanto amori
probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14
C. Renisi . Vita parallele ,li due filosofi
4 Cicerone era
vicino ai sessantanni, quando lo Stato legale romano, che già
precedentemente a- veva subito terribili scosse, ma che mediante
una saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo stesso
tronco senza frattura o soluzione di conti¬ nuità, riceveva da Cesare il
colpo di grazia... * * * Non è più
necessario rivendicare la grandezza di Cicerone contro le denigrazioni
del Mommsen e di altri due o tre storici tedeschi (I). Egli non era
una ràbula e un politico superficiale. Bensì un uomo di Stato dallo
sguardo ampio e sicuro, nel cui animo si radicava e viveva di vita
vigo¬ rosissima tutta la grande tradizione politica romana, (
I ) Una bella e vivace confutazione del Mommsen si può leggere nel saggio
di A. Horncffer, Cicero und die Gegenwarl, contenuto nel volume Das
Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però
rivendica solo il valore di Cicerone come epistolografo e oratore,
non come filosofo. 52 e pur senza che
l’animo servilmente vi soggiacesse, ma, anzi, insieme, con la chiara
coscienza della nuova direzione che quella tradizione doveva pren¬
dere, e della misura e forma in cui doveva pren¬ derla, per svilupparsi
fecondamente e superarsi vi¬ vificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era
im¬ padronita di tutta la più alta cultura dell'epoca : Demostene e
Platone insieme pel suo paese, come riconosce Wilamowitz - Moellendorf (
1 ). Accanto a ciò, una squisitissima sensibilità artistica e una
passione vivacissima per le cose d’arte ; basta ve¬ dere quanto “
vehementer „, com’egli stesso dice, attendeva che Attico gli mandasse
sculture ed og¬ getti artistici greci: “genus hoc est voluptatis
rneae,, (Ad Att. I, IX, 2 ; 1, VI, 5 ; 1, IV, 3 ecc) ; e
basta aver letto attentamente le sue orazioni e aver scorto il
perfetto senso d’arte con cui sono costruite e che vi circola. Accanto a
ciò, infine, una sensibilità in generale per le cose, le persone,
gli eventi, gli affetti, così moderna, che in lui, nella sua pronta e
multiforme impressionabilità, ritroviamo interamente noi stessi : e il
suo dolore erompente e pieno di accenti passionali per la morte
della figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri tempi.—
Uomo, in una parola; assolutamente com¬ pleto (2). (1)
Platon, ed. cit., voi. I, p. 745. (2) Un pensatore di così sottile
e sicuro buon gusto e di cosi grande penetrazione storica (e
particolarmente 53 Il rimprovero che
gli si fa di debolezze e in¬ certezze è uno dei soliti rimproveri che gli
eroi di poltrona hanno quasi sempre occasione di ri¬ volgere al
grande che si è trovato a dover dav¬ vero vivere avvolto da un gigantesco
turbine di avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte
più grande poteva abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a
quelli che non fanno se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo
gabinetto venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto nè nella
repressione della congiura di Catilina, nè nella lotta per la salvezza
della costituzione con¬ tro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta
che chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue
incertezze di altri momenti sono unicamente frutto della sua profonda
moralità. Perché l’uomo fondamentalmente morale e intelligente, in
mezzo a cataclismi enormi che travolgono gli individui come
fuscelli, quali quelli in cui Cicerone si trovò, mentre non può operare
contro coscienza, e per questa, che pure sarebbe l’unica via possibile,
sal¬ varsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche i pencoli
micidiali a cui espone sè ed 1 suoi o- perando secondo coscienza : e la
condotta risul¬ tante è necessariamente quella che tracciano le
fluttuazioni di tale angoscioso conflitto interno. circa la storia
romana) come Montesquieu ne dà questo giudizio : “ Ciceron, selon moi,
est un des plus grands espnts qui aient jamais été „ (Pensées diVerses),
54 “ Ab illis est periculum si peccare, ab hoc
si recte fecero, nec ullum in his malis consilium periculo vacuimi
inveniri potest „ {Ad Att, X, 8). Quando i frangenti in cui un uomo si
trova realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si può
domandarsi se sia umanamente possibile la retti¬ lineità che esigono da
lui coloro che poi spulciano comodamente gli eventi della sua vita.
Sicuro e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non
sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista Celio Rufo, che a
Cicerone dava questo consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non
ti sfugga come nelle discordie politiche interne gli uomini debbano
seguire, finché si lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte
quando ven¬ gono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è
migliore ciò che è più sicuro „ (Celio Rufo, del resto ottimo scrittore,
tanto che per molti uma¬ nisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior
modello di stile). Ma Cicerone era un uomo di coscienza. Questa
soltanto, non la sua incapacità mentale, la causa della sua rovina.
Egli era andato con Pompeo, non già sedotto dalla speranza della
vittoria, ma quando la causa di costui era ormai pressoché perduta e con
la piena nozione di tale condizione di cose, e mentre Cesare,
Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo almeno neutrale, gli facevano
offerte larghissime : secuti non spem, sed officium „ {Ad Div. X
5). Vi era andato essendo consapevole, non solo del- 55
l’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di quelli che erano
con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla c era da sperare da essi
circa la restaurazione della legalità, animati come costoro erano
da propositi di persecuzione sillana (Ad Att. IX, 10, 1 I; XI, 6 ;
Ad D/v. VII, 3; IX, 6), e chiaro ormai essendo che dai pompeiani
non meno che dai cesariani non si pensava che a far man bassa dello
Stato: “ regnandi contendo est » (Ad Att. X, 7), “ dominatio quaesita ab
utroque est, non id actum beata et honesta civitas ut esset „ (ih.
Vili, 11). Vi era andato straziato dall’ idea d una guerra civile e
unicamente in obbedienza a considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza
che ci costringe, scrive ad Attico (X ,8), a stac¬ carci da Cesare più
ancora se vincitore che se vinto, per non essere solidali con ciò che
seguirà alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et
turpissimorum honores, et regnum non modo Ro¬ mano homini, sed ne Persae
quidem cuiquam to- lerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni e
speranze, unicamente per senso del dovere. Sed valuit (scrive più
tardi a Cecina) apud me plus pudor meus quam timor ; veritus sum
deesse Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset meae.
ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel pudore victus, ut in fabulis
Amphiaraus, sic ego prudens ac sciens, ad pestem ante oculos
positam sum profectus „ (Ad Div. VI, 6). Egli sapeva cioè di andare
alla rovina e vi andò in obbedienza 56 a
yu principio d'onore ( pudor ) e di gratitudine, per quel poco che Pompeo
aveva fatto onde ri¬ chiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui
famae¬ que cedere quam salutis meae rationem ducere riconferma a M.
Mario (ib. VII, 3). E ritornando più tardi in una lettera a Torquato, che
aveva anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’e¬ pisodio a
entrambi comune, sente di poter ricor¬ dare in cospetto al
correligionario politico “ nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim
et li- beros et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum
et pium et debitum reipublicae nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec
cum id faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis esset
victoria „ (ib, VI, 1). Ne è questa un’op¬ portunistica configurazione
postuma della sua con¬ dotta di quel tempo. Basta percorrere la sua cor¬
rispondenza con Attico (suo amico intimo e suo editore, uomo consumato
nell’ impresa di tener il piede in più staffe e nella difficile arte di
con¬ servarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti) per
constatare che tale veramente, cioè il senso del dovere, era il nobile
sentimento da cui fu mos¬ so. “ Officu me deliberalo cruciat,
cruciavitque adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existi-
matur traiectio „ (Ad Alt. Vili, 15). E quando Pompeo è pressoché
spacciato e stretto da tutte le parti, e Cicerone è ritornato in Italia,
egli si cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sa¬ rebbe
derivato vantaggio e che poteva quindi 57
essere reputato abile, e si rammarica di non essere stato
con Pompeo sino alla fine ; “ numquam enim illus victoriae socius esse
volui ; calamitatis mallem fuisse „ (Ad Att. IX, 12). Il principio,
insomma, che in un’altra posteriore circostanza, piena di pericoli
mortali, nella sua lotta contro Antonio, egli enuncia a Planco così : “
mihi ma- ximae curae est, non de mea quidem vita, cui sa¬ tisfeci
vel aetate vel factis vel gloria, sed me pa¬ tria sollicitat ,, ( Jld
Dio. X, 1 ), questo è il prin¬ cipio che domina costantemente nelPanimo
di Ci¬ cerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza, o meglio
con 1’ impossibilità, di venir meno al rispetto verso se stesso.
Allorché, essendo Cesare incontrastato padrone, l’accomodante Attico
gli dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non mihi quidem
(egli risponde) cui sunt multa po- tiora „ (Ad Att. XV, 3).
Certo, un uomo mosso prevalentemente da sen¬ timenti di tale
natura, nelle tragiche vicende pub¬ bliche da cui si trovò avvolto
Cicerone, va al fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di
inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo che è raggiunto (e la
cosa è facile) in grazia del¬ l’assenza di tali sentimenti, della
mancanza d’ogni freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di
coscienza, della nessuna riluttanza a violare cini¬ camente ogni
principio di diritto e di morale. 58
* * * Nè r uomo che aveva cominciato la sua
carriera attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo un
favorito potentissimo di Siila, era un pavido. Dimostrò ancora di non
esserlo e nel suo conso¬ lato e nell’ultima fase della sua vita.
L’apparenza di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò che
egli, come disse di sè, si preoccupava gran¬ demente dei pericoli nella
rappresentazione e raf¬ figurazione mentale anticipata di essi, non già
che titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano narra :
“ Parum fortis videtur quisbusdam : quibus optime respondit ipse, non se
timidum in susci- piendis, sed in providendis periculis „ (XII, 1).
E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio : mi accusavano di essere
timido, “ eram piane, timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt „
; mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura, quae facta sunt „
(Ad Dio. VI, 21). Nè è giusto accusarlo di non aver saputo intuire con
chiarezza le situazioni e di essersi per questa deficienza di
sguardo gettato a corpo perduto a combattere per soluzioni che la realtà
escludeva. È questa la so¬ lita iniqua condanna che ì posteri,
aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel
dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro colui che difese
la causa rimasta storicamente soc¬ combente. Quasiché il fatto che una
causa sia ri- 59 masta storicamente sconfitta
dimostri anche che era giusto e logico che essa lo fosse ; quasiché il
mero fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di giustizia
e logicità ; quasiché assai spesso la causa storicamente prostrata non
sia quella che avrebbe dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso
di Cicerone, lo dimostra il fatto che la causa da lui combattuta e
che vinse costituì la rovina della vita di Roma : basta per accertarsene
constatare che nella stessa nostra memoria di posteri la vita di
Roma resta chiaramente presente e attira la nostra appassionata
attenzione appunto sino ad Augusto; ci rimangono ancora come appendice
già torbida i primi imperatori ; poi tutto ci si confonde di¬ nanzi
in un lungo stato comatoso chiazzato di continui sussulti sanguigni, in
cui (se non siamo sto¬ rici di professione) non distinguiamo piu ne
nomi, nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, nè c’importa
ricordare, più nulla ( 1 ). (I) Si rammenti come, per es., scorgeva
Roma Mas¬ simo d’ Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è
Roma quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi,
intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò la legge ;
durante i quali le più bollenti passioni agitate dai più vitali
interessi, non cercavano altr armi nè altre vittorie che un voto ne’
Comizi „. E poco prima : Se è giusto e vero il principio fondamentale
delle Società moderne, essere la legalità di un governo dipendente
dalla volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se 1*
umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato
Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per sostenere la
causa che soccombette, erano ina- deguati. Tutto, invece, egli aveva
provvisto ; tutto quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva
cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la fedeltà dei maggiori
personaggi militari e poli¬ tici ; aveva costituito e messo in campo
eserciti poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il tono
morale del popolo all’ interno. Se la causa non vinse, lo si deve, non a
un fato storico, a condizioni incoercibili insite nella realtà e
sfuggite allo sguardo di Cicerone, o al logos immanente nella
storia ; ma unicamente a due o tre puri casi, che potevano accadere
diversamente e in tal modo rovesciare la situazione. Dice in qualche
luogo Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo può sciogliere
la propria mente da molti pregiu¬ dizi e da’ legami delle consuetudini
sensibili, si è l’esercitarsi a considerare le cose non solo come
sono, ma come potrebbero essere « ( 1 ). Se vo¬ gliamo applicare questo
precetto al periodo di storia in discorso (come Renouvier in
Uchwnie l’ha applicato in modo grandemente interessante a tutta la
storia occidentale dagli Antonini in poi), scorgeremo agevolmente che due
o tre futili casi, per l'impero „ (/ Miei Ricordi, cap. XX.
Barbera, 1893 p. 261). (I) Antologia Pedagogica a cura
di G. Pusinieri (Rovereto, Tip. S. Mario, 1928) p. 187.
61 i quali fossero avvenuti diversamente,
sarebbero bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose; se, p.
e., Lepido non avesse tradito, o se un gia¬ vellotto l’avesse ucciso
quando egli si mosse per portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se
Planco non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe ba¬ stato per
far di Cicerone il capo dello Stato ro¬ mano, e perchè egli occupasse
nella politica di Roma d’allora, e nella storia, il posto
d’Augusto. E quanto lo Stato romano e la posterità sareb¬ bero stati
più fortunati se il potere fosse venuto in mano ad un uomo di rettitudine
profonda e di vivo senso del diritto e del dovere, come Ci¬ cerone,
anziché ad un uomo la cui bassezza d a- nimo è provata luminosamente dal
fatto che, avendo cominciato ancora puer o adolescens, come sempre
Cicerone lo chiama, (* sed est piane puer n \Ad Att. XVI, 11), ad essere
qualcosa solo per 1 ap- poggio datogli appunto da Cicerone e con lo
stri¬ sciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat primum ut
clam conloquatur mecum Capuae vel non longe a Capua... ducem se
profitetur nec nos sibi putat deesse oportere „ ; binae uno die
mihi litterae ab Octaviano „ ; “ deinde ab Octaviano cotidie
litterae, ut negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam
servarem » ; mihi totus deditus „ ; “ nobiscum hinc perhonorifice
et amice Octavius „ — Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11, XIV, 11, 12), non si
trattenne dal sacrificare ad una propria maggiore ascesa la vita di colui
che 62 l’aveva sorretto nei suoi primi passi.
Uomo egli, si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo per
mezzo dei suoi generali e specialmente di A- grippa (1), e non aveva il
coraggio di presentarsi nel campo se non dopo che Agrippa gli
annun¬ ziava la vittoria (Svet. Aug. 16). Fondamental¬ mente
istrione e poseur come risulta dal fatto, narrato da Svetonio (Aug. 84),
che non comu¬ nicava mai nemmeno con sua moglie senza scri¬ vere
prima e leggere ciò che voleva dire, nonché dall’altro, sempre narrato da
Svetonio (79), che egli amava stilizzare a particolare espressività e
lu¬ minosità i suoi occhi, “ quibus etiam existimari volebat inesse
quiddam divini vigoris, gaudebatque ( 1 ) “ Octave lui [a Sesto
Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et après bien de mauvais succès il
le vain- quit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est
le seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection
des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une làcheté
naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence des Romains, eh. Xlll). —
Tanto Cesare quanto Augusto avevano l’abitudine di citare dei versi delle
Fenicie di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva
scelto è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava
citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello violare il
diritto, è quando lo si viola per conseguire la tirannide citazione
signifìcatiice dello spirito violento e illegale. Augusto amava citare il
verso 559: è meglio per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che
es¬ sere ardito (ihf aouc) „ ; citazione significatrice della vi¬
gliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio Aug. XXXV).
63 si qui sibi acrius contuenti quasi
ad fulgorem solis vultum summiteret e infine in modo palmare dalle
parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae com¬ mode transigisse „) e
dalla citazione greca richie¬ dente 1 applauso per la commedia ben
riuscita, con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99). Uomo che
desta particolare antipatia precisamente in grazia del suo proposito di
moralizzare la vita romana ; perchè niente è più ripugnante del
dis¬ soluto che si da il compito di costringere gli altri alla
virtù e posa a restauratore della morale pub¬ blica ; e Augusto aveva
cambiato tre mogli pren¬ dendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi
occhi, conducendola con sé in un altra stanza donde era ritornata
spettinata e con gli orecchi rossi, e poi introducendola in casa propria
incinta d’un altro (ib 62, 69) ; aveva commesso le oscenità che narra
Svetonio (68, 69), irripetibili, tranne forse una : “ adultena quidem
exercuisse ne amici quidem negant „ ; e dopo ciò faceva udire le parole
am¬ monitrici di vita austera e imprendeva a ricondurre i costumi
alla prisca severità (I). La scandalosa con¬ dotta di sua figlia e di sua
nipote, che condusse ( 1 ) “A cool head, an unfeeling hcart, and a
cowardly disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume
thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid aside. With thè
saine hand, and proba’bly with thè same temper, he signed thè
proscription of Cicero and thè pardon of Cinna. His virtues, and even his
vices, were artifìcial „ (Gibbon, Decime and Fall, c. 111).
64 all’esilio di entrambe, e di Ovidio
complice o pro¬ nubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si
aveva il senso netto del come si poteva prendere sul serio una riforma
morale che pretendeva at¬ tuare un individuo di siffatta ìndole e di
siffatti precedenti ( 1 ). * * % Non
ostante che all’epoca del trionfo di Cesare si avvicinasse alla
sessantina, Cicerone non. era uomo che non sapesse comprendere i tempi.
Li comprendeva benissimo, più profondamente e sa¬ pientemente di
Cesare e di Ottavio. La sua mente era in pieno vigore. Subito dopo quell
epoca egli poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che su¬
scitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono e saranno letti con
entusiasmo o rispetto da tutte ( I ) Coglie veramente nel segno
Aurelio Vittore : Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii
severissimus ultor, more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi
velie- menter indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d.
lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur, ce
prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui- mème très
vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre l’adultere et il
vivait publiquement avec sa mèce, la bile de Titus, qu’ il avait enlevée
à son mari et dont il causa la mort en essayant de la taire avorter. Ce
contraste etait choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne
„ (Tacite, p. 45). 65 le
generazioni successive (I). Poco più oltre egli svolgeva anzi la sua
azione politica più abile, più decisa, piu energica e più importante, e,
insieme, con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui ancora non
tocca nella forma d’arte che gli era propria : “ divina „ chiama
giustamente un giudice certo non facile, Giovenale (X, 125), la
seconda di esse. La sua idea di portare alla luce del mondo politico,
sotto la sua direzione, il proni¬ pote e figlio adottivo di Cesare,
ancora ragazzo (aveva appena diciannove anni), accordandogli an¬
che onori che a molti parevano eccessivi, e di riuscire così giovandosi
del nome di Ottavio a far rientrare il ribollente partito cesariano
nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una si-
Inazione difficilissima, era una idea geniale, abi¬ lissima, da politico
grandemente avveduto, l’unica (I) Sull immensa influenza
esercitata da Cicerone sui a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi
‘'furiente r “, Z r fe ,v C f er , 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte I
d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella sua Vita di Cicerone (
Heroes of thè Nations Series „) dice giustamente che se si dovesse
decidere quale degli scrittori antichi maggiormente influì sul mondo
moderno, la decisione sarebbe ,n favore di Plutarco e Cicerone —
hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane aonr enVa
rf matUra era andato sempre più apprezzando Cicerone. Ld è proprio
giusto il noto giu- d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse
sciat, (e s. può aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti
Jne etico-politica) cui Cicero valde placebit „ (X, 112). G.
Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi 66
idea che in quel terribile cataclisma poteva dar buoni frutti. Non
è sua colpa se 1 idea non riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia
senza scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e gran¬
demente intelligente, un uomo di Stato fondamen¬ talmente onesto come
Cicerone, non fa entrare nel suo giuoco la supposizione di una
perfidia enorme, di gran lunga travalicante la media ne¬ quizia
umana, come fu quella di Augusto; nè si può accusarlo di incapacità se
non ve la fa entrare, e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi
man¬ dando a picco i suoi piani più accortamente e sapientemente
elaborati (1). Fra il 4 1 e il 40 a. C., cioè all’età di circa
sessantaqualtro anni, Cicerone assume risolutamente, nel momento più
pieno di vicissitudini e pericoli, la parte di leader del Se¬ nato
e del popolo romano, come egli stesso scrive a Cornificio, “ me principem
Senatui populoque romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ; spiega
un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti quanto rispetto alla
situazione interna, per dirigere (I) Giustamente Platone osserva
(Rep. 409 A-D) che le persone oneste sono facili ad essere ingannate
dai malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei sentimenti di
costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07
ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio, a- bilissimo nel suo
comportamento coi malvagi, resta ingan¬ nato quando tratta coi buoni,
perchè, giudicando da se, e ignorando le indoli onesti, vede dappertutto
inganni (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;).
67 la lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta
scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con la prima
Filippica: “ fundamenta ieci reipublicae „ (Ad D/v. XII, XXV, 1); e al
gio¬ condo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia e come
ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita l’avrebbe spesa
bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini aliud
agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique sint : nullum
locum praetermitto mo- nendi, agendi, providendi : hoc demque animo
sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi ponenda sit,
praeclare actum mecum putem „ (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi
mesi del 43, Cicerone fu veramente il princeps, ch’egli aveva
idealizzato nel De republica : consigliere, esortatore, ispiratore del
Senato, dei consoli, dei governatori delle provincie „ (1). Non è
questa la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano
illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della sua esatta com¬
prensione dei tempi, basta ricordare come la ri¬ forma che occorreva allo
Stato romano, pessima¬ mente attuata, secondo attestò la susseguente
vita (1) F, Amateli, Cicerone, (Bari, Laterza I929‘ p. 187).
Jamais Ciceron n a joue. un plus grande róle politique qu à ce
moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom- me d Etat que ces
ennemis lui refusent „ (Boissier, Cr- céron et ses amis, p. 79
68 dell’Impero, da Cesare e da
Augusto, fosse stata prospettata per primo da Cicerone nel De Re¬
pubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più fermo principio
d’autorità sotto forma di un rector rerumpublicarum d’un “ moderator
reipublicae d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep. V, 3, 4, 6). Senonchè
Cicerone, con molto maggior senso della necessaria continuità di sviluppo
dello Stato romano e con molta maggior disinteressata cura di esso,
non intendeva che questa riforma dovesse rivol¬ gersi a distruzione della
costituzione esistente, bensì che dovesse ingranarsi in essa e formarne
un na¬ turale complemento e uno svolgimento spontaneo e logico ; “
homines non tarai commutandarum quam evertandarum rerum cupidos „ , egli
giudica i cesariani .(De Off. 11 c. 1), mentre per lui la costituzione
romana, come esattamente nota lo Zielinski, era “ capace di ogni
progresso in quanto questo conducesse all’accettazione e allo
sviluppo di idee feconde (fordeTnder), non di idee distrut¬ tive»
(1). La differenza tra il modo con cui egli concepiva la riforma e il
modo con cui la attua¬ rono Cesare ed Augusto è si può dire
scolpito dalle seguenti sue due proposizioni : “ me nun- quam
voluisse plus quemquam posse quam uni- versam rempublicam „ (jdd Div •
VII, 3); “ ego sum, qui nullius vim plus valere volui, quam ho-
nestum otium „ (ib. V, 21). Ovvero: la diffe- (1) O. c.. P .
4 69 renza tra la concezione
ciceroniana del princeps e la pratica applicazione fattane da Cesare è
resa nel bell’ emistichio con cui Lucano (1, 150) de¬ scrive il
modo di operare di quest’ultimo : « gau- dens viam fecisse ruina „ ( 1
). Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto che non
solo la mente di Cicerone era nel suo pieno vigore, ma altresì la sua
comprensione dei tempi (se per questa s’intende, non già furbesca
valutazione personalmente opportunistica delle cir¬ costanze, ma
avvertimento delle necessità profonde che ad un dato momento si
presentano nella vita sociale e politica d’un paese) era perfetta.
(1) Il * ‘ sovversivismo „ di Cesare è provato dal dolore che per
la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei (“ qui etiam noctibus
continuis bustum frequentabant„ — Svet, Caes. 84), cioè precisamente
coloro che nel seno nello Stato romano, da essi violentemente odiato,
costitui¬ vano la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto
la veste del Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riusci¬
rono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano si deve agli
ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti intorno al cadavere di
Cesare che suscitarono nella ple¬ baglia quella sommossa per e attorno al
rogo del ditta¬ tore, la quale fece prender nuova forza al cesarismo. “
É noto come per la commozione popolare che lo straziante rito ebreo
provocò colle sue lugubri lamentazioni orientali, se ne ingenerò quel
tumulto che doveva mutare la faccia de! mondo, mandando in fumo i
diplomatici accordi con Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio
: sicché ne vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di Augusto
„ (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano, 1913. voi. I, p. 21 I ).
70 * * *
Mente possente, senso politico sicuro, compren¬ sione dei tempi
piena. Non si può dunque attri¬ buire a deficienze intellettuali il modo
con cui Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui capeggiato.
Egli non vide certamente Cesare come la sua figura si è plasmata nella
storia, che corona con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha
trovato in ogni presente la consacrazione del bruto suc¬ cesso di
(atto. Lo vide come glielo presentava la realtà immediata. Lo vide come
lo vide Catullo (LV11) : Pulcre convenit improbis
cinaedis, Mainurrae pathicoque Caesarique ;... E questo
Caesar era proprio Caio Giulio Cesare e quel Mamurra (da Catullo soprannominato
Men- tula) il suo generale del genio. A permettere al quale di “
mangiare „ (il verbo si usava anche in latino con questo preciso
significato) milioni su milioni, il commovimento politico aveva
principal¬ mente servito. Doveva essere una cosa nota a tutti, se
Catullo la mette correntemente in versi (XXIX) :
Cinaede Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et
vorax et aleo. Eone nomine, imperator unice, Fuisti in
ultima occidentis insula. Ut ista vostra diffutata Mentula
Ducenties comesset aut trecenties ? 71
“ Cinaede Romule Romolo debosciato, impu¬ dico, vorace e giuocatore : cosi
Catullo vede Ce¬ sare. E press’a poco così lo vede Cicerone.
Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo in¬ teressato dei
seguaci e poi gli storici l’hanno co¬ struito: gli storici, i quali (in
generale) non fanno mai altro se non aggiungere, per supino
servilismo postumo, la loro adulatrice consacrazione al suc¬ cesso
di fatto e di solito non osano mai, per la paura di passar per “singolari,,,
sviscerare il clamoroso successo di fatto ottenuto da un “ grande „
nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente in luce le vere molle,
spessissimo casuali, o basse, o vili, ma sempre invece per essi è “
grande „ colui che nella sua epoca le circostanze, o la perfidia, o
i misfatti hanno portato in alto (I). (1) “Si vous avez une vue
nouvelle, une idée origi¬ nale, si vous présentez !es hommes et les
choses sous un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le
le- cteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une
histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si vous essayez de
l’instruire, vous ne ferez que l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de
l’éclairer, il criera que vous insultez à ses croyances... Un historien
originai est 1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt
universels». Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo
la satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile des
Pingouins, préf., p. IV-V). Ci sarebbe solo da ag¬ giungere che spesso il
servilismo degli storici verso i per¬ sonaggi della storia che scrivono
serve al loro servilismo verso i personaggi della storia che
vivono. 72 Cicerone vede Cesare
muoversi davanti ai suoi occhi, nella vita vera, non nella luce
abbagliante del mito ( 1 ). Esso gli appare screditato, corrotto,
senza senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la cui vita, i
cui costumi danno la certezza che si condurrà male : e sopratutto la
danno la gente che lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua
erat area scelerum! scrive ad Attico (IX, 18), dopo uno dei suoi
abboccamenti con lui. Egli sa che Cesare aveva cominciato a costruirsi la
sua potenza accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze i
manigoldi audaci e bisognosi (2). Egli scorge ( I ) Nell'
interessantissima antologia di pagine storiche di Chateaubriand, testé
pubblicata dall’editore Tallandier sotto il titolo Scénes et portrails
historiques, si legge (p. 269 ) : “ Tout personnage qui doit vivre ne va
point aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a
quelque distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce
personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance, des vices
et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les hasards de sa vie, on
les violente, on les coordonne à un système, Les biographes répètent ces
mensonges ; les peintres fixent sur la toile ces inventions et la
posterité adopte le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire
est une pure tromperie „. E Montesquieu, dal canto suo aveva già
osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes, corame les
autres, aux caprices de la fortune „ ( Grandeur et décadence des Romains,
Ch. 1 ! (2) “ Habebat hoc omnino Caesar : quem piane per-
ditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam homi¬ nem audacemque
cognorat, hunc in familiaritatem liben- tissime recipiebat „ (Fi/. Il, C.
XXXII § 78). 73 radunata attorno a
Cesare tutta la gente equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le
anime dan¬ nate, vexu (<x (Ad Att. IX. 18), “ omnes damnatos,
omnes ignominia affectos, omnes damnatione igno- miniaque dignos, omnem
fere inventutem, omnem illam urbanam et perditam plebem „ (Ad Att.
VII, 3,), tutti i giovani circa i quali pensava che “ma¬ ximas
republicas ab adolescentibus labefactas,, (De Seti. VI), tutti coloro
ch’egli chiamava « perdita iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi «
barba¬ tuli iuvenes, grex Catilinae » (ib. I, 14), «feccia di
Romolo » (ib. II, I), i precursori di quella che poi Giovenale denominerà
«turba Remi» (X, I, 3); cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a
Cesare è raggruppato tutto il canagliume della penisola, « cave
autem putes quemquam hominem in Italia turpem esse, qui hinc absit » (IX,
19); osserva¬ zione identica a quella che è costretto a fare il
cesariano Sallustio: “ occupandae reipublicae in spem adducti homines,
quibus omnia probo ac luxu- ria polluta erant, concorrere in castra tua,,
(De Rep. Ord. II, 2). Come Catullo, Cicerone vede con disgusto i
cesariani ormai dominatori darsi al lusso ed al fasto, giuochi, cene,
delizie, mentre Balbo (altro comandante del genio di Cesare e sua
longa manus in Roma) si costruisce dei palazzi, “quae coenae? quae
deliciae?... at Balbus aedificat „ “(Ad Att XII, 2) (1), e Antonio
scorrazza l’Italia con¬ fi) Val la pena di riportare tutto il passo
perchè esso 74 ducendosi dietro
in una lettiga aperta la sua amante in un’altra sua moglie, “ septem
praeterea coniun- ctae lecticae amicarum sunt an amicorum ? „ l^/JJ
Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in Cicerone una nausea invincibile: “ nosti
enim non modo sto¬ machi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso-
contiene un’osservazione di indole psicologica e morale
eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa che lo circondava
: “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij péÀst ; Verum si quaeris, homini
non recta sed vulupta- ria quaerenti nonne [kfifwTai ? „ Cioè: “ Balbo
pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in
verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la co¬ scienza, ma solo
il suo interesse, fa bene a far così : può dire ho vissuto
(1) La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non solo nelle
lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle Filip¬ piche (v. specialmente
FU. He. 18 e s.). Pagine che stanno a dimostrare una volta di più come,
in una situa¬ zione politica tirannica ed eslege, anche persone
notoriamente turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo
dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono sop¬ presse dalla
forza e la gente costretta al silenzio. — Non ostante, in un primo tempo
Cicerone, usando l’avveduta prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di
persuadere quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita
della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le se¬
guenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in repu- blicam semper
habui, tenuero, id est, si libere, quae sen- tiam, de republica dixero;
primum deprecor ne irascatur, deinde, si haec non impetro, peto ut sic
irascatur, ut civi „ (c. XI). 75
lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv. II, 16) ( 1 ). Quanto a
Cesare, egli è per Cicerone “ hominem amentem et miserum che non ha mai
conosciuta neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tiran¬ nide
come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni
scelleraggine, “ omnia taeter- rime facturum „ ( ib . VII. 12), uomo del
quale “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, so¬ di „
fanno ritenere che non potrà comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A,
alias 2, § 2 e s.) La sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che
per l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella
guerra civile deve pur contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro
che l’hanno aiutato a vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in
bellis civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae
etiamsi ad meliores venit, tamen eos fero- (1) La stessa
ripulsione, e per la stessa ragione, Filip¬ po destava in Demostene. È
circondato (egli dice) da ladri, da adulatori, da gente che si abbandona
a immo¬ ralità che non oso neanche ripetere (01. 11, 19). E De¬
mostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe ca¬ duto. Geloso e
ambizioso com' è (egli dice) allontana gli uomini di valore, che gli
danno ombra ; gli uomini assen¬ nati e morigerati, che sono rivoltati
dalle sue immoralità (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)
sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò;
s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti hanno sempre provato che è
vana speranza contare che que¬ ste ragioni facciano cadere un uomo dal
potere. L’esigenza morale non trova sanzione nella storia e nella
politica. 76 ciores
impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut etiamsi natura tales non
sint, necessitate esse co- gantur ; multa enim victori eorum arbitrio per
quos vicit, etiam invito, facienda sunt„ (Ad Div. IV, 9). E su
questo stesso pensiero insiste anche con Cor- nificio (Ad ©iv. Xil, 18) :
“ Bellorum enim ci- vilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium
fiant, quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus sit,
quibus adiutoribus sit parta victoria „ ( 1 ). * *
* La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare appare a
Cicerone un mostruoso sfacelo dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in
Roma precipitava a rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza,
po¬ polo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d’ogni
cosa umana e divina, poneva i fondamenti sanguinari la tirannia degli
imperatori „ (2). Cice¬ rone vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in ( I ) Il modo genuinamente
italiano di considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
il Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo , che
cominciano con le parole, estremamente significanti e pregnanti,
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto
il fatto. Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,
con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. (2)
Barzellotti, Delle Dottrine Filosofiche nei libri di Cicerone.
77 seguito a ciò “ omnia delata ad unum
sunt „ (jdd Div. IV, 9) al punto che Cesare redige in casa sua, a
suo libito, quelli che devono apparire come senatusconsulta (Ad Div. IX,
1 5), si formi un’at¬ mosfera di falsità, di servilismo, di adulazione
uni¬ versale, tanto da parte di privati quanto di enti pubblici,
cosicché non si distingue più il sentimento sincero dalla simulazione, “
signa perturbantur, quibus voluntas a simulatione distingui posset
« (Ad Att. Vili, 9); (1) quell’adulazione e quel servilismo, che,
diventati poi a poco a poco ora¬ mai di rito, Lucano, più tardi sotto
Nerone, sti¬ gmatizza con magnifici versi, facendone risalire 1'
inizio appunto al dominio di Cesare : - V (1) “ Cette
abjection de la patrie releva I’ àme de Cicéron par l’indignation et par
la honte. La victoire de Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna.
Le succès, qui est la raison du vulgaire, est le scandale des
grandes àmes (Lamartine, Cicéron, Calmati - Levy, 1874, pag. 167).
E’ un libro, poco conosciuto, in cui Lamartine, in forma simpaticamente
piana e scevra da ogni erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con
accenti assai elevati, la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di
prece¬ denti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambi-
tieux, les factieux, les séditieux, les corrupteurs et les cor- rompus,
la jeunesse, la populace et la soldatesque, les barbares mèmes enrólés
dans les Gaules, étaient avec Cesar „ (p. 186). “ Coriolan... n’avait
rien fait de plus monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan
et a déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui
prennent le succès pour juge de la moralité des événe- ments „
(154). 78 Namque omnes voces, per quas
iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum repperit aetas.
Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset, Ausonias
voluit gladiis miscere secures, Addidit et fasces aquilis et nomen
inane Imperii rapiens signavit tempore digna Maestà nota (I).
Cicerone vede come, appena risultò che Cesare era saldamente
stabilito al potere, non solo i “sovver¬ sivi ma anche gli “ ottimati le
vecchie figure (1) V. 386, —Si avverte che la parola “ imperium
„ qui non significa il nostro “ impero „ ma “ officio pub¬ blico
legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usur¬ pazione, assumendo
falsamente il semplice nome d’un officio pubblico legale. Come è noto, è
sopratutto col nome di potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò.
Nel libro, ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribu¬
nato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’ impero si costitui deformando
e nell’ istesso tempo assorbendo la potestà tribunicia. « L'impero non
era, in ultima analisi, che il trionfo della democrazia [più esatto
sarebbe dire : demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul
partito democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura,
non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza, se non nella forma
esteriore... Cosi la temuta magistratura, nata per difendere la libertà
del popolo, che conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi
in tirannide... costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca
» (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportu¬ nistico
comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico. “ C’est assurément ce
qui nous répugne le plus dans sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à
s’accomoder au regime nouveau „ (Boissier, Cicéron et ses amis, pag.
165). politiche, abili a restar sempre a galla, “
huic se dent, se daturi sint „, sia pure perchè terrorizzati,
sebbene essi ora dicano che lo erano quando os¬ sequiavano Pompeo (Ad Alt
IX. 5); come essi se^ venditant „ a lui, mentre i'municipi fanno di
lm vero Deum „ (ib. Vili, 16), e il grosso del pubblico sta inerte,
passivo, indifferente, non pensa che alla propria tranquillità (“ otium
„), non rifiuta, come non ha mai rifiutato, nemmeno la tirannide
dummodo otiosi essent „ (ib. VII, 7), non si occupa che dei campi, delle
ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi
villulas, msi nummolos suos „ (ib. Vili, 13) ; atonia che si
aggravo ancora più tardi quando diventava po^ tenie Antonio : “ mihi
stomachi et molestiae est populum romanum manus suas non in
defendenda YA/I own , " plaudendo consumere (Ad Att. AV|
. lU- Ma questa prosternazione e adula- (I) Anche qui si riscontra
un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva di Demostene per
l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che
i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece hanno a
cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi iTera^ C ° Sa 'vi
^ ^ Persian ° e fece la Grecia def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare
: ed era la fermezza (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e
comprare uiterr di bene ** Gr “ j .' , , 1 era un tempo
non avere fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità
e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X °
tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla
80 zione universale, questo continuo panegirismo or¬ mai
diventato di prammatica, non è, per Cicerone, se non un’universale
falsificazione di coscienza, quella stessa per cui più tardi egli
osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato
a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della patria il titolo di
parens patriae : “ potest cuiquam esse utile faedissimum et taeterrimum
parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab op¬
pressi civibus parens nominaretur ? ,, {De Ojf. Ili, 83) (1). Questa
situazione che fa fremere d’or¬ rore Cicerone (2), nella quale egli trova
che non c e salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa
vostra viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate
nella malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi
creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet; gxepov
OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil. IV, 11). (1) In questo stesso luogo,
volendo Cicerone dimostrare che l'utile e il giusto non possono
distinguersi, scrive fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare
di voler dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse
dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum, earumque
oppressionem taetram et detestabilem glonosam putat ». Come, aggiunge,
può essere ciò utile all usurpatore? Anche i re legittimi hanno avversari
; « quanto plures ei regi putas, qui exercitu popuh romani populum
ipsum romanum oppressisset ? ». (2) Ricco com’era d’un pathos
etico affine a quello di Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere
e dai suoi scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo
tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità in noi, e che
è per conseguenza un dovere verso noi piu
posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rec- tis studiis, bonis
artibus, sed omnino Iibertati ac Dh - V. 16), gli appare sopraia!,„
basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto 1 adesione, 1 adulazione,
l’apoteosi che l’atmosfera ufficiale orma, impone, circola
larghissimamente quel malcontento e quell’esecrazione generale
verso ì distruttori dello Stato legale, che egli constatava già
precedentemente quando essi avevano iniziata tale loro opera di
demolizione (“ sumiTITJm odium omnium hominum in eos qui tenent omnia ;
mu- tationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Que¬ sta esecrazione
generale, sotto le parvenze dell’os¬ sequio più profondo, s’è ora
concentrata in Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai
in realta persino “ egenti ac perditae multiludini in odium
acerbissimum venerit „ ( ib . X, 8). Invero, Cesare stesso sapeva
d’essere odiato e di dover esserlo, sopratutto per la posizione di
superiorità e distanza, così urtante al senso cittadinesco ro¬
mano, che egli aveva finito per prendere : dopo la sua uccisione, Mazio
racconta a Cicerone che stess., può esprimersi in modo più o meno
chiaro nei seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non
permettete che , vostri diritti siano impunemente calpe¬ stati „ (Dottr.
della Virtù § 12). Che è, del resto, il precetto evangelico : \ii) r
£veafre SotW.c- àv&pdmwv (1, SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É
Xptaxòs UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r» G. Reati . Vita
parallele di due filosofi 6 82
avendo dovuto una volta Cesare far fare antica¬ mera a quest ultimo,
aveva detto : se un uomo come Cicerone deve attendere per essere introdotto
da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego dubitem quin summo in odio
sim „ ? (Ad Att. XIV, 1 e 2) (I). (1) A proposito
dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti i quali pensano che perchè Bruto
era stato « perdonato » da Cesare e poi anzi « beneficato », egli
dirigendo « il tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia
dato « perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (A.
Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa mancanza
d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto che Cesare gli aveva
* perdonato », doveva essere per Bruto una giusta ed onesta ragione di
più per abbonirlo. Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa
dello Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo
caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali (Senato),
non a un individuo. Il solo fatto che non già le leggi o le autorità
legalmente costituite, ma l’individuo Cesare, potesse a suo beneplacito
interrompere o far proseguire i processi, ordinare condanne o
assoluzione, assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché
condannare od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si
trattasse di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e
quasiché questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello
stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più per avversare e
condannare legittimamente l’uomo e il sistema, e per ricorrere ad ogni
mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un altro fatto, onde far
ritornane Marcello dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un
individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare,
è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per
83 Era, insomma, la situazione che un filologo
ita¬ liano contemporaneo descriveva di recente crn tutta esattezza
così : “ La crescente potenza di Cesare, il quale, dopo la funesta
giornata di Far- salo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo
la libertà della vita politica di Roma, aveva, per primo, inaugurato la
lunga e mostruosa serie degli questo individuo, che si
sovrapponeva in tal guisa alle leggi : condanna, anche quando « perdonava
», perchè precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle
leggi assolvere o condannare, ma da lui perdonare o no. — Piena ragione
ha Seneca quando in un capitoletto pieno di considerazioni interessanti
circa l’atto di Bruto, dice che egli non aveva ragione di gratitudine
verso Cesare, perchè questi non aveva acquistato il diritto di fare il
bene se non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca
un beneficio, ma si astiene da un maleficio : « in ius dandi beneficii
iniuria venerai; non enim servavit is, qui non interficit, nec,
beneficiun dedit, sed missionem » (De Benef. Il, 20). Del pari piena
ragione ha Cicerone, il quale, ad Antonio, che gli rinfacciava come un
benefizio usatogli di non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva
: questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un
assassino per non aver ucciso taluno : « quod est aliud beneficium
latronum, nisi ut commemorare possint iis se dedisse vitam, quibus non
ademerint ? » (Fil. II, C. 111). E si noti ancora che Seneca e Lucano,
vivendo entrambi alla corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia,
poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi facendo dire da
Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto miratore contentus „ (Ad Helviam
IX, 8), il secondo dipingere nel suo poema con smaglianti colori di
gran¬ dezza morale “ magnanimi pectora Bruti „ (11, 234 e s.).
84 imperatori romani ; la viltà degli
adulatori, che disertavano il partito dei vinti per quello più van-
taggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi, che, r er trar partito
dalle circostanze ad accu¬ mular potenza e ricchezze, pullulavano su su
dal fondo di quella corrotta società, come marcida fungaia dal
fondo d’un’ acqua stagnante ; le cru¬ deltà dei prepotenti, che volevano,
anche a mezzo di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella folla
dei concorrenti a quella specie d’albero della cuccagna ch’erano le
usurpazioni dei poteri dello Stato con le loro mille seduzioni e promesse
di dominio e di saccheggio dei beni pubblici e pri¬ vati ; il vivo
cordoglio e l’abbandono sconsolato in cui vivevano, nell’esilio
volontario o non volon¬ tario, le anime dei virtuosi e degli onesti,
fautori del partito repubblicano ; tutto insomma contribuiva a
mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe... Anziché assopirsi,
cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro caratteristico
orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria in¬
tanto cresce spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo spettro della
fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le
classi medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed alla
disperazione... Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire
d’ozio e di fame „ (I) (1) U. Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus,
Torino, Chiantore, 1932. p. XXVIII, XXXI.
85 Ora, tanto appare a Cicerone falsa e menzognera la
situazione che egli è certo che non può durare. La maschera di clemenza
di Cesare e le sue bugie circa la restaurazione finanziaria (“ divitiarum
in aerario „) sono cadute; è impossibile che egli e i suoi, non
d’altro capaci che di scialacquare, rie¬ scano ad amministrare
soddisfacentemente le pro- vincie e lo Stato ; cadranno da sè, per gli
errori propri, “ per se, etiam languentibus nobis ,,, “ aut per
adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est adversarius unus
acerrimus „ ; questa tirannide non può reggere sei mesi, “ iam intelliges
id re¬ gnimi vix semenstre esse posse „ (ib. X, 8) ( I ). ( 1
) Probabilmente, ciò di cui Cicerone avrebbe sopra¬ tutto incolpati i
cesariani è che essi cadevano in quel¬ l’errore che il Romagnosi descrive
così : “ La temerità e l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare
questo pro¬ cedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di
teme¬ rità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura
o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si pecca
d’intolleranza allorché si vuole seminare e racco¬ gliere ad un sol
tratto, e però si passa ad infierire con¬ tro attriti che da se stessi
vanno cessando in forza della riforma fondamentale già praticata. Siate
severi nel man¬ tenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare
il tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali, le
vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono, invece di
affrettare ritardano; e se per caso avrete un frutto precoce, ne avrete
mille falliti » {Dell’ Indole e dei Fattori dell’ Incivilimento,
Avvertimento finale). Auree pa¬ role d’uno dei nostri massimi pensatori
politici, che an¬ drebbero anche oggi meditate e tenute presenti.
Alle 86 Tale previsione di
Cicerone andò incontro ad nna smentita colossale. Quella “ divinatio „
del¬ l’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e
dalla pratica, aveva la coscienza di pos¬ sedere ( 1 ), qui gli fallì del
tutto. E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad
illustrazione del senti¬ mento politico, che, in quelle perturbate
circostanze, si sprigionava vivo in Cicerone, le seguenti: “ guai a
quel popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non preval¬ gono
che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU Giurispr. T e ° r \. P
\ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione dei diritti dell uomo, da lui
chiamati “ originaria padro¬ nanza naturale di ogni individuo “ Quelli
che vennero appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso
di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà 1 eguale
inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render ragione, sono
tutte condizioni di questa originaria padro¬ nanza „ (Lett. a G. Valeri ,
IV). (I) « Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus, quod
ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis umquam omnmo
fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem, ni vererer ne ex eventis
fìngere viderer » (Ad Dio. VI, o). « Exitus, quem ego tam video animo,
quam ea quae ocuiis cemimus » (Ad Dio. VI, 3). « Tamquam ex aliqua
specula prospexi tempestatem futuram „ (Ib. IV, 3). Questa sicura
previsione degli eventi, questo sicuro presentimento, Cicerone lo
possedeva in effetto. Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva
giusto, preveveva cioè quello che tutto faceva ritenere dover accadere.
Se i fatti si svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si
può, in un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non Cicerone
; cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi tu un
periodo di storia che sia stato come quello irrazionale e casuale.
87 fu ucciso poco dopo e probabilmente lo fu quando e
perchè divenne chiara a tutti I’ impossibilità in cui egli era di
dominare la situazione, di riordi¬ nare cioè seriamente lo Stato e di
soddisfare in¬ sieme le brame dei suoi seguaci (1), cosicché Mazio
— uno dei pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua
nobilissima lettera (Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e
che gli rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in
cui, subito dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava
crollato e i cesa¬ riani in pericolo — diceva, deplorandone la
morte: che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’
ingegno che aveva, non trovava la via d’u¬ scita, (exitum non
reperiebat), chi la troverà ora ? ,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la
morte di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose finirono per
peggiorare rapidamente. Anche Cice¬ rone è costretto a constatarlo. Il
tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad Att. XIV, 9 e 14);
(I) Va però tenuta presente anche la profondissima osservazione di
Montesquieu : « Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie ;
la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui
comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle. Ils avoient
trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive » (Grandeur et décadence cfr.
XI). 88 d siamo liberali dal re „„„ dai
regno (yìj Di,. ■’ /aj' fi marzo non consolano più come pnma (Ad AH. XIV, 12, 22): "
stolta L iZZ
Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus cooubs puenbbus ; excisa est
arbor, non avulsa ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio 1 erede del regno (ih. XIV, 21);
si poteva con piu libertà parlare contra illas nefarias
partes xiv r vivo che non ucci - tó ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio che
Cesare vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desideran-
dus , (,b. XI V, 13). Infatti, la situazione era di¬ ventata quale la
descrive ad Attico così • “ S ed vides magistrati ; si quidem illi
magistratus'; vides tyranni satellites m impems ; vides eiusdem
exer- cniis ; vides in latere veteranos „ (ib. XIV 5) In
conseguenza il sistema di governo che Cicerone prevedeva non poter durare
un semestre, durò invece, continuamente aggravandosi o peggiorando
per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’im¬ pero bizantino.
Ma la fallacia di questa previste la torio all. mente di
Cicerone. E' la fallacia propria delle menti profondamente razionali,
che hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la mente di
Cicerone era appunto secondo la felice dennizione che ne dà Io Zielinski,
un “ Aufkà- rungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile
(I) O. c. P . 147. ammettere che la mostruosità,
l’irrazionalità, l’as¬ surdo vengano a tradursi permanentemente nel
fatto, si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,
quindi è impossibile „ ; questo è per siffatte menti un canone
assolutamente insopprimibile, sradicando il quale essa sentirebbero di
strappar le proprie medesime radici. A cagione della stessa forza
della loro compagine razionale, è ad esse impossibile riconoscere
che il fatto che una cosa sia assurda non impedisce menomamente che essa
divenga realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana avviene
che ciò che all’ inizio la mente scorgeva come cosa “ assurda », “
pazzesca „, implacabil¬ mente ciò non ostante si realizza. Come
buon platonico Cicerone non poteva a meno di essere fermamente
convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou?
(juar^aag (Fed. 89 d.). Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli
scorgeva dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva
giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per lui una conquista
permanente» della civiltà, la ci¬ viltà stessa, la civiltà che non può
perire. Con tale forma di governo il suo spirito si era immedesi¬
mato ; essa faceva parte essenziale della sua co¬ scienza d uomo, formava
il cardine su cui poggiava tutta la sua vita spirituale ( 1 ). Pensare
che tale ( i ) Che tale stato d'animo fosse non solo “
cicero¬ niano „ ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’in¬
dignazione per la caduta di quella forma di governo si
90 formi potesse crollare e permanentemente scom-
parire, era come pensare che potesse precipitare tutto ciò che si è
sempre visto stabile, la terra, il sistema solare, ciò che è
l’incarnazione di un’e¬ terna legge della natura. Sempre gli uomini
quan- o si sono trovati in una fase di cangiamento analoga a
quella in cui si trovò Cicerone_e tanto più quanto più la loro
mente era fortemente razionale hanno emesso la medesima errata pre¬
visione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile, quindi non può
durare. ( 1 ) prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore
romano d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic
erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam perpetua
potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo audebat alium servitio
premere, cuius sibi successuri in honorem mutua forent subeunda fastidia;
nemini labor gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam
do- mmandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle
deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit msolentiam.
Quem invenias Hominem qui sponte deponat impenum et ducatus sui cedat
insigne, fiatqe volens nu- mero postremus ex primo ? „ {Hexameron,
XV). ... ^ osa & nota : lo stesso errore, la stessa
illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già si e rilevato,
in Demostene, il dramma della cui vita fa esattamente riscontro a quello
di Cicerone. Anche Demo- j. en „ e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca
prevedeva che la potenza di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec
~riv teXsut^v t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per
lui principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza costrutta
sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, _ ___
__ 9 1 Il dramma, terribile dramma, della vita di Ci¬ cerone,
è appunto questo. II dramma dell’uomo oìjy. laxiv, u> àvopEg
’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop- xoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv
j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig
àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno dieci anni
dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea. Ad ogni momento
troviamo questi pensieri nelle orazioni di Demostene, che perciò sono
cosi istruttive circa le illusioni in cui il « razionalismo » induce gli
uomini. Ma neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal- 1
illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato, Demostene
comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg, splendidamente vestito,
incoronato : con la morte dell’uomo, secondo lui, la costruzione
improvvisata ed effimera doveva certo crollare. E quando Alessandro si
fece avanti a sor¬ reggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille,
ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione
fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene, non poteva
reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura fantastico ottenuto
appunto da Alessandro. Gli uomini non possono rassegnarsi a credere che
una politica malvag-a possa ottenere un successo duraturo, che il male
trionfi permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia
illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti, 1
« razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal male che
sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure quell unico bene che vi si
potrebbe ricavare : quello cioè di essere definitivamente istrutti dell andamento
assoluta- mente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.
Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da
quelli che continuano a credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. <
Sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis
» (Lucr. V. I 1 30). 92 che con disperazione
vede rovinare intorno a sè senza possibilità di salvezza il mondo civile
di cui la sua più intima vita stessa era intessuta, il mondo “
razionale „, e trionfare ineluttabilmente, “ in causa impia, victoria
etiam foedior „ ( T)e Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male,
una forma di mondo umano “ impensabile „, “assurda,,. 11 dramma
della coscienza eticamente desta che vede con orrore ciò che essa giudica
aberrazione morale e iniquità acquistare ufficialmente il carat¬
tere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi a restare
definitivamente sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a
poco chiaro nella mente di Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento,
quando egli è ormai costretto a vedere che non c’è più speranza, a
domandarsi : “ quae potest spes esse in ea republica, in qua hominis
impotentissimi (violento) atque intemperantissimi armis oppressa
sunt omnia ? „ (Ad Div. XI); quando deve con¬ statare che “ tot tantìsque
rebus urgemur, nullam ut allevationem quisquam non stultissimus
sperare debeat „ (Ad Div. IX, I), il suo strazio non ha confini-
Ciò che già precedentemente, quando tale condizione di cose si delineava,
egli cominciava a sentire, civem mehercule non puto esse qui
temporibus his ridere possit „ (Ad. Div. II, 4), diventa ora il suo stato
d’animo permanente. La vita non ha più sorriso : “ hilaritas illa
nostra erepla mihi omnis est „ (ib. IX, II). Il suo grido
93 è quello del coro degli Spiriti nel Fausi (v. 1
608 e seg.). Du hast zerstòrt Die schòne
Welt Mit màchtiger Faust ; Sie stiirzt, sie zerfàllt
! Ein Halbgott hat sie zerschlagen ! Wir tragen
Die Triimmern ins Nichts hinuber Und kiagen Uber
die verlorne Schòne. Questo dramma strappa a Cicerone
espressioni di dolore profondamente dilacerante. E la sua
corrispondenza è forse la lettura più viva che l’an¬ tichità e
probabilmente la letteratura d’ogni tempo ci offra, appunto perchè, come
in nessun altro scrit¬ to, vi si scorge con l’immediata evidenza della
vita vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno per giorno
sotto i nostri occhi, come sotto quel dramma sanguini il cuore d’un uomo.
Certo anche la terribilità della sua rovina personale affligge gra¬
vemente Cicerone : “ natus enim ad agendum semper aliquid dignum
viro, nunc non modo a- gendi rationem nullam habeo, sed ne
cogitandi quidem „ (Ad Div. IV, 1 3) ; ed egli ha ragione
di deplorare di essere stato travolto proprio nel momento in cui
avrebbe potuto e dovuto, cogliendo il frutto dell’opera della sua vita,
toccare l’apice della sua carriera. “ Omnis me et industriae meae
fructus et fortunae perdidisse „ (ib. XI, V). “ Casu
nescio quo in ea tempora aetas nostra incidit, ut cum maxime
florere nos oporteret, tum vivere edam puderet „ (ib. V. I 5). Certo
anche la ro¬ vina che incombe sulla sua famiglia e specialmente
sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis una est prò omnibus
quod istam miseram patre, patrimonio, fortuna omni spoliatam
relinquam (Ad Att. XI, 9). Ma ciò che forma il crepacuore di
Cicerone non è la sua situazione personale, bensì il baratro in cui è
precipitato lo Stato.' “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est
carius (Ad Dio. II 15, XV, li). “ Ego enim is sum, qui nihil umquam
mea potius, quam meorum ci- vium causa fecerim „ (ib. V. 21 ). Ma ora ? “
Ego vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet, insanus, si,
quod opus est, servus existimor, si taceo, oppressus et captus, quo
dolore esse de¬ beo ? „ (Ad Att. IV, 6). Due sono sopratutto
le note in cui erompe 1 espressione di questo suo strazio. In primo
luogo, andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder più simili
cose: “ evolare cupio et aliquo pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec
facta audiam „ egli ripete con un tragico antico (ib. VII, 28, 30,
Ad Att. XVI, 13, XV, 11); “ ac mihi quidem iam pridem venit in mentem
bellum esso aliquo exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dice-
bantur, nec viderem nec audirem „ (Ad ‘Dio. IX, 2); “ longius etiam
cogitabam ab urbe discedere, cuius iam etiam nomen invitus audio „ (ib.
IV, I). 95 Tu mi sembravi pazzo (scrive
a Curio) quando abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che sei
“ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam beatus : quamquam quis,
qui aliquid sapiat, nunc esse beatus potest ? „ (Ad Db. VII, 28). E’
il desiderio che si fa strada persino nei suoi trat¬ tati, p. e.
nelle Tusculane, dove parlando di Da- marato. Io giustifica cosi : “ num
stulte anteposuit exilii libertatem domesticae servituti ? (V, § 1
09). O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in solitudine : “
nunc fugientes conspectum scelerato- rum, quibus omnia redundant, abdimus
nos, quam- tum licet, et saepe soli sumus „ (De Off. Ili, 3).
In secondo luogo, morire. “ Perire satius est, quam hos videre „
(Jd Db. Vili, 1 7) < Mortem] quam etiam beati contemnere debebamus,
prop- terea quod nullum sensum esset habitura (I), nunc (1)
Che cosa pensi intimamente Cicerone della vita futura, risulta, non già
dal quadro, avente scopi puramente estrinseci, che traccia nel Somnium
Scipionis. ma dalla sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e
due altri, (Ad Dw. VI, 3 e 21) ricordati più innanzi, basterà
citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo ^ or ,*. v erum finis
etiam doloris futurus sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di
Cicerone questo suo vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane (V.
I 1 7) : Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in Pro
Marcello (IX) c Q uo d (la fine) cum venit, omnis voluptas preterita prò
mhilo est, quia postea nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI §
171): «quid ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?
». 96 sic affecti, non modo contemnere
debeamus, sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > (ib. V. 15) ; non si sa < si aut hoc lucrum
est aut haec vita, superstitem reipublicae vivere > (ib. IX. 1
7) ; « nam mori millies praestitit quam haec pati > (Ad. AH. XIV, 9) ;
« eis conficior curis, ut ipsum quod maneam in vita, peccare me
exi- stimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur con- sciscerem
causa non visa est, cur optarem, multae causae > (ib. VII, 3). In uno
spirito, così pro¬ fondamente romano, cioè volto all’attività
pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spun¬ tare
questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi
sumus ? » (jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito
quin cogites > (Ad Div. II. 7). Cosi, pur nell'atto che prevede
la prossima caduta del cesarismo, dice : Allo stesso modo la
pensava Cesare, il quale nel discorso, riferito da Sallustio, da lui
tenuto in Senato circa la pena da darsi ai complici di Catilina, si
oppose alla pena di morte appunto perchè con questa cessa la coscienza
e quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra neque
curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va però notato che Cicerone dà
un’altra interpretazione a questo punto del discorso di Cesare. Cesare
cioè era contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a
diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed aut
necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum quietem esse » (In S.
Catilinam, IV, cap. IV. § 7.). 97 * id
spero vivis nobis fore ; quamquam tempus est nos de illa perpetua iam,
non de hac exigua vita cogitare » (Ad. Att. X, 8). E il pensiero
della morte come unico scampo e rifugio viene a gran¬ deggiargli
dinanzi in modo, che bene spesso lo vediamo insinuarsi anche nei suoi
scritti teorici : così, p. e., nel proemio del terzo libro del De
Oratore : « sed 11 tamen rei publicae casus secuti sunt, ut mihi non
erepta L. Crasso a dis immor- talibus vita, sed donata mors esse videatur
> (IH, 2); e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi ad mortem
tempestiva fuerunt, quam utinam potuis- sem obire ! nihil enim iam
acquirebatur, cumu¬ lata erant officia vitae, cum fortuna bella
restabant (I, 109). Morte per sè, morte per coloro che amiamo ;
questo soltanto è ciò che lo « status ipse nostrae civitatis » ci
costringe a desiderare : « cum beatissimi sint qui liberi non
susceperunt, minus autem miseri qui his temporibus amiserunt, quam
si eosdem, bona, aut denique ahqua republica, perdidissent... non,
mehercule, quemquam audivi hoc gravissimo, pestilentissimo anno
adolescentulum aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immorta-
libus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima conditione vitae
videretur > (Ad Div.V. 16). Ne solo nell animo di Cicerone il
trovarsi « in tantis tenebris et quasi parietinis rei publicae >
(ib. IV, 3) induceva il desiderio di sfuggire a questo sfacelo con la
morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella bellissima lettera
con cui G. Renai • Vita parallele di due filosofi
7 98 Servio Sulpicio cerca
di consolare Cicerone per la morte della figlia, 1 argomento principale
che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non pessime cum
iis esse actum, quibus sine dolore licitum est mortem cum vita commutare
„ e che Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum repu- blica
fuisse „ (Ad Dio. IV, 5) ; al che Cicerone dolorosamente risponde che
l’attività pubblica lo consolava dei dolori domestici, l’affettuosa
intimità con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora “ nec
eum dolorem quem a re publica capio do- mus iam consolari potest, nec
domesticum res pu¬ blica „ (ib. IV, 6). Ed anche in Catullo, il di¬
sgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum honores „, disgusto
che faceva gemere dal suo canto Cicerone, cosi ; “ o tempora ! fore cum
du- bitet Curtius consulatum petere ? „ (Ad Att. XII, 49, e circa
Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione alla morte (LII) : Quid
est, Catulle ? quid moraris emori ? Sella in curulei struma Nomus
sedet, Per consulatum peierat Vatinius ; Quid est,
Catulle ? Quid moraris emori ? * * * Donde
attinge Cicerone qualche conforto in questa immensa iattura ? Non dal
foro che egli (interessante confessione) dichiara di non aver mai
amato e nel quale del resto oggi non c’è più nulla 99
da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas, unde, etiam bonis
meis rebus, fugiebam : quid enim mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia
? „ (Jld Jltt. XII, 21). Era il momento in cui i vincitori della
violenta lotta politica, giravano per Roma baldanzosi ed allegri, e i
sostenitori dello Stato legale, battuti, erano melanconici : “ Mane
saluta¬ rne domi et bonos viros multos sed tristes (1), et hos
laetos victores, qui me quidem perofficiose et peramenter observant „ {Ad
Div. IX, 20). Due di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi
a prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con questo pretesto,
lo sorvegliavano per conto di Ce¬ sare. Anche queste lezioni recano a
Cicerone qual¬ che sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior mi¬
sura, egli ne ricava dal far udire, quando e come era possibile, qualche
parola di ammonimento. Così, pur avendo risoluto di non più parlare in
Senato, allorché sulla universale istanza di questo, Cesare
amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun passo per essere richiamato
e sembrava non de¬ siderarlo — e che fu, del resto, assassinato da
un suo impiegato nel momento in cui stava per par¬ tire alla volta
di Roma), Cicerone prende la pa- (0 La voce dei gaudenti
sfruttatori di situazioni im¬ morali rinfaccia sempre a coloro che le
condannano, come un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella
voce si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos
alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos assis ne feceris
» (Ep. 123, § 11). 100
rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche at¬ traverso i
ringraziamenti esporgli il parere più libero e ^coraggioso che forse mai
Cesare abbia sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1
ardue di significargli) hic exitus futurus fuit, ut devictis adversariis
rem publicam in eo statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne
tua divina virtus admirationis plus sit habitura quam glonae „.
(Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria,
del giudizio che da¬ ranno i posteri sulle tue azioni, saper
considerare ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei con¬
temporanei, ma con quelli di coloro che giudiche¬ ranno le cose a
distanza, nell’avvenire. Se tu non avrai ristabilito la vera legalità
nello Stato, tu sa¬ rai certo sempre ricordato, ma non con giudizio
concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur, sicut mter nos fuit,
magna dissensio, cum alii lau- dibus ad caelum res tuas gestas efferent,
alii for- tasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi belli
cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut illud fati fuisse
videatur, hoc consilii „ (ib. IX). E questo un nobilissimo
linguaggio da cittadino onesto e d’animo forte ; linguaggio che,
bisogna riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben più
vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed equanimità, “civili
animo,, (Svet,, Caes., 75) (1). (1) Anche Cicerone nella sua
corrispondenza talvolta constata che Cesare andava orientandosi a
mitezza. P. e.: 101 L intolleranza, 1
oppressione, 1 uso del potere per far tacere censure al detentore di
esso, e persino per impedire di rispondere agli attacchi, comincia
con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pol- lione (lo stesso, alla
nascita del cui figlio il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i
potenti e a prostituire poi il suo genio a colui che tra questi
occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli “ nam et
ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum
naturam videtur „ Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa
che accadde con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è
straor¬ dinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo
personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri, a diffondere
anche intorno il sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un
uomo dal cuore fondamental¬ mente malvagio nel suo più pieno e grandioso
trionfo, quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro
e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la
sensazione di poter a suo beneplacito tor¬ mentare, perseguitare, far
soffrire altri uomini. Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio
mette in bocca ad Emilio Lepido : “ Cuncta saevus iste Romulus, quasi
ab externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque con- suhs
et aliorum principum, quos fortuna belli consumpse- rat, satiatus : sed
tum crudelior, curri plerosque secundae res in miserationem ex ira
vertunt „ (Hist. Fragni.). Ra¬ ramente, si, ma però talvolta avviene che
un uomo, fa¬ vorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre
più bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali in¬
genio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala pate- fecit „ (Tac.,
Hist „ III, 49). 102
“Itimi posti, Ottavio, (I) dedicò la sconciamente cortigiana e
piagg.atr.ee Egloga IV) nell’elegante epigramma, riportato da Macrobio
(Satura II 4) che non si può più scrivere dove in risposti si può
proscrivere : temporibus triumviralibus PoIIio cuna fescenmnos ,n eum
Augustus scripsisset, ait: g taceo ; non est emm facile in eum
scribere qui potest proscribere (2) Più ampio conforto ricavò
Cicerone dagli studi, bbene una volta fuggevolmente accenni che
forse senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale! exculto
emm animo nihil agreste, nihil inhuma- (I) Si vegga nel libro diV.
Alfieri D»/ p • , » ■ I ■ J1 '> e la dimostrazione che
questa viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte
divTna e ha per base il vero robusto pensare e sentire tm-,1 niente
manca in Virgilio „ (L. II C VI) “ V -esse avuto nell’animo quella
P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso e quindi assai
maggiore il suo libro „ (L. II C VI • vegga anche il C. Vili) E il Canti
1 . Ci ■ j ;• , C S ‘ uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D < ’ . .■: Vlr g‘lio si lascia traricchire • anche Boissier, Lopposition sous
tes Césars p.
I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a
memor ia, la seguente versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ ™ 103 num est „. (Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto
dallo
studio della filosofìa, la passione per la eguale '’quo- tidie ita ingravescit, credo et
aetatis maturitate ad prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia levare animum molestiis possit. „
(Ad Dio. IV, 4). Le sue lettere di questo periodo sono piene delle
sue attestazioni che non vive se non negli studi filosofici e non trae
conforto che da essi (ib IV 3 ; VI, 12 ; IX, 26 ; XIII, 28). Ad
aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero dalle
calamita dello Stato, s aggiunge la sua atti¬ vità di scrittore. Sono
questi gli anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. “ Nisi
mihi hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem
me non haberem „ (Jld Alt. XIII, 9) Equidem credibile non est, quantum
scribam die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi „ (ib. XIII,
26). “ Nullo enim alio modo a miseria quasi aberrare possum „ (ib. XIII,
45). Vero è che le afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza
dell’avve¬ nire, derivanti dal pessimo andamento degli affari
pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello studio : Utinam quietis
temporibus, atque aliquo, si non bono, at saltem certo statu civitatis,
haec inter nos studia exercere possemus ! „ Però, ap¬ punto in tali
circostanze, “ sine his cur vivere ve- limus ? „ (Ad Dio. IX, 8). Così nascono
i trat¬ tati di filosofia di Cicerone, circa i quali si cita sempre
per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “ sono copie „ cascatagli
dalla penna scrivendo al 104 suo amico e
certo come convenzionale espressioni t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz
' on e di lui (Ad X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di affrontare tale fra
e con le sue numerose e consuete esternaziom dalle quali risulta che ben
altra era la stima ch’egli off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “
Res difficiles „ (ib. XII 38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle
Jìc- G Q rto -5 C ° nVInt ,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud ,
cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)- le chiama “ argutolos
libros „ ^ XIli.Y 8 ,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ”
r/4. XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve -
hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib ?AJ ÀI XvT i ,
soddisfa Attico bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M AA-
( ■’ 8 ^
eSpnme anehe ,a sua Propria soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle pbcent, maHem tibi dice dei libri,
perduti d!
Giona (Ad Ali XVI, 2). In particolare, i| e sua opere filosofiche le
Tusculane, che facilmente si prendono per un mero esercizio
letterario, sono
invece un libro profondamente vissuto, rampollato da a tragica realtà di vita i„ cui Cicerone" si di¬ batteva e che come tale, come
idoneo cioè a for¬ nir conforto e forza in quelle
circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se Cicerone gl, scrive : “ quod prima disputatio Tu- scu ana te
confirmat, sane gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut
paratius ,, (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in
105 ogni epoca, nelle medesime circostanze da
cui esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato scritto :
“die Eroica der romischen Philosophie „ come con calzante espressione lo
definisce lo Zie- linski ( I ).— Ma il supremo conforto di Cicerone
è un altro. # * * Esso consiste non
tanto nell’ immergersi nella filosofia come un’occupazione mentale
opportuna a distornare il pensiero da quello che poi Lucano, il
grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri datum „ (II, 1),
quanto nel rivivere in sè i con¬ cetti della filosofia come atti a
fornire forza d'a¬ nimo per affrontare e sopportare le sciagure de¬
rivanti da una situazione politica e sociale particolar¬ mente triste :
filosofia cioè non come “ ostenta- tionem scientiae, sed legem vitae „ (
Tusc. II, 1 1). Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi si
servì Marco Aurelio (VII, 2) zi 5 óypaia (2). (1) O. c., p. 87. —
Giustissimamente il Moricca: “Sa¬ remmo forse anche noi tentati di
ritenere l’operetta tul¬ liana un’amplificazione rettorica, se non
pensassimo che quelle parole... furono scritte per una generazione
d’uo¬ mini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore
„. “ Un libro di morale dell’epoca di Cicerone è da con¬
siderarsi non come una fredda e vuota argomentazione rettorica bensi come
un’eco squillante delle voci del pas¬ sato, che sale dalle tombe e vince
i secoli „ (O. c. p. XXIX). (2) Secondo il testo di Trannoy (* Les
Belles Lettres »). 106 bisogno
di vivere tali precetti A' i ,• . ventar succo e sangue e il f T l d ‘
faHl dl gere a ciò, Cicerone Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '
maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na consolazione a se
stesso “ D • Un ^ ro dl profecto anfe me TeZ. ^Z 'T *** consolarer
; que m librum jf . me per i‘ tera s serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3
" 1 S ‘,^'P' esso talem ; totos die® U c °nsolationem
quid, sed t n^sper 1 C ; ,b ° 5 T“ qU ° proflci ™ XII 14) p t,sper
im P e dior, relaxor „ (Ad 4tt « 'a ll'Tlzr ™ di r'*
d«„e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó
et,r°d servire 4 stoicismo, di cui poi in ,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,,
° e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi vid.o
Prisco fornirono ° Peto ed EI ’ e che successivamente si anc ° Ta p
‘ù insigni, .1 hiosofo :z :L: r , ai ^ cristiano, il
sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f
« molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi
coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX .(I) Plauto, fatto morire
da Neron» • mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei
3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’
107 O Socrates et socratici viri ! (esclama
Cice¬ rone, qui, veramente riguardo a traversie di ca¬ rattere
privato). Numquam vobis gratiam referam Un immortales quam m ihi ista prò
nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9). Attico (egli scrive al suo liberto e se¬
gretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sem¬ pre lo stesso, “nec
videt quibus presidii philosophiae septus sim „ (Ad Div. XVI, 23). La
disperata e rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego non ferrem
nisi me in philosophiae portum con- tulissem „ (ib. VII, 30). “ Equidem
et haec et omnia quae homini accidere possunt sic fero ut
philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non modo ab sollecitudine
abducit, sed etiam con- tra omnes fortunae impetus armat, tibique
idem censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid- quam m malis
numerandum „ (Ad Di\>. XII, 23) E noi vediamo veramente questo
pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare il
proprio interesse da ogni cosa esteriore per con¬ centrarlo unicamente
nel nostro comportamento, e m ciò trovare appagamento e pace (questo,
come si può chiamare, ottimismo della disperazione, che e il solo
che resta nei momenti di maggiormente infelici condizioni esterne, perchè
vuole appunto, riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare
an- Demetrio (ib. XVI, 35): e Seneca dice di Cano. dato al
supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni Losophus suus „ (De Tranq.
An. XIV, 9). man- phi- i
108 cora una tavola di salvezza), vediamo
questo pen¬ siero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più
chiaro agli occhi di Cicerone e proprio come po¬ stogli innanzi delle
circostanze di fatto. “ Sic enim sentio, id demum, aut potius id solum
esse mi- serum quod turpe est „ (Ad Att. Vili, 8 e v. anche X, 4).
“ Video philosophis placuisse iis qui mihi soli videntur vim virtutis
tenere, nihil esse sapientis praestare nisi culpam „ (Jld Dio. IX,
19). Cogliamo il procedere di questa appassionante tra¬ gedia, per
cui un uomo di indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli
spettacoli naturali, del- I arte, della letteratura, delle relazioni
sociali, del- I attività pubblica e anche della ricchezza, è, a
poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro se stesso e costretto
a vedere e cercare la feli¬ cita soltanto nel proprio retto comportarsi.
Le meditazioni filosofiche (scrive a Varrone) ci re¬ cano ora
maggior frutto “ sive quia nulla nunc in re alia acquiescimus, sive quod
gravitas morbi tacit, ut medicmae egeamus eaque nunc appareat,
cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad r i0 ’ IX> 3 \
Naturalmente con questo alto sen¬ timento a cui Cicerone è ora pervenuto,
il pen¬ siero della morte, qui fonte anchesso di consola¬ zione e
forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc vero, eversis omnibus rebus, una
ratio videtur, quicquid e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium
rerum mors sit extremum... magna enim consolatio est cum recordere
etiamsi secus acciderit te tamen recta 109
vereque sensisse „ (Ad Div. VI, 21). “ Nec enim dum ero angar alia re,
cum omni vacem culpa ; et si non ero, sensu omnino carebo „ (ib. VI,
3) Il crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen ita viximus et
id aetatis iam sumus, ut omnia quae non nostra culpa nobis accident,
fortiter ferre de- beamus „ (Jld Div. VI, 20). E tali
pensieri, tali alti ed austeri conforti ed incoraggiamenti, i grandi
spiriti di quel periodo si scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto
il dolore per la catastrofe dello Stato era largamente sentito, sia
della estensione che a lenimento di questo dolore siffatto ordine di
pensieri allora aveva preso. Era la genuina visuale stoica a cui i
nefasti avvenimenti politici aveva tutti guidati: “ non aliun- do
pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vi- vendi suspensas habere
rationes „ (Ad Div. V. 13). Se Cicerone ad ogni momento ripete di
sè quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, a- nimo forti feram „
(Ad Div. XII, 1 1 ), nec esse ullum magnum malum praeter culpam „
(ib. VI, 4) ; “ sed tamen vacare culpa magnum est solatium „ (ib.
VII, 3) ; se per sè pensa “ for¬ tunato, quam existimo levem et
imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi
oportere „ (ib. IX. 16) ; se l’esperienza di quella dolorosissima fase lo
fa approdare alla definitiva con¬ clusione che “ in omni vita sua quemque
a recta conscientia transversum unguem non oportet di¬ scedere „
(Ad Att. XIII, 20) — queste sono 110
amici, « a Lucccio7“'“ 8 “ 1 «* f'umanas contemnentem et opule C
on^t r 7 "* c„ g „„ vi „ {Ad0 7 casu, et deiicto h
Z ,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo- Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; ■" “ÌJ—* digni et Ss TstrrdublteTo; ^ ea maxime conducant ! P ° SSimus ’ V. 19 ) : e a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s '™" (A. praesertim quae absit a ancora a Torauato • “ ■ P , V1 ’ 2 )> e delio Stato)
vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina teperiri, praete, i|| am q “ a
TtaMa"e“ “ P °7 “r: e®, atque noTZIt,» questi
sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e
oh ■ - ' 7 ? scrive Sulpicio in morte di Tullia)
Cicerón ^ 1 ^
' et
eum aui a Ine ' '-' ,cer °nem esse 9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et
dare con- Ili silium... quae alns praecipere
soles, ea tute tibi subirne, atque apud animum propone; vidimus ali- quotiens secundam pulcherrime te
ferre fortunam fac ahquando intelligamus adversam quoque té aeque
ferre posse (ib. IV, 3). Dalle lettere di Cicerone si potrebbe così
ri¬ cavare un antologia di massime di vita stoica da servire
efficacemente in ogni tempo al ripresen- arsi di analoghe circostanze (e
tale è forse sopra¬ tutto la ragione per cui queste lettere suscitarono
in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di no¬ bili animi), pm
efficacemente ancora che non i suoi trattati, come le Tusculane e il De
Officiis, ove egli dava sistemazione teorica alle medesime idee 1
qual, però appunto perchè non contengono se' non quelle .dee morali che,
suscitate in Cicerone dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua
cor¬ rispondenza, ci si ridimostrano, non mere eserci¬ tazioni
letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla vita vera e scritti col
sangue che le ferite inferte da questa facevano stillare dal suo cuore. «
Her- zenphilosophen > chiama giustamente Cicerone lo
* * * Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno Au¬
gusto essendosi accorto che un suo nipote scor¬ gendolo nascondeva
impaurito un libro sotto la (1)0. dt., p. 299.
112 oga, glielo prese, e visto che era di Cicerone ne
lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo • uomo dotto e amante
della patria, Xó r ,o : *vl' ?. «rat, io T ,o £ *«l Tardo (come al
so’ hto) riconoscimento del meriti di colui che egli ave¬ va
raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma Cicerone e qualcosa di
più. Spirito altissimo e st'anzetn m n “'T'? 1 "”'’ da »! le
circo- ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres. sero, m
ragione di tale sua sensibilità, una soma d dolore enorme, egli
seppe da questa esperienza d, dolore trarre un-espenenza morale di
elevazione e di purificazione del dolore stesso nel fuoco della
filosofia intesa come via, di cui „„„ molti ,„ e b dTrendl' ' aPaC ''
QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende appassionatamente
attraente la sua grande figura alla quale veramenle-secondo un
penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e
Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava Sr p
a,t a , a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad - Sed Roma
parentem, Roma patrem patriae Ciceronem libera dixit.
- 1 INDICE Platone
Cicerone 9 49 Ultime
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un [Mi|an0i CogliariJ. f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna
1 Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto] nSTT, d
' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. Guida], Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a ^
^ Pagine di Diario : Scheggio [Rieti, Biblioteca
Editr.J, Cicute [Todi, Atanórj. Impronte [Genova, Libt. Ed.
Italia] Sguardi [Roma. La Laziale], Scolli [Torino, Montes,
1934], Imminenti : Critica deir Amore e del
Lavoro [Catania. Critica della Morale [Catania, “ Etna ..
" Etna J, < Cicerone – Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum,
signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cicerone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ciliberto: l’implicatura
conversazionale del principe -- il suo principato– filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Cilberto; he
philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’
with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much –
but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an
implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the
‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si
laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale
Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze.
Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e
Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi:
il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica,
no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile,
Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi
della democrazia rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia
di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari,
De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri);
“Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel
Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del
tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura);
“Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il
dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze,
Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I
contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il
libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” –
etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento,
Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale,
Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della
Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism,
neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari,
Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele
Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno. Preludio al Machiavelli *
Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0 annunciato da Imola — dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo
? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 \l Pnncipe di
Machiavelli, al libro che io vorrei cHamare Vade ZldlZtfìl U °™° dt
g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà Slfia ’ a . 8glU f? e ? e
cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio- ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H °
rilett ° attentame nte il Principe loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S ,
e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem - po e voionta per leggere tutto
ciò che si è scritto in Italia e nel Ma chiavelli.Ho voluto mettere il
minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e
stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non .8 uastare la di contatto
diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le
mie osservazioni di n0mmi , e f° Se ’ ^ 3 SU f C k mia pratica di
governo. Quella che mi )t0 ,\ le Z 8e ™ no « f q uind i una fredda
dissertazione scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto un dramma,
se può considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico il
tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^
cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa
c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli del MachiaveUi potrebbero
ave- * Da “Gerarchia”, . I ,i . •>\fruzione del regime i. iniit t|ualsiasi utilità anche per i
reggitori degli Stati moderni? II tl.iic del sistema politico del
Principe è circoscritto all’epoca in > 111 1 11 scritto il
volume, quindi necessariamente limitato e in parte > I.luco, o
non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? I i inin
tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina • li Machiavelli
è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori
della nostra vita sono grandemente cangiati, non si h« i(io vcrificate
profonde varia^ioni nello spirito degli individui e dei itopoli.
>. ln politica è l’arte di governare gli uomini, cioè di orientare,
uti- li znre, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi
in < nin di scopi d’ordine generale che trascendono quasi sempre
la i'iin individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la
poli- lioi, non v’è dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte,
è l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel
siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli
uomi- nl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo “uomini”
dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito “sotto la specie della eternità”?
Mi pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
de- gli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.
Orbene, t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura
del Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti
della nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno
Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra poco
documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti. (,li
uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle cose chc
al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. A1
capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: IVrché
delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili
.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro
bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi, .piando el bisogno è discosto, ma quando
ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel l>rincipe che si è tutto
fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa- rn/ioni,
rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia
mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo
di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che
non abbandona mai. Scritti politici di Benito Mussolini
Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie
quanto segue: Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia loro
tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte
si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione ò pronta; perche
ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può
risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al capitolo
terzo dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che ragionano del
vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a
chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti
gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità
dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini
non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà
abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di
confusione e di disordine. Le citazioni potrebbero
continuare, ma non è necessario. I brani riportati sono sufficienti per
dimostrare cbe il giudizio negativo su- gli uomini, non è incidentale, ma
fondamentale nello spirito di Ma- chiavelli. È in tutte le sue opere.
Rappresenta una meritata e scon- solata convinzione. Di questo punto
iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i
successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tem- po, ai fiorentini, toscani, italiani che
vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza
limitazione di spazio e di tem- P 0 * pi tempo ne e passato, ma se mi
fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in
alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse,
aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe.
L’antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di
Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo,
cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Prin- cipe deve intendersi come Stato. Nel concetto
di Machiavelli il Prin- cipe è lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, aH’atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizza- zione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano
il proprio io sull altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di
ri- volta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII
e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base
di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere
come hii.i enianazione della
libera volontà del popolo. C’è una finzione .• tma illusione di piu.
Prima di tutto il popolo non fu mai definito. I una entità
meramente astratta, come entità politica. Non si sa iltivc cominci
esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano •ipplicato al popolo
è una tragica burla. II popolo tutto al piu, de- lcga, ma non può certo
esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappre- M-ntativi appartengono più
alla meccanica che alla morale. Anche nci paesi dove questi meccanismi
sono in più alto uso da secoli e necoli, giungono ore solenni in cui non
si domanda piu nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strap- pnno le corone cartacee della sovranità — buone per
i tempi nor- mali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una
Rivoluzione o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. A1
popolo non rcsta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete
che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata
solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di
ordinaria ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
refe- rrndum ? II referendum va benissimo quando si tratta di
scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio,
ma quan- do gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i
Go- vcrni ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio
del popolo stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali ci
sono stati confezionati dalla Enciclopedia — che peccava, attraverso
Rous- seau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio
fra forza organizzata dello Stato e il frammentarismo dei singoli e
dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del
mio oramai famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scriveva
nel Principe , pagina 32: Di qui nacque che tutti i profeti
armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei
popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è difficile
fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in
modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza.
Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente
le loro costituzioni, se fussino stati disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO
SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. "PRELUDIO" DI MUSSOLINI POI
"FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS POI UN ARTICOLO SU
MACHIAVELLI DI FUSARO UN LINK CON UN ARTICOLO -- Pellegrino/Prof.ssa
M.Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE "IL PRINCIPE"
PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa
con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie
di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel
periodo (1789-1790) del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento
riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M.
Galanti, autore di un "Elogio di Niccolò Machiavelli". Galanti faceva
propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata
consacrata nell'articolo "machiavelisme"
dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel
"Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai
re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il
libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi
in "Dei sepolcri". Contro questa interpretazione Vincenzo
Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica,
mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una
monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i
partiti. Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi
machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo
stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che
doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco. In Italia
nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna
dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua "esaltazione"
come profeta della riscossa nazionale. Il superamento di tali posizioni
si possono considerare le pagine appassionate di F. De Sanctis(saggio che fra
breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto
(pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè). A De
Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma
come "fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e
impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di
una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in terra
la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi". Poi anche per Benedetto
Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come
attività autonoma dello spirito. Entrammo poi nel
"Ventennio" fascista e qui una facile strumentalizzazione di
Machiavelli e del suo mito fu fatta da Benito Mussolini che prima un suo
articolo - nel '23 - lo scrisse su "Gerarchia", poi nel '24 - curò la
prefazione (che chiamò "PRELUDIO") di una nuova edizione del Principe
(adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra - del De
Sanctis). In queste pagine su Machiavelli, è piuttosto singolare che per
fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare
Mussolini. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio
l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In
queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta
l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del popolo a un
nuovo fascismo !! (prima fin dal 1883 ve n'erano stati molti di
"Fasci", creati dai socialisti violenti, che incitavano a ribellarsi
con i vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare
libretto (che possediamo) lo riportiamo integralmente, perchè all'interno
Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche): sulla dubbia
validità del potere esercitato dalla "sovranità popolare", e sulla
stessa utopica "democrazia popolare". Per Mussolini il Principe
del suo tempo è lo Stato. E lo Stato è il Principe, cioè - nei tempi moderni -
(che dopo aver preso il potere nel '22 - doveva essere Lui e solo Lui.
(Siamo lontani da quando (1905) - prima come anarchico poi come socialista -
lui esaltava il proletariato come futura classe dominante, e faceva l'apologia
della "rivoluzione violenta" indicata dalla dottrina di Hengel che
presentava nella sua teoria la "morte dello Stato" - E nell'organizzare
gli scioperi, lui era un vero e proprio "fascista socialista violento
" (così chiamavano - abbiamo detto sopra - fin dai primi fasci del 1883 i
socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi (1883-1919) sono QUI in
Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui
era un "violento socialista", e andò più volte anche in galera come
sovversivo. Poi improvvisamente nel '15 lui diventa "interventista"
nei confronti dei suoi ex socialisti che come "anti-interventisti" si
opponevano a quella guerra che dicevano voluta dalla più becera Borghesia con
nessun vataggio per il popolo analfabeta chiamato solo a dare il suo
sangue. Seguì la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex
socialisti, - uscendo dal giornale "Avanti" che dirigeva - e fu poi
perfino cacciato dal Partito Socialista. Poi durante e dopo la guerra -
soprattutto per come finì il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i suoi
"fasci", cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i
lavoratori e anche una certa (nuova) borghesia, che ora guardavano a lui che
mirava a un "Socialismo Sociale" e non a quell' eterno conflitto
sviluppatisi fra operai e industriali (soprattutto nelle sciagurate
"Settimane Rosse" del '20 e '21. Dove o per i loro scioperi, o per le
serrate degli industriali, a pagare erano gli operai sempre più a spasso,
ovviamente senza stipendi e a fare la fame. "La sovranità, al popolo
- affermava Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua
(es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio).
Mentre quando gli interessi supremi sono in gioco, anche i governi
ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La
sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo tutto al più
delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna". Mussolini inizia a
guardare proprio alla "forza" (che prima era usata dagli
inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti
(sorti nel '21). Ci vediamo in questo suo Preludio su Machivelli un
opportunistico utilizzo di Mussolini del Principe; e come detto sopra,
appoggiandosi pure al saggio di De Sanctis. Abbiamo detto utilizzo,
perchè Machiavelli è stato l'uomo che aveva intuito una nuova forma di
filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella
collettività, nello Stato, il quale così diventa uno Stato "etico"; è
evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia
del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello Stato,
concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato
stesso (es. "usare la forza"), dando origine a quel mito del
"machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da
altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità
del singolo uomo. Insomma Mussolini fece del Principe il suo vademecum.
Sbagliando però. La sua storia fu poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel
fidarsi troppo di quella gente che lo circondava - finì molto male e sbagliò
proprio sul popolo (che alcune volte nella storia con la sua vituperata
irrazionalità "fa quello che vuole"). E suona dunque privo d’effetto
quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli: "quando non
credono più, bisogna ricorrere alla forza". Era questo sì
l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi sarà
perdente. Perchè la sua forza iniziò a farla con i suoi imbelli gerarchi e a
dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami,
dottrine, vangeli (oltre ...le pagliacciate di Starace). Lui - in questo
Preludio - citava due frasi di Machiavelli, ma non ne seppe coglierne
l'essenza. "Cum parole non si mantengono li Stati" "Quel
Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo, rovina".
(che profezia!!!) E Mussolini nudo si ritrovò prima in quel famoso 25 luglio. (
Lui si aspettava una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto amara....
"Ma come - disse preoccupato - mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi
(di assoluta provata fede) ?" - "Si eccellenza, tutti uccel di bosco
- anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a
sua disposizione". Lo aveva abbandonato perfino suo genero: Ciano. Ma poi
- perso per strada anche gli altri "amici", andò ancora peggio il 27
aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel
fare "quello che voleva" lo appese a un distributore a Piazzale
Loreto. "Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti
umani che non hanno una razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande
storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni. E sono del resto
queste che ci distinguono dagli animali e soprattutto dal capo branco che -
illudendosi - li vorrebbe guidare come belanti pecore". "I meccanismi
politico-sociali ed economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli
delle formiche, perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le
formiche nè gli uomini. "L'individuo umano ha sempre rappresentato
un costoso investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al
potente di turno disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di
altro materiale per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio
che si crede onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della
natura stessa dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le
funzioni limitate della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non
sara' neppure una buona formica". E ancora ("non sempre
nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile"). Questo non
è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna
(Teorie dell'informazione): Norbert Wiener - Mussolini usò
tante parole. "Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse
accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche
il grande Napoleone: "qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse
accompagnata la civil prudenza machiavellica" Paradossalmente
proprio su Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui
fallì miseramente perchè aveva creduto troppo negli uomini". Solo
lui credeva di aver capito gli uomini, credendolo "suo il popolo":
"devono solo Credere, Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse
il consenso, c'è la forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più
duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o
accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al
Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che
un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte?
Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A
Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso. *
ecco qui sotto il "preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di
F. De Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla
vita, le opere e il contesto storico di Machiavelli. Mussolini:
" Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di
Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum
parole non si mantengono li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò
senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei
chiamarlo un "Commento dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al
libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo". Debbo
inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro
ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente
il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo
e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su
Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi
o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la
presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue
e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di
governo. Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda
dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se
può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di
gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.
Non dirò nulla di nuovo. La domanda si pone: A quattro secoli di distanza
che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero
avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il
valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu
scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é
invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a
queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di
quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente
cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli
individui e dei popoli. Se la politica é l'arte di governare gli uomini,
cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro
interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la
vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non
v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna
partire. Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli?
Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E
dicendo «uomini » dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli
uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi
contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per
dirla in gergo acquisito "sotto la specie della eternità" ? Mi
pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica
machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente
stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli
italiani in particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche
da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli
nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione
di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore
degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro
aspetti più negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così
si esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che
siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita,
i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si
appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato
sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini
hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia
temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere
li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne
gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si
dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse
loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione
é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non
può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".
E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che
ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario
a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli
uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo
loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai
nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine ». Le
citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono
sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è
incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue
opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto
iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi
sviluppi del pensiero di Machiavelli. E' anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a
quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo
fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo
é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo,
pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel
concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente.
Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la
guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il
proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta
potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato
di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del
popolo. C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo
non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano
applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non
può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi
meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui
non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi
normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace
o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita
graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe
sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata
tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione. Vi immaginate
voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si
tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del
villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i
governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo
stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati
dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso
incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e
frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente
consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente
mai. Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e
consenso" (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina
32: "Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati
ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una
cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere
ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per
forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati".
POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU
"GERARCHIA" MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO "FORZA E CONSENSO"
E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI
Mussolini, da Gerarchia. Forza e consenso. Certo liberalismo italiano,
che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi,
rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso,
come quest'ultimo, crede di possedere "scientificamente" una verità
indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo.
Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in
tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora
la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui
vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del
tempo, del luogo, dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno
fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e
il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci
sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità
alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto
che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo,
cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il liberalismo?
Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una pratica di
abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come mezzo deve
essere controllato e dominato. Qui cade il discorso della
"forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia
vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e
rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai
stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia
in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun
governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque
soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi
della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti.
Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre
invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario
quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante,
non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il
fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque,
una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è
già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul
corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà". Benito Mussolini, da
Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la
nuova edizione de "IL PRINCIPE" Testo integrale originale (che è
comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE
SANCTIS: "Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in
luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere
dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto,
dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il
secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano
ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una
fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de'
Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite
e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e
beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel
Berni. Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario
delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a
Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e
nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende,
esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini
e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto
il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici. In quegli uffici e in
quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle
pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica
Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che
l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o
gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a
Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi
servigi e trarlo di ozio e di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato
dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli
che il nome. Di lui fu scritto: "Tanto nomini nullum par
elogium". I suoi Decennali, arida cronaca delle « fatiche d'Italia
di dieci anni », scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro,
sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli
dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti
carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono
lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra
il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il
verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni
sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di
un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca
l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c
è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico
Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue
e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io
spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso
core; io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non
par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa
mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e ardo, e paura ho
di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle
cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto?
Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento
Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli
o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la
chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la
scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe
pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si
mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite,
nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi
personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al
tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici
dello stile; ciò che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei
Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle
Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria
di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai'
periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito
incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana
in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini
e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo
generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a
Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro,
e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli
eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore
della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più
acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo
strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione,
un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma
un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità
della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più
esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già
vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe
oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta,
le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il
correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della
sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi
artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai
mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua
fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni
degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno
battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora
indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte
le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore
è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che
questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il
fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato
"machiavellismo" questa dottrina. Molte difese si sono fatte di
questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella
intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria. Ed è
anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica,
oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i
fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la
coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità,
dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento.
In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione
della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le
passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in
solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di
staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con
l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le
Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi.
Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e
d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.
Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa;
ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti
con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere,
tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso
di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti
italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de'
Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano
attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli
dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con
la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era
inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani.
Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo
sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la
più prospera salute. Quello che oggi diciamo « decadenza » egli disse «
corruttela », e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la
corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La
forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del
linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di
Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in
tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta
come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza,
accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la
corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di
quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione
Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale
tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale
non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il
pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era
armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del
Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun
italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione
della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei
baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita
seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e
agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica. Rifare
il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una
ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola,
ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile
alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a'
loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale
italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era
non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza,
vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di
ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua
demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre
concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo,
de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche
nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del
medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del
linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile
la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa
razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è pura
buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione
c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua
negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo,
ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo
spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio
sociale e politico. Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte,
non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in
quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si
può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende
Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in
mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione. Non è
possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea
fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è
attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della
vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la
verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che
deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il
purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da
questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la
letteratura del Duecento e del Trecento. Il simbolismo e lo scolasticismo
sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica:
Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro
spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane,
che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato,
parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma
cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del
peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme
teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della
Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c'
era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in
questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa
indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel
tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni
filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche.
E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita
pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando
vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti
avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della
natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e
prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia
estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica
del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad
uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue
attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non
è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo
e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo,
rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua
serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le
opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del
Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la
contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però
che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio
evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' « essere » o, com'egli
dice, alla verità « effettuale ». Subordinare il mondo dell'immaginazione, come
religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli
elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo,
la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il
concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio:
l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due «
Soli » stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di
contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio
papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e
perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù
Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo.
E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo. C'era ancora il
papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro
potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i
gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la
prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e
svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale,
nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
La «patria» del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua
virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti
nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il
fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il
Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del
medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare
davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano
"Stati" o "Nazioni". Già Lorenzo, mosso dallo stesso
pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l' « equilibrio
» tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire
l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione
di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il
concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è
tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»;
nell'utopia del Machiavelli è la « patria », nazione autonoma e indipendente.
La « patria » del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e
alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo,
e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era
lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime
nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formule
volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad
ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la « patria
», ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema
lex». Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo
essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di
pochi, avevi la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga
de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel
codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso:
era lo strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola
generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il
dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti
concorrevano più o meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano:
ciò dicevasi "repubblica". E dicevasi "principato" dove uno
comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il
concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza
dello Stato. Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui
trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate
dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la
sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si
porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora
nello Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere
senza una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è
solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli
stranieri, ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha
diminuita nel popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una
religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della
religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento
politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la
clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto
che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come
istrumenti ma come ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della
religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di
rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e
non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale
schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste
dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta
invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e 'una esagerazione portava
l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e
l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso,
sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel
Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle
repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E il fondamento de'
principati è la forza, o la conquista legittima assicurata dal buon governo. Un
po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i
popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi. Stabilito il centro della
vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le
virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno « disarmato il cielo ed
effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a « sopportare le ingiurie
che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est ». Il cattolicesimo,
male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli
attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del
corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e
a fondare la libertà e l'indipendenza della patria. La virtù è da lui
intesa nel senso romano, e significa « forza », « energia », che renda gli
uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani
manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosì: manca
l'educazione o la disciplina o, come egli dice, « i buoni ordini e le buone
armi », che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria.
«Patria», « virtù », « gloria », sono le tre parole sacre, la triplice base di
questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le
nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi
perduti, «numerus fruges consumere nati». E parimente ci sono nazioni oziose e
vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono
quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come dicevasi allora, nel
« genere umano », come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le
nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma
il carattere o la forza morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la
loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella
coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani
e' passa ad altre nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o
casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e
perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la «
forza delle cose », determinata dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo
spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.
Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma
concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe
in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini. La politica
o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle
leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e
nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo.
Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a'
suoi fini. La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque
accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella
qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in tutto logore,
esse muoiono. E a governare, quelli che stanno solo a fare i leoni, non se ne
intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè l'intelligenza, il
calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati. Come gl'individui,
così le nazioni hanno legami tra loro, diritti e doveri. E come c è un diritto
privato, così c è un diritto pubblico o diritto delle genti, o, come dicesi
oggi, diritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi. Le nazioni
muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane; passa da una
nazione a un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del
genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la
storia del mondo, anch'essa fatale o logica, determinata nel suo corso dalle
leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia
dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto « filosofia
della storia ». Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non
c è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza
segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la
politica e la storia. Questi concetti non sono nuovi. I concetti
filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui
dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche
realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi
soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai
contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in
tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel
medio evo: anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma
provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e
Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della
repubblica « miracoli della provvidenza », come preparazione all'impero: dove
per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se
alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla virtù. Di lui è questo
motto profondo: « I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese ». Il classicismo dunque era la
semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze.
Sotto al classicismo di Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia
è c lassica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del
Machiavelli c' è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira
Roma, quando biasima i suoi tempi, dove « non è cosa alcuna che gli ricomperi di
ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di religione,
non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura
». Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare
quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte
sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la
nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un
romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci
troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo
dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso
dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E'
in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de'
tempi moderni. Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa,
morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione,
è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la
caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge
l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo,
le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla
quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua,
la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già
una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione
dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se
biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso
l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è la vita
contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la vita
attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più simili
agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O, per dir
meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si rinnova
pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non
combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito », nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali,
sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni
generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo
come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del
sillogismo hai la «serie », cioè a dire concatenazione di fatti, che sono
insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di
Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu
necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una
magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con
loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti
sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una
doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro princìpi », o quell'ironia de' «
profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e del male si
affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli ». Di queste
sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove
hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come
esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina,
ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la
forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era
una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua
«maggiore» e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi «dimostrazione », se la
materia era intellettuale, o « descrizione », se la materia era di puri fatti.
Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive
e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo
uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo
nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto
perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è
tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la
cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o
materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o
bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è
inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e
perciò del sapere, è il « Nosce te ipsum », la conoscenza del mondo nella sua
realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare
sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento
astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo
motto è: « Nil admirari ». Non si meraviglia e non si appassiona, perchè
comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la
cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni,
le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come
ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta:
non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di
proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e
tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis », di un
uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno.
Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in
Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli
rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno
bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di
cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con
belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua
semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti
delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e
gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino
latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La prosa del
Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi
abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del
Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui
espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di
congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione
interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e
scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo
vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a
Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che
qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti
riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel
tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la
principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche
l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza
della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi « forma letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio
compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose
rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della
prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto
uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere,
ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci
riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui
tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce
caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola.
Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con
lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la
cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò
naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di
dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è
chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera
di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal
medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora,
di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il
marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le
impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei
Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento;
e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in
contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono",
che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi. Questa prosa,
asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto
già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il
supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno.
Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo
concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un
attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi
«fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze,
appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da
una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di
Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era
sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola
delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. -
Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore,
l'anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è essenzialmente
mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo
significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la
tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare
secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se
l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola
cervello. Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni.
La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino
scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo,
tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in
Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli
è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e
meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I
personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non
è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena,
ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i
motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e
tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e
impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a'
moti convulsi e nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita
intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena
e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve,
come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena
finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a
quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e
contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella
originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi. Quei
pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di
fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione,
tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione,
come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù
e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non
è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di
posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e
generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica
inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare
superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini « non
sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi », e perciò non hanno tempra
logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni,
paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza.
Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e
«seguono le apparenze ». C è nello spirito umano uno stimolo o appetito
insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico.
Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra,
e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli
scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello
che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o
classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi: degli « abbienti »
e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non
l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono
mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l' «
equalità ». Perciò libertà non può essere dove sono « gentiluomini » o classi
privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando
non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè
dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi
Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati
o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnoli,
d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il « carattere »,
cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o
così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e
perciò freschissime e vive anche oggi. Poiché il carattere umano ha
questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed
esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi;
onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione
dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia
intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il
mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica
all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di
uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa
e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro.
L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua
immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di
questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per
frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro
con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria,
ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso,
provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non
può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza
de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo,
tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non
ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma
ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le
buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono,
clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto;
perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più
efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare.
Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De
regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico,
senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del
Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo
e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi
immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli
si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia
ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è
governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.
L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico.
Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il
mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni.
Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è
la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi
diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da
riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non
intorbidito da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo
ideale. E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che
comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo
può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad
alzare la voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo,
una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto
lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo
conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai
mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o
nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare. Quando Machiavelli
scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con
lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato.
La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il
barbaro dominio»; ma erano solo velleità. E si comprende come il
Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella
sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al
contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli
glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia,
intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che
il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua
incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia
la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli
poneva a base della vita l'essere « uomo », iniziando l"età virile della
forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito
italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè
a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in
Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un
esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di
mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli:
ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini
cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che
parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che
quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri
foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo,
quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva
fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: « fu naturale
ferità di core ». - Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in
caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra
gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è
intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò
che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un
secolo. Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si
credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era
una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella
piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per
l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la
coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella
maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente
negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze
indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che
mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e
della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che
ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una
idea e risoluti a vivere e a morire per quella. Machiavelli ebbe una
coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, «corruttela»: Qui
- scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi.
Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano
superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia
era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che
riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il
nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze
morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione
italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui
queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: "La... religione,
se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal
datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e
più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura
della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più
propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno
religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto
è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o
il flagello". Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio
paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
"Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi
suoi". Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo.
Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in
Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de'
franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della « setta
saracina », e le virtù « de' popoli della Magna » al tempo suo. Lo spirito
umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua
virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più
belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di
altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo
paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia
vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio
di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande
elevatezza morale: "Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora
regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma,
essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli
animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e
prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che
per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più
amati dal cielo possa operarlo". Queste parole sono un monumento. Ci si
sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica
con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è
più indulgente verso i principi: "Questi nostri principi, che erano stati
molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna,
ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano
mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a
difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive: "Il fine
della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi,
forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta
Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i gentiluomini,
avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura "
"Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi
delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare
o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in
ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre
alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a
loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni
d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è qui l'idea, tutta
moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della
civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla
radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema
feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei
molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause
della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: "Ond'è
che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva
come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi sono
fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali
d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna...
dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge
i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi
considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato
loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun
riparo". Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca
un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la
riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo,
a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che
nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe
desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come
Cesare, ma per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio
originale rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di
Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo
laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza
dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è
più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che
quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano
Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano
il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il
mondo abbia con Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con
la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
"Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro
proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende
gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare
di sè una sempiterna infamia". Invoca egli dunque un qualche amato dal
cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di
Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di
quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite » E' l'idea tradizionale del
redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il
veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero,
barbaro, «oltramontano ». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano
da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col
Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del
Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le ragioni. « Patria », « libertà », « Italia », « buoni ordini », «
buone armi », erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun
raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo
tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite,
animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno
patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua
indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la
spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine,
inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani,
perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro
poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli
stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca
fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello
stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio,
per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un
linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le
aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico.
Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo
onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come
pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli
della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un
avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del
presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con
tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto
illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo
nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a « picca »
e a « trie trac »: "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole
ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti
nondimanco gridare da San Casciano". Questo non è che plebeo, ma
diviene profondamente poetico nel comento appostovi: "Rinvolto in quella
viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte,
sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse". Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un
Dante, « libertineggiare » con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde
dell'immaginazione: "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio
scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e
di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle
antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi
pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi
per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel «
libertineggiare » sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico,
entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato
dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa
della « divina commedia » e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia
è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il
principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il
poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli
serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli
opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del
Petrarca "Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter
corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma
furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo
morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica
Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un
mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da
quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la
sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta
con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De'
principi ecclesiastici scrive: "Costoro soli hanno Stati e non li
difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi
non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè
pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione
superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè,
essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e
temerario il discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile
sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei.
Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione.
Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo alito, per
mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura
contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente".
Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito
ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i
suoi disinganni. Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era
chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di
Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi
si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora
gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa - scrive il
Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità,
quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai
Menandro". Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o
intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche.
"Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio...
tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere
che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie
bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici
d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...:
colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di
marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima
dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello
atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi". L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una «moresca di Iasòn» o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal
Castiglione: "La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella
scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa
bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero
che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A
questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro;
e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini
armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono
una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide"; .....dice
sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte
ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e
poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica,
lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e
fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo
de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette « d'intreccio », sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti
pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà
d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al
caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo
mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che
debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto
nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco.
Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di
latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più
pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in
Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la
moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di
vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a
quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua
bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua.
La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e
rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare
il suo ingegno a scriver commedie? Scusatelo con questo: che
s'ingegna con questi van pensieri fare il suo tristo tempo più
soave, perchè altrove non ave dove voltare il viso; chè gli è
stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue, non sendo premio
alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di
malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo
d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, «
assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno
scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto,
ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse
commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco,
l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che
usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa,
come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli
attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio
è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe
Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare
mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e
spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito
Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste
in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti
riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce
tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai'
suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo:
ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la
scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di
questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo.
Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista.
Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte
odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore
petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi,
rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico "...
Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto
desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al
capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi
si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli
occhi abbarbagliano, il cervello mi gira". Ma queste sono figure
secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì
sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui
stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie,
concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più
acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta
presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico
se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene
sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime
scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro
antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia.
L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e
ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia
sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente
ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche
pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e
avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni
della figliuola risponde: - « Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu
parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai
consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte mai di là:
è la sua idea fissa, la sua sola idea: - « Io t'ho detto e ridicoti che, se fra
Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza
pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. - « ... E'...
una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie
voglie ». Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore
di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa,
della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega
redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno
mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: "Io dissi
il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una
lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante
volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi
se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!"
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un
dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua
semplicità. Sta spesso in chiesa, perché "in chiesa vale più la sua
mercanzia". E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne: "
...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte
le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se
de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore". Conosce
bene i suoi polli: "Le più caritative persone che ci siano son le donne, e
le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le
intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele
senza le mosche". Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il
linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica
dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che
procuri un aborto, risponde: - « Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete,
e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da
poter cominciare a far qualche bene ». - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: " Messer
Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per
trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro
dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento". Se mostra
inquietudine, è per paura che si sappia "Dio sa ch'io non pensava a
ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio,
intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi
fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la
persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che,
quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura". Questo è l'uomo
a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua industria a
persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e
della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo
mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non dubitare,
figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo
misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la
madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti
e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un
« misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano
indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece
ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso
dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del
Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e
nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non
lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia
ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza
spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il
poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista. Appunto perciò
la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata
in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei
sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione
del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a
noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia. Machiavelli
stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon
umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico che snuda le
carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non c'è il
riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole
freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il gentiluomo.
Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive,
quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni. La
Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E' un mondo mobile e
vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso.
Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni
della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali,
inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine.
Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello
spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle,
colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati.
Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica,
è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : «d'intrecci» e di
caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi
dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche
tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli
accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione è mezzo a mettere
in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa
povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una
vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da
forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o
risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come
qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le
forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria,
come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ». C'è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio. Di
ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta:
quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più
grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua
vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo». Anche oggi,
quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama «patria di
Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci
«figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.
E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione
e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del
Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in lui è un incidente ed è
il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato «machiavellismo » quello che nella
sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di
assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da
un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine.
C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto. La sua logica
ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno
scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa
«marciare allo scopo». Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè
hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e
giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che
stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la
plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con
lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la
stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o
un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che
riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici
alla pianta « uomo », in declinazione. In questa sua logica la virtù è il
carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si
comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i
birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli
altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un
uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura,
non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla
concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o
individuo, non è degno di questo nome se non sia anche esso una forza
intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile
del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle
passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il
concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto
e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti
essenziali. La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro;
col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà;
col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e
indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi:
ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui
è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la
virtù o il carattere: « altere et pati fortia ». Il fondamento scientifico di
questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e
l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così
perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la scienza.
Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il programma del
mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono
grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque alteri del nostro
Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell'antico edificio, e
gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo ! In questo momento che
scrivo (1870), le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata
degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il «viva »
all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma
simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere
inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo
scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria
di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i
mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è mia. Ciò che è
morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua «patria»
mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità,
individualità. Il suo « Stato » non è contento di essere esso autonomo, ma
toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano
i dritti dell'uomo. La « ragione di Stato » ebbe le sue forche, come
l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute pubblica» le sue mannaie.
Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe
la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da
quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e
più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate «machiavellismo» quei
mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo» quei fini. Ma i mezzi sono relativi e
si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria
del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli
abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla
logica del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. «Dura lex,
sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi
non sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se
ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico,
il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a
scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più
possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato
e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non
ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel
programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito
concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e
nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi.
E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che
possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire:
- Crudele è la logica della storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è
una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al
luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa
parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la
società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed
eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio,
dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per
base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro
che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli,
comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto
tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile. Il
machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua
natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base
sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della
scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica
unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la
sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del
medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i
vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla
nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e
serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la
storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e
condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo
e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il
linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e
ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E'
l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola
fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con la sua illustre coorte di
naturalisti. Francesco Guicciardini, di pochi anni più giovane di Machiavelli e
di Michelangelo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il
precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha
scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli.
Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà,
concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri,
e non metterebbe un dito a realizzarli. "Tre cose - scrive -
desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non
vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra;
l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di
questi scellerati preti". Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e
l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del
Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la
bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i
desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso
nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che
scrive: « Conoscere non è mettere in atto ». Altro è desiderare, altro è fare.
La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola
della vita è « l'interesse proprio », «il tuo particulare ». Il Guicciardini
biasima « l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti » e il dominio
temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre « questa
caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità
» ; ma «per il suo particulare » è necessitato amare la grandezza de' pontefici
e servire ai preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in
molte parti; ma non ci si mescola, lui, « non combatte con la religione nè con
le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella
mente delli sciocchi ». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed
eccelse », ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria,
e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè « così ha a essere », ma per
sè, « nato in tempi di tanta infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma «
non s'ingolfa tanto nello Stato » da mettere in quello tutta la sua fortuna.
Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè
« mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul
popolo », e, quando la vada male, ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito
». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che « governano non ti
abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che
altrimenti fanno sono uomini « leggeri ». Molti, è vero, gridano « libertà »,
ma « in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo ». Essendo il
mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne
venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini « savi
». La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era
vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al
cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il
cielo per lui, ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui
questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub
conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo « particulare », come dice,
cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo,
al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette
sè francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri li chiama « pazzi
», come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni ragione opporsi »,
quando « i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta », e intende
dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra'
quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela
italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore.
Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina
cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro
caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni.
E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa
la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo
non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina
predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio
del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto
si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere
una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello
esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un
cavallo". In questo concetto della vita il Guicciardini è di così
buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda
con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che
avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma « per debolezza di
cervello », avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni,
dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui
giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via
l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice
il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché l'ingegno sia positivo si richiede
la « prudenza naturale », la « dottrina » che dà le regole, l' « esperienza »
che dà gli esempli, e il « naturale buono », tale cioè che stia al reale e non
abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la « discrezione »
o il discernimento, perché è « grande errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi
tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione ». Il vero
libro della vita è dunque « il libro della discrezione », a leggere il quale si
richiede da natura « buono e perspicace occhio ». La dottrina sola non basta, e
non è bene « stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere
vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in
speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in
modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti».
L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che « ai volgari » pare. Non
crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le
cose sopra natura o che non si vedono « e dicono mille pazzie » : perchè in
effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha servito e
serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa base
intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione,
il fatto e lo « speculare » o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il
Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più
recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più
conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo
riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo
piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento.
Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua
coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e
voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè « gli uomini si
riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne viene parte di lode e di
premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà reputazione, e la
povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il caso di simulare,
più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere, perchè « più onore
ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi ». Studia
di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che molte ricchezze ». Non
meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, «
credi poco e fidati poco ». Questo è il succo dell'arte della vita
seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma
il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza
e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana,
tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle
regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò
un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne
che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella
solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi
disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al
suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli
ozi a scrivere la Storia d'Italia. Se guardiamo alla potenza
intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente italiana.
Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale
facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli
altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con
una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e
non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e
indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno ai risultati
generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo
è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E'
l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono
egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e
la discrezione. Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel
non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso,
guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze
sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera
distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è
naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con
sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo
della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio
dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la
sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi
nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la
stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il
carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad
usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con
la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro. Lo storico avea
intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione
lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza
che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia
i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore
intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma il
Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva
de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè
ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il
Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del
suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle
pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua
franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e
rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di
sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo,
freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo
se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da
un intelletto superiore. La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal
1494 al 1534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la « tragedia italiana », perchè in questo spazio di
tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.
Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa
tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La
tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le
arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti «
atrocissimi accidenti », sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel
carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La Riforma,
la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la
trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di
Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti
generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri
pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi
erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro
fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi appare come un essere
naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da
passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa
necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere
vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo
modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza
che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e
Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante,
perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione
intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che l'uomo,
ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o
dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà, quasi
con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha
sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal calcolato le sue
forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa
gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette,
maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti, perchè
sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto
il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno. Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli
interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare
nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che
sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù
sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza
nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512 quando
ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica
e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva
inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè tutta
l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al servizio del
regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire
gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose
truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori
italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la
sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo
l'avventura savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della seconda
Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano
della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli
anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e della
nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due nuove
potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte (nel 1500, nel 1504 , nel 10 e nell'11 ), tanto da conoscere
molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le
ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro
insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare
presso Cesare Borgia , l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del
papa Alessandro VI , che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia
centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze. Presso
il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel
giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di
Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso
) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia,
l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore "molto splendido e
magnifico" che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra
parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del
crollo di tutte le sue ambizioni , perchè, dopo l'improvvisa morte di
Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III , fu inviato dal governo
fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di
Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua " ultima ruina " . In quella
occasione , e in una successiva legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche
rendersi conto del temperamento del nuovo papa , dell'energia e del "
furore " che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni
. Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la
corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette
alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana,
Venezia, e che , dal 1506 in poi , negli intervalli fra una legazione e
l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si
vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli. I
problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente
chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe
non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della
nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una
serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello
ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca
di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati;
Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di
scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra
l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto
delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo . E' del tutto
comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel
momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose
dall' alto di una ricchissima esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in
un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ) ,
sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli , poi lo tennero
inoperoso per quasi otto anni , sino al 1520 , e infine gli assegnarono qualche
incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione
fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze )
, di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ) , di andare
come ambasciatore presso la " repubblica degli Zoccoli " , cioè presso
il capitolo dei Frati minori di Carpi . Solo nel 1526 gli venne
affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle
mura , preposti alla difesa di Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati
e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte.
Morì tra il 20 e 22 giugno 1527. Durante gli anni del suo ozio forzato,
Machiavelli si ritirò in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la
giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o
imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o
infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie
coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie
e interrogava gli antichi scrittori: "e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte; tutto mi trasferisco in loro". E' dalle meditazioni che ispira
questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro
"vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che
nascono quasi d'un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, i
dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La
Mandragola. Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è
questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza
più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel
suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo -
nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire,
nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che
lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal
presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi
astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si
pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e
così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una
situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del
sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e
distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro "che per scelleranza sono venuti
al Principato" con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo,
all'esaltazione del Valentino - ammirato nella sua abilità politica
indipendentemente dai suoi delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera
dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E
se parlando di Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela
di identificare la "virtù" - sia pure nella particolare accezione in
cui egli usava questo termine di "energia" e "capacità" -
con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più
dubbi. La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con
con quella della morale: essere buono può sovente procurare la
"ruina" di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare,
assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli
venne presto rivolta, e la formula del "fine che giustifica i mezzi"
che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare
scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si
rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne
individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava:
la "realtà effettuale" italiana non suggeriva certo un discorso sulla
morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla
figura del "principe nuovo" come la sola che possa sciogliere
positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi fra l' elogio del
Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni inesistenti se si considera
che Il principe poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato
nuovo nella situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono
soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei suoi ordinamenti
migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non
ha mai nel Principe , fino all'affermazione che il popolo é " più prudente
, più stabile e di migliore giudizio che un principe " e che " se i
principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi , formare vite civili
, ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto superiori nel
mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare a una
stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne :
che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le permisero
di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi l'
argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un campo
più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il discorso
sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito ,
quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come
individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e stabiliti i
rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il discorso sulle
milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando in questo modo
definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la necessità di uno
stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle cose e il
carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente " nella
prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in " questo
tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é già
consapevole della sua libertà ed individualità " e il " ragionamento
a piramide degli scolastici " cede il posto al " ragionamento a
catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha costantemente l'
impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso
processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni . La prosa
del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli
occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ;
essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge , di frequente ,
con un " tu " perentorio e aggressivo , a farsi compagno e sodale del
suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo . In tal
senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E quando d' improvviso
il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si
apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che
sono tipiche della sua opera , il lettore ha la sensazione di assistere al
germinare di un' intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e
penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della gioia della scoperta e ,
al tempo stesso , stupito della semplicità rivoluzionario della medesima .
Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante , la " ruina
d' Italia " , nelle sue istituzioni comunali o signorili , nei costumi dei
suoi principi , nell' avvilimento del popolo . Di qui il pessimismo della sua
intelligenza , quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e
canagliesco , impastato di bassi appetiti , di astuzie meschine , di stupidità
e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola , il capolavoro del teatro
del '500 . Egli , però , ha compreso l' importanza delle grandi formazioni di
stati unitari verificatisi in Europa , sa che in questa direzione si muove la
storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà
italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su
quella materia informe e corrotta . Machiavelli non è un puro teorico ,
inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire " in
laboratorio " : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la
realtà storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi
che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in
quella realtà , modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero
si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce
dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione
di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia
contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non
presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori
potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e
cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su
milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti "
cittadini " , che soli possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza , la
serietà di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque
si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un
vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall'
antica Roma , l' amore per la patria , il senso civico , lo spirito di
sacrificio e lo slancio eroico , l' orgoglio e il senso dell' onore , e sono
stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che induce ad
abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna , senza
reagire e senza lottare . Perciò , come hanno dimostrato le guerre che si
sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani sono
prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle
potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola .
Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria "
gravità de' tempi " é un principe dalla straordinaria "virtù"
capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti
italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare
le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente
concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli , la
quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa
con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese . Ignorare
queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a
travisarne completamente il senso . Tuttavia quel pensiero non
resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti non avrebbe la
forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione
particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei
problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira ad
avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e
tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore
, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere
uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche
la fisionomia di una vera teoria scientifica . Concordemente Machiavelli
é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto
egli determina nettamente il campo di questa scienza , distinguendolo da quello
di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo , come l'
etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente l' autonomia del campo
dell' azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche , e l'
agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi :
occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe , valutare
esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri
della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei
cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o violento
e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non é
pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di
sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura
occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che
avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali "
che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler
andar dietro alla " verità effettuale della cosa " anzichè all'
" immaginazione di essa " , proprio perchè non gli interessa mettere
insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a
chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata
applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo
autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente
il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla "
verità effettuale " : proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve
tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall' indagine
sulla realtà concreta , empiricamente verificabile , mai da assiomi universali
e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi
giungere a costruire principi generali . L' esperienza per Machiavelli può
essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale
alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi
. Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente
" esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique
" . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè
studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento
anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati ,
dell' informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di
questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente
naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al
pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come
non variano il corso del sole e delle stelle . Per questo ha
fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti
storiche o l' esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e
proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é
costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il
comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di
modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri
" , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell'
imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é
pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca
quindi che lo stesso non avvenga nella politica . Da questa visione
naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale
dell' agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici
rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di
condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é
una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli
occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause ,
non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente
commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua
malvagità sulla realtà . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori
e dissimulatori , fuggitori de' pericoli , cupidi di guadagno " e
dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio
: la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori
sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non
deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perchè
andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere " non buono
" laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli
occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere metà uomo e metà
animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle
situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla
parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose
ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in
politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue
istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero
" cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni
malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di
una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera
" cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli
semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri
criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno ,
invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può
costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che
disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte
le une alle altre . Per quel che riguarda il rapporto con la religione ,
a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto
di verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di
salvezza , ma solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " ,
ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi
principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a
mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva
già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi
Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere spesso
stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi
svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo
che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella
repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo . Il
principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria ,
indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai
suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma
repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha
istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio ,
Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un " opuscolo
de principatibus " , in cui si trattava " che cosa é principato , di
quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si perdono " . L'
indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta , ma lascia
aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta , se
sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i
rapporti che legano ai " Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio "
. Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione in una stesura di getto
, mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo
de' Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di
appassionata esortazione a liberare l' Italia dai " barbari " ,
sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato .
Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di
tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel luglio per
far posto alla composizione del trattatello , che rispondeva a bisogni di
maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai problemi attuali della
situazione italiana . Il Principe é un' operetta molto breve ,
scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di pensiero . Si articola
in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei titoli in latino come
era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse sezioni . I capitoli I
- XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che
consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e stabilità .
Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo
II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti , aggiunti come
membri allo Stato ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta
questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV
- V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui
si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro
che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli
distingue tra la crudeltà " bene e male usata " : la prima é quella
impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore
utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il
tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno
. Machiavelli affronta il principato " civile " , in cui cioè
il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si
debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati
ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa , come nel
caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema
delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti
mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell'
Italia del tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e
pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati
italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza
, per lui , la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su
armi proprie , su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che
combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa . Machiavelli tratta
dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici . E' questa
la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é
più radicale e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo
delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla
" verità effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi ,
avidi , mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra
loro non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad
essere " non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare
al fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà saranno
sempre considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente
suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l'
esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i
principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libertà italiana
) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é essenzialmente l'
" ignavia " dei principi , che nei tempi quieti non hanno saputo
prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l'
intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce naturalmente l'
argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna , cioè la capacità
, che deve essere propria del politico , di porre argini alle variazioni della
fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne
e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo capitolo é , come accennato ,
un' appassionata esortazione ad un principe nuovo , accorto ed energico , che
sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari
. (il testo sopra è di Diego Fusaro - visitate il suo sito di filosofia )
http://www.filosofico.net/filos1.html ANDIAMO ALL'ARTICOLO
DEL Prof. G.Pellegrino/Prof.ssa M.Mangieri IL PENSIERO
POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA ANDIAMO ALLORA
DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL PRINCIPE > >
HOME PAGE STORIOLOGIAGrice: “When I created Deutero-Esperanto, I felt
like the principato senza il principe!” --. Michele Ciliberto. Keywords: il
principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice,
lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i
contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola,
immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul
rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia
rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla
rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il
barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di
cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non
puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. Cilone
sought to join the circle of Pythagoras, but was rejected because Pythagoras
saw in him a tendency to violence and tyranny. In response, Cilone led the
people of Crotone in a campaign against the sect as a result of which
Pythagoras had to decamp to Metaponto. “At least he left with his judgment
vindicated – Pythagoras did.” Archita said.
Grice e Cimatti: l’implicatura
conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti
naturali della comunicazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological
semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has
thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion
animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed
esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si
parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati
Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi,
Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani”
(Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla
zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del
cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia
per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una
psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il
possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino
Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le
ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio
ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo
sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno
passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e
psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei
sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte,
Quodlibet); Filosofia del linguaggio:
storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e
l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del
reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes,
Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo
(Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione
convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano
e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente
(i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon)
presenta alcune interes- TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi
particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una
"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);
(ii) sia dotato di significato (smantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni
emessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno
tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di
conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na
tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (Pot.). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al
centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni
semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni tà
più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni
indivisibili, ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai
suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano -
per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili -
lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali
- per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi
che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare,
tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal
verbo dlofìsi (''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel
caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. Il linguaggio degli animali. Del
resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette di distinguere anche tra
il linguaggio umano e i suoni (vox, Grice’s ‘sound’) emessi dagli animali,
questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali (vox, vocatum, ‘sound’
– the characterization of a product) e (ii) interpretabili. Già la nozione di
"voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a
product’) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice
che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include the
characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una
"voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un essere animato
(II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un
suono emesso da un animale, per quanto definito psophos (''rumore"), ha
tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di
conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura" phusei
(De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e
sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il
cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi
in unità più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono
(Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si
possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese linguaggio
umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali,
attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione,
or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile
e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s
meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word – meaning), di questo
o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome. Questo o quello suono
di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non
combinabili - non lettere – elemento che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa
- non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità di
un suono emessi da un animali è espressa dal verbo delofìsi (''rivelare",
De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non
sia in gioco la convenzione o la decisione razionale (Deutero-Esperanto), come
nel caso del repertorio comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo
piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un
animale e un sintomo o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una
affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory According to this
theory, language began when our ancestors started imitating the natural sounds
around them. The first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as
moo, meow, splash, cuckoo, and bang. What's wrong with this
theory? Relatively few words are onomatopoeic, and these words vary from
one language to another. For instance, a dog's bark is heard as au au in
Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic
words are of recent origin, and not all are derived from natural sounds.
The Ding-Dong Theory This theory, favored by Plato and Pythagoras,
maintains that speech arose in response to the essential qualities of objects
in the environment. The original sounds people made were supposedly in harmony
with the world around them. What's wrong with this theory? Apart
from some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence,
in any language, of an innate connection between sound and meaning. The
La-La Theory The Danish linguist Otto Jespersen suggested that language
may have developed from sounds associated with love, play, and (especially)
song. What's wrong with this theory? As David Crystal notes in
"How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to
account for "... the gap between the emotional and the rational aspects of
speech expression... ." The Pooh-Pooh Theory This theory holds
that speech began with interjections—spontaneous cries of pain ("Ouch!"),
surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba
do!"). What's wrong with this theory? No language contains
very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of
breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to
the vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho
Theory According to this theory, language evolved from the grunts,
groans, and snorts evoked by heavy physical labor. What's wrong with this
theory? Though this notion may account
for some of the rhythmic features of the language, it doesn't go very far in
explaining where words come from. Wikipedia Ricerca Origine del
linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui
Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento che ha attratto una
considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è
uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A
differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua
natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a
metodi indiretti per decifrare le sue origini. Secondo la Genesi,
la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la
confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I
linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e
che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza
fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza
e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi
necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario
necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono
esprimere[1][2]. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili
e relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con
una predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di
un'altra[3]. Le lingue umane potrebbero essere emerse con la
transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico
superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e
l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro,
mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200
000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico
(Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000
anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative
dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo
stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la
lingua umana completamente sviluppata. L’origine del linguaggio negli
studi di Schelling e GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu
una tematica fondamentale del Romanticismo. F. W. J. Schelling (filosofo
dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al
fratello) sono due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del
linguaggio. Schelling, nel suo testo del 1850[4], parla di tre ipotesi
fondamentali: Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio ha
origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi
istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie
all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale
l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai
gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di
Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo
di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli
parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi,
una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo
ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione
dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua
appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista
dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini
insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione,
suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni
vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai
monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio
non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere
pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora
sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm conclude
affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del linguaggio e
riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo strettamente
connessa con il pensiero. Parola e linguaModifica I linguisti fanno
distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare comporta la
produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni
pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di
imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una sintassi.
D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma sono in
grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata una
lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione
delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per
produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la
lingua stessa. Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti gli animali
usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non
classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di
comunicazione di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le
lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli
esseri umani, chiamandosi per nome[8][9]. Linguaggi dei primatiModifica
Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati superiori
nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non permette
alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui
sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una
rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti
corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune
scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia
di lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati
sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della
bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti
per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali
presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico. Nell'ambiente
naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più
studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti
vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri
membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del
leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido
dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva.
Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle
scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni
vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia
grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la
madre per osservare quel che essa fa[10]. Antichi ominidiModifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri
studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens[3][11]. Un altro punto di vista considera
invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della
parola[12]. Una proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista
Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una
sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un
vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio
nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati
superiori e le lingue umane moderne pienamente sviluppate. Le
caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma di L erano in continua
evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13]. Anche se i primi
ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra, era già più
avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce che
probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione più
sviluppata degli altri primati[14]. NeanderthalianiModifica La scoperta
nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i
neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili
a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale
ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani
moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si
ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che
vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli
di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato
intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli
antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla
loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse
per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei
neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per
una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi
era già ben sviluppato[18][19]. La questione sul livello di sofisticatezza
culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa.
Homo sapiens. I primi esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per
la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante
fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici
disponibili non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li
avevano preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e
cacciavano meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero
seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa
meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato e, da quel
momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel
punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata
rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di vita può
essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione.
Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche regolari che furono
riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi
fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti possono essere facilmente
suddivisi in base alla funzione, come punte per scalfire, attrezzi di
incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole
o ad altri membri del proprio gruppo come produrre tali strumenti dettagliati
sarebbe stato difficile senza l'aiuto della lingua[21]. Il passo più
grande nell'evoluzione del linguaggio fu probabilmente il passaggio da una
comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la
grammatica e la sintassi di una lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che
questo passaggio può essere stato compiuto solamente insieme ad alcuni
cambiamenti biologici nel cervello, come una mutazione. È stato ipotizzato che
un gene come il FOXP2 potrebbe aver subito una mutazione che permise agli
esseri umani di comunicare. Le prove suggeriscono che questo cambiamento ebbe
luogo in un punto imprecisato dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai
50 000 anni fa, cosa che apportò cambiamenti significativi nei resti
fossili[9]. Non è ancora chiaro se le lingue si svilupparono gradualmente in
migliaia di anni o apparvero relativamente all'improvviso. Le aree di
Broca e di Wernicke apparvero anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi
cognitivi e percettivi, la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli
stessi percorsi neurali ed il sistema limbico degli altri primati controllano i
suoni non verbali anche negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che
suggerisce che il centro del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi
neurali comune a "tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per
la comunicazione linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò
implica che l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato
dopo che il ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati.
In tal modo, il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica
degli esseri umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa"
("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"),
circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette
nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe,
che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. MonogenesiModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La
teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una
singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale)
dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri
umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini,
possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o
gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000
anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue
moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi
considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi[24][25].
Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna
che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità
che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a quel
periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla
popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale
ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si
sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale
effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento
della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento
in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori
di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua
primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi
tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per
varie ragioni[28][29]. Scenari dell'evoluzione della linguaModifica
Teoria dei gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano
parlato si sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice
comunicazione. Due tipi di prove sostengono questa teoria. Il
linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le
regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della
bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano
gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi
gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta",
con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli
scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che
il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili.
Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione
all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini
linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri
ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva
sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un
linguaggio vocale o scritto.[32] La questione più importante per la
teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale.
Ci sono tre possibili spiegazioni: I primi esseri umani cominciarono ad
utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza
poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si
debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno
bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si
avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di
cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un
leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato
un gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani
utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente
quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti
usano lingue composte interamente da segni e gesti. Pidgin e
creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa
come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima
lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente
derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è
d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin
sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed
un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono
soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con
pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza
ordine fisso e senza desinenze di declinazione.[9] Se questi contatti tra
i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono
diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i
bambini di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa
una lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con
una fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia
di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano
dalle lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo
hanno dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono
sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste
somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua
originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono
sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche
includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua
creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un
ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli
articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le
strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]
Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente
responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e
Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica
universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste
di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi
grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa
grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle
lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini
durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua
locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le
caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in
conflitto con la grammatica creola.[9] Un'altra questione che viene
spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo
della lingua dei segni nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del
Nicaragua dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini
sordomuti. Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un
centro d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50
bambini sordomuti. Nel 1983 il centro aveva 400 studenti. Questo centro non
aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni
usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il
programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle
labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle
parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte
degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole
spagnole. I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti
sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo,
quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a
costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più
bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei
bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri
studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di
loro. In seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl,
un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed
altri ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini
più giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano
portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre
convenzione della grammatica.[34] Approccio sinergicoModifica La
Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del
linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo
evolutivo della scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto
differenti fasi: Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase
II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema =
sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica)
Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema
= frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma
(linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico)
Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido,
all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e
poi la parte della parola[non chiaro][35],[36] StoriaModifica La ricerca
delle origini della lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la
mitologia classica. Storia della ricercaModifica Verso la fine del XVIII
secolo od agli inizi del XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del
mondo riflettessero i vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a
quelle più avanzate, culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata.
La linguistica moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi
romantiche di Johann Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero
molto influenti fino al XIX secolo. La questione delle origini della lingua si
dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la Società
Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine della
lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla
linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale
di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per
la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la
grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia.
L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi
di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La
bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un
capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica,
mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni
novanta. Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di
aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per
esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il
faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da
pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato
senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi
disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane.
Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta
che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi
bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico
II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento
simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e morirono.[37][38][39]
Nella religione e nella mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti
etnici spesso danno delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del
linguaggio verbale. La maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo
inventore della lingua, ma credono in una lingua divina, antecedente a quelle
umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli
spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate,
ed erano di particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità
di penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura
intuitiva anziché discorsiva. Uno dei migliori esempi nella cultura
occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di
Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come
Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e
creandone di nuove (Genesi 11:1–9). Un gruppo di persone dell'isola di
Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di
Babele, parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i
costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero
differenti lingue". Primitive languages, su Language Miniatures. URL
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«Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in
futuro indefinito. Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per
la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa
che ancora non esisteva» ^ Merritt Ruhlen, Origin of Language, 1994, ISBN
0-471-58426-6. «Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus,
would likely have possessed less developed forms of language, forms
intermediate between the rudimentary communicative systems of, say, chimpanzees
and modern human languages» ^ Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal
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least 400,000 years ago and to assign modern human vocal abilities to
Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that the size of the
hypoglossal canal is indicative of speech capabilities.» ^ Johansson, Sverker,
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ottobre 2006). «Hyoid bones are very rare as fossils, as they are not attached
to the rest of the skeleton, but one Neanderthal hyoid has been found
(Arensburg et al., 1989), very similar to the hyoid of modern Homo sapiens,
leading to the conclusion that Neanderthals had a vocal tract similar to ours
(Houghton, 1993; Bo¨e, Maeda, & Heim, 1999).» ^ a b Klarreich, Erica,
Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, vol. 101, n. 16, 20 aprile 2004, pp.
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skull variation bolsters the case that humans took over from earlier species,
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accessexcellence.org. URL consultato il 10 novembre 2007. «You've had modern
humans or people who look pretty modern in Africa by 100,000 to 130,000 years
ago and that's the fossil evidence behind the recent "Out of Africa"
hypothesis, but that they only spread from Africa about 50,000 years ago. What
took so long? Why that long lag, 80,000 years?» ^ Wade, Nicholas, Early Voices:
The Leap to Language, The New York Times, 15 luglio 2003. URL consultato il 10
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Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria
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fa di Paroll PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che
postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e
siano innati per tutti gli esseri umani. Rilessificazione Origine
africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti;
we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that
it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and
communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum,
‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I
use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing
that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione,
homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural,
naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi,
corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica,
mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali
della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione
trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). A philosopher of the Porch.
Grice
e Cinna: il portico a Roma – filosofia italiana (Roma). Cina
Catulo was a member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claimed to
have learned from him the value of friendship, children, and praise. Cina
Catulo. Cinna.
Grice e Cione: l’implicatura
conversazionale del corporazionismo -- Dedalo ed Icaro – l’idea corporativa
come interpretazione della storia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus –
which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him
– the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other
subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case,
first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He
thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs
– his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational
etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady
interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste,
studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso
nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto
dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: «Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta
cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta
per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle
epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia
repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il
partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne
eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al
Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto.
Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di
Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro
dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno
importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da
Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito
avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo
nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò
assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la
magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò
positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo. Home
Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di Edmondo
Cione By Redazione 4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale
ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una
caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili lasciano
molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di compromesso. Nel
1943-45, in particolare, vi furono diversi tentativi, tutti falliti, di dare
alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso
un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine,
al Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto complesse, spesso
contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte
del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi
dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare
una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un
socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni.
Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’
velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i
ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti Ugo
Manunta e Ottavio Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo
della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista,
Corrado Bonfantini, Gabriele Vigorelli, Carlo Silvestri, Pulvio Zocchi e
soprattutto Carlo Andreoni, autore di un confuso ed equivoco tentativo di
“collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di Salò e
socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln. Punto di
raccordo di molti di questi fiumi sotterranei fu Edmondo Cione, filosofo,
collaboratore di Benedetto Croce, antifascista liberale fino al 1940, confinato
politico, il quale alla vigilia della guerra civile decise di puntare sulla
riconciliazione degli Italiani. Un progetto ambizioso, non sempre
sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati
importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, Cione riuscì a
catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che operò per
il passaggio indolore dei poteri; in secondo luogo, riuscì ad avere la fiducia
di Mussolini che gli finanziò un quotidiano, “L’Italia del Popolo”, infine
riuscì a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale,
il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo
segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò
avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Carlo Borsani,
Franco De Agazio e Concetto Pettinato, e con la violenta opposizione degli
intransigenti, come Alessandro Pavolini, Fernando Mezzasoma e Giorgio
Almirante. La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di
questi tentativi è il filo conduttore del volume di Edmondo Cione, Storia della
Repubblica Sociale Italiana, edito in prima edizione nel 1948 e quindi nel
1951, che, a sessantasei anni di distanza, viene ora ripubblicato da Altergraf.
Si tratta di un libro che, tra i primi, ricostruisce le vicende della Rsi e il
suo valore è soprattutto questo. Il mondo variegato e talvolta
contraddittorio di quelli che cercarono di costruire dei “ponti” tra fascismo e
antifascismo è complesso ma, in genere, comprende, come si è detto, fascisti di
sinistra (più moderati e aperti al pluralismo) e socialisti (insofferenti al
peso del Pci). Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un
elemento di novità che va tenuto presente per sottolineare l’importanza e l’opportunità
di una riedizione. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo,
crociano accettò di sostenere i 18 punti di Verona, la socializzazione,
l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista?
Si tratta effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato
solo con il costante richiamo alla concordia nazionale. Una concordia che
non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a
nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo –
antifascismo, considerando Cione il fascismo un elemento essenziale nella
storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto, non per esaltarlo ma
piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e
senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per Cione, fu quello di
ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e
soprattutto di potere non considerare con attenzione le soluzioni che il
fascismo, pur in un quadro autoritario, aveva individuato allo scopo di
contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In
questo senso l’esperienza corporativa, che Cione intese sempre in senso
produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, poteva essere
interessante da recuperare in una chiave pluralistica. Più complessa la
risoluzione dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è
correlato con la ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica
politica italiana, della categoria del “nemico assoluto” da abbattere. Essendo
più filosofo che storico, Cione non si rendeva conto che l’Italia dopo la prima
guerra mondiale non era più quella precedente e il pretendere che le
contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un
semplice richiamo alla concordia, dimostrava quello che acutamente aveva colto
Giovanni Artieri, e che cioè Cione “pensava e scriveva come se vivesse
nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio”. Il saggio di Cione sulla RsiIl
saggio di Cione sulla Rsi In questa sua incapacità di leggere fino in fondo la
lezione del Novecento si trova la sua inattualità politica, ma anche il fascino
dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni
anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici. La sua
originalità risiede anche in un ultimo aspetto: se è vero che in Italia
gli intellettuali tendono a correre verso il carro del vincitore, la storia di
Cione è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei futuri vincitori,
volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza riuscirci, di rendere
meno dura la vendetta finale. *Edmondo Cione, Storia della Repubblica
Sociale Italiana, edito da Altergraf (pp. XXII + 398, euro 30,00 – da
richiedere a Domenico Edmondo Cione nacque a Napoli il 7 giugno 1908
da Stefano Cione, brillante avvocato di origine pugliese e da Emilia Faraone,
proveniente da una agiata famiglia di commercianti. Compiuti i suoi studi prima
presso il consolato germanico, poi presso il Liceo- ginnasio Vittorio Emanuele
II, si iscrisse nel 1923 al Collegio militare della Nunziatella. Il Cione,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifestò idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso gli studi storico-filosofici e
allontanandosi dall'ambiente autoritario della Nunziatella nel 1926.
Grazie a Floriano del Secolo cominciò a frequentare la casa di Benedetto
Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e gli
insegnamenti. La sua prima opera, pubblicata a Napoli nel 1929 e
intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la
Rinascenza", in cui aveva preso posizione contro Giovanni Gentile, gli
procurò violente critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa
Croce non gli impedì tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici
del regime. Nel 1930 conseguì la laurea in giurisprudenza e nel
1932, assecondando le sue reali aspirazioni, conseguì quella in lettere e
filosofia. Nel 1933 concorse a un posto di ordinatore di biblioteche e ne
ottenne l'incarico presso la Biblioteca Nazionale di Venezia. Nel 1936 fu
trasferito presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. A questi anni risalgono i
suoi rapporti epistolari con alcuni esponenti dell'opposizione liberale come il
conte Sforza, Mario Vinciguerra, Alessandro Casati ed altri personaggi di quel
tempo. Gli anni '40 segnarono una svolta nella vita personale, politica e
intellettuale di Edmondo Cione. Proprio nel 1940, a causa dell'intercettazione
di una sua lettera, il cui contenuto era stato male interpretato, Cione fu
arrestato dalla polizia e internato nel campo di concentramento di Colfiorito
presso Foligno, e in seguito confinato a Montemurro Lucano. In questi anni egli
maturò la revisione delle idee antifasciste e decise di abbandonare le
posizioni liberali; evento non meno significativo nella vita del Cione fu la
definitiva rottura dei suoi rapporti con Benedetto Croce, a causa della revoca
da parte del Croce della compilazione di un volume celebrativo, che Edmondo
Cione aveva preparato sull'opera e sul pensiero del filosofo. Il volume
fu poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari nel 1942 con il titolo
"L'opera filosofica, storica e letteraria di Benedetto Croce".
Dopo l'internamento e il confino del 1940, ritornato in libertà, Cione fu in
servizio come bibliotecario presso la Biblioteca Braidense di Milano; collaborò
nel 1941 alla rivista diretta da Federico Chabod "Popoli",
dell'Istituto per gli studi di politica internazionale. Nel 1942 ottenne la
libera docenza di storia della filosofia e nel 1949 quella di storia moderna.
Tra le sue numerose opere, il volume edito a Milano nel 1944 e intitolato
"Benedetto Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata
anticipatamente sul Corriere della Sera, procurò a Edmondo Cione numerosi
consensi anche da parte di Benito Mussolini, che Cione incontrò personalmente
grazie alla mediazione dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Nel 1945 il
Cione fondò, col consenso di Mussolini, il "Raggruppamento nazionale
repubblicano socialista" e il giornale "L'Italia del Popolo"
che, sollevando l'ostilità dell'ala fascista più estrema, dopo soli 12 numeri
fu sospeso a causa di una polemica con l'Associazione dei mutilati. Soggetto
all'epurazione alla fine della seconda guerra mondiale, Edmondo Cione nel 1946
fu reintegrato nel suo posto di professore di liceo e nel 1948 anche
all'Università degli studi di Napoli dove tenne corsi di filosofia. Nel 1951 entrò
nel Movimento Sociale Italiano e nello stesso anno fondò la rivista
"Nazionalismo popolare". Nel 1952 fu eletto consigliere e poi
assessore allo Stato civile della Giunta di Napoli, che aveva alla sua testa
Achille Lauro. Nel 1953, dopo essersi candidato al Senato come esponente del
M.S.I. senza riuscire eletto, entrò nelle file della Democrazia Cristiana.
Collaborò con numerose riviste culturali e filosofiche e con diverse testate
giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il "Tempo" di
Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra le opere a stampa
ricordiamo la "Bibliografia Crociana" del 1956, nella quale sono
riportate sistematicamente e cronologicamente le opere di Benedetto Croce e le
opere su Benedetto Croce; l'opera "Francesco de Sanctis e i suoi
tempi" vincitrice nel 1961 del Premio Napoli e due volumi di resoconti di
viaggi, "Quest'Europa" e "Fascino del mondo arabo",
pubblicate la prima a Napoli nel 1958 e la seconda a Bologna nel 1962. In esse
l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente attribuiva
all'esistenza umana. Edmondo Cione morì a Napoli il 12 giugno 1965. Fra le sue
ultime volontà vi fu quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli, pochi
mesi prima di morire, il suo archivio personale, affinché esso non andasse
disperso e perché fosse messo a disposizione degli studiosi.documentazione
collegataEdmondo Cione fontiGennaro Incarnato, in Dizionario biografico degli
italiani, pagg. 677-680. Lutz Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia
(1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993. CIONE, Domenico Edmondo
di Gennaro Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)
Condividi Pubblicità CIONE, Domenico Edmondo. - Nato a
Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di
recente e artefice della sua fortuna, ed Emilia Faraone, figlia di commercianti
di, relativa agiatezza, cominciò a studiare presso il consolato germanico, poi
al liceoginnasio "Vittorio Emanuele II", per iscriversi infine alla
Scuola militare della Nunziatella (1923). L'accurata istruzione integrò la
severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un decoro con
fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli in
permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella si tendeva a
sviluppare "l'attitudine al comando" ponendo l'accento
sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni del
C. ne furono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di
tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli studi storico-filosofici nella
ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gli ostacoli
frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e
meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle
gerarchie che avevano provocato la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da
cui uscirà nel 1926, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo.
Introdotto in casa Croce da Floriano Del Secolo, ne accettò pienamente le idee,
attirandosi con la sua prima pubblicazione Il dramma religioso dello spirito
moderno e la Rinascenza, Napoli 1929 (di cui già nel 1923 aveva mandato
un'saggio al Croce), in cui prese posizione contro il Gentile, gli attacchi
violenti dei coetanei fascisti. Lo difese sin dal '29 C. Di Marzio che gli aprì
le porte del Meridiano di Roma nel '37 e gli evitò guai peggiori. Erano gli
anni del "consenso" al regime; la pregiudiziale antifascista e la
frequenza di casa Croce non impedirono al C., come ad altri, la collaborazione
a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e
tollerare la "fronda" liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo
gratificava e sembrava soddisfarlo pienamente. I numerosi studi sul De
Sanctis, culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla
Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche
sulla vita culturale di Napoli nell'800 rivelano tutti l'impronta del Croce.
Tuttavia si può cogliere una costante del pensiero del C., la tendenza alla
mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante
rifiuto di ogni estremismo, che gli faceva preferire il sereno misticismo di
Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura
umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla
rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non
scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La
ricerca appassionata e puntuale sulla vita del primo Ottocento napoletano
(Napoli romantica, Milano 1942) non poteva non approdare alla constatazione del
suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo
piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo
sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non
propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come
un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie
romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno
mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e
lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di
cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano 1943) del
famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. (2 ed., ibid. 1944).Nel 1930, per
venire incontro ad aspirazioni familiari, il C. si laureò in giurisprudenza e
nel 1932, seguendo i suoi reali interessi, in lettere e filosofia. Le fortune
familiari registrano nel 1933 un tracollo che lo spinse a concorrere ad un
posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non
veniva ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Nel 1936 fu
trasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti
con l'opposizione liberale al fascismo; corrispondeva con il conte Sforza ed
aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli,
Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. Tra il 1930 ed il 1940 l'adesione al sistema crociano era del resto
indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali
emergente dagli studi sul Berdjaev (di cui lo colpirà durevolmente la critica
al marxismo), sul Valdès e dal taglio stesso degli studi sul De Sanctis,
l'emancipazione non era così consapevole come tenterà ad affermare in
seguito. Nel settembre 1940 l'intercettazione di una lettera da parte
della polizia, che ne interpretò malamente il contenuto, provocò il suo
internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori
furono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui maturò la sua crisi
politica e la rottura col Croce. La convivenza con oppositori socialisti,
anarchici e comunisti aveva su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto
con uomini che, non solo si opponevano al fascismo sino alle ultime
conseguenze, ma che non disdegnavano nei loro programmi di far uso degli stessi
mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo indusse
alla revisione e all'abbandono, dell'antifascismo. La compilazione di un
volume celebrativo del Croce, una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo
dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con
questo, anche se un compromesso rese possibile la pubblicazione L'opera
filosofica, storica e letteraria di B. Croce, Bari 1942), dopo strascichi
giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, tornò nelle biblioteche,
stavolta alla Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista
Popolidell'Istituto per gli studi di politica internazionale, diretta da F. Chabod.
Nel 1942 conseguì la libera docenza in storia della filosofia; fu professore di
ruolo di storia e filosofia nei licei, e nell'aprile 1943 ottenne, sia pure non
a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi annullato, a
professore di storia della filosofia, nell'università di Napoli. Nel 1949
conseguì la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo colse a
Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di P. Martini,
antifascista di tendenze moderate e conciliatrici; il movimento venne poi
stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finì trucidato
alle Fosse Ardeatine. Il C. ritornò a Milano con un giudizio negativo
sull'antifascismo del quale coglieva solo gli atteggiamenti scomposti di una
fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A
Milano stampò il suo B. Croce (Milano 1944). Il momento ed il luogo della
pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione
della polemica prefazione del C. sulle colonne del Corriere della sera, nella
Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la
soddisfazione di una momentanea popolarità. Mussolini mostrò
d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione del Biggini, ministro della Cultura,
s'incontrò col C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù dei
suoi precedenti di antifascista. In una lettera al Biggini del 21 ottobre 1944
il C. scriveva: "Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il
linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e
dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gli antifascisti
hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a
sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla
vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione
l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri"
(Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a
servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.
Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da Mussolini dopo
il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento
nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e
socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana
L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e
strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato
a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala
estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Il 31 marzo 1945 Cesare
Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli negò la
pubblicità per il giornale, considerando il suo "un tentativo di
conciliazione sul piano dell'antifascismo". Una polemica con l'Associazione
dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo
appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il
24 aprile, un giorno prima della Liberazione. Il C. dovette sottostare ai
rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del
previsto. Venne reintegrato nel 1946 al posto di professore e nel 1948
riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne
stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari
livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali
("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed
esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e
del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della
Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della
Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951). Nel 1946 ilC.
aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica anticrociana
si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel recupero del
cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non con
convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse
storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed
un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le
tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e
ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli
1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò alla rivista di C. Ottaviano
Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di
Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la
Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni
provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì
per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una
posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata
nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito
con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia. Rimproverava al
gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono
delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti
uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale
dei partito. Sull'onda dello spostamento a destra del 1952, espressione
soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore
allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si
presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento
sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia
attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio. Nel
1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si,
aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del
Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del
messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv,
di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli
1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano
1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli 1960)per cui
ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto
di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi
e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il
suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni
di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna
1962). Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli,
Carte Cione (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati,
Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della Facoltà di
lettere e filosofia dell'Istituto magistero di Napoli, anno acc. 1960-61, pp.
65-69; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani, LX
(1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino
1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino
1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965),
pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma
1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre
1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari
1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE I.
Sulla bibliografia Fascista
Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo meritevoli di essere
ricordati i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i
campi. Ottima la «Bibliografia del Fascismo», pubblicata a
cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma,
1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni riassuntive e quelle in Occasione
del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a
cura di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi dei vari
aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bibliografia fascista a cura di L.
Màdaro); Il Libro (Vita- ha; nel decennale della Vittoria, Milano, 1929
(complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a cura di C. S.
Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, ed. tedesca, Heidelberg, 1928;
ed. italiana, Firenze, 1927. Studi vari : Opere e leggi del Regime
Fascista, Roma, 1927; Mussolini e il Fascismo, Roma, 1929
(complesso di 30 studi); Dottrina e Politica Fascista, Venezia,
1930 (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni del
Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura della « Rassegna Italiana
Politica Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a
tutto Vanno Vili. A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig.
dello Stato, 1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio
1932-33 con la seguente pubblicazione annuale a cura dello stesso
Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale del Patrimonio dello Stato per
l’esercizio finanziario 19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si
vegga : De Stefani A. La Restaurazione finanziaria (1922-25). Bolo¬
gna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata: Finanza Fascista, Roma,
Libreria del Littorio; Gangemi: La politica economica e finanziaria del Governo
fascista nel periodo dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli, 1924; Gangemi
L. : La politica finanziaria del Governo Fascista 1922-28, Palermo,
Sandron, 1929; Gangemi L.: Le Società Anonime miste, Firenze, « La Nuova
Italia ». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori
Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del
Mi¬ nistero delle Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori,
Milano. Nei riguardi della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente
volume di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno
d’Italia, 2 voli. Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni
straniere quelle tedesche sono le più ricche e meglio informate.
Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia
come quelli che meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione
economica, e cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.;
Eber- lein G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.;
Leibholz G.; Leinert M.; Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting
F.; (per i particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo,
Voi. 1., a cura della C. N. P. A., Roma, X.). Si vegga inoltre: Beckerath
(von) E.: Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die
geistesgeschichtliche Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi
pub¬ blicati in « Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegege- ben
von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche: Die fascistische
JCirtschaft - Problema und Tatsachen, herausgegeben von G. Dobbert,
Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e
svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni dell’azione
economica corporativa Per una rassegna delle interpretazioni
dell’azione economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti
di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Catania, Studio Editoriale
Moderno, 1932. Sono ivi ricordati i contributi più notevoli,
teorici e descrittivi, nel campo dell’azione economica corpora¬ tiva.
Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi- cus » e Stato
Corporativo in : Giornale degli Economisti del gennaio 1932. Riportiamo
qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio
dell’economia corporativa, tralasciando di segnalare gli studi,
nume¬ rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di
consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della stessa realtà
politica corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza
Fascista in Gior¬ nale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. :
L’Eco¬ nomia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Lit¬ torio,
1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze, Poligrafica
Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Ste¬ fani A. : Scritti cit. ; Arena
C. : Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di
teoria della politica economica, in « Giornale degli Economisti ».
Febbraio 1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere
di quella corporativa: autogoverni economici particola¬ ri, con il
compito di emanare misure rispondenti, nei rami particolari, alla
politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le
corporazioni sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier
G. : A proposito di interventi statali, in «Ar¬ chivio di studi
corporativi », Anno IV, Fase. III, Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione
al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corporativa; Carli
F. : Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e
dello stesso: Le crisi economiche delV ordinamento corporativo
della produzione, in « Atti del II Convegno di studi sindacali
corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e forme delT attività
economica, in «Rivista di Politica economica » del 31 gennaio 1931.
(Secondo questo autore J economia corporativa non è altro che un’
economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua
realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell individuo
con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e
nuovo corporativismo eco¬ nomico in «Saggi di Storia e Teoria economica,
in onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio l’autore conclude che
il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie
enunciate dal Ge¬ novesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da
queste in quanto che inquadra le sue idee in una concezione piu
larga, che non tiene solo conto degli interessi dei singoli, ma anche di
tutta la collettività nazionale, che per essere sempre più aderente ai
bisogni ed agli interessi della Nazione, viene organizzata
gerarchica¬ mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e la
sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria, 1932;
Del Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento corporativo.
Comunicazione alla XIX riunione della «Società pel Progresso della
Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre 1930; Einaudi L. :
Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale »,
novembre-dicembre 1933; e dello stesso: Corporazione aperta in «La
Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla
teoria delVuomo corporativo, in « Studi sassaresi », fase. IV. voi. X. 15
gennaio 1933; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista
economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara,
S.A.T.E., 1929 e dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano,
Ediz. dei « Pro¬ blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed
econo¬ mia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Camera
corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara 1930; Fossati A.:
Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa,
in : « Rivi¬ sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene
questo A. che tanto la politica economica corporativa, quanto l’attività
corporativa come condotta ipotetica de¬ gli individui dei gruppi animati
di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e
in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla co¬
scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto perchè conforme
alle direttive del Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione,
ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della
Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬ ciente chiarezza
(univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Pur¬ ché non si mescolino precetti e teoremi, e
peggio, non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente
legittimo fare della economia corporativa una « eco¬ nomia » astratta,
trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il
procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli
economisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa politica,
Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello stesso: Corso sulle
imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La
scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto
all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino), e dello
stesso : Scienza, critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »;
Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso
A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », novembre
1928, ed Economia corpora¬ tiva e politica economica, in « Giornale degli
Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in « Rivista Bancaria » (Lo
Stato come inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche
Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la scienza economica
tradizionale e la notevole incompren¬ sione degli economisti ortodossi i
quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li-
erali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per
dare un carattere di socialità, che concili l’interesse privato con
quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario
giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per
eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare
F iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica pubblica o
statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬
nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni, di
desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini,
differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai
riu¬ scito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia
corporativa la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione
economica della produzione invece dello scambio, inteso nel senso della
ripartizione del prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i
fattori della produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del
lavoro, del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli
intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la
definizione dei fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso,
infatti, si dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione
economica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla
Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in
economia pub¬ blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non
as¬ sumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma
avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo
economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la
parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di adeguare
l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr.
di questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia corporativa,
in « Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ; Masci F.: scritti cit. e:
Saggi critici di teoria e metodo¬ logia economica, Catania (Sono raccolti
con lievi modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni
C.: A proposito di un tentativo di teoria pura del corpora¬
tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio 1930 e dello stesso:
Strumenti teorici di corporativismo, in «Giornale degli economisti»,
settembre 1930 (in questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione
teorica cor¬ porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru-
guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri scritti av. cit.
Contra anche Arias ed altri); Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio
economico nei regimi corpo- rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed
ottobre 1933; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista
», giugno-luglio 1927 e, dello stesso : Economia cor¬ porativa e
agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi sindacali e corporativi»,
Ferrara, 1932; Spirito U.: La critica dell’economia liberale, Milano,
Treves, 1930, dello stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa,
Milano, Treves 1932, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,
Sansoni, 1933. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di
questo A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente
polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo. Nella critica
all’economia liberale, infatti non fa che ripetere, con sintesi
brillante, quanto è stato detto dai seguaci della scuola storica tedesca
e dagli istituziona- listi americani contro la economia liberale. È
confusa la scienza economica con la praxis dei governi liberali e
demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che ripetere, in linea
essenziale, quanto il Sombart ha espresso nella sua opera monumentale sul
capitalismo e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto
contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare.
Nè è fatta alcuna discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza,
per es., ricordare che m Italla 11 capitalismo è, appena,
al suo inizio. Nei tentativi di costruzione teorica del corporativismo
fascista tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della <<
Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la
soluzione corporativa n clini entità assoluta tra Stato ed individuo che
riecheggia il pen- siero di Hegel e di Marx. Nulla di nuovo
nemmeno nella costruzione teorica la quale e apparsa a sfondo
social-comunista per l’ammis- sione della corporazione come proprietaria.
Propugna, inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬
diente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona
volontà, si può Scorgere nel sistema di Spinto anche un liberalismo
assoluto per cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del
corpo¬ rativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non m
tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi dall A. nel campo delle
realizzazioni pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per
il nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione
di prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata
nell’anno 2000, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.:
Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze, 1933). Contra a
Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit.,
Moretti, appresso cit.. Vinci, ap¬ presso citato, ed i seguenti scritti:
Croce B.: L’eco¬ nomia filosofata e attualizzata, in «Critica», 20
gen- naio 1931 ; Galli R. : SulF identità delV individuo con lo
Stato in «La Vita Italiana», novembre 1933; (jANGEMI L. : Individuo e
Stato nella concezione corpo - ratina, m «Atti del Secondo Convegno di
Studi Sinda¬ cali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932;
Bruccu- leri A.: L economia corporativa, in «La Civiltà Cattolica», 16
dicembre 1933 e dello stesso: Crisi e capi- talismo, nella stessa rivista
del 6 gennaio 1934, etc. Cesarini-Sforza in un lucido scritto:
Individuo e Stato nelle Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora-
.V'iV-’i 193 - 3 ’ anno *V, f asc - IV) mostra come la formula dell
identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e dei liberali.
L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè
stesso. Il grande significato del Corporativismo è la disciplina
economica nazionale. Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo
all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,
sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche. Il nuovo modello
della realtà economica non potrà non essere anch’eseo, naturalistico e
deterministico: non c’è scienza senza determinismo. Caratteristica delle
concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato Corporativo
non vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza ideale con
l’economia de¬ gl idealisti non va assolutamente confusa con le invettive
di quei messeri interessati ad un intervento che oggi chiedono e ieri
respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che hanno gli occhi
sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della
Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista di Politica
Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e
Individuo. Integrando ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel
considera l’economia corporativa come una economia non eu¬
clidea. Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in
« Giornale degli Economisti », maggio 1930 e più diffusamente in «
Lezioni di Economia Generale e Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova,
1934. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teo¬ ria dell’equilibrio economico generale.
L’ordinamento corporativo traduce nel diritto positivo un complesso
di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della
ricchezza. Ne risulta un diritto cor¬ porativo, definizione giuridica della
libertà economica c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e
la figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero.
L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un
sistema or¬ ganico, razionale di politica economica.
L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover
essere della vita economica. Dover essere: razionalità (teoria economica
pura), eticità (politica economica). Le forze direttrici corporative
devono fornire al dina¬ mismo economico il volano regolatore).
Vinci F. : Il corporativismo e la scienza economica («Rivista
Italiana di Statistica» etc., febbraio 1934. Questo A., conscio delle
interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle
con¬ dizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che la «
disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse fino ala
determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle
attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti
reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Cor¬ porazioni,
imponendo al Consiglio Nazionale delle Cor¬ porazioni un continuo,
pericoloso compito di revisione e di conciliazione in base a valutazioni
complicatissime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». Sulla
Finanza Corporativa. Si espressero anni addietro a favore del
contingente : Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in
«La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il contingente: Einaudi,
Principii di Scienza delle Fi¬ nanze, Torino, 1932, pag. 257-262. Ed
oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini,
loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in « Echi
e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso : Ordinamento corporativo e
ordinamento tributario, in « Atti del II Convegno di Studi Sindacali e
Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi. II; Bonanno:
L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e
prat. trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e la
sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357; Uckmar : Ordinamento
Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I Convegno
nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso
una revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto del
Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato corporativo, in «
Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬ nanza corporativa, in « Diritto e
Pratica Tributaria ». Roma, 1929, ed infine, sempre dello stesso:
Ordina¬ mento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del
II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi. I.
I ra questi autori la corrente radicale trova favorevoli Benini, Bonanno
e Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e
per¬ ciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei
suoi studi esprime delle proposte che trova consenziente tutti coloro,
fra i quali lo scrivente, che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento
corporativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei fini che gli
conferiscono caratteri fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo
articolo: Eva¬ sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4
del 1929), e Genco («Comunicazione al II Conve¬ gno di Studi Sindacali e
Corporativi », Ferrara, 1932, voi. II) i quali vorrebbero arrivare
all’abolizione o per lo meno alla riduzione degli organi finanziari
statali ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,
contingentista moderato, riconosce che il potere impo- sizionale
tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori
di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle
Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a presentare
un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si
accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-
stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre
agli altri rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel
buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e
perciò si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non
meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali.
Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-
Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione
tributaria e Stato Cor- porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e
dello TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria»,
giugno 1929; Gangemi L- rinanza Corporativa, in « Rivista di
Politica Economi- Stato C e dell ° stesso: La finanza nello
Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r”
cernii in «Rivista di Politica Economica», fase. VII-Vili
(e una carica a fondo contro la funzione graduale, ransitona e
limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il
quale ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio» f
, 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e problemi della-
economia finanziaria corporativa, Ales¬ sandria Colombani, 1932 (è questa
una diligente ras- segna dei problemi corporativi della finanza).
Infine, si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni
m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e CEDAM L
Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra
opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri
tributari a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬
te « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe
spesso non sarebbero neppure in grado di svolgere efficientemente data la
limitatezza e l’inade- guatezza dei mezzi che hanno a propria
disposizione, anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti
di potersi creare m tal modo animosità lesive di quella compattezza
dell’Associazione Fascista, che costituisce uno dei suoi requisiti più
essenziali in relazione ai fini propostisi dal nostro
legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La
ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto riguarda
l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette,
proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul
patrimonio-. Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il
procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni
pongono in evidenza i tributi globali e personali come il fondamento di
un corretto sistema di imposizione di¬ retta in luogo delle imposte reali
imperfette e causa di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro
sistema at¬ tuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da
una imposta personale, la complementare, che con i procedimenti fatti
approvare dal Ministro Jung pre¬ senta una struttura che le consente di
assolvere agli im¬ portanti suoi compiti. Ma, appunto perchè
la riforma proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro
sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi
e ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e
sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una
riforma così vasta e complessa che le condizioni del- 1 economia
nazionale e della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente
tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è
consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra
le due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il
contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente che trova
riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche
nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee
generali sulla trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al
Primo Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del
Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le finanze
pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il
Griziotti, se non erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate in
modo da rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico
e razionale che sodisfi anche i criteri della giustizia nella
ripartizione dei carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata
ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza
fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste idee
evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) « Nello
Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬ mentalmente sulla
iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che reggono
l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge
un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato
». . Nello Stato corporativo anche la politica finanziaria deve
necessariamente seguire le direttive, che non coincidono nè con quelle
del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più vicine)
nè con quelle del sistema collettivista. Essendo l’imposta
uno dei principali strumenti di cui lo Stato — qualora rispetti il
principio della proprietà privata — si può valere, per intervenire nel
cam¬ po dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo
ricorso uno Stato, che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta
l’interesse nazionale lo richieda. E essenziale rilevare che nel
sistema corporativo, mutano fondamentalmente i modi dell’azione
statale: mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini
di benessere e prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di
tutte quelle forze individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo
Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa
esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti,
non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma
facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa
nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato
Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti fareb¬ bero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse
nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La
respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione
del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”;
p. 99; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica
Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore
italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”; p. 211,
“La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale
della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo
di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed
economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”,
“Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe
militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini,
contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La
Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come
INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de
Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO,
l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la
caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa,
principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo,
corporativismo, ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito,
“pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A
member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron
Grice e Civitella: l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Montorio
al Vomano). Filosofo italiano. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco).
(Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on
Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s,
not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them
days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’
as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes
the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it
is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive
it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo
illustre autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti
interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima
conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età
così avanzata, l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose
esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di
espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di
Berardo e Margherita Civica, nacque nel castello feudale di Leognano, in
provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo
XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il
capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il
motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi
Savorini, il cognome originario era “de Civitella”. All'interno della sua
famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di
madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a
Napoli, per il completamento degli
studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le
materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per
il diritto e Mazzocchi per l'archeologia. Nella città partenopea si
laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito
diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se
ne spogliò subito per motivi di salute. Nella prima parte della vita si
dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia
politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel
miglioramento e l'abolizione di molti abusi. Con il ritorno in patria si
inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di
Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le
premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del
territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi,
Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu
allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto
noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di
libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente
del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio
della Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in
esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far
parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.
Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli
archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle
Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla
presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a
Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al
conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei
conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel
fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche
furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in
quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano
rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I
fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e
contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata,
che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.
Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò
l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I
principali indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di
Civitella, come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;
In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia
massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza.
Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo
illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i
Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la
descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro
della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni,
tre noti massoni del tempo. Perrone pubblica un saggio basato sulla
corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente
massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge
razionaliste". Altre opere: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip.
ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe
Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe
Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de'
suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria
e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali
Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della
antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare
su le origini italiche” (Teramo, Angeletti). Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il
Palazzo Dèlfico, Edigrafita Nico
Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della
rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo,
Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del
commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in Giornale arcadico di scienze,
lettere ed arti, Raffaele Liberatore,
Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie,
Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De Tipaldo Biografia degli Italiani
illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù
di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della
vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Raffaele Aurini, Delfico Melchiorre, in:
Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,
ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo),
Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di
storia e letteratura, Vincenzo Clemente, Dizionario biografico degli Italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori,
L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro
abruzzese di ricerche storiche, Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme
politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni
ETS, Nico Perrone, La Loggia della
Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo,
Sellerio. Treccani. Il dritto romano e sempre incerto ed arbitrario. Tale il
suo carattere, poichè sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure
quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono bastanti per renderlo
mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle
che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed accio questo
ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e
de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gli
innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti
gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già
si vede che io parlo delle opera del giureconsulto Sesto Pomponio, della quale
si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo
dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato giureconsulto aveva raccolto su
tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio incomincia la storia del dritto
dai re di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca
abbastanza oscura non vi sarà pero materia di dispute, poichè Sesto Pomponio parlando
conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con
incerte lege gi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè
si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella
qual forma Roma ebbe il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle
precise parole. Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere
instituit. Ne altrimenti doveva avvenire, poichè quella prima associazione
essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora
positiva forma di società, doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando
che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il
numero de primi suoi compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era
retto ve s9 ) da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma.
I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri
della patria, i forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo
questi primi tratti caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a
raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo
divise il popolo in tante parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va
cura delle pubbliche cose, e fece in seguito la legge che si chiama legge
curiata, come no, fecero ancora i re successivi, e tutte furono, raccolte da
Sesto Papirio, il quale visse al tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome
dell'autore quella raccolta fu chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle
dispute istoriche e critiche delle quali si occuparono gl' interpreti di
Pomponio, ma osservero che sebbene da principio parli dello stato informe di
Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu
data una forma, non una costituzione alla città nascente, e come dai re fu
promulgata la legge curiata. Per due secoli e mezzo in circirca; quanto duro la
regia signori, Roma non ebbe dunque che questa o quella legge occasionale, e la
società fu mantenuta più col governo che colle legge. Prima intanto di passar
oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non sarà inutile il
presentare in poche parole lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca
dei re, e quale fosse l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E
poichè di cose che non ebbero autori contemporanei o vicini, non è possibile il
ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle
circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto
il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che
quella società incomincia da un adu namento di persone appartenenti a vari
popoli non solo italici, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria
associazione avendo Romulo per capo visse da principio di prede e di rapine, gusto
che fece il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di
conquiste, come gli avol toi comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono
poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio
bisogno di leggi, la legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu
fondata come Livio si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute
erano decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e
nelle società de’ briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia, e così
avvenne di Roma. Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono
quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’
commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare
certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile
plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie
nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle
stesse persone secondo i va. rj rapporti ne' quali erano considerati, o di
Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata su le
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ebbe alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagli antichi autori,
parlando dell’origine delle clientele si esprime in termini rappresentativi
della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo.
Patrocinia appellari capra sunt cum plebs distribuia est inter paires. Ne si
devono contare per un ordine intermedio di citetadini quegli equiri o celeri o i
fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato
politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi
di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a
consolidare in quella forma nella quale da principio era stata abbozzata. Sotto
il re Numa vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento
della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al
delitto, lo stabilimento dei ministri e degli interpreti della divinità; ed in
somma un principio di governo teocratico, pel quale pare che sieno passate
tutte le nazioni prima di portare su le cose civili le considerazioni proprie
della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel
re teosofo ebbero i primi principi le scienze ancora della legge e del politico
governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in
tutti gli atti umani e farli nascere ancora in un popolo quanto ignorante tanto
superstizioso. Così par che facesse Numa o per idea propria o per imitare i
stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento; cosi
gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina
nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due
aristocrazie, politica e sacerdotale. Su questo piano Roma crebbe
successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda contro le regie
intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri seppe
sostenersi. Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale idea pero
del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il primo per
quanto io sappia a darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il quale riunendo
alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle
origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le
ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un principio naturale politico,
che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre
dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla qualità delle circostanze,
dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce
di Vico furono poi seguite dal Duni e fermatosi particolarmente a considerare
il governo romano, dimostra che Roma nacque aristocratica, che il re none che il
capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi ebbero la quarta di cittadini che
furono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia politica e
l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli
patrizi appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza
(cives polis), i quali poi furono gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia
luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio
e fa vedere che il re non ha che una parte del governo o dell’amministrazione,
ma che la somma dell’autorità, la vera sovranità, il potere legislativo, il
dritto della pace e della guerra risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il
dritto di eliggersi il loro re o principe. Furono essi i depositari delle leggi
e delle medesime i (Duni Orig. del Citted. Romano. 1) ministri ed interpreti: e
siccome per un’eterna verità l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio
della superstizione. Cosi dal corpo aristocratico si sceglievano i vari
sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici fu specialmente destinato a dar i
giudici alle divine cose ed umane. Quindi la conoscenza della legge e
l’amministrazione delle medesima fu un dritto esclusivo e divenne una dottrina
arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo
d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine de’ patrizi. Codesta emanazione
della prima teocratica idea non solo si conserva per quanto ebbe di durata il
governo del re ma per quanto visse la Roma. Una repubblica, colla sola differenza
pero che come crebbero le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e
da essi nacquero i sentimenti di libertà e di eguaglianza, così quelle idee si
andiedero a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli
commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva in
Auenza. E necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo
stato della legge, dell' am ministrazione giudiziaria e della giurisprudenza
ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci nella particolari legge sotto il re
emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge fu
minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione delle medesine essendo
stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire
ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare, arbitraria, e quale ad una
nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva solo convenire: e per
conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio scrisse, che sotto i re sine
lege Gerta, sine jure certo vissero i romani. Lascio agli ambiziosi di glorie
filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi superstiti frammenti della
legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti ne fecero poco conto e le
lasciarono finalmente perire. Chi volesse però riconoscerle, troverebbe in esse
la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche della prima
aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che il governo
di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gli eroi
della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che gli eroi
dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libera però
non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della
libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero
cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica
e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita
dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad
intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus..ae. iterumque cæpic populus
Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem, idque
prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto abbassata
dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione
ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti,
e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale
ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il
potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti,
tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano
oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo
debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata
dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps),
che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può
escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute;
ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri
si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut
civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che
niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi
una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e
l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano
ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre
al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge
e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per
frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri
costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores
patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni,
e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo
espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di
sedare le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei
sentirono l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano.
Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
furono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più
buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i
quali dovevano mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia
a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in
qualche luogo d'Italia, e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali e perchè nulla mancasse di condimento
aristocratico, si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
dodeci tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe,
sarebbe un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica
è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si
dovesse servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio
o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il
patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la
usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la
religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del
linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che
la legge si facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il
patrizi sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi
stesse avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il
popolo vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole;
sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante
vicende le dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella
legge ogni consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza
resiò in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da
Duni: la favola d;essere state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può
scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia •gli avanzi
di quelle leggi. La scovri ancora il E 4 po. (Vico: Scienza nuova; Bonamy, Memoir.
de litterar. de l' Accad. de Paris. Tom. XVIII; Duni: Dėl Cittad. Rom) popolo,
quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che una legge civile, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessavano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi
bisognavano una legge costituzionale che avessero ragguagliati i dritti, che li
avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai
suffragi. Niente di tutto questo; e la plebe resto delusa della sua troppo
malfondata speranza. Vedremo in seguito come seppe rinnovare le giu ste sue
pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti
delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per
vedere almeno, se meritano tutti gli elogi de' quali sono state ciecamente
onorate dagli antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne pro
venissero quegli effetti felici, ai quali produrre era no state destinate.
Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi
molto felice nel darne le pruove; così condanna Solone, per non aver imposto
pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale
per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza della Romana legislazione per
aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam !
esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con Logica forense. Tale fu la sa
viezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si
riguardano per la parte crimi nale esse furono Aristocratiche, ingiuste, severe,
é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci
sono restati, andavano al la conservazione dell ' Aristocrazia: se per quella
della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti
del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano esser ana
loghe alle leggi ed all' usanze: se per la parte te stamentaria, è facile il
vedere, ch' esse contene yano la massima ingiustizia politica, per conser vare
in forza gli Aristocratici dritti: della stessa indole furono le indegne leggi
relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali
sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la legge
furono pur sempli ci, come devono essere in un popolo barbaro con pochi
rapporti civili; ma le usure d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà
esaminar quel te leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che
le leggi devono avere colla natura e collo stato civile, troverà senza fallo
ingiusti ed irragionevoli gli encomj alle medesime attribui. ti. Ma forse
neppur in Roma si pensò tanto favo revolmente di esse, poichè col tempo par che
fos - sero del tutte néglette e dimenticate. Cicerone stesso riferisce che al
suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse ap
prese a memoria, era poi passato di moda tal co stume: discebamus enim pueri
XII. ut carmen ne cessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di
Gellio erano cadute. in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise come fossero
le leggi dei Fauni e degli Aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel
quale si possono difendere gli antichi panegiristi delle leggi decemvirali;
poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti
che danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la giurisprudenz'antica a
quel la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone risultava in favore
della prima. Ma che i Giure consulti moderni, e quelli specialmente della setta
degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come
il più interessante per MC 75 per la conoscenza del giusto, e rincariscano su
gli elogj degli antichi, cið non può essere che l'effetto d'un Letterario
fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole fonté ogni equità fu troppo
credulo alle espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie fu
infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costi tuzione non fu
cangiata, e da quella vantata ugua glianza la plebe neppure ottenne di
acquistar la condizione desiderata. Per quel principio Teocrático, di sopra
accen nato, ciò che distingueva in tutti gli effetti civili tanto pubblici che
privati, il patrizio dal plebeo, era il dritto degli Auspicj. Era questo dritto
che dava la vera qualità di cittadino negli affari sacri e ne'civili; ed
incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj
si produceva il connubio o nozze solenni, dalle qua li derivava il carattere di
padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie
di nozze era de' soli patriz;; poichè gli al tri ridotti al matrimonio civile o
naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli
auspicj e propriamente gli auspi cj maggiori poi erano i soli mezzi per aver
drito 1 (76 ) alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato.
Or niun cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su di un articolo tanto
importante in quella costituzione nella quale tutto era sacro; e la Storia c'insegna,
quanto poi costasse di tran quillità alla Repubblica, il voler introdurre in
qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza
de' tempi più antichi di Roma, pure si può asse rire, ch ' esse non avessero
propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si
crederà intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità
principali, cioè d'eso ser pubblico e generale, avesse resa ceria e stabia le
la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno
doveva trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la
legittimità de' suoi dominj; ma su questa con seguenza ci fanno nascer gran
dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che
il principal carac tere delle prische Aristocrazie fu la misteriosa cu stodia
delle leggi o consuerudini, e della religione, ciocchè formava il privilegio
esclusivo, o la pri yatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del (77.
Det ZE =; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza Romana era
fondata parte su l’ingiustizia, parte su l'errore: su questo, perchè la loro
scienza saa cra ed arcana non consisteva nel celare al volgo i misteri della
natura, l'origine della cose, l'enera gia della forza motrice, la fecondazione
dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni:
la loro scienza arcana si raggira va sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo
degl uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose,
alle quali non pud appartener mai il nobile titolo di scienza o sapien. ma
quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo facevano servire all'
ingiustizia, poichè con tali mezzi si mantenevano nell'assoluta disposizio ne
delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più
forte, cioè alla soy version ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle
leggi qualunque fossero erano pur pubblicate, una parte della scienza arcana e
dell' aristocratico potere sarebbe andato a svanire, se non si fosse trovato un
modo col quale si ae vesse potuto riparare una perdita si grave. Ques sto si
effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col
rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78
)* gi; se non fossero state avvalorate dalla doro re condita sapienza. Essi
dovevano spiegarne il sen so; essi conoscere qual dritto nasceva da una tal
legge; qual era l'azione che ne proveniva, quale il modo o la formola di proporla,
quale l'eccezione che poteva impedirla; e finanche si arrogarono come un
mistero sapere i giorni ne' quali si poteva amministrar la giustizia senza
offendere i Numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere
inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una Legislazione. Essa vanta
un ori gine Aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla
malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza fosse nata su
bito che vi furono leggi incerte ed arbitrarie; pu re non si confermd, estese e
stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo
prezioso compendio dei dritti degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le
mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incominciò a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le ne by cessarie dispute del foro. Tali
dispute e tal drit » to non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79
) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con pocabolo comune
è chiamato dritto civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si
fecero nascere le azioni, colle quali si doveva discettare a litigare: ed
sacciò non fosse in libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere
certe e solenni '; e que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge,
o sia azioni legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre specie
di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile deriva „ to da esse; ed
azioni della legge, composte su i s dritti antecedenti, La scienza poi tanto
delle » leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse era
riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona che
pre sedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine visse il
popolo per cento anni in » circa, „ Quale orribile contradizione ! Appena
pubblieata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata
cosi insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta
zioni. E codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi?
Ogni parola di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis
80 ) gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile
tanto encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni
de'Giu. risprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti erano mai
quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi in
massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune. intelligenza e
di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse, e si
mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið era sicuramente
per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione
arbitra sia, qual era il grande scopo dell' ordine Aristo, cratico. L'unico
mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello d'inventare le azioni, cioè
delle for mole colle quali non solo si doveva agire o ecce pire in giudizio, ma
secondo le quali si doveva no regolare i contratti e gli altri atti civili,
accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non bastò loro di aver la
privativa de' giudizj; poichè colle leg gi certe difficilmente avrebbero potuto
abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova
pratica una nuova legis lazione da surrogare all'antica scienza mistica delle
leggi, per tenerle sempre in quella severá cu stodia, colla quale prima delle
XII. tavole teneva no le antiche consuetudini. E perchè non si man casse di
venerazione a tale straordinario stabili. mento, i Pontefici ne furono fatti
depositarj egual mente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diret ta non a dispensar
giustizia, ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo, darà segno, di non aver
avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si
trattava già di fac leggi, si trattava solo di tener il popolo in schia vitù:
perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di privata cittadinanza avesse
potuto godere anche quello d'Isonomia, cioè dell' eguaglianza delle leggi,
qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione,
avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che tanto F ambiva, ma che più
sentiva che conosceva. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o
privala legislazione, dicendo, che la sua condizio de ea in questo assai
peggiore di quella dei po poli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc
che riguardava i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali,
ciocchè agli altri non era Ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana era
inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il
dottissimo Vico con gran proprietà d' intelli genza penso che quel notissimo
motto di Solone: conasciti, fu piuttosto un précetto politico che mo rale.
Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve ra giustizia Solone ricorda va con
quel motto all' oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi
per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano
non eb be un Solone, che gli desse così utili ricordi; ne forse ne aveva
bisogno, poichè abbastanza si ri conosceva, ed agli insulti de'Patrizi
rispondeva, che non erano fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù
dall' Empireo. Avrebbe perd avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una
costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte
degli abusi del potere Ari „ stocratico, ma non giunse mai a formare una pere
ferta Repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi
della Giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla
grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde an che presto nella voragine del
disporismo. Ma ritornando a quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente
alle XII tavole, e che diede nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato,
dirò, che sebbene da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa
giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre
Gravina, tuttochè pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe
nascon dere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan
in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj
Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F
2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica
giurisprudenza, avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive
giuris prudenze dette media e nuova, ed avrebbe discon * fessato gl '
inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto perd si
è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris
prudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon
senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi
nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle
per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le
leggi, è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella
corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la
ragion civile, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare
gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di
guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono
mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll' inventare le
azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le
guastarono; ma de' nuovi stabili men (85 ) menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo:
institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut
Senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante ato.
bitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa
legge, come vedre mo in altro luogo, e i giurisperiti seguitarono ad essere
veri Monopolisti delle leggi. Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani
avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la
storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo
tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi
guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa che Roma allora e
per alui secoli non presentava al cuna occupazione che potesse allettare alla
vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scien ze, e dal prodotto
da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non amava
l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva, in vece di darsi alla cabalistica
(Livio) e viziosa giurisprudenza, si riparava nella esercizio dell'agricoltura
sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo
istruire, mostrandoci, che la famiglia la più in festa allo Stato, la perpetua
persecutrice della li bertà popolare e della Giustizia pubblica fu una famiglia
di giurisprudenti. Tale fu la Claudia; e sempre si è veduto che dove dottori e
forensi 80 no, la discordia prende il luogo della pace e della naturale
tranquillità. Ma ritorniamo a Pomponio. Egli ci dice che quella mistica
giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero a gli altri
autori dicono, ch' ebbe una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene
alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il fondo del la cosa · Seguita
dindi Pomponio a racconta re, come quelle formole ed azioni, essendo ri, dotte
in forma da Appio Claudio, cotal mistico libro gli fu involato da Gneo Flavio
figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato
e fattone un dono al popolo, » questo gli fu si grato, che lo fece pervenire ad
» esser Tribuno della plebe, Senatore, ed Edile „ Questo libro contenente
quelle azioni delle quali > si è già parlato, dal nome dell'editore fu deno (87
) Si po, mitato drino civile Flaviano, benchè egli nulla » vi aggiungesse del suo.
Nel crescere poi in Romi la popolazione e nel multiplicarsi gli affari maticando
alcune specie di formole, Sesto Elio non » guari dopo compose nuove azioni e ne
pubblico co un libro chiamato Dritto Eliano,. trebbe" ragionevolmente
pensare, che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto
cívile, le ' azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica
ragione; e che il popolo illua minato su i principj legali, sulla condotta
degli affari, sul modo di amministrar la giustizia,. sulle ordine giudiziario,
non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto,
e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu ' al trimenti andiede la bisogna į poichè
non volendo i patrizj perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di
quella scienz'arcana, che forma va la base principale del loro ingiusto potere,
tro* varono il'modo, onde far rimaner il popolo de fuso. E come nelle sette se
si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, pres
stamente si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero;
cost i bravi Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell' ordine, e conservarono il grande arcano della Giurisprudenza. Le formole
e le azioni furono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero
rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma
ascoltiamone, Cicerone, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento; Erant
in In igna potentia qui consulebantur: a quibus etiam dies, tamquam a Chaldæis
petebantur. Inventus est scriba quidam Gn. Flavius qui cornicum oculos con
Fixerit, & singulis diebus ediscendos fastos populo proposuerit & ab ipsis cauris jurisconsultis coruin
sapientiam compilarit. Itaque irati llli, quod sunt, veriti, ne, dierum
ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege posset agi. notas quasdam
com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non fu di alcun utile
dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè in breve tempo
seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosiegue, la Storia
troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi
sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha stessa
condotta". La Giurisprudenza fu latente, in çerta, arbitraria, ignota al
popolo,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale lungi da
quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza che cerca
il vero, per render lo di comune demanio; da quella Giustizia trova i principj
nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore; da quella naturale
benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo civilizzato;
da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla
Giusti, zia;, lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi del Campidoglio non
sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di
corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so ciali, dal vile
interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso di
un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza !
Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto Romano ci accenna
l'origine de' plebi. -. sciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate
dal popolo o dal Senato, e delle quali in appressa, vedremo gli effetti ee'l'l
valore, e soggiunge, che » nel tempo stesso anche dai Magistrati nacque » un' 1
el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini,
di qual dritto i Magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura,
& perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degli editri, da quali si
costitui il » Dritto onorario, cost detto perchè proveniya dall'onor del
Pretore, • E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che
nacque delle costituzioni de' Principi, cost riepiloga tutti i fonti che
costituiscono il 'dritto Romano.,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la
legisla os zione è costituita del dritto" o sia legge; da » quello che
propriamente si chiama Dritto civile, che non è scritto, è consiste nella sola
interpre mtazione de' prudenti: dalle azioni della legge » le quali contengono
le formole di agire; dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del »
Senato, dagli edini de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario; dai
Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente,
dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che Pomponio ci
ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori
tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la
giurisprudenza Romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per
quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità,
d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse ac
quistando qualche dritto su l'Aristocrazia, puro questa sostenuta dal
Sacerdozio, qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa de’dritti
pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi, e sotto le chiavi
del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione della giustizia.
Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente
il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e
della giu stizia, e che tanto più diventa tale autorità effica cé, quanto più
le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie. Ma per vedere come questo
continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre della stessa
indole, prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de' senatusconsulti ch'
ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto; cui si volle dare
il titolo di onorario, ma che ves dremo' non essere stato degno di alcun onore.
Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano
la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di
buon senso e Cicerone stesso le. deridevano e tenevano in altissimo disprezzo,
cre do che dopo due mille anni potremo far noi al-, trettanto, e chiunque non
sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurispru-,
denza. Rifletterà solamente, che quando di cose semplicissime si vogliono far
misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si
devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare
impropriamente le imma gini e le finzioni alla semplicità e realità delle co se
e delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero,
e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo
civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle leggi e della
giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la
plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e
questi per allontanarli, facevano tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi il
foro Romano; ma accennerò so, lamente ciocchè importa, per passare all'origine
del dritto onorario. La forza dell' opinione non aveva più molio. scevano
valore contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a
partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora erano stati privativi de
patrizi, come fu quello della questura e de' tria buni militari, non parve foro
di aversi assicuraii i sospirati dritti, se non ottenevano la massima delle
Magistrature, vale a dire il Consolato. E poichè già per lunga e dolorosa
esperienza cono che sempre col manto della Religio ne i patrizj cercavano
coprire le loro pretese, o tependone lungi il volgo profano, ailontanara lo da
tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro
che per farsi strada al Consolato, si rendeva necessario l ' ardi mento di
entrar ne' sacri pene trali, ed andar an che essi a studiare e consultare un
poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor rendo alla fine
il quarto secolo di Roma, furo no queste cose combinate; cioè che invece de'
Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de De. cemviri, e che di questi
cinqué patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella nuova elezione de
Consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro pae trizio. Invano Appio Claudio
montà in tribuna per fare non arringa ma una predica Teologica contro le 94 et
le nuove idee filosofiche sorte negli animi della plebe Romana: invano ricorse
alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minacciò d anate ma quel
popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma (diceva egli ) fu fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo fu mai creato cogli auspicjse
che in fine canto era il creare i Consoli dalla ple. be, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne
finalmente il conso lato. Se questo colpo fosse doloroso a sostenere per i
patrizi, è facile l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare
alcun riparo ef ficace, si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non
perdere intieramente quel privativo potere che dipendeva dal consolato.
Pensarono dunque sta (12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova
Magistratura, che potesse con servare nell'ordine patrizio l'amministrazione
del da Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò che riguarda l'esecuzione
delle leggi civili. Quindi col pretesto che i Consoli erano quasi sempre fuori
di città alla testa degli eserciti, onde non poteva no adempire agli ufficj
della giudicatura, proposent to di stabilire un nuovo magistrato che adempisse
& questa parte dell'Amministrazione, e fu ordinato che si traesse dai
patrizj e si chiamasse Pretore. La pretura dunque fu stabilita per conservare
nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario o forense del quale avevano
facto fin allora uno scempio cosi crudele. Le leggi e la Giurispruden za
seguitarono ad essere malversate, ma per poia chi anni durd privativamente
nelle mani de' patri zj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si pud
fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che passo di mano in mano
fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il no. me Romano e
l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato Pomponio, nacque
da gli editti, che emanavano į Pretori nell'entrare in esercizio della loro
Magistratura, ed essa façeva il maggior latifondio della Scienza forense.
L'importanza dunque della medesima ci merte nel do vere di portarvi sopra uno
sguardo particolare, seguendola brevemente nel corso della Storia', ve derne in
qualche modo l' uso, il carattere; e gli effetti, Dopo lo stabilimento della
pretura e della comu nicazione a tat officio delle plebe, e più dopo ese guito
il censo di Fabio Massimo il governo di Roo ma perde la forma Aristocratica,
benchè non ne perdesse lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de'
dotti, che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama
Democrazia: La libertà popolare fu molta, e qualche volta ecces siva a segno
che degenerd' in licenza, poichè essa non era limitata dalla legge; ed il
dritto de' suf fraggj ed il potere legislativo non ebbero mai quel la
regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e
tranquillo. E non fu mai tale il popolo Romano, poichè la for ma del suo
governo non fu costituita su d'un pia no antecedentemente ragionato nel quale
dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse ri montato alla
necessaria divisione del pubblico po tere, e questo ripartito in modo che le
varie par ti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 )
tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero
al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind'
innanzi frequente oco casione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia
patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione,
essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germi
nazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli
che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo final mente
a vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza in questo nuovo ordine
di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata, mente trattarono
degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto Eineccio ed
il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più
compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla
Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna
conducente al loa G TO (1 ) Heinec. Hist. Edict. (12 ) Memor. de l'Accadem. des
Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impe, so ancora
non solo quelli che propriamente Man gistrati erano detti, ma diverse altre
cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto
o il costume di fare degli edinti Quante che fossero adunque le divisioni e
suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti
fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto, ebbero l'uso e la facoltà di
straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai Pontefici e dai Tribuni
della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e
Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero avere il dritto di far
editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa
era compresa. Fra tanti Magistrati perd che eb bero o si arrogarono cotale
autorità, gli editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una
nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori. Abbiamo già detto di sopra che
dai patrizj fu inventata e fatia stabilire questa nuova Magistraa tura a
consolazione ed indennizzamento della per dita che avevano fatta d'un Consolato
passato al la plebe; e quindi ottennero, che il Pretore dal loro ordine dovesse
essere prescelto Non durd mol, (99 molto intanto questo, privilegio poichè la
plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè
nel 417. volle anche para tecipare a tal carica, mentre ancora era unica e non
divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo,
cioè nel anno 510. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed
oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella
Città, de' quali alcuni erano addetti a rami di cause para ticolari,
Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè
ci viene attesta 10 da Livio e da altri, cioè che essa fu surro gata al potere
giudiziario, che i Consoli esercita vano, si dovrebbe naturalmente pensare, che
se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giu risprudenza, e ne fecero
nascere una puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o
decreti o sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la
conferma della pubblica auto rità, e passate quindi in dritto consuetudinario
Ma non fu certamente per tal motivo, nè si po trebbe facilmente immaginare, che
essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giu. 3. G 2 (100
) Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essen do essi semplici giudici o
ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo
usurpare l'autorità Legislativa, che il dritto fu cangiato, e gli editti più
che le leggi furono osservati, e maggior uso ed autorità ebbero nel Foro. Ma se
i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro
officio era solo di applicare.la legge al caso particolare, o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di. sputava. Un Giudice non può
creare un dritto col le sue sentenze, poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo,
cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non può crear un dritto, molto
meno dee cid poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della
Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i quali si alteravano, si
cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci pre sentano
degli atti di autorità arbitraria, tempora ria, ed incerta che non possono
formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla - potestà
legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia
abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no
contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere
divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in
potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del disporisano, e dispotico si
può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio
supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta
carica fu surrogata al potere giudi zionario che avevano prima i Consoli, il
quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado
d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano tratti, non fu difficile
il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giusta mente la cosa non
nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello
di far gli editti. In fatti se si va all'origine di que sto dritto, ne
troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri:
espres sione tanto generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le
potestà non esclusa la le gislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi
e di editti furono di uso promiscuo: Ma Papiniano è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che fu introdotto a
pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il drilio civile. Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium: Ecco dunque la vera origine del drixco
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gli editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, cor reggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o noci
va alla Repubblica (13). Ma che altro è mai il Dispotismo, l'odio de' popoli
czualmente e de' buoni regnanti: Se le leggi mancano, bisogna far le, e non
solo il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a
fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na
legge, ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle
erronee, nè ad interpretarle oscure · Lascio le tre prime condizio ni o
circostanze delle leggi, sopra le quali non pud cadere alcun dubbio, che il
restituirle in qualun que modo non possa spettare ad altri che al So vrano; ma
in quanto all' interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che
abbia stabia lita la sua autorità, rifletterò che l'interpetra re o interpatrare
da principio fu in Roma del so to ordine del patrizi, quando tutti i poteri e
spe cialmente il legislativo erano ristretti nell' ordine "Aristocratico.
Essi dunque che facevano le lega gi erano i soli che potessero interpretarle,
uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato.
Quando una leg ge è oscura, non vuol dir altro, che il non sa persi
precisamente, ciocchè essa comandi o pre scriva; lo spiegarlo deve venir dunque
dalla stes sa autorità, che l'ha emanata, sola interprete le girima di se
stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità
illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi
legislatori e Giustiniano stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104
) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i
loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior
male da esse prodotto fu d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito
la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i
Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data
ai Pretori cogli editti prova visibilmente due punti: il primo che le leggi era
no così incomplete, come sono quelle dei popoli bara bari; e che i Romani lo
furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà,
ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia
ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come
scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù,
e che con nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma
gli onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola
Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per
quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto
Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, do vremmo
anzi prenderli per riformatori o corret. tori delle leggi. Tali furono in fatti,
ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa: lo furono
solo per abuso, vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura, e fer
nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti
delle sue leggi, e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la dif
ferenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar
veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene, avrebbe trovato più oppor tuno
mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione. Ciascuno sa che
in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propo neva
annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste erano poi
approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia
che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto rità straordinaria,
se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio stabilita privativamente
per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo potere per trent'anni. Per
sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi
erano quattro specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa:
translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino
alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ri stringerò ad alquante
osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali do
vevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, furono quelli
appunto, da'quali deri varono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts
dictionis causa, pei quali il Pretore esponeva nell' albo le formole delle
azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto
giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de'
Romani in tali formole era com preso, chi era autore delle formole, lo era in con
seguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio mancava a quelle
formole per qualun que causa, cadeva dall ' azione, o rimaneva con inutile
eccezione cioè perdeva la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto
suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato div
enuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere,
che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non aven do idee certe e
generali de' principj del driito, fa cessero gli editti ciascuno secondo le
proprie co gnizioni ed idee: poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni
delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di
giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non
sarebbero stati prescrizioni annua li, ma avrebbero avuta una continuazione o
vera perpetuità. Nè ci faccia illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis,
poichè quella perpetuità era ristretta ad un sol anno. Il Pretore o Pretori che
succede vano alla carica, avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo
un nuovo sistema giudi ziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj;
e sebbene questo non si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i
succes'sori conser vavano integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti,
ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, era sempre però
in liber tà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo co nio, che perciò portarono
il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono
portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agli amici
della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio
pretorio, e gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le
loro fora mole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le
disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo, che
fossero mol te le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè faceva un nuovo
intrigo, ed accresceva l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere
quando i Pre tori furono varj, e vi era in Roma quasi una po polazione di
Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gli editri, quel ch'era
giusto pres. so di uno, si trovava ingiusto presso un altro. La morale pubblica
e quella delle leggi particolara mente era dunque così incerta, che non aveva
per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva,
allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali
sorgono sem. pre dall' arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato
uno solo, se l' Ammi nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola
specie di Magistratura, non avrebbe potuto 1 dirs (109 ) diffondersi tanto
l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gli ammiratori o
visionarj della Sapienza Romana, trovano ragioni sufficien ti per ogni
disordine. Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo
essi multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente
multiplicare e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo
fune stamente imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società
si aumenta è vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per
questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col
governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multi plicarsi e
variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi"
crescere e di versificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i
Ministri o dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma
de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il
dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e le
gislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e
multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere: ciocchè però non accade quando
si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb cittadino. In questo caso,
la legislazione sarà uni voca, generale, uniforme; i limiti del potere giu
diziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le
Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra rapporti immaginarj e
fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui
sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e, per conseguenza col governo o
collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa della grandezza del corpo
medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della piccio lezza,
più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti
favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e con venevolmente
diviso, senza gelosia e senza inte-, ressi contrarj avrà la dignità che deve
aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed
esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni
caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla
legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover
osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua,
ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura
sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente
arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute
leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame,
come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un
Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante
l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed
un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità
di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico
vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che
per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per
la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di
vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali
abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che
portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si
svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica
disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud
vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non
sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo
Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i
doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l '
amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più
infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i
Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù.
Sdegnò egli (co me rapporta Plutarco ) i studii che la nobile gio venid
coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel
foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per
ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi
contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per
attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti
prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. Paulo Emilio fu in dovere di
partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani
nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura.
Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici
del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno
cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della
Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a
nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo
termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la
Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano
le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto
conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto
susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato
contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. Cornelio Silla il quale o tocco dai
stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle
depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la
rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori.
Livio e Dion Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la
sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a
conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale
ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi
sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa
ad altro tempo più tranquillo. Infatti secon do Asconio Pediano la legge passò
= Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie
jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo
potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di
Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice. rone:
Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era
già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon.
in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non
seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe
potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de'
Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giu risprudenza e nuovo metodo giu
diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza,
l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi,
che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva.
Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig.
de Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud
istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus
difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta
aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la
Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per
giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza.
Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà
consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo
aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la
prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị
barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che
fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono
surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per
eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano
espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo
Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando,
le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè
le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice
il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva
i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i
viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te
maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni
favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì
fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti
somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza
furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per
le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre
si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (Vico Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la RomanaRepub. blica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata
dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto -
ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader
suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative
', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le
leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda
dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono
ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che
ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel
tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza
equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali
qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più
usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e
coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs &
libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di
nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c.
non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere,
me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le
processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi
d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale
delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le
gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é
divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente
consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di
sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi
prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si
disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè
mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per
la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi
continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla
frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai
sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia
conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che
vergo gnosamen te li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il
cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi
non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato
censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica
non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad
alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana,
rispondero, che tali non sono poic (123. Det poichè quando si parla delle leggi,
convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore,
dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or
potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E
quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da Canulejo; pure in un
frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di
Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a
partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e
non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di
classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso
e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea
prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear
pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana,
vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia
certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte
in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi
costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di
communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà
pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di
suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no,
e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede
simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è
libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do
particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè
nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più
la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e
di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto
lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere
con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra
od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più
degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma
cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e
mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si
diedero į suf (18) Dionys. Antiqu. Romanarum lib. z. (126 e i suffragj, quella
de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà
del po polo, giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in
effetto il potere legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la
pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non
avesse altro dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il
potere legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa
convocata per Cen turie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio
del potere legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non
ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare
tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto.
Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che
quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le
loro volontà, per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de'
Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per
al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la
potestà legislasiva. (127 ) el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono
parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi
centuriati, delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni,
nè quello della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel
corso della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo
Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per
mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme,
le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio,
non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di
Cittadino era misus rata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la
volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà
generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi
s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la
quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la
volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un
sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel
giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i
principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere
legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni
simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di
un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni
sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero
Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu
risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano
in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e
sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i
quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del
suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il
Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza,
che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò
mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo
non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più
giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai
Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti
la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le
quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono
tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero
leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi
necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da
imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone
cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche
fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si
avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi,
ma che toline i due Gracchi, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi.
Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi
an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a
pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de'
Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo
più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad
esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che
avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico
sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono
far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie
testimonianze, e spes cialmente da una di Cicerone. Possiamo da esse
raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de'
Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi
quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto
dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi
il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in
volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi
curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131
) si. Almeno cosi ci attesta Cicerone, assicurandoci, che per saperle, o per
conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam
nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a
librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha
bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum
literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta hominùm
obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria, che nel
suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o
custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro
leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che Tacito caratterizzò
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini
civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo
una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le
consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi
de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per
diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio
espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono
dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere,
che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo
della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della
imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il
gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere
complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il
sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment
morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà.
Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere
morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler –
self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La
giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di
Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza
romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione
della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto
gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia.
Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica
della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al
capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue
memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo
decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto
il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo
decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento
delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo
politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati
nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi
delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed
abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei
del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati
dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti
dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine
dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte,
ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale.
Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del
bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli
su le origini italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e
a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani
all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. Delfico.....
pag. 140 Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141 Toaldo a M.
Delfico..Spannocchi a M. Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele
Torcia a G. Berardino Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico.....
pag. 154 Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159 Mùnter a M.
Delfico..Filippo Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a
M. Delfico..Bertola a G. Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli
a M. Delfico..Anutos a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di
Cantalupo a M. Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante
a M. Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti
a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis
a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206 Bossi a M. Delfico..Tommaso
Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209 G. Napoleone a.
M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M.
Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231 Tracy a M.
Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti
a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246 Michele Arditi a M.
Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico.....
pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260 Donato Tommasi a M.
Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini
a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a
M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a
Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287 Giuseppe Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M.
Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326 Stati
Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella
provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in
occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di
Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di
Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere
ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere
di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in
onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M.
Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo
stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della
seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al
1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa
scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed
altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare
negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più
urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della
società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del
governo borbonico (4). È soprattutto dalla rilettura del genovesiano
Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il
manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico
del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale,
la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la
convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un
atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7)
e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali
inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno
di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e
di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9).
Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica,
dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su
quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con
l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode»
(10). Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento
illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura
riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola
riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della
corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola
genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice
culturale. Lo stesso Delfico, sebbene riconosca il suo debito nei confronti
dell'abate, non trova in lui il pensatore che la «propria ragione gli faceva
desiderare» (12), bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici
e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi
fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac,
parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una
inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti»
(13). Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo nel
1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento
filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e
sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a
porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum il 19 gennaio 1776. L'opera è
una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso
come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con
Rousseau, Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte continua «di
sensazioni e di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene, richiamandosi a Hume,
che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del
celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina
della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la
rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una
legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi. Del 1775
sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Pietro Paolillo
che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali
«svelano assai più a fondo e gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura»
(15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il
mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho
turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive
osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo» (16). Egli riconosce alla
morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce
l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gli
uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano
utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella
delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui
maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degli oggetti
e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la
individuazione dell'amor proprio. «È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato
popolare», scrive, che «le nazioni godono del colmo della virtù» e «nasce
quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie» e che si
verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col
pubblico»(17) e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al
potere. L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia
come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici
alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla
repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto
politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il
despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in
quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente
finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo
principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso
un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che
miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con
la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il
problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una
imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a fondo l'attacco
contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai
diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere
che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza
- afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone
politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense
che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al contrario, il
persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed
aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro
stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la
stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20). Dopo il sequestro
degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico, Delfico
incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali.
Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti,
con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e
condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo
(21). L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con
il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri
«lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo
costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà
circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con
l'indulto regio del 17 giugno 1780. Questo secondo soggiorno partenopeo,
avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo
per lo scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con
gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti
della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi,
Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura
l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra
capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella
Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di
riforme. Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo
stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20
giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto,
dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che vede
l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la
questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore
l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di
uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento
dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una
classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il
ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza,
ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau,
la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini
diventino sinonimi fra loro. Ad alimentare la fiducia nei primi anni
Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto
si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione
della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le
attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel
1782, il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi
del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i
canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe
sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di
Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e
ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è
una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione
in uno stato di sottosviluppo (25). La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. Nell'estate dell'83 Delfico è di
nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa
una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto
un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della
capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un
programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a
dura prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La
condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di
incertezze e di contraddizioni. Ritornato a Teramo è raggiunto, nel
febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il
pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo
scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli
uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse
l'Autore confuta le tesi roussoiane sull'uguaglianza tra gli
uomini, correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere
e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de
l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere
«presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio
dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono
eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro
di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui
l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli
oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità
e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non
è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze
del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la
vita morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 Delfico si
trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi
nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a
questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter,
venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine
degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto,
per la numismatica. A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul
Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il
vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco
contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il
confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello
«più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di
scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e
lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella
Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e
dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono
fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il
Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni. Nel
1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui Delfico
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione
tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei
proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino» (37). La
proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea
nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi
chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più
di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla
corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur
breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero
«desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui denunciava le gravi
«avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che,
ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per
immiserirle sempre più. Si coglie in questi scritti non soltanto la
totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza
del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico
imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia
di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio
della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il principio del
laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il
rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà
(di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un
progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati
cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i
controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono
che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza
economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello
Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali. In
quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione
francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per
sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del
Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato (40). Ciò
non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice
del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico
partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente
dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a
Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato
d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei
principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a
ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa
«non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42). La notizia della
rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si
trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per
accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la
guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare
gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il
filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista
senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed
economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un
rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi
informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia
a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si
conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la
rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un
esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla
strada delle riforme. Rianimato da queste speranze, nel dicembre del
1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si
trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni
su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale
d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema
feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le
Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori
(46), che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico
italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore.
Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per
tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla
tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi
presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore
abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una
legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario
fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza
delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità
legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango
o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso
lo stabilimento di magistrature locali e provinciali. Da una soluzione di
tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla politica
illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento
della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la
monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un
conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a
credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il
crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un
programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si
sorprende sempre più spesso «scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel dicembre
del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario,
al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione
francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È,
questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico,
avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la
consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa
è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della
sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo
vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di
rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante
il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A
Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca
della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna
di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e
concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano
venga presto scagionato. L'accentuarsi del carattere reazionario della
politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi,
il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano, anche perché
egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94
concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi
rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna
negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della
rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase
successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori». Alla fine di
ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo
viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi
in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere
gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino
Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo
verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata
dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato
a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata
francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire
espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose
imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e
saccheggi dei suoi soldati. Nella seconda metà del 1796 si riaccende
nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede
delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di
riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni
precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso
il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò
nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto
dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della
Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi
meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il
piacentino Melchiorre Gioia (53). Immutato è invece il giudizio sulla
corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una
ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento
nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi
nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di
Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si
aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una
probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di
infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi
concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo
lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di
Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si
alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27
settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la
famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle
truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e
successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto
Abruzzo. Il 12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il Supremo
Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che
avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi
organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui
il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il
territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico
con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che
è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione
(60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante
la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie
del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei
Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII
(12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo
pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui
maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi
e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i
provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica
napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il
decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni
capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento;
l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio
ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria;
l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici
nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a
meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo
dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.
Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23
gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante
in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle
insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver
non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi,
lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di
briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto
che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una
prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei
Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira
alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama
l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà,
sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di
subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la
sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare
le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo.
Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di
tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi,
mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio
forse delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di
quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni. Il 28 aprile
1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla
partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta
della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo
Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre
successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806,
quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo
fianco con la carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno
sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine
secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva»
manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo»
(66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i
loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia,
afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia,
«abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse
proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva
prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau,
Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva
avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non
poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale
palingenesia» (67). Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico
trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica
nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si
sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso
di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed
i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua
tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza
rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica
saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per
«proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a
cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi
civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle
forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una
definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San
Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non
utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di
società» (69). Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per
riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni
mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva
al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo
prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803
soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a
Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel
capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della
legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo
Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro
Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo
Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il
celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna
assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli
altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso
anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello. È, quello
sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva,
riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino
e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due
edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà
presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche
diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute
iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali
riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile
sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta,
scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di
come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e
serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello
politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e
Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola
Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende
di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa
«rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un
pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo
italiano (74). Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza
storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza
di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera
esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile,
che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo
avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione
storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici
inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del
passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet,
Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri (77),
nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in
grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la
storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone
principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della
storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che
ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione
incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto
che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica
storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e
nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel
loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le
loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli
uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo
gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci
i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare
in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (78). Così
concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente
l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire
una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione,
questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824,
Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
«qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico
chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il
carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio
Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di
confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli
«impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in
realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una
conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti
naturali. Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti
«favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico
tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito
umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva
maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le
idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i
primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male
e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero
così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno
neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del
popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno
stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti. Il ritorno a
Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una
nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano
quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo
induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio
sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio,
della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la
possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a
cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e
che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei
rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari. Nominato da
Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene
assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza
della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio
di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte
delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice
civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma
della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei
beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del
Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene
insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86). I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale,
tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni.
Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis
(1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento
dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de
l'homme (1802), l'opera più importante del filosofo francese, risentono
soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il
principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli
e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla
medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del
1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello (89), pubblicate a Napoli da
Agnello Nobile. Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico
dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello
scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre
la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina
(assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a
sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno
degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820,
vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento
austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo
governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli
ambienti governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli
teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che
si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli
inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine
politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi
con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il
problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che
si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza tuttavia
tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le
civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno
accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.
Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza
alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione
politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare
proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è
la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del
Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione
del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la
disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi
della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di
decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la
soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo
scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino:
«Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo
non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le
preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima
rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali,
dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico,
non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e
politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94). Divergenze
emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il
pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle
proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra
il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che
considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei
conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta
inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la
condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che,
«oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma,
soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione
militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una
imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica
un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da
parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da
garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le
aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo
vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra
dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una
monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed
ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione.
L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza
sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto
all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti
individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e
personale. Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno
successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla
primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel
capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i
lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non
terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della
importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione
materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico
e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e
tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e
necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla
numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il
titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le origini italiche (98). Non verrà meno neppure il suo
impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti,
dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un
porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i
quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora
poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del
commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza
delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture
necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di
un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le
frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di
provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari
abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato
pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia.
Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che
potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far
nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.
La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara
costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve cenno.
L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (102),
permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione
dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la
creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del
commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale
centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina
adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel
litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta
verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato
pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe
anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il
trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe
riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto
con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire
le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi
commerciali (103). A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo
La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance
projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825),
di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle
cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa
indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una
congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare la
corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti
anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto
(1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes»
e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie»,
ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche
attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île
d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, datato Napoli 14 ottobre 1814
(104), sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe
dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di
successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle
carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di
una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica
notizia. Nel 1829 Delfico pubblica la lettera Della preferenza de'
sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi
della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio
filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a
coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi
studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite,
conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e
la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini
del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili
che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la
pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel
1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e
viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno
1835. Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte
Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a Giovanni
Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto
l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una
dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa
considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si
determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la
cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze
intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito
di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo
delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore
napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato
il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle
rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che del
ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno
approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di
Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella
relativa al decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la
sua evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della
Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo
della storia e della politica. (1) Era nato il 1° agosto 1744 in un
paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico,
si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a
Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche,
la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836,
arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni
dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei
frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di
scienze lettere e arti», a. col titolo
Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico
e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di
Melchiorre Delfico. (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi
furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino,
Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso
Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di
economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il
«partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura,
società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e
46-49; U. Russo, Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti
1990, pp. 25-31 e 53-63. (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento
dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317. (4) Sul riformismo
borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma
1990, pp. 103-155; I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di
M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799,
in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni,
Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il
riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il
secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa
contenuta. (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato
assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire
l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche
detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli,
uscì a Napoli nel 1753. (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la
questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764),
Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese,
Feltrinelli, Milano 1962, p. 497. (7) Per una valutazione dell'influenza
di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro
sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel
Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del
regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo
tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di
E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol.
II, pp. 744-780. (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti
dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio
Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze
1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg. (9) Le due
Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di
Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città
d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico
dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita,
esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico»,
b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu
pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel
1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2),
preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il
Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo
1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini
(alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a
Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L.
Savorini. (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.
(11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi
italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle
opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11. (13) M. Delfico, Memoria
autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo,
fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846. (14) M. Delfico, Saggio
filosofico sul matrimonio, in Opere complete, cit., vol. III, p.
126. (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e
il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano
(16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a
cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale,
Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di
morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr.
M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino
1988, pp. 501-508. (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit., (20) Ivi, p. 47. (21) Per una
ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il
Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp.
71-85. (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi
Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in
Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori
napoletani, cit., p. 1168. (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo
dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico
assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla
risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della
defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», M.
Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo
Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260. (27)
Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in
essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con
la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di
costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione»
(Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235). (28) M.
Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.
(29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité
parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes, vol. III, Gallimard,
Paris 1964, p. 193. (30) M. Delfico, Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253. (31) Su tale associazione,
fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich,
Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini
alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334.
(32) Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere
complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di
Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen
Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse,
Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state
riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre
Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G.
D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e
157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad
alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp.
140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca
Provinciale di Teramo. (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia
e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli
1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323. (34) G. Solari,
Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963,
p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria
sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca
di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo nel 1783. (35) M. Delfico,
Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 279. (36) M. Delfico,
Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema
doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788,
ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 359-396. (37) M. Delfico, Discorso
sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370. (38) Il testo è stato pubblicato
da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in
«Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è
datata Teramo, 7 ottobre 1784. (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su
invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del
problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel
1805 a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori
classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è
stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M.
Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le
carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio
della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato
l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il
«terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo,
letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e
pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp.
3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del
commercio. (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene,
come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del
Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di
detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati
all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue
richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di
istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed
orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli sviluppi
delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano,
Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze
Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la Memoria
sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G.
Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo,
Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7. (41) La
Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della
feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine
del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367. (42) M. Delfico, Memoria per
la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354. (43) Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n.
402. (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del
1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a
Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria.
Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di
rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre
Delfico, cit., p. 25 sgg. (45) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
403-431. (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le
reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu
pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a
Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815. (47) C.
Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in
«Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte
II, p. 432. (48) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.
(49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i
maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del
Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia
d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto
della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di
Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi
anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94.
Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno.
Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del
processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province
napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867. (50) B. Croce, La
rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24. (51) Sulle
tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere
di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46. (52) Si veda la lettera di
Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo
per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura
italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p. 419. (53) L'ipotesi di una
partecipazione al concorso origina da De Filippis-Delfico, il quale riporta tra
le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre
Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui
intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche
se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso,
fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda
G. Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta
partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a.
XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione. (54) Sono del 1797 le
delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni
sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato
pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la
nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie
confinanti del Regno, ancora tutte inedite. (55) Lettera di Delfico a
Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi
Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari
teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla
famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793
(pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico
per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era
costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a
causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia
del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che
Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di
Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto
del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di
conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25
marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone. (56)
Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una
loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno.
Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e
da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in
proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799,
scritta presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in
un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che,
condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e
trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in
seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da
V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V
(1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p.
375 sgg. (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in
Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in
fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23
dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per
una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni,
L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo
e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo
rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri
luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli
Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la
continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo
Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993),
n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a.
XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp.
58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano
dal 1798 al 1809, Teramo 1999. (58) Il Consiglio, di cui fecero parte,
oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna,
entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del
suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito,
M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna
storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La
Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp.
188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.
Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra
intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987),
n. 1-2, pp. 41-69. (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico,
interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze
reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e
riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135
sgg. (60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica
italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso
de' governi, cit., p. 519 sgg. (61) Il testo è stato pubblicato da
R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere
del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista
abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp.
435-439. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre
Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo
1799), con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il
vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati recentemente riediti
assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre
Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58. (62) Cfr. la
lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7
Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini,
Guida, Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R.
Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e
politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una
rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni
Città del Sole, Napoli 1995. (63) Per il testo cfr. G. Carletti,
Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139. (64) Sulla permanenza del Teramano
nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la
Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.
(65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II
ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano
1806, p. 96 sgg. (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie
storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit.,
vol. I, pp. 249-250. (67) Ivi, p. 472. (68) Ibidem. (69) Ivi,
p. 250. (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e
dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva
consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione
uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814. (71) M. Delfico, Memorie storiche
della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249. (72) Ivi, p. 246. (73)
Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia:
Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94. (74)
Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli
1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la
storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo
nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La
storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri:
1. Il «secolo della storia» e 2. Il nuovo pensiero storiografico,
in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II,
p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo
decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico
meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.
(75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima, in Opere complete, cit., vol. II, p. 11. (76) Il
titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale
en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson,
Paris an VIII. (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C.
Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile
que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses
de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356. (78) M. Delfico,
Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p.
43. (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325. (80) M.
Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
cit., p. 174. (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi
si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella
Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali
relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata
alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del
febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente,
del suo principale estensore Alberto Fortis. (82) Per un esame critico
del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione
di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979),
n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi
guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp.
79-138. (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora
inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in
«Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48. (84) M. Delfico, Discorso
sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40. (85) Lettera di Delfico a Teresa
Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico.
Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino 1934, p.
53. (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr.
G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni
del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni
scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il
sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.
(87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497. (88) Ora
in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp.
531-550. (89) Ripubblicate nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul Bello
sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara
1999. (90) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e
dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume,
notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A.
Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp.
231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol.
IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici
anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di
A. Lepre, Liguori, Napoli 1985. (91) Rimasto inedito, il testo finale è
tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A.
Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986,
rispettivamente pp. 19-42 e 59-79. (92) M. Delfico, Osservazioni sopra
alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 20. (93)
Ivi, p. 67. (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70. (95) Cfr. N. Machiavelli,
Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario
fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap. XII, p. 79. (96)
Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit.,
vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159. (97) Ora in Opere complete, cit., vol.
III, pp. 567-588. (98) L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a
Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora
in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505. (99) Pubblicati nelle
Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono
stati riediti da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente
pp. 23-36 e pp. 37-50. (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37.
(101) M. Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32. (102) M. Delfico,
Breve cenno, cit., p. 38. (103) Cfr. ivi, pp. 47-49. (104) Ora,
tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto
sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico. (105) M.
Delfico, Della preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa
Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora
in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45. (106) Cfr. la lettera di
Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario
e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156. (107) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87. (108) Per un quadro
d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G.
Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza,
Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione
degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una
storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico
sul matrimonio. I. voi. in 16. 1774* ( segnato nell'indice de'
libri proibiti ). a Indizi di morale ( proibito prima di
pubblicarsi ) Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale.
TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo Napoli Porcelli Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi . Napoli 1784* presso Vincenzo Orsino
Memoria sul tribunale della grascia e sulle leggi economiche nelle
provincie confinanti del regno . I. voi. in 4 * Napoli 1785. presso
Porcelli . Memoria sulla necessità di rendere uni-
formi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti 4 * Napoli 1787.
presso Porcelli . ’ - 8 Memoria su’ regii stucchi , o sia su
la servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma- rittime degli
Àpruzzi. I. voi. in 8. Napoli 1787. 9 Discorso sul tavoliere di
Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor- ma. I. voi. in 8. Napoli
1788. 10 Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri.
I. yol. in 4 * Napoli. 1788. ( stampata una col reai dispaccio di
appro- vazione ) . I I Riflessioni su la vendita de’ feudi
umi- liate a S. R. M. I. voi. in 8. Napoli 1790. presso Porcelli
. 1 2 Ricerche sul vero carattere della giu- risprudenza
romana e de’ suoi cultori . un voi. in 8. Napoli 1791. presso Porcelli :
( ristam- pato in Firenze , ed in Napoli un altra volta nel 18 15
) 1 3 Lettera del signor duca di Cantalupo ( su feudi )
Napoli Memorie storiche della repubblica di San Marino I. voi. in 4 *
Milano 1804. dalla tipografia di Francesco Sonzogno . 1 5 .
Memorie sulla libertà del commercio : ( stampate nella Collezione de
classici italia- ni di Economia politica : parte moderna : Milano i
Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità della medesima . I.
voi. in 8. Forlì Pensieri sopra alcuni articoli
relativi all’ organizzazione de’ tribunali : ( stampati sen- za il
nome delF autore , nè V epoca , dalla stamperia reale di Napoli nel 1808.
) 18 Lettera al Climo sig. Abate D. Gasparo Selvaggi ( sulla
Tragedia. Pubblicata dal Gior- nale enciclopedico di Napoli An. Nuove
ricerche sul Bello. I. voi. in 8. Napoli 18 j 8. 20 Ricerche
sulla sensibilità imitativa con- siderata come il principio tìsico della
sociabilità della specie , e del civilizzamento de’ popoli e delle
nazioni ( Memoria letta nella reale Ac- cademia delle scienze di Napoli
il: pubblicata tra gli Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due
seguenti Memorie ) . 21 Memoiia su la perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’ educa- zione , con alcune
vedute sulla medesima : Seconda memoria sulla perfettibilità
organica ec. ( letta nel 1816. , e pubblicala come sopra )
. Ragionamento su le carestie ( letto nell ’ Accademia delle Scienze
di Napoli il 1. dicembre 1818 , e pubblicato negli Atti della
medesima voi. II. Napoli 18 2 5 ) . Poche idee su V accusa de'
ministri . Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di Napoli
il z 3 . dicembre i 8 ao. a 5 Dell* antica numismatica della
città d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le Origini
italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i Tirreni. I. voi. in fol. Teramo
1824. con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni fatte
dal Micali su la stessa , e di una Lettera al sig. Conte Zuroli su
le antiche ghiande missili di piombo. I. voi. in fol. Napoli 1826. ,
dalla tipografia di Angelo Trani : con più tavole in rame .
27 Della preferenza de’ sessi. Lettera all’or- natissima signora
contessa Chiara Mucciarelli Si- monelti . I. voi. in 8. Siena 1829. (
Ristam- pata in Napoli insieme ad alcune poesie del Conte di
Longano ) Lettera all’ autore delle
Memorie in- torno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa- ta
in fine delle stesse Memorie , Ascoli i 83 o ). 29 Espressioni
della parlicolar riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta
alla memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle
due Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul- la città di
Benevento. Memoria. 1768. 3 1 Intorno a’ diritti sovrani di Napoli
sul- la città di Ascoli . Memoria . 1 768. 3 a * Lettera a'
fratelli sulla eruzione del Vesuvio Estratto ragionevole del trattato
degli animali . pag. 8. 34 Lettere sulla cavalleria ed i
romanzi . P a S- 7 - 35 Lettera al sig. Michele Torcia
sul tratto di paese che si estende dal Fortore al Tronto . 1784 .
pag. 1 5 . 36 Supplemento alla Memoria su la gra- scia , per
rapporto all' estrazione degli animali vaccini . Memoria per lo
ristabilimento del tri- bunale collegiato nella provincia di Teramo
. 1786. pag. 11. 38 Memoria per lo stabilimento d’ una
uni- versità in Teramo . 1786. pag. 7. • I titoli in
carattere corsivo sono per ^quegli scritti che 1’ autore lasciò senza una
denominazione . ** S’ intende per lo più di pagine scritte , come
si dice , alta spagnola , ossia nella sola metà . Pel resto si troverà
sod- disfacente spiegazione nel prosieguo del libro . Su' danni de'
terremoti in Calabria nel iy 83 . - 0 sii ministro Corradini sulle maioliche
de' Castelli. Lettera. 1788. pag. 24* 4 1 Appendice al discorso sul
Tavoliere di Puglia . 1788. pag. 84. 42 Sull’ aumento de'
soldi a.' magistrati nel iygo. pag. 8. 43 Estratto ragionato
del Saggio analiti- co su le facoltà dell’ anima di Carlo Bonnet .
pag. 100. 44 Seconda Memoria sulla vendita de’ be- ni
allodiali. 1791. pag. 7. 45 Breve Saggio su l’ importanza di
abo- lire la giurisdizione feudale , e sul modo di ese- guirlo .
pag. 32. 46 Supplemento alla Memoria pe’ regii stucchi .Degli
Appalti. Memoria, pag. g. 48 Per la città di Teramo intorno d
beni dell' abolito convento di S. Agostino . pag. 11. 4 g
Memoria per la decima impesta al re- gno . 1797. pag. io. 5 0
Memoria intorno a’ danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva
monetazione dello Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da
ripararli. Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale
per rapporto al commercio delle provincie confinanti del regno .
1797. pag. 17. 5 a Discorso sulle Scienze morali, pag.
ira. Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia , (
Questo ed i selle seguenti scritti si suppongono composti in Napoli dal
1806. al 18 15. 55 Rapporto alla reai società d’
incorag- giamento sul progetto di stabilire nelle provin- cie del
regno altre società simigliatiti , Considerazioni sul debito pubblico , e
su’ beni nazionali relativamente alla legge de’ a. luglio 1806.
pag. ia. « 57. Breve esame dell’ indole delle dogane interne
. pag. 20. 58 Rapporto per gli stabilimenti di uma- nità e di
pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’ istruzione pubblica
Sulla tassa fondiaria . pag. 1 3 . 6j Osservazioni sulle procedure
criminali die si chiamano Nullità . pag. 14. 62 Parere
intorno ad un’ opera del Sig. Biie D. Davide JV'uispeare , intitolata :
Storia degli abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar- si
i buoni scrittori . Opuscolo, Lettera
sulla imputabilità de’ muti . 65 Pochi cenni su’ fondamenti delle
Scien- ze morali. Discorso ( letto nella reale Accade- mia delle Scienze
di Napoli nel iSlij , e de- stinato a stamparsi nel voi. III. degli
Aiti della medesima , insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di
cangiare i metodi d’ istruzione usati in Europa . 67 Alla
Giunta preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione . Memoria in
favore di alcuni impie- gati destituiti Osservazioni sopra alcune
dottrine po- litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi
economici per supplire agli attuali bisogni dello Stato . 3 o.
t&arzo 18 23. pag. 19. 7 1 Deli’ importanza di far precedere le
co- gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale
. Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di Napoli il 26.
lu- glio 1823. ) pag, 18. 72 Elogio in morte della Duchessa
di S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri
sulla Sto- ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi- ma ,
per risposta alle obiezioni di Amaury D re- vai pubblicate nel Mercurio
straniero tom . A ( Questa lettera , e tutti gli altri scritti che
seguono nella presente classe furono compo- sti dopo V ultimo ritorno
dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So- cietà
ossia Saggio filosofico sulla storia del genere umano Proposta di alcune
riflessioni sulla filo- sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio
sulla storia fi losofica di Da - miron. Lettera, pag. 3 .
Lettera su cF un manoscritto comuni- cato , riguardante politica,
pag. 28., 78 Due biografie di se stesso : una scrit- ta nel i
8 z 5 , t altra nel 182J. 79 Delle cagioni per le quali il
civilizza- mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla
perfettibilità. Sulla guerra. Lettera, pag, 8. 82 Sulla medicina
omiopatica . Lettere due. Sulla dottrina medica di Samuele
Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera
al Mse. Tommasi. pag. 18. 86 Sullo stesso argomento. Lettera
pole- mica. De' confini del regno di Napoli nella linea del Tronto
; ossia : Sugli antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti di
beneficenza. Let- tere 3 . Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral
; civile , ossia trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto
naturale delle genti , ossia della morale delle nazioni, Sistema di
ragione e benevolenza uni- versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle
Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà, pag.
123. 96 Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia
colla Fi- losofia. Dissertazione, pag. 12. 98 Dell’
eguaglianza de’ diritti delle donne , considerati specialmente nelle
successioni, Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e
dritti civili, pag. 14. 100 Sul quesito : Quale sia il
miglior de governi per 1 ' Italia ? Opuscolo, pag. 26. 101
Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati , o sia de’ veri
principi della Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu- ni.
Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della pro-
vincia di Teramo . Memoria, pag. q 3 . Ricerche su le leggi
coniugali , con- siderate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere ,
nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali e civili, pag. 3
fi. 106 Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina.
Pensie- ri. pag. 5 fL 108 Osservazioni sull ’ opera
intitolata : De’ principi della scienza etimologica, pag. niL
109 Saggio filosofico su la guerra e su la pace. pag. fili.
i_lq Igiene, pag. % JFritmmitttt iti
Di ciò che si chiama quadro dello stile , pag. sLm 112 Sul
poeta Orazio. Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. pag.’
224. 1 1_4 Qualche osservazione sull' opera di Neker Sur 1 ’
administration. pag. t i fi Del Vesuvio, pag. £L 1 ifi Del tempo
musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili, Alle
nobili fanciulle mie concittadinc. ( Prefazione per una raccolta di
aneddoti ) . pag. 2. m 120 Sulla Città di Reggio, Sul
travaglio, pag. 2« 1 22 Progressi dello Spirito - Orgoglio na-
zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso di tipografia, pag. 18.
128 Su’ pastori, pag. 2. 124 Saggio sull’ adulazione. (
Progetto di un' opera ) . pag. 2. iz 5 Ricerche storico -
filosofico - polili- clie su la nobiltà. ( Progetto di un' opera )
. pag. a. 126 Istoria dell’ anima, pag. 5 L 1 27
Sugli ospedali. ( Molti pensieri non legati) . pag. 96. 128
Progetto d’ un nuovo giornale delle mode. pag. 1 Q. 129
Notizie su le opere impresse nel pri- mo secolo della stampa , per ordine
alfabeti- ca fino alla lettera P. pag. io 4 < 180 Qualche
pensiero di dritto pubblico, Delleraccomandazioni. Articolo morale.
Considerazioni su’ magistrati munici- pali. pag. 4^ 1 33
Della Solitudine, Qualche osservazione sulle Lezioni di Filosofia de
Laromiguiere. pag. 8. 1 35 Qualche osservazione sull’ opere
fi- siologiche di Spurzheim.pag. 8. 1 36 Della civiltà,
Catechismo universale, pag. 2. 1 38 Della ragion di stato, Estratto
della politica d’ Aristotile. Morale nelle leggi, Piano di scienze morali, pag. 4- 14 ^
Dell’ origine e significato della parola morale , e delle varie
applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad
una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana, Esame de' classici
italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemer-
cier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti- lità
del presente Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione Frammenti
diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche
ossen’azione sopra alcune espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’
progressi delle Scienze naturali, pag. io. Al sig. Ab. D. Cataldo
Jannelli . Dell’ uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che
vive in mezzo alla società. Sull’ Inghilterra. Sopra un libretto che
riguarda la divozione pel Sangue di Gesù – Cristo Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea
di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose
politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico.
Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords:
giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della
natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia
romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta
della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale
tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Clarano: Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Clarano was a
friend of Seneca from the time they studied philosophy together under Attalus.
In a letter to Lucilius the Younger, Seneca contrasted the ugliness of his body
with the beauty of his soul.
Grice e Claudiano: l’anima di Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Wrote a treatise on the sould against Fausto d Riez. Claudiano
Mamerto. Claudiano.
Grice e Claudio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. best
under Appius. Appius Claudius. A reforming politician who, according to
Cicerone, was at least influenced by Pythagoreanism.
Grice e Claudio: la sofistica a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. The son of the sophist Marco Antonio Polemo. Primarily known as a
sophist himself, he was also a logician. Publio Claudio Attalo. Claudio.
Grice e Claudio: Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofi italiano. A philosopher
highly regarded for his moral virtue. Claudio Antonino. Claudio.
Grice e Claudio: il portico a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A member of the Porch and a friend of Antonino. He had a career in
public life and was highly respected. Antonino says he leart the value of self-control
from him and admired him for his cheerfulness, modesty, imperturbability, and
generosity of spirity. He presided over a trial involving Lucio Apuleio. Claudio
Massimo. Claduio.
Grice e Claudio: il lizio a Roma –
filosofia italiana – Luigi Spranza (Roma). FIlosofo
italiano. A Lizio -- a friend of
Antonino. The emperor admired him for his kindness, warmth, and honesty, as
well as for his dedication to philosophy. Claudio Severo. Claudio.
Grice e Cleemporo: Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According
to Plinio Maggiore, some attributed to Cleemporo a treatise on the property of
herbs that others attributed to Pythagoras.
Grice e Cleomene: la gnossi a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A gnostic who founded his own set in Rome. Originally a pupil of
Epigono.
Grice e Cleonte: la diaspora di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Cleofronte: la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.
Grice e Cleostene: la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone).
Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Clinagora: la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Clinia: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia italiana -- Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. The information about Clinia is confusing, but
running through it all is the constnt theme that he was a Pythagorean.
Iamblicus di Calcide associates him with both Taranto and Heraclea. Clinia and
Amiclo are said to have prevailed upon Plato not to burn the works of Democrito
di Abdera. Iamblico mentions Clinia in an illustration of Pythagorean
friendship, claiming he went to the financial aid of Proro di Cirene at
considerable cost and risk to himself. Although neither story is possible to
date with any precision, if both are true, Clinias would appear to have lived a
very long time. A confusion of two people with the same name is perhaps more
likely.
Grice e Clitomaco: la setta di Thurii -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Thurii). Filosofo
italiano. Probably a pupil of Euclide di Megara. According to Diogenes Laerzio,
Clinomaco was the first to write about propositions and PREDICATES. He was
interested in logic and attached great value to the use of argument. Some
regard him as the initiator of the dialectical school.
Grice e Clodio – Roma: la setta di Napoli
-- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Napoli). Filosofo italiano. According to Porfirio, Clodio wrote a book arguing
against vegetarianism.
Grice e Clodio: all’isola -- Roma antica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo
italiano Clodio Sesto – a teacher of rhetoric.
Grice
e Cocconato: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Coconato – I
used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless
you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato!
He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto
Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore,
fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero
Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima
dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di
Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione,
verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio
precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte
padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i
conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il
partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re
sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana. Il
grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e
ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's
Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi
della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo
autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di
«uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni
bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti
miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento
agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni,
avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia
ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio
compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il
raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse
di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di
Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue
opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici
redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente
alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII
diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito
potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua
stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra,
dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e
la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto successo
l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di
Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e
radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che,
tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo.
Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della
tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e
all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge
nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di
senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si
inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere
Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il
suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale
alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia
priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione
ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella
gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la
vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo
stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una
lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di
Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una
democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di
politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione
filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una
concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo
titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza
spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura
mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una
condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della
capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la
sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose. Definisce
l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il
tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che
costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci
resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus,
i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della
materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi
olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a
Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad
aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per
il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal
Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi
provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente
movimento e autoregolazione. L'universo è un mondo infinito in perpetuo
movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa
cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della
materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna
lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e
trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile
architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine
della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta,
perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci
anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione:
come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.--
è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla
sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici
della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina,
Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se
non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del
bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della
natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro
mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da
stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho
sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò
una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire
dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti,
riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti
gli esseri?» Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti.
Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli,
Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri
Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo,
Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo,
Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il
Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check);
edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione
filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi
sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino,
Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, Franco Venturi, Settecento riformatore, I,
Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati
in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti
inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini:
materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano,
in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy
and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso
Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte,
Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e
Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione
ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri
Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I
Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and
Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves
and Others in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van
Gent, Ashgate,,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto
Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e
consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua
filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare
interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose
inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro
autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di
loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia.
Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano.
Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII
Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted”
(London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by
the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of
Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of
Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown
in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to
repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his
Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the
Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic]
dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a
friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill).
Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica la prelodata S.
M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla
fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa -
Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and
Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de
Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for
the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil
de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez
la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A.
R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage.
Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration
de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne
a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker
Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius
neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la
religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare
les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe
a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda
fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour
rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son
maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la
grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée,
traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion
Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem
epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au
depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri
più salienti. Fu edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo
rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura
(et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece
la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i
secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la
quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la
cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla
risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante
ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile
trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu
edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle
lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del
Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è
stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante
Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente
dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta
contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular
account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus
Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e
nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece
esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente
dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours,
moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo
detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit
incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono
fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le
caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può
avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur
essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di
Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di
Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e
date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del
filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente
preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal
semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del
filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più
attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali
fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla
Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the
Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the
Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption
of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the
great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the
Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse
VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by
the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can
make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns
and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere
dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli
contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso
contenuto nella Christianity del tutto analogo al primo di quelli
contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e
facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur
essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente
un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British
Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad
un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al
filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo
potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo.
Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve
les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de
son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est
repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à
entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à
la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S.
1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La
politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de
Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione:
Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de
filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris,
in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio
identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte.
Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention
au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce
prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux
qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au
Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour
du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le
gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes
de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor
Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti.
Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication
de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et
des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De
l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée
II, Anecdotes de l'abdication du Roi de
Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il
Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de
Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des
moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur
celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per
quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di
annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di
questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto
il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è: "
A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the
Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or
rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in
brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore
e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1).
Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal
Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto
afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata
tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il
nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa
andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della
lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione,
ricordata in alcune opere Cfr. HENKE, op. cit. loco cit. LILIENTHALS, op. cit.
loco cit. FREYTAG, op. cit. loco cit. VOGT, op. cit. loco cit. BAUER: op. cit.
loco cit., WAHIUS, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però
compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo
di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i
" Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel
" Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano
rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista
la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere
edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de!
1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver
visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di
conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più
dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo
l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con
quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese
la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il
" Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da
pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi
che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo
svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto
riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E
AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the
benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the
publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer
Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum
omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. -
Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098.
MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK:
Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18
Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur citato dal QUERARD. Les supercheries
litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma
parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand
papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione,
probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo
però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera
indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit.
In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the
Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters
contain'd in it: and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest
Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his
profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery,
which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason
for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to
make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly
declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or
Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that
all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my
Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine
and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope
I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD
and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is
to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long
since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER)
and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very
humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and
Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples,
and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See
the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with
what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e
opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so
often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it
would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time
wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of
Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal
Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they
spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to
know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the
WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the
proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this
is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I
tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in
every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age
„. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made
use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII
) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in
Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and
that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish
them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know
myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent
Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my
Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII )
And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with
this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha
s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous;
nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to
rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who
labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss
of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond.
pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione
olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è
qualificato: 0 great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz.
de l 1736. Pag. 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag.
2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz.
Rot. pag. 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti:
pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o "
and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „.
Pag. 24-25, nota, dop o le parol e " universally observed „ "
généralement observées „ pag. 3 7 ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion
e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or
Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the
Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside
the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. -
In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole
Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a
mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a
hungry Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without
exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy.
For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di
sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 -
continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag.
26-52; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il
medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è
quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole
" le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il
testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer
e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the
Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles
of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that
Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many
words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone
in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him,
saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly,
his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the
other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not
amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith
without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to'
understand that " good works will save us independent of Faith”This
Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha
t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he
is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***)
Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better
without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a
man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian
in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same
as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali
ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*)
Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S.
Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in
Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns
misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium
callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de
Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di
Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „.
Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è
tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con "
Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag.
165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti
sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant
ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.;
Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz.
Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By
natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each
individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as
he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are
forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they
eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of
them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the
greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right,
and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are
determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural
right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most
certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over
every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends,
so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of
nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and
consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of
every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the
right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry
that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings,
that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in
his power, without regarding anything save his own preservation. it follows,
that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end
according to the power which nature has given him. In this state man is not to
be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words,
reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and
unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the
foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according
to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is
determined by nature to such and such a thing, without being able to act
otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted
with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit
of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of
their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue,
and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he
who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to
him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and
foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite
suggests, and to live according to its dictates. For, according to the
apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could
sin. Rom. 4. V. 15. It is not then the business of that reason, or
justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of
every individual. For, so far is nature from determining us to live according
to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding
education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is
the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve
our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of
appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us
are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among
us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the
nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere
nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without
exception, because nature has given all to every man, and may use it without a
crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or
threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to
hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal
may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support
his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine
that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of
the same kind, as many have thought, because nature has previded them
necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel
esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with
Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of
nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an
implacable hatred reign between one species and another. And this would in
reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted
in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon
would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient
strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same
complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would
be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited
time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being
may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an
animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily
die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that
manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the
wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured
them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion,
languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides,
a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making
him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones,
and throughout their whole bodies, which feeding upon the best and finest
substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him
without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a
man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of
the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he
kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so
by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining,
tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him,
in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had
shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no
condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom.
As we see by those, who having passed most of their time in the polite world,
are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that
lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he
that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and
wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may
be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his
life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part
3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending
the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what
reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and
laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme
natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which
is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action
of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual
or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for
perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender
mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those
notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like
punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and
avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such
rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well
knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which
is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several
cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high
fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort
of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring,
has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty
and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them,
which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make
their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali
Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature,
commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions
to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently
to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to
it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on
Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h
on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order
to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they
have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or
drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them
ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever
Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never
forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and
a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a
greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they
have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking
when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon
and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they
are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary
madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and
dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature
what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are
guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which
cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind
are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches,
without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only
makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There
is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man,
which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to
life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili
effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest
disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For,
it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others,
have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to
the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from
their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a
whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai
right, promised obedience to them, upon condition that they on their side
should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and
formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz.
1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi
differenz a qui sott o notate. Pag. 207 - i puntin i di quest a edizione son o
son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles
en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di
pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag. 224-248; Ediz. Rot.)
Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society
by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that
consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince
„. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione
olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del
titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di
queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così
comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that
Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to
their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil
Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose
tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority
in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of
Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning
the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera
pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz.
Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag.
524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav.
Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a
very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh.
5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon
and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's
time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con
tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be
allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the
Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la
seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica
differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of
Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own
power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun
fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.;
Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data
dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12:
Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „
contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „
ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „,
sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro
ultima redazione francese. Notiamo invece per le operette " d „,
" e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere
l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi,
anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa
possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R.
ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a
noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle
in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia
conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la
traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for
preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their
parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non
esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del
testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione
a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „
immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione
della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „
della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa
di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus
interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova
ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata
l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14
formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine
numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n.
14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e
convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National
Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla
rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve
discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „
manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.;
pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift,
London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77. (2) Cfr. Dictionary of national biography,
edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op. cit. Col. 1231, T
III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris,
1827 > T. III. N. 16186. commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8,
nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „
manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.;
pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces
Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn.
del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.;
pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la
spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „
manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del
testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo
ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2;
manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel
testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur
dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: "
mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla
rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”)
manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è
affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo
Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100
dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso
Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14,
sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di
quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene
seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è
l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a
Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità.
A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese,
tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si
tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute
alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la
precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo
esaminata, come stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante la
appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite
a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in
grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da
qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove
era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato?
Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di
potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione
piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza
della vita del R. Cocconato. [H] Desideri: fenomenologia
degenerativa e strategie di controllo 1. I/epithymia nella
fenomenologia degenerativa Il processo degenerativo che dal nobile
desiderio per il sa- pere del filosofo giunge infine alla liberazione e
soddisfazione dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da
una prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari moda-
lità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradig- matiche
di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'in- dagine
privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente al- la disamina
delle molteplici specie di desideri, alla caratterolo- gia e alle derive
psicopatologiche tracciate da Platone nel libro Vili, nonché alla
dinamica dei processi onirici e alla mania di- segnate nel IX. Da ultimo
ci soffermeremo sulla contrapposi- zione strutturale tra repressione e
canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed eros, che attraversa
il grande dialogo. A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico
volto a riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di ori-
gine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a
convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi- 1
Cfr. 585a-b, 437b sgg., 439d8, 571a7; sull'intera questione cfr. qui voi.
Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del
desiderio cfr. M. VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a
cura di), I Greci, voi. I, Noi e i Greci, Torino 1996; pp. 431-67 (p.
441); sul rapporto complessivo psyche-so- ma, cfr. T.M. ROBINSON, Plato
's Psychology, Toronto 1995 2 , pp. 50-54. 472 ' PLATONE, LA
REPUBBLICA ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei
cardini metapsicolo- gici della fenomenologia degenerativa del libro
Vili, fa tutt'u- no con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una
sfera "pro- pria" di desideri esplicitata nel libro IX:
«siccome tre sono le parti della psyche, triplici mi sembrano anche i
piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il
loro ruolo di comando» (580d6-7). Con ciò la statica tripartizione
deli- neata nel libro IV (436a7 sgg.) viene calata,
retroattivamente, all'interno della dinamica psico-politica e quindi
delle forme caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino,
l'attribuzione rende conto del legame tra il governo del logistikon e il
desiderio di sapere del filosofo, il go- verno dello thymoeide s e
il desiderio di onori e gloria del carat- tere timocratico, e le tre
forme caratteriali dischiuse dal gover- no del polimorfo epithymetikon,
contenente tre specie di desi- deri e piaceri: 1) i «necessari», dei
quali «non ci si può libera- re», quali fame, sete ed eros riproduttivo,
il cui appagamento è utile e salutare; 2) i «non necessari», che possono
essere «al- lontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene,
talvolta anzi un male (558d8-559c7); 3) i paranomoi, fuorilegge,
per- versi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi
allonta- nabili (571a7 sgg.). Partizione metapsicologica sulla quale
pog- gia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico,
do- minato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio
per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere de-
mocratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri non
necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure 2 La
convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio
Fici- no, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio
di bellezza"; soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le
tensioni tra concupiscentia, appetitus e desiderium derivate dalle
letture scolastiche della metapsicologia aristotelica: cfr., per es.,
TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sul- la revisione
dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A. GRAESER,
Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.
22-24. Vm E IX, [H] 473 deYL'erottkos e del tirannico, invasi
e pervasi dai desideri para- nomoi? Questa diairesi delle
specie del desiderio, tassonomica- mente inerente d& epithymetikon,
eccede euristicamente la ca- talogazione tipologica su due fronti. Su un
versante viene con- 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle
specie dei desideri e il poli- morfo epithymetikon, cfr., per es., D.
HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern
Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha sostenuto la forte
«discrepanza» e «aperta contraddizione» tra la tripartizione psichica e
r«improwisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dia- logform
und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprat-
tutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme costituzio-
nali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la partizione
psichica sia forzatamente modellata su quella politica. Sebbene sia vero
che rimangano delle tensioni nel testo - soprattutto rispetto al
desiderio necessario del carat- tere oligarchico: l'ossessione per il
denaro potrebbe a rigore esser interpretata quale elemento appartenente
al regno del non necessario - tuttavia Y epithy- metikon stesso, in
ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente i tre tipi
caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme "interme-
die". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque
forme politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's
'Republic', Goteborg 1971, pp. 155-92. G.R.F. Ferrari, City andSoulin
Plato's 'Repu- blic', Sankt Augustin 2003, ha ultimamente sostenuto, di
contro a Andersson, il carattere meramente «analogico», «non causale»
dell'isomorfismo, cfr. so- prattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi
implica però l'esclusione della kallipo- lis e della tirannia (p: 53 e
pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia (p. 69); vi è poi una
tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo (cfr. per
es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della di-
namica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani,
come 544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata
la degenera- zione caratteriale come a p. 67 ove non considera che il
giovane timocratico «esce di casa» etc. (550a), e che la figura paterna
risulta infine «sconfitta» per- ché è collocata in un contesto
etico-politico che osteggia il suo modello psico- caratteriale (549c,
550b); analoga la questione rispetto al carattere oligarchico (pp. 71-71)
ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico (p. 74) ove
tace su 557b, 563d e 564a, nonché 559d sgg. In breve ritengo, di con- tro
a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in una relazione
di corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno
un'autonomia semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma
che preserva nel templata la possibilità che i desideri
possano essere allontanati o meno, approccio che mostra come la materia
epithymetica sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo
adottabili nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della
qua- le si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro
fronte, anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veico-
lati dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro
soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofi- sico
complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di gestione tese
al contenimento e allontanamento del materiale epithymetico più
pericoloso, insidie e derive psicopatologiche ad esse correlate, sono i
primi due assi sui quali corre la dege- nerazione che conduce infine alla
mania. Essi trovano la loro unità nel concetto di repressione, dal quale
cominceremo, ri- percorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della
degenera- zione. 2. Repressione ed esilio
Kolazomenai: i desideri possono essere e talvolta vengono
repressi: Fra i piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi
sembrano essere contrari alle leggi. Essi probabilmente nascono in
ognuno, ma se ven- gono repressi (kolazomenai) dalle leggi e dai desideri
migliori con l'aiuto della ragione, nel caso di alcuni uomini si
allontanano del tutto oppure restano pochi e deboli, in altri (restano)
più forti e numerosi (571b4-cl). La repressione dei desideri
non necessari, ed in particolare di quelli paranomoi, genera una
dislocazione topica, bipartita rispetto alla modalità funzionale,
tripartita quanto alle catego- rie caratterologiche.
contempo la relazione causale circolare dal punto di vista
dinamico-tempora- le, dialettico.
E IX, [H] 475 a) L'allontanamento: 1) nel primo caso i
desideri repressi «si al- lontanano del tutto» (pantapasin
apallattesthai). Stesso esito viene ascritto, più in generale, alla
repressione giovanile dei de- sideri genericamente non necessari: «si
potrebbero allontanare (apallaxeien) , se ci si prendesse cura di farlo
fin da giovani» (559a3). Ancora: se il desiderio non necessario «è
represso ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può
es- sere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli
uomini» (559b9-10). b) La permanenza: i desideri repressi
permangono esplicita- mente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato:
2) in un caso permangono «pochi e deboli» desideri; condizione che
non viene però contrapposta al loro intero allontanamento: le due
forme riguardano la stessa categoria di persone. 3) Nel terzo caso
permangono desideri «più forti e numerosi»» sì che viene delineata una
seconda categoria di persone. 4 Per comprendere la dinamica, la
forma, la topica e le con- seguenze che comporta l'adozione delle
suddette strategie re- pressive fornisce un contributo essenziale il
brano sulla transi- zione dal carattere oligarchico a quello
democratico. Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera
il giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita
distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimen- to del
desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono di- strutti
{diephtharesan), altri banditi {exepeson) (560a4-7). Ab- bandonati i
desideri banditi al proprio destino, Platone si con- 4 Analoga la
ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di «abwenden» i
desideri non necessari e il «fortdauern» dei paranomoi attestata
dall'analisi dei processi onirici, di H.P. VoiGTLÀNDER, Die Lust und das
Gute bei Platon, Wurzburg I960, pp. 113-15. 5 Cfr.
559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un fronte la specie dei
desideri necessari, "alleati" alla figura paterna, rappresentanti
della parte oli- garchica, e la specie dei desideri non necessari,
fomentati dalle cattive compa- gnie, rappresentanti della parte
democratica. I 476 PLATONE, LA REPUBBLICA
centra quindi sull'analisi di «altri desideri affini a quelli che
so- no stati messi al bando», dei quali scrive, in un passaggio ne-
vralgico, che, in talune occasioni, «cresciuti di nascosto» (hypo-
trephomenai) , diventano infine «molti e vigorosi» (560a9-b2).
Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto, in-
sensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse «unendosi di
nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla» (560b4-5). Essendo tale
proliferazione «nascosta», «segreta», «furtiva» {lathra), 6 siamo di
fronte ad una crescita effettiva- mente «inconsapevole»: ciò alle spalle
di cui crescono, ciò da cui si nascondono non può essere se non ciò che
noi usualmen- te indichiamo con l'espressione «coscienza». In breve,
sfuggo- no alla presa di coscienza. La proliferazione dei desideri
non necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo intra-
psichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera co-
sciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri para- nomoi
repressi nel caso in cui restano «forti e numerosi».
L'individuazione e concettualizzazione di processi psichici
pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del resto atte- stata in
diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove leggiamo che si deve
evitare che i giovani, frequentando perso- ne viziose, ammassino «senza
accorgersene {lanthanosin) un'u- nica grande mole di vizio nelle loro
psychai» e che, al contrario, devono crescere tra «opere belle» così che
la loro «aura», «fin da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li
conduca «al- l'armonico accordo con la bella ragione» (401cl-d3). 7 Ed
an- 6 Anche D. HELLWIG, op. cit. (n. 3), pp. 121-22, 130,
sottolinea come le «Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la
Harmonie psichica e pos- sano poi rafforzarsi «in heimlichem».
7 W. Jaeger, Paideia (1944), trad. it. Firenze 1954, voi. II, pp. 601,
395 parla a questo proposito di «inconscio», così come J. Lear, La
psicoanalisi e i suoi nemici (1998), trad. it. Milano 1999, pp. 183,
XVIII; il termine «incon- scio» però, in questo caso specifico, non può
essere inteso nel senso classico e ristretto (dinamico) di Freud, poiché
slegato da processi riconducibili alla ri- mozione. cora ove
leggiamo che in certi casi «un'opinione esce dalla mente» «in modo
involontario» (412el0-413al), come accade in «coloro che vengono indotti
a mutare le loro convinzioni e che se le dimenticano, perché agli uni il
tempo, agli altri il ra- gionamento, le portano via di nascosto
{exairoumenos lantha- nei)» (413M-7). Ora, i suddetti
processi repressivi sono collocati da Plato- ne all'interno di una ben
precisa topica metapsicologica: i desi- deri repressi, una volta
rinvigoritisi e cresciuti di nascosto, «hanno infine conquistato
l'acropoli della psyche» (560b7-8). L'acropoli raffigura il centro
direttivo della psyche-polis, il luo- go nel quale si controlla l'azione,
dal quale ognuna delle tre istanze e le particolari sfere di desideri ad
esse pertinenti pos- sono governare l'individuo. I conflitti, lo scontro
tra sfere di desideri alternativi che segnano intimamente la psyche
hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la «regale
fortezza», penetrare attraverso i «portali» che conducono al cuore
del soggetto, al sé (553b7-d7). La repressione che si limita
ad allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque esclusivamente a
dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora
intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa,
resistenza e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata
nel mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non
so- no che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso
alla pressione del materiale pulsionale (560b-e). Anche qui la
politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo
metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei pro- cessi
psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, di-
rettamente, in questa dimensione concettuale. Un ultimo elemento
chiave inerente alle strategie repressi- ve, sempre di matrice
psico-politica, è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una
prima chiara indicazione in tal senso ci è data nella discussione del
carattere oligarchico che letteralmente «rende schiavi», «mette in
schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge,
in generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e mette- re
in schiavitù» i «desideri malvagi» (561c2-3: kolazein te kai
doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei pro- cessi
onirici la «schiavitù» (574d7: douleia), cui sono soggette le opinioni
che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruo- lo cruciale. Il punto
che ora ci preme sottolineare è che la re- pressione in taluni casi si
configura come un processo seguito da una forma di controllo radicale, di
incatenamento. In conclusione, la repressione dei desideri,
paranomoi ma più in generale non necessari, è un processo tale per cui
essi vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa
comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della
co- scienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi
di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo mo- mento, tentare
un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico del represso
I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del libro
IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno» (571c3), inaugurando così
l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un contributo tanto
stringato quanto sorprendente per la sua modernità, essenziale
nell'architettura metapsicologica complessiva delle strategie di
controllo deH'epithymia nonché ai fini della definizione della specie dei
desideri paranomoi e della deriva psicopatologica complessiva della
fenomenologia degenerativa. II «risveglio» avviene
quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e
adat- to al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena
di ci- bo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno,
cerca di aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi
(571c3-7). Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon,
sti- molato fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via
il sonno; ciò comporta il sincronico «risveglio» dei
suoi desideri; ed una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò
non può dominare la parte desiderante. E associato ad esso anche
ciò che è «socievole», 8 probabilmente lo thymoeides. Il proseguo
del brano fa luce su tale stato psicologico: «Sai bene che in un simile
stato essa osa fare di tutto, come sciolta e liberata da ogni freno di
vergogna e di ragionevolezza» (571c7- 9). H sonno del logistikon,
l'istanza cui va ascritta la phronesis, e verosimilmente dello
thymoeides, al quale possiamo attribui- re, quando è sotto l'egida della
ragione, Yaischyne, viene quindi a rappresentare la mancanza di
quell'attività di resistenza che impedisce la manifestazione dei desideri
repressi. Il fattore quantitativo e la struttura dinamica delle due
precondizioni so- no perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto
dall'ecci- tazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata
pres- sione dei desideri, segue la loro emersione e soddisfazione
per- messa dall'inattività delle forze razionali, morali.
Date tali condizioni, tentare di accoppiarsi con la madre
(così s'immagina) non la imbaraz- za affatto, o con chiunque altro fra
uomini, dèi, animali, e commette- re qualsiasi assassinio, e non
astenersi da alcun cibo (571c9-d3). Quadro «edipico», 9
perversione, aggressività omicida. Questo l'inquietante scenario che si
apre dinanzi agli occhi dell'impotente sognatore. Posto che
l'attività onirica rappresenta la «soddisfazione» «immaginaria» o
«visionaria» di desideri repressi (571dl; 572a9-bl), riprendendo la
topica dell'acropoli la loro appari- 8 Su hemeron e thymoeides cfr.
W. JAEGER, A New Greek Word in Plato's 'Republic' (1946), in Scripta Minora,
2 voli., Roma 1960, voi. II, pp. 314-16. ' Hanno richiamato al
riguardo l'edipo freudiano, tra gli altri, K.R. POP- PER, La società
aperta e i suoi nemici (1966 5 ), 2 voli., trad. it. Milano 1996, voi. I,
p. 421; C.H. Kahn, Plato's Tbeory of Desire, «Review of Metaphysics»,
XLI/1 (1987) pp. 77-103 (p. 83); O. GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der
Staat, Munchen 1991, p. 506. zione e sincronico appagamento
potrebbero essere interpretati come se essi vi penetrassero nottetempo,
superando la vigilan- za di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una
soddisfazione, an- che se solo immaginaria, è difatti lecito
raffigurarsela nell'uni- co sito nel quale essa sembra poter realizzarsi.
Nel sonno l'a- cropoli si verrebbe così a configurare come sfera della
coscien- za, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri
impon- gono la visione della loro drammatica rappresentazione,
diven- tando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare
le funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,
priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini spaziali
il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il sogno
rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è possibile prendere
coscienza di quei desideri repressi e tenuti in schiavitù che nella
veglia sfuggono al suo sguardo. 11 Platone ha così dischiuso e
percorso la «via regia per l'in- conscio» tracciata nel Novecento da
Sigmund Freud. A monte, la repressione platonica si lascia intendere alla
luce della rimo- zione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché
quest'ultima, che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken),
12 Cfr. anche E. VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte (1982), trad.
it. in G. GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia, Roma-Bari 1988, pp.
103-20 (p. 109). La più articolata trattazione platonica di ciò che noi
indichiamo con le espressioni «coscienza» e «autocoscienza» è
probabilmente quella di Filebo 33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del
pittore, Platone scrive che un indivi- duo «vede in qualche modo in se
stesso le immagini delle cose dette o opina- te» (39b-c), poi che egli
«scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della Re- pubblica,
limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente, pare
presupporre una concezione della «coscienza» simile. u Parlano di
desideri allo stato di «latenza» C.H. Kahn, op. cit. (n. 9), p. 82, e J.
LEAR, op. cit. (n. 7), p. 142. 12 «Ci sono nella vita psichica
desideri rimossi [...]. Ci sono non è inteso storicamente, nel senso che
simili desideri sono esistiti e poi sono stati distrut- ti; per la teoria
della rimozione [...] simili desideri rimossi esistono ancora, ma
contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio
COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, [H] 481
dal carattere «morale», 13 tesa a contrastare una sfera di deside-
ri «immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadi- che», 14
anziché condurre ad «una completa distruzione» 15 dei desideri, si limita
al loro «allontanamento» (Entfernung) dalla coscienza. 16 Questi perciò
«permangono» (Fortbesteben) al di là dei confini della sfera cosciente.
17 In una sola parola, il rimosso è vogelfrei, 18 ovvero
"bandito", "proscritto", "fuori-
legge". La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio
ta- glio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente impedito di
«scaricarsi nell'azione reale», 19 gli viene metaforicamente nega- to
l'accesso alla Festung freudiana, la «fortezza» dalla quale si
colpisce nel giusto quando parla della "repressione"
(Unterdrucken) di tali impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a
codesti desideri repressi di realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile»
(S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, in Opere complete, 12 voli.,
trad. it. Torino 1967-80, voi. Ili, p. 220; originale: Die Traumdeutung,
in Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999, voi. Il/in, p.
241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste
edizioni). 13 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. LX, p. 498; cfr. anche
Lo., Breve compendio di psicoanalisi, voi. IX, p. 592. 14 S.
FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni', voi.
X, p. 158. 15 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie
di lezioni), voi. XI, p. 201 [S. FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur
Einfiihrung in die Psychoa- nalyse, voi. XV, p. 98: «eine vollstandige Zerstòrung»];
il richiamo successivo è certamente a Id., Il tramonto del complesso
edipico, voi. X, p. 3 1; cfr. anche S. Freud, Inibizione, sintomo e
angoscia, voi. X, p. 290. 16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili,
p. 40, e ivi p. 37: «la sua essenza consiste semplicemente nelPespellere
e nel tener lontano qualcosa dalla co- scienza» [Die Verdràngung, voi. X,
pp. 252 250]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, voi. IX, p. 480.
17 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, voi X,
p. 251]. 18 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X,
p. 300 [Hemmung, Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185]. 19 S. FREUD,
Al di là del principio di piacere, voi. IX, p. 205. 482
PLATONE, LA REPUBBLICA «domina la motilità». 20 Sull'altro però
esso «sopravvive al di fuori» della coscienza godendo del «privilegio
della Exterrito- rialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente
può «sviluppare derivati e annodare connessioni», «prolifera per
così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rap- presenta
la possibilità del suo sempre possibile «ritorno». 23 Da qui la necessità
di una costante attività di «resistenza» alle so- glie della coscienza.
24 In termini spaziali: espulso un ospite in- desiderato si deve «poi far
sorvegliare perennemente la porta da un guardiano giacché altrimenti
l'individuo respinto la for- zerebbe». 25 Poste queste
premesse, Freud, ricalcando ancora le orme platoniche, 26 individua nel
sogno la via regia per l'inconscio perché in esso i desideri repressi,
approfittando del cedimento della sorveglianza deU'«Io dormiente», 27 e
godendo del casuale 20 S. Freud, L 'interpretazione dei
sogni, voi. Ili, p. 517 [Die Traumdeu- tung, voi. II/III, p. 573].
Riprende questa stessa immagine, accostandola ai conflitti della psyche
platonica, M. Stella: cfr. qui voi. III, [J], p. 317. 21 S. FREUD, Inibizione,
sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hem- mung, Symptom und Angst,
voi. XIV, p. 125]; cfr. anche Id., Il problema del- l'analisi condotta da
non medici, cit, voi. IX, p. 370. 22 S. Freud, Metapsicologia, voi.
VIII, p. 39 [Die Verdrdngung, voi. X, p. 251]. 23 Sui
meccanismi di difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi. VILT,
p. 44. 24 Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S.
Freud, Metapsico- logia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, sintomo e
angoscia, voi. X, p. 303. Sulla distinzione tra derivati e rimosso
originario, e tra rimozione originaria e post- rimozione, cfr. Id.,
Metapsicologia, voi. Vili, pp. 38 sgg. 25 S. Freud, Metapsicologia,
voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque conferenze sulla
psicoanalisi, voi. VI, pp. 143 sgg.; Id., Introduzione alla psicoa-
nalisi, voi. Vili, pp. 454 sgg. 26 Cfr. in questo senso anche A.
KENNY, The Anatomy of the Soul, Oxford 1973, p. 12. 27 S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,
p. 134. Vili E IX, [H] 483 rinvestimento
energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta a farsi breccia nelle
«porte custodite da resistenze» della co- scienza. 29 Non dunque nella
Festung, la cui «porta che condu- ce alla motilità» durante il sonno viene
«chiusa» dal «guardia- no», 30 il sogno rappresenta infatti la
«soddisfazione allucinato- ria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di
là dei meccanismi peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali
la censura inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche
per Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino
sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno subito
alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui allude Giocasta
nell'Edipo re». 34 Infine, considerato che il concetto di inconscio
in senso stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente
«ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è
per 28 Cfr. S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi.
X, p. 304; Id., Intro- duzione alla psicoanalisi (nuova serie di
lezioni), voi. XI, p. 134; Id., Metapsico- logia, voi. Vili, pp. 40-42; in
Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI, p. 509, viene ribadito
«l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei pro- cessi di
rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L
'interpreta- zione dei sogni, voi. Ili, cap. I, § C. 29 S.
Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, voi. IX, pp. 317-18;
cfr. anche Id., Autobiografia, voi. X, p. 111. 30 S. Freud, Il
interpretazione dei sogni, voi. HI, pp. 517-18; al limite ci si può
rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto», ivi, pp.
104- 05. 31 Ivi, p. 125. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione
alla psicoanalisi, voi. VTII, p. 265; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, pp. 134, 142. 32 Cfr., per
es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni),
voi. XI, pp. 135 sgg. 33 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni' , voi. X, p. 158. 34 Ibidem.
Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non
temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in so- gno
con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella).
4 noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento
essenziale è dato dal fatto che i desideri confinati «non possono
divenire co- scienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente
co- me accade per i desideri repressi platonici tenuti in
schiavitù, possiamo concludere affermando che, di fronte alle
analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono
essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci
in senso stretto (dinamico). 36 4. Difese pre-oniriche
La difesa approntata da Platone per prevenire l'emersione onirica
dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così deli- neata: ci si
deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben de- sto il logistikon»,
facendo nel contempo «rimanere assopito Ye- pithymetikon» - conducendolo
cioè in una condizione tale per cui non resti né «affamato» né sia
«troppo riempito» - ed infi- 55 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. IX, pp.
477-78. 36 Cfr. nello stesso senso W. JAEGER, op. cit. (n. 7), voi.
II, pp. 599, 602; T. GOULD, Platonic Love, London 1963, pp. 175, 108; J.
Lear, op. cit. (n. 7), pp. XIX, 34, 140-42; A. HOBBS, Platon and the
Hero. Courage, Manliness and the Impersonai Good, Cambridge 2000, p. 57;
O. GlGON, op. cit. (n. 9), p. 506; L. MONTONERI, Platone: l'eros, il
piacere, la bellezza, in Id. (a cura di), I filosofi greci e il piacere,
Roma-Bari 1994, p. 103; G. REALE, Corpo, anima e salute, Milano 1999, pp.
281, 308-09. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr. E.R. DODDS, Plato
and the Irrational Soul, «The Journal of Hellenic Studies», LXV (1945)
pp. 16-25 (p. 22); A. KENNY, op. cit. (n. 26), p. 11. Di diversa opi-
nione G.RF. FERRARI, 'Akrasia' as Neurosis in Plato's 'Protagoras' , in
Procee- dings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, VI
(1990), pp. 115-140, rispetto a Repubblica cfr. soprattutto pp. 116-18,
135; egli rimanda però alla messa in schiavitù del logistikon da parte
déH'epithymetikon (589c6- 590c6), che abbiamo visto essere di natura
diversa, in quanto tesa allo "sfrut- tamento" e non
all'allontanamento (cfr. n. 42), dalla messa in schiavitù dei de- sideri
paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione in M. SOLI-
NAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei
Freud, «Philosophisches Jahrbuch», CXI/1 (2004) pp. 90-112. ne
«ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni fantasticate nei
sogni sono le meno contrarie alle leggi» (571d6-572bl). 37
Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un
carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'e- mersione
del materiale represso, il suo risveglio rappresenta però un pericolo.
Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitu- tiva ambivalenza: privo
della guida del logistikon mostra la sua natura bestiale, aggressiva
(cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica che potrebbe suggerire che esso
possa contribuire alla manife- stazione stessa dei desideri paranomoi nel
loro carattere marca- tamente omicida, e che renderebbe conto del legame
tra il logi- stikon ed un vago «ciò che è socievole». Quanto
all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del lasciarlo «affamato»
può esser inteso sia come un richiamo alla concezione del desiderio quale
soddisfazione di una mancanza (cfr. 43 9a), sia alla formazione di sogni
non appaganti, avvalo- rata dal fatto che l'attività onirica dell'
'epithymetikon è detta comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi
«dolori» (572al: %aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che
trova un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si
risveglia dal sonno, come i bambini, in preda al terrore»
(330e6-7). Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni
discorsi e ricerche» (571d7), emerge un'asimmetria funzionale: il
sonno rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e
resi- stenza, il suo risveglio non comporta però la capacità di
svolge- re alcuna attività inibente, è limitata allo svolgimento di
funzio- ni intellettuali interne: «solo in se stesso nella sua purezza»
po- trà «venire in contatto con la verità» (572al-3). 38 Attività
che 37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra
tranquillità e qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna
e sogno. 38 Cfr. nello stesso senso anche E. VEGLERIS, op. cit. (n.
10), p. 108. Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il
fegato a fornire una conoscenza non razionale (cfr. 71d sgg.) che la
ragione deve «interpretare con non ha, quindi, niente a che
fare con l'emersione dei desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe
pensare alla netta di- stinzione tra il lavoro intellettuale preconscio
svolto nel sonno dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39
Platone non afferma del resto mai la possibilità di un inter- vento
diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare o compiere una
qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali intemperanze delle altre
istanze. Il loro assopimento, come vie- ne ribadito due volte nel
proseguo del passo, deve essere per- seguito e raggiunto prima di
abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto questo compito ci si
può finalmente conce- dere il riposo (572a7). La non-emersione dei
desideri è, dun- que, garantita univocamente da un intervento consapevole,
pre-notturno. Le possibilità di interrelazioni nei processi oniri- ci
paiono perciò significativamente ridotte rispetto a quelle della veglia,
tanto da non contemplare casi di vero e proprio conflitto. Tutt'al più la
parte razionale può essere «turbata» dalle gioie o dai dolori dell'
epithymetikon (571e2), accenno che sembra indicare che essa si limiti a
percepire passivamente, ad assistere impotente alle sue turbolente
manifestazioni. In conclusione, il quadro dei processi onirici è
così artico- lato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed
allora «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie
alle il ragionamento» (72a) dopo il risveglio. Sempre diversi da
quelli di Repubbli- ca sono i sogni quali appaiono in Fedone 60e, Critone
44b, Leg. 909e-910a, Epinomide 985c, poiché veicolano messaggi di origine
extra-psichica: cfr. al riguardo E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale
(1951), trad. it. Firenze 1997 2 , pp. 122-31. 39 Cfr., per
es., S. FREUD, Lio e l'Es, voi. IX, p. 489: «un lavoro intellet- tuale
sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione,
può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza.
Non vi sono dubbi su casi del genere: essi si verificano ad esempio nel
sonno», e Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni),
voi. XI, p. 136: la funzione preconscia svolta dall'Io può ben accadere
«durante la notte» ma «non ha nulla a che fare con il lavoro
onirico». leggi», ed esso può attivare le sue funzioni intellettuali;
oppure V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son desti e
il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi. Es-
sendo l'esito univocamente determinato da un intervento indi- retto e
consapevole, tale concezione non ha niente a che fare con la «difesa» di
Freud, incentrata sulla censura onirica, di- retta ed inconscia. 40
In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non compaiono affatto
o dilagano senza indossare maschera alcuna. 5. Strategie di
controllo e caratteri universali Ora, poiché leggiamo che proprio
chi «si trovi in una con- dizione di sanità e moderazione» deve
ottemperare alle sud- dette misure preventive prima di concedersi il
riposo, sì da evi- tare la manifestazione delle empie visioni, è
necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo della loro
comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della precarietà di
ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche
ri- spetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi
dei processi onirici: Però parlando di queste cose siamo
andati troppo lontano. Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche
in quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati - è senza
dubbio presente una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale,
che si manifesta chiaramente appunto nel sonno (572b2-8). Il
sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle ap- parenze, il
riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro che più sembrano moderati,
nonostante ciò possa parere inam- 40 Cfr. per es. S. FREUD,
Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni), voi. XI, p.
130; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e sulla
«resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoa-
nalisi, voi. XI, p. 594. missibile, ebbene anche in loro,
anzi in «noi» - Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso -
questa specie di desi- deri esiste: essa «si manifesta appunto nel
sonno». Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato
la migliore repressione, i desideri paranomoi in lui debbono esse-
re stati «interamente allontanati» (57 lb), non sono perciò né pochi né
deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione la- scia aperta la via
alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso peri- colo affiorava del
resto nel brano sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli uomini «cari
agli dèi», in altri termini i mode- rati, predispongono la «guardia» alle
porte dell'acropoli (560bl0). Ta hautou ethe: nel sogno V
epithymetikon soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri»
(571c7). In questa defi- nizione sta la chiave che spiega l'incombenza del
pericolo: sia- mo di fronte ad una «specie di desideri tremenda,
selvaggia e illegale» che costituisce un elemento strutturale dell'
'epithyme- tikon (572b4-5). Trattandosi di un'istanza costitutiva e
origina- ria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata
non può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò
Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desi- deri
paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b5- 6). Del resto i
desideri non necessari bussano alle porte dell'a- cropoli fin dalla
giovane età, come mostrano i molteplici ri- chiami ad operare una loro
repressione ed educazione «fin da giovani» (559al sgg.).
Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontana- ti
«esistano» anche nei moderati non significa che il loro status sia lo
stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-mo- derati. Con
ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressio- ne i cui fili è
giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo dal carattere
oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari (554a7), in
altri termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza» (554cl:
katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone:
[il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su
di sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo
abitano, non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore,
né li ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della
necessità e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei
[...] oì> TteiOcov [...] ot>8' finepcòv A,óy(p). La
capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfe- ra razionale è
qui direttamente contrapposta alla forza o vio- lenza (bia) di una
repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole
(epieikei), con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo
di fronte a due modelli di ge- stione del desiderio alternativi: l'uno
repressivo, negativo, l'al- tro persuasivo, positivo. 41 Di
contro, è anche vero che Platone discutendo del carat- tere democratico
scrive: se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono
relativi ai desi- deri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che
bisogna praticare e ono- rare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i
secondi, in tutte queste occasioni scuote la testa e afferma che essi
sono tutti uguali e di pari rispetto (561b8-c4). Poiché qui
la messa in schiavitù assume un valore positivo, sembra emergere una
contraddizione. In verità però come il processo di repressione svolto
dall'oligarchico è «apprezzabi- le» nelle intenzioni, è comunque meglio
di niente per un indi- viduo degenerato, così nel «discorso vero» che
deve esser fatto passare nella psyche del giovane carattere democratico,
che è ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non
41 Anche D. Hellwig, op. cit. (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste
su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit
Gewalt un- terdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al
carattere ed alla co- stituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera
fenomenologia degenerati- va; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fon- do adottati da
Platone. preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe
già sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrasta-
re perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'a- dozione
della strategia più drastica: la loro repressione e messa in schiavitù.
Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei
degenerati caratteri oligarchico e democratico (e anche del timocratico),
nei quali il logistikon, l'unico in gra- do di gestire i conflitti in
modo «armonico», è ormai «asservi- to» 42 all' ' epithymetikon (o allo
thymoeides: 553dl-7) 43 Stringente il parallelismo semantico e
concettuale che si pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la
degenerazione poli- tica e sociale permette la nascita e proliferazione
di «ladri, ta- gliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della
polis che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la
for- za» (552d3-e3: . . . ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou).
Il circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico,
si avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi con- turbanti,
laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e polis, di fronte
ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e patogena, ancorché lodevole,
della repressione violenta. 44 42 In questo caso la
«schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, del- lo sfruttamento
positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare le
ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei
desideri ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento,
espulsione, allonta- namento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's
Comparison of Just and Unjust Lives, in O. Hòffe (Hrsg.), Pla- ton.
Politela, Berlin 1997, pp. 271-90 (pp. 277 sgg.). 44 Diversa la
questione che si pone rispetto alla kallipolis in 590c2 sgg., ove
Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difen-
de la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le
di- rettive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui
considerate non pie- namente educabili. Se in entrambi i casi si tratta
di una extrema ratio, nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche
costitutive, tali per cui l'auspicata ar- monia sociale trova agli occhi
di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili
delle diverse strategie di controllo dei desideri non necessari emergono
allora quattro modelli para- digmatici (escludendo la loro
soddisfazione): due repressivi, uno misto, uno persuasivo: 1) quello per
cui essi vengono «di- strutti»; 2) quello che li «reprime e mette in schiavitù»;
3) quel- lo in cui il desiderio «represso ed educato» viene
«allontana- to»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è «convinto» e «ammansito». 45
Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei deside- ri
paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla loro
esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è esattamente una
medesima operazione repressiva come l'ab- biamo interpretata
inizialmente, ma rimanda a due strategie af- fini ma distinte. La prima
rientra nel modello che «reprime e mette in schiavitù» ed ha l'esito
univoco di spostare e incatena- re il desiderio. La seconda rientra nel
modello per cui il deside- rio «represso ed educato [...] viene
allontanato». Qui la com- presenza di repressione e educazione, sì che il
desiderio «allon- tanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente
incate- nato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione
in un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno
interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali per- mangono ma
sono «pochi e deboli». Modalità nella quale po- tremmo forse inserire
anche quei desideri «banditi» che Plato- ne abbandonava al proprio
destino: in tutti e tre i casi i deside- ri vengono repressi, non
distrutti, ma si tratta di una repressio- ne per così dire morbida,
tendente perlomeno in parte alla loro «educazione», sì che essi non
permangono, in massa, alle porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia
puramente repressiva, di ce viene criticata una modalità di
controllo metapsicologica che adotta, a priori ed unilateralmente, un
approccio brutalmente repressivo, lacerante. 45 Cfr.
rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan; 2) 561c2-3: kolazein te hai
doulousthai; anche 554a7: douloumenos; 3) 559b9-10 kolazomene kaipai-
deuomene [...] apallattesthai; anche 559a3: apallaxeien; 4) 554cl2-d3: bia
ka- techei [...] oupeitho [...] oud'henieron logo.
messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico
dei desideri; è questa la via che conduce prima al democratico,
poi' alla mania del tiranno. In conclusione, l'eventualità
che anche nei moderati emer- gano oniricamente i desideri paranomoi si
lascia intendere co- me se, piuttosto che singoli desideri incatenati che
premono ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe
origina- ri e costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad
approfit- tare di una certa eccitazione pre-notturna e del sonno del
logi- stikon per mostrare le strutture universali, esse stesse
«incon- sce», 46 che generano e sospingono in avanti i singoli
desideri paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo per i singoli
desi- deri rimossi, di Freud -, 47 Al di là di ogni modalità di
controllo adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno
mo- stra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie»
dei desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «be-
stia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa
sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in quei
pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». 48 46 W.
Jaeger, op. cit. (n. 7), voi. II, p. 600, scrive che siamo di fronte alle
«regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso A.
Kenny, op. cit. (n. 26), p. 11; E. Vegleris, op. cit. (n. 10), p. 108; W.
Janke, AAH0E- LTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie»,
XLVII/3 (1965) pp. 251-60 (pp. 257-59). Anche Freud opera del resto una
distinzione tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali»,
«innate» ed «inconsce» dell'Es, cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi,
cit., voi. XI, pp. 572 e 590; Id., Luomo Mosè e la religione
monoteistica: tre saggi, voi. XI, pp. 417-18; Id., Metapsicologia, voi.
Vili, pp. 78-79; sulla differenza tra individuo e specie cfr. Id., Dalla
storia di una nevrosi infantile, voi. VII, p. 591. 47 Cfr., per
es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi. VIII, p. 495: «tutti
gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Al-
cune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 159; Id.,
I miei rapporti con Popper-Lynkeus, voi. XI, pp. 311-12; T. GoULD, op.
cit. (n. 36), p. 175. 48 Sostengono apertamente
l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri, Guthrie, A History
ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla realtà:
derive psicopatologiche Se ritorniamo alla degenerazione
caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle modalità
intrapsichiche di con- tenimento del desiderio l'approccio univocamente
repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva
psico- patologica. La rottura dell'armonia intrapsichica,
condizione necessa- ria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale
assicurata dal governo del logistikon, ha inizio con il carattere
timocratico, che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides (cfr.
550b4 sgg.; 553b7c2). 49 Se egli non rappresenta ancora una figura
pa- tologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si
fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il carattere
oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari dell 1 '
epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e met- tere in
schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non ri- solve ma
acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non
potrà dunque esser libero da conflitti interio- ri, e non sarà uno ma in
un certo senso doppio» (554d9-10). In negativo: «la vera virtù, quella
della psyche concorde a armo- niosa, fuggirà via lontano da lui»
(554e4-5). La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane
figlio democratico: «Anche lui, dunque, si impegnerà a governare
con la forza quei piaceri che vi insorgono [...] chiamati non 1975,
p. 534; A. BlRAL, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari 1997, p. 150;
C.H. KAHN, op. cit. (n. 9), p. 83; G. Klosko, The "Rule" ofReason in
Plato s Psychòlogy, «History of Philosophy Quarterly», V/4 (1988) pp.
341-56 (p. 347); H.D. VoiGTLÀNDER, op. cit. (n. 4), pp. 114-55; J. Lear,
op. cit. (n. 7), p. 142, con linguaggio freudiano scrive che «anche nel
migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da
rendere inoffensivi o da ri- muovere». 49 L'approccio
duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza
nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la
persuasione ma con la forza» (548b7-8). 4 necessari»
(558d4-6: Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv), In questo
modo però, se talvolta alcuni desideri ven- gono distrutti, talaltra
invece proliferano «inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista
dell'acropoli. Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno
scudo a «chiudere le porte della regale fortezza» a più miti consigli e
ad «esiliare il pudo- re» (560c2 sgg.). 30 Solitamente, tuttavia,
superata la lacerante fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra
parzial- mente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi
in passato sconsideratamente «esiliati» (561a6-b5). Il passo
che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario de- terminismo
degenerativo disegnato da Platone, è però ormai cortissimo: l'Eros
tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero sciame dei desideri
paranomoi, facendosene «capo» e «guida» (573 a-b), e quelle opinioni che
gli fanno da «scorta», si libera- no definitivamente «dalla schiavitù»,
mentre prima, quando egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le
opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno» (574d5 sgg.). 51 Le
cate- ne della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vi- ta da desto
quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da
alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione (574e2-4).
L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come l'avevamo
descritto nei suoi sogni» (576b4-5). Dal punto di vi- sta della
fenomenologia degenerativa questa figura è dunque dovuta, a livello
psicodinamico, al «ritorno» di un represso che scavalca le barriere
oniriche: si transita dall'appagamento oni- 50 Cfr. anche J. Lear,
op. cit. (n. 7), p. 193: «La comparsa dell'uomo de- mocratico è, in linea
di principio, il ritorno del represso nella generazione successiva»;
sull'oligarchico cfr. ivi p. 182. 51 Se sono le opinioni che si
liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i suoi desideri a riempire di
contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le azioni dissolute del
tiranno. rico a quello reale dei desideri repressi,
dall'estemporanea rap- presentazione della loro soddisfazione nel teatro
dell'immagi- nazione alla conquista permanente dell'acropoli.
L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni settore
della psyche abitandovi come un tiranno» (577d; 329c- d; 573 d; 575a). I
rapporti di forza della psyche-polis vengono nuovamente ribaltati: è
l'Eros a «sopprimere e scacciare fuori di sé i desideri e le opinioni
oneste» (573a3-b7). Tirannia che genera una profonda lacerazione,
un'espropriazione della «vo- lontà» (577e). 52 Il soggetto è in balìa dei
suoi desideri più sel- vaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso
ormai comple- tamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro
inappagabile ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne
cade preda. 53 Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai
suoi desideri e amori». 54 Riepilogando, dal punto di vista
intrapsichico il processo di degenerazione avviato dal defenestramento
dell'armonico ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia
del- l'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi,
quale risultato di un approccio brutalmente repressivo del
materiale epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza
e il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei
processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigo-
ritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psico-
patologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed espropriazione
maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodina- mica è dunque a tale
strategia di controllo che deve essere at- tribuita la più grave
responsabilità della fenomenologia dege- nerativa. 52
Sul doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia,
cfr. O. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in Platons Staat (577c-588a),
“Museum Helveticum”. 54 578all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te
k<xì épcÓTCOV. 7. L 'altra via: la canalizzazione
PLATONE, LA REPUBBLICA La strategia antitetica
alla repressione è quella della per- suasione e educazione del desiderio.
L'architrave metapsicolo- gico sotto il quale si dispiega tale modalità è
rappresentato dal- l'adozione di un modello pulsionale
"idraulico" che assicura all' epithy mia, e all'eroi-, una
intrinseca malleabilità. Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto
di vista dinamico si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come
emerge lim- pidamente nei libri VI e V: «Sappiamo che quando le epithy-
miai di una persona si concentrano con forza in una sola dire- zione,
esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto, come una
corrente lì incanalata». 55 Così, prosegue Platone, «in quella persona in
cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi e a ogni attività
simile, esse riguarderanno, credo, il piacere della psyche per se stessa
e trascureranno i piaceri del corpo», come accade nel philosophos (VI
485dl0-12). Se, allora, si con- sidera non Yepithymia nella sua
fenomenica e contingente sin- golarità, si tratti di specifici desideri
necessari, non necessari e/o paranomoi, ma le epithymiai nella loro
plurale unitarietà, esse risultano essere una forza energetico-pulsionale
unitaria, canalizzabile verso mete diverse, anche opposte, secondo
un modello economico. Anche da qui l'insistere di Platone, a monte,
piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie di gestione del
materiale epithymetico. Questa è la ragione, dalla nostra
prospettiva psicodinami- ca, con la quale si spiega perché l'estensione
metapsicologica della tripartizione del libro IX poteva coniugare
esplicitamen- te, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri
e governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca,
«ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere preservati,
rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia
intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché le
Resp. VI 485d6-8: lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov.
COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata.
56 Modello rafforzato, descrittivamente, da una sorta di estremizzazione
erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del filosofo o meno,
chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la sua forma» (V 474d8-10),
come chi «desidera qualcosa la desidera in tutta la sua forma». Estremismo
che conforta la tipologia caratteriale del libro Vili.
L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e
caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura comune
à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della ve- rità, 57
aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione strutturale tra
repressione e canalizzazione risulta così radica- lizzarsi nel nome
dell'eros. Ai due estremi: su un versante scor- re il fiume impetuoso
dell'eros tyrannos, ove confluiscono i ter- ribili desideri paranomoi,
che trascina il soggetto verso il mare .aperto deìl'adikia; sul versante
opposto si distende l'intensa ma benefica corrente epithymetica dell'eros
filosofico, la sola forza psichica che in virtù della sua potenza può
supportare la lunga navigazione che permette infine di approdare nel
porto sicuro della dikaiosyne. 38 In conclusione, posta la
permanenza di specie di desideri stabili, indissolubilmente legate alle
tre istanze di riferimento, come quella dei desideri paranomoi, dalle
quali non si può mai svincolarsi del tutto, una parte cospicua del
materiale epithy- metico, decisivo rispetto agli equilibri o squilibri
dei rapporti 56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An
Introduction to Plato's 'Repu- blic', Oxford -Sulla centralità
psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di una sua
«canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel Simposio
e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la
necessità di non confinare l'eros nel- la dimensione subconscia L.H.
CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology that
confines eros to the sub-rational parts of the soul most definitely falls short
of the truth. PLATONE, LA REPUBBLICA di forza intrapsichici complessivi,
è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale,
in gran parte riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo
possibile ma doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete,
anziché tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di
annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E questo
lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi i due approcci
fondamentali, le due strategie basilari di con- trollo del desiderio
adottate da Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus
persuasione, schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si
può imboccare la via che conduce all'armonia, alla salute, all'
'eudaimonia e alla giustizia del filosofo, o invece il cammino
psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo
massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una
massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dal- le
catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini della
coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e per- mettendo così il
rafforzamento fino al massimo grado, e quindi l'esplosione finale del
loro devastante potenziale. Alberto Radicati, conte di Passerano e
Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Coco: l’implicatura
conversazionale del mutuale prevalente – il contratto di carattere mutuale
prevalente -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Umbriatico).
Filosofo italiano. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can
play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is
conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the
‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on
‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It
sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the
subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must
‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too
– what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ –
what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and
boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a
lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal punto di vista sistematico molto vicino
alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.
Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia
Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma.
Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per
aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché
del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa
prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione,
e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni
di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi & Figli); “La filosofia
del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano,
Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice
penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle
tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione
giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico
sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla
costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi
Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla
pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo”
(Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa”
(Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei
fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione,
giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La
giustizia amministrativa, Roma, Società
per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per
il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza,
dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale
trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora
procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo
Calabria. La giustizia tributaria.
Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica
Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta
Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e
procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua
carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni
dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di
sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura.
Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di
Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima
dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del nuovo
Codice Civile e del Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti
dell’allora nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una
delle sue grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime
dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi
conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia
leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno
contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo,
inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un
arco temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si
accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le
codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una
grande norma fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico,
rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in
una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci
consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla
semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del
singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come
all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non
corrispondesse eguale severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica
amministrazione. Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della
pubblica amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo
stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso
ricordare. Dal padre, persona di cultura, ricevette i primi
rudimenti di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno,
successivamente, in taluni suoi saggi filosofici su Aquino. Iniziò la
carriera giudiziaria a soli ventiquattro anni e ottenne la nomina a
Pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere
successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino.
Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti oltremodo
favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano e Calabria
della Corte d’Appello di Napoli, dove vi permarrà per
passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne la
nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma
non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il
Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di
Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”, pubblicazione mensile
edita a Roma, lo saluta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica
famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di appartenere,
nonostante l’altissimo grado che ricopre nell’ordine giudiziario,
oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione
della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli
anni ormai lontani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i
fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e
prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema Corte. Non appena
conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere,
partecipando attivamente alla funzione giudiziaria di così eminente consesso.
Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sarebbe di buon
gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore; non possiamo,
peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore
di Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento di Diritto
Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di Redattore Capo
della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina, se
indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti di così
eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così
ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado, assolvendo
anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni giudiziarie,
alle quali porta il valido contributo della sua competenza, ma soprattutto
una grande serenità ed equanimità. Riguardo ai meriti illustrati dall’articolo
dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato
soltanto da solidissima dottrina e da rigorosissimo lavoro applicativo, ma
anche dalla partecipazione costante all’evoluzione dell’ordine giudiziario, e
tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio
Superiore della Magistratura, ossia dell’organo politico e
politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il
Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e
l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa di attuazione gli
diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della
Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i
principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè
all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di Filosofia del Diritto presso la Scuola di Perfezionamento
in Diritto Penale dell’Università di Roma “La Sapienza”. In questo ambito,
svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i
più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano,
ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto
rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio
del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il
Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal
coerente riferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico
quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va
dal primo dopoguerra all’ avvento del fascismo, costituisce una
parentesi temporale di efficace e prorompente elaborazione delle basi di
quel diritto del lavoro e sindacale, o “giuslavorismo”, costituendo davvero
una novità assoluta nelle scienze giuridiche del tempo. Così, quando si
verificheranno gravissime crisi socio0economiche che metteranno a rischio
l’assetto della produzione, la politica e i sindacati troveranno i loro punti
d’incontro nel noto Statuto del Lavoratori, una ri-edizione aggiornata
delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”,
tra i quali appunto Coco. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso
alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e
Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile,
emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e
giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione,
diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza della promulgazione, il
Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il
prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte della sua vita
coincide con l’immane conflitto mondiale, con la guerra
civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga
del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad
assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e
fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta.
Ebbene, nonostante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime
fascista, sulla base di taluni articoli che aveva scritto su “Il Messaggero”
di Pio Perrone, di commento a leggi e questioni giuridiche di alto livello,
ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta Commissione di epurazione, su decine
di articoli scritti in una pluridecennale collaborazione, ne scova qualcuno
che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a
tutti la dirittura morale del magistrato integerrimo, del quale va appena ricordato,
ammesso ve ne fosse bisogno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli
fece pervenire sollecitazioni per una causa che la interessava. Ebbene, Coco
procedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del
Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche
motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto
per il fatto che per meriti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo
Presidente della Suprema Corte, ne mina rapidamente le condizioni di salute.
Negli ultimi mesi non volle proporre ricorso contro i provvedimenti che lo
avevano colpito e rifiuta cortesemente anche una candidatura in Parlamento,
per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto
e riconoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di
perdonare cristianamente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore.
Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue
assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative
a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a
mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti
delle cooperative a mutualita prevalente.
Del Lavoro. Le Società di Mutuo Soccorso in Italia.
Il prof. Gobbi, nel suo pregevole libro: « Le Società di Mutuo Soccorso »
(1) dice che « il nome di Società di Mutuo soccorso è co¬ munemente
assunto da associazioni, le quali hanno per loro scopo principale di dare
ai soci sussidi in caso di malattia o in altre even¬ tualità che
interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro atti¬ vità
economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da con¬ tributi dei
soci stessi ». Considerato così il carattere economico-sociale dei
sodalizi mu¬ ralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime
traccie di essi si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e mestieri,
nelle maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste associazioni si
proponevano scopi di difesa professionale, di perfezionamento nelle arti
esercitate dagli associati ; qualche volta, in via secondaria, l’eser¬
cizio di pratiche religiose; e spesso assumevano importanza politica di
prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come nelle arti della
repubblica Fiorentina. Abbiamo però nel nostro paese esempi di
società mutualiste sca¬ turite dal vecchio tronco della corporazione o
del Collegio, o meglio che'di questo possono reputarsi trasformazione.
Così e non altrimenti noi possiamo considerare la Società fra i falegnami
e fabbri di Faenza che fa rimontare la sua origine al 1410; l’altra pure
di Faenza fra calzolai ed arti affini che si dice sorta nel 1474; la
So¬ cietà Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del 1454 ; la
Società Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei Cappellai
di Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi
d’arte di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui
sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del
deci- mottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610);
le due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra
falegnami ed arti affini di Torino (1636); la Società fra carrozzai,
sellai, fabbri¬ canti di Torino (1653); la Società fra calzolai padroni
di Asti (1681); la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed
affini e fra fabbri ferrai e serraglieri (proprietari di officina)
(1700); la Confraternita Sovvegno fra israeliti di Padova (1713); le
Società Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto
lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino (1736); la
Società Cocchieri e palafrenieri di Torino (1748). Quantunque
sorta nel 1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la
prima che abbia assunto dalle sue origini e poi meglio perfezionati con
successivi adattamenti, i caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata
con Regie patenti 19 agosto 1751 e poi nel suo riformato organismo con
Regie patenti 28 settembre 1770. E ira i sodalizi che sorsero nella
seconda metà del secolo decimottavo e possiamo considerare, al pari della
Unione Pio Tipografica di To¬ rino, come le più antiche Società di mutuo
soccorso, meritano par- ticolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti
calzolai di Torino del i/54 e la Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo
decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P rim ? Società di mutuo
soccorso, secondo il concetto mo- Daese affe[>m are che di buon'ora si
manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza
sociale. Ed è cosa singo- concettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione
logica del Sassari dalIe , f orme più semplici di essa dovrebbe
videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della pre¬
previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi
della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio
auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,
litaria, la quale si esu M , Jl ns P arm io, che è virtù so-
adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova
l’organo domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti
quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che
l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che
versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della
mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta
alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni rispar- occorre per i
bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S
a m m uta 4 ,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoro- primo
dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al 1851 società di mutuo soccorso
(1). di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo : nel 1810.
Pr« ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni
SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in
seta areento l a Società di M. S. fra cap- ’ aigento e oro di Tonno; nel
1884, la Società Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e
'sociale che la unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche
il rapido incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo
della prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro
la luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35
anni soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896
So¬ dalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722,
con un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza
siano quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica,
pub¬ blicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza.
IL — I caratteri. Le Società di mutuo soccorso italiane,
nella loro generalità, sono associazioni che esercitano in modo
prevalente funzioni di carattere assicurativo col principio della
mutualità, aggiungendo spesso a queste altre funzioni accessorie dirette ad
accrescere le forze economiche e intellettuali e morali dei soci.
Fra le funzioni di carattere assicurativo ha prevalenza in tutte
l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia. Spesso vi si ag¬
giungono le spese funerarie in caso di morte ed un sussidio una volta
tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati ai
contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua di
previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he con¬ cedono
sussidi di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano un
periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente chiamasi periodo di
noviziato. Sono poche le Società che accordano il sussidio subito dopo
l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1); tutte le altre vanno da
un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi, e ve ne ha 120 nelle quali
il periodo di noviziato supera i 24 mesi. Ma il numero maggiore si
condenza intorno al periodo da uno a 12 mesi: il 76 per 100 del
totale. Non tutte le Società concedono il sussidio dal primo
giorno della malattia, sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le
al¬ tre fissano un periodo, che chiamono periodo di carenza, nel quale
i soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di carenza è di ordi¬
nario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche So¬ cietà
va oltre i dieci giorni. orefici ed arti aifiai di Bologna, la
Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel' 1835, la
Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836, la
Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra
brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra lavoranti guantai,
tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società operaia di
M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società di M. S. fra parrucchieri
di "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e
profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e
chirurgi della città e provincia di Bologna, la So¬ cietà fra medici e
chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti,
medici e veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo,
la Società di M. S. fra ma¬ rinai pescatori di Trapani; nel 1846, la
Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e provincia di Ferrara,
l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua pro¬
vincia, la Società mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società
di M. S. tra calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova;
nel 18 - 1 S, l’Unione operaia pa¬ triottica fratellanza di Asti, la
Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la So¬ cietà
Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la
Federazione italiana fra lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel
1849, la Società di M. S. fra i pompieri municipali di Ancona ; nel 1764,
la Università dei pescivendoli patentati di Roma Questi dati e i seguenti
concernono le Società riconosciute soltanto, per la quale la statistica
ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che
con¬ cernono 1548 Società soltanto. Nè il sussidio è concesso per
tutta la durata della malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al
suo termine; ma nelle altre assai raramente il sussidio va oltre i 180
giorni in un anno, e il numero maggiore si conta fra quelle che non vanno
oltre 120 giorni La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il
4-2 per 1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in
molte altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti
giorni sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro
gl infortuni del lavoro tutela oggi in Italia una larga massa di operai,
ma non H tutela tutti: l’artigianato, la mano d’opera agricola, le
industrie ohe non appli¬ cano macchine, sono ancora oggi fuori il campo
dell assicurazione obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione
dei nostri sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto
inte¬ gratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la
invalidità temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965)
conside¬ rano questa agli effetti-del sussidio come una malattia
ordinaria; le altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il
numero delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita
permanente (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un
assegno una volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il
numero maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo
la entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor
numero sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di
in¬ fortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in
misura determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi
o di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.
Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno
valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussi¬
diati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli
oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor-
Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno,
per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una spesa
media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia, sussidiati
e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussi¬ diate
giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate 5.52.
Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci delia
Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore ordinamento
tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corri¬ spondenza fra i
mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono con la promessa
statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia, annualmente, risulta
di lire 5.64 per ogni socio esistente. Nell’ordine stesso del mutuo
soccorso devono porsi i sussidi per spese funerarie di soci defunti.
Molte Società provvedono diretta- mente alle spese funerarie, alcune
concorrono con la famiglia alle spese stesse. Non sono infrequenti poi i
casi di Società che danno sussidi alle famiglie dei soci morti sia una
volta tanto sia in forma continuativa. Sono relativamente poche le
Società che concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per
100). Nè sono molte le Società che provvedono con sussidi ai soci
disoccupati (il 6.5 per 5 — 100). Questi dati si riferiscono a tutte
Società delle quali si occupa la statistica recente.
Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società mu- iualiste è
di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar vita ad
istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa geniale
filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mu- tualista fu
rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno studio che, per
conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia delle nostre
Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri
(1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa. Nel quadro
seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo Soccorso che
esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti
ai soci Magazzini di consumo Cooperative di
lavoro Cooperative di credito Piemonte.
174 281 2 Liguria. ..
19 15 — Lombardia.
233 ■ 46 1 Veneto . .... ....
. 161 32 Emilia . . , . . 182
23 1 Toscana. 92
58 1 Marche....... 128
24 1. — Umbria. . . . . . .
72 18 — — Lazio..
63 .2 . Abruzzi. 82 5
Campania. . . . . . 150 10 Puglie . . . . .
. . 1 • 57 7 1 ; “
Basilicata. 27 Calabria . . . . . .
47 14 — — Sicilia.
95 17 — — Sardegna .
. 15 — Regno . . . 1597
| . 552 5
2 Nella maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni
autonome fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami
di attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi
di questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine
di produrre un maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si
com¬ prende come esse siano in numero maggiore (il 24.9 per 100). I
ma¬ gazzini di consumo, che sul totale rappresentano 8 6 per 100
delle Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il 21.3 per
100 delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e merita
par¬ ticolare mensione quello della Società Generale operaia di .Torino,
reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo dei
ferrovieri. La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et C.«
Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano
poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le
Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive,
scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di
premi, la provvista dei libri e così via. Altri scopi accessori sono
il collocamento dei soci disoccupati^ ed alcune Società hanno annessi
veri e propri uffici di collocamento; il conferimento di doti alle figlie
dei soci; la costruzione di abitazioni operaie; la concessione dei
sussidi alle famiglie dei soci richiamati sotto le armi. Nei
riguardi della costruzione delle case operaie la legge del 1903 sulle
case popolari contempla in modo particolare le Società di mutuo soccorso,
dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei loro fondi in
costruzione di case pei propri soci. La legge vuole soltanto che le
Società, le quali questa impresa intendono assumere, costituiscano una
sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella legge parecchie Società
hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione di intraprendere la
costruzione di case Operaie. Un nuovissimo ufficio assunto delle
nostre Società di mutuo soc¬ corso è quello di promuovere la iscrizione,
collettiva o individuale, dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per
la invalidità e la vecchiaia degli operai. Contiamo nel
nostro paese Società le quali assicurano pensioni di vecchiaia
tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due Società, maschile
e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali non pensioni ma
sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai loro soci in misura e
qualità corrispondenti ai fondi disponibili. E siccome le Società
che corrispondono pensioni o sussidi' di vecchiaia ai soci hanno per tale
servizio costituito un fondo speciale alimentato da speciali contributi o
da avanzi di bilancio, la legge institutrice della Cassa Nazionale di
previdenza consente’ a queste Società di versare alla Cassa i fondi così
raccolti e le future contri¬ buzioni, inscrivendo ad essa collettivamente
i soci aventi diritto a pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i
più anziani, qualche maggior favore. ^ Quel precetto della
legge è provvido, contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato,
fecondato da nuove e più larghe con¬ cessioni per condurre i sodalizi
mutualisti a divenire organi inter¬ medi attivissimi fra l’operaio e la
Cassa Nazionale, sull’esempio di quanto con maravigliosi risultati viene
praticandosi nel Belgio. Alcuni credono che, per mantenere vivo lo
spirito di fratellanza per aumentare gli elementi che fanno fiorire e
cementano la soli¬ darietà mutualista, sia opportuno conservare alle
Società di mutuo- soccorso il servizio di pensioni di vecchiaia, di
perfezionarlo. Ed altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli
contributi dei b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia
sufficienti ai più elementari vorrebbero che una parte delle risorse
assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse affluissero a
quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene ordinato
servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non posso, senza venir
meno alle mie convinzioni, manifestate già in pubbliche conferenze,
accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono lunghe considerazioni
per dimostrare condannevole la prima. In un paese in cui è sorto un
Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può assicurare
pensioni di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono provvedere
istituzioni o sodalizi pri¬ vati, si renderebbe un cattivo servizio ai
lavoratori consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società
mutualista cui appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei
soci di un gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della
fratellanza e della soli¬ darietà. La Società, organo intermedio fra il
socio e la Cassa Nazio¬ nale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi
soci, anzi li afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come
in tutti i feno¬ meni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci
che colmano le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un
momento turbato. La seconda tesi è pericolosa per le
conseguenze cui condurrebbe: il fatale spezzamento delle forze le quali
per dare il maggiore effetto utile devono convergere in un unico grande e
solido organismo, nel quale soltanto può giuocare, in tema di
assicurazioni, la legge così proficua dei grandi numeri. In
un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella
obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo Stato,
il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto al¬ l’Istituto
nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente di
attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano,
vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procu¬
rando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sot¬
tratti all’Istituto Nazionale, L’esperimento dell’assicurazione
libera non può farsi che all’ombra di un grande Istituto verso il quale
convergano le cure assidue dello Stato, la simpatia delle classi
dirigenti, la fiducia dei lavoratori. La legge operò quindi
saviamente quando volle associare alla grande opera dell’assicurazione
per la invalidità e la vecchiaia degli operai le forze, le iniziative dei
sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà ancora meglio se aumenterà
gli stimoli, con un ben congegnato sistema di premi, per la iscrizione
dei soci della Società di mutuo soccorso. Intanto sono
salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del grande Istituto adopera
presso le nostre Società mutualiste, fu prov¬ vido il pensiero del
Ministero di agricoltura, industria e commercio, il quale, con R. Decreto
19 marzo 1905, bandì un concorso a premi in danaro ed in medaglie d’oro e
di argento da conferire a quelle Società di mutuo soccorso che al 30
giugno del corrente anno di¬ mostreranno di avere contribuito
efficacemente alla iscrizione dei propri soci alla Cassa Nazionale di
previdenza. Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i
primi frutti. Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o
procu¬ rato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie
precise di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73
Società hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare
mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino che
ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m. s. per le
operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia di
— 8 — m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la
Società di m. s. di Mol- fetta. (Bari) che ne ha inscritto 512.
3.° La legislazione e la giurisprudenza. Le Società di mutuo
soccorso sono regolate in Italia dalla legge 15 aprile 1886. Questa
contempla però soltanto le Società Operaie. Il legislatore temè che con
le forme assai semplici per il riconosci¬ mento giuridico fissate nella
legge, senza alcun controllo della pote¬ stà politica, potessero
rivivere, sotto la specie dell’ associazione mu¬ tualistica. le soppresse
corporazioni religiose e quindi volle che le Società composte di operai
soltanto potessero chiedere ed ottenere il riconoscimento giuridico con
il procedimento escogitato. La for¬ mula rigida della legge è stata però
largamente temperata dalla giu¬ risprudenza; la quale ha ammesso che
possa considerarsi operaia una Società costituita in gran parte da
operai. E così si è potuto am¬ mettere anche nelle Società operaie
l’intervento di soci benemeriti, di soci fondatori, che con largo
concorso pecuniario esercitano il benefico ufficio del patronato.
Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono
ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice
civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono
tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rile¬ vare che
la giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mu¬ tuo soccorso i
caratteri dell’ ente morale. E quindi non ammette che in caso di
scioglimento, il patrimonio sociale possa essere distribuito fra i soci
superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi afllni o in opere di
beneficenza, e vuole che le Società di mutuo soccorso nello acquisto di
immobili, nell’accettazione di doni o di legati siano au¬ torizzate con
decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che contempla appunto enti
morali. a uà, ^aucenena aei j naie Civile, depositando copia
autentica dell’atto costitutivo e statuto. statuto. Le
condizioni che la legge vuole adempiute sono soltanto le se-> guenti
: 1. Le Società devono proporsi tutti o alcuni dei fini
seguenti: assicurar ai soci un sussidio nei casi di malattia, di
impo¬ tenza al lavorò o di vecchiaia ; venir in aiuto alle
famiglie dei soci defunti. Possono inoltre; cooperare
all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ; dare aiuto ai sòci
per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere ; esercitare altri
uffici propri delle istituzioni di previdenza economica. 2.
Gli statuti delle Società devono determinare espressamente; la sede
dèlia Società; i Ani pei quali è costituita ; le
condizioni, la modalità d’ammissione e di eliminazione dei soci ;
i doveri che i soci contraggono e i diritti che ne acqui¬ stano
; le norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del
patrimonio sociale ; la disciplina alla cui osservanza è
condizionata la vali¬ dità delle assemblee generali, delle elezioni e
delle deliberazioni; la costituzione della rappresentanza della
Società in giudizio e fuori ; le particolari cautele
con cui possono essere deliberati, lo scioglimento, la proroga della
Società e le modificazioni degli sta-, tuti, sempre che le medesime non.
siano contrarie alle disposizioni della legge. La concessione
della personalità giuridica alla Società di mutuo soccorso è quindi
secondo la legge del 1886, subordinata soltanto all’ esame estrinsero
dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate. Non si chiede come ne
fn manifestato il proposito in alcuni disegni, di legge presentati prima
che si giungesse alla legge del 1886, la dimostrazione tecnica della
corrispondenza fra contributi e sussidi, non si impone l’impiego dei
fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve però avvertirsi
che la legge parla di sussidi e dalla discussione parlamentare risulta
che si volle escludere pen¬ satamente la parola pensioni, implicando un
regolare servizio di pensioni necessariamente la dimostrazione di un
ordinamento tec¬ nico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di
cor¬ rispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della
legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza
economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale importanza che non
può essere esercitata senza un ordinamento tecnico preciso, che implica
impegni a lunga scadenza e non si può in modo asso¬ luto ammettere,
tenuto conto anche della discussione parlamentare, che il legislatore
abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una . così importante
funzione. B la giurisprudenza ha confermato il pensiero del
legislatore ammettendo che occorra una speciale concessione governativa
per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità;
concessione subordinata alla dimostrazione di un ordinamento
tecnico che dia sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti
(1). Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a
concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “®
Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di più di
quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può sembrare a
una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne meno
favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 cono¬ scimento
giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si
consideri che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore
coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale
discriminazione negli scopi, qualche maggiore det¬ taglio negli Statuti.
E nello stabilire quelle nome il Consiglio della Previdenza si è anche
proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La
legge chiede il minimo, e non può quinci escludere che si faccia di più e
meglio. I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di
mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle
tasse di bollo e registro, conferita alla So¬ cietà cooperative
dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa
sulle assicurazioni e dall' imposta di ricchezza mobile, come all’
articolo 8 della legge 24 agosto 1877, nu¬ mero 4021;
parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per la
esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura dell’im¬ posta
di successione o di trasmissione per atti ira soci ; esenzione da
sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai soci.
Gli obblighi delle Società registrate, come anche di quelle ri¬
conosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio
Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e nelle
comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i quali sono
compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente. Il
Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli per la
migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia il
sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto impiego
dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero esercita nelle
Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza so¬ vra di esse, non
potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le am¬ ministrazioni,
nominare Commissari Regi. Nè la legge del 1886 nè altre leggi,
oltre i vantaggi di ordine fiscale, conferiscono alle Società di mutuo
soccorso aiuti diretti o in¬ ni Il Consiglio di Previdenza non
espresse divei del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo
so< lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile --
-.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi
i una nota al modello di statuto spirano ad ottenere la
persona- s possono proporsi di assi- diretti dello Stato. I
nostri sodalizi mutualisti vivono esclusiva- mente, o quasi, eccettuate
le non frequenti obblazioni dei benefat¬ tori, attingendo le proprie
forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio, costituisce il
loro miglior vanto. Occorre però tener conto degli aiuti di
carattere non continua¬ tivo e straordinario che vengono ad esse nei
concorsi a premio e da sussidi speciali conferiti dal Ministero di
agricoltura, industria e commercio. Nel campo dei concorsi a
premio meritano particolare mensione quelli che una volta con alquanta
frequenza indiceva la Cassa di Risparmio di Milano fra le Società di
mutuo soccorso meglio ordi¬ nate. Nel 1882 fu bandito un
concorso a premio, di lire 3000 (1500 of¬ ferte dal comm Besso e 1500
date dal Ministero) per il miglior or¬ dinamento delle Società di mutuo
soccorso; enei 1901 ne fu indetto un’altro dal Ministero con un premio di
mille lire, due di cinque¬ cento e con medaglie di argento o di bronzo a
quelle Società ope¬ raie di M. S. che avessero meglio provveduto ad
organizzare e ga¬ rantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei
casi di inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito
fondo sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale
di previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso a premi del
1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società
di mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza.
Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il
Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima
Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a quelle
Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordina¬ mento e di più
lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche con le scuole e
con le biblioteche alla istruzione degli operai. E frequensemente il
Ministero concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi operai che hanno
dato prova per lunga serie di anni di buon ordinamento e di costante
devozione ai principii della mutua¬ lità. Nè sono infrequenti i sussidi
in denaro, non molto larghi data la parità dal fondo all’uopo stanziato,
che il Ministero dà alle So¬ cietà operaie che più si addimostrano
bisognose di aiuti. A. Lo stato attuale. La recente
statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate dell’ Ispettorato
generale del credito della previdenza, registra la esistenza in Italia al
31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali riconosciute
1548 non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi
che la statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre di quell’ànno la
esistenza di 6722 Società di mutuo soccorso; e quindi nel decennio, in
luogo di riscontrare un incre¬ mento, come erasi verificata, e notevole,
dal 1885 al 1894, si constata uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in
cifra media, del 2 - 8 per cento. La diminuzione più notevole si osserva
nell’Italia meridionale e nell’insulare ed in parte della centrale; si
giunge sino al 48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha
un aumento nell’ Italia settentrionale e nel rimanente della centrale;
aumento che riuscì notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia
col .15.0 per cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione
delle Società di mu¬ tuo soccorso, assai lenta nella prima metà del
secolo decimonono, andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e
riportammo, a dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del
1894. La dimo¬ strazione riesce più evidente classificando il numero
delle Società per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le
medie seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904:
Società fondate prima del 18*0 — % . 1.0 » ,, dal 1850 al 1859 — »
. 2.7 » » dal 1860 al 1869 — » . 10 . 3 » » dal 1870 al
1879 — » . 19 . 2 » » dal 1880 al 1884 — » . 18 . 9 » »
dal 1885 al 1889 — » . 14 . 5 » » dal 1890 al 1894 — » . 12 .
6 » » dal 1896 al 1899 — » . 8.7 » » dal 1900 al 1904 —
». 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889,
con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo
il decennio 1870-79 con 19 2. . Ma l'incremento più rapido si
determina appunto dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai
vari compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e
centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni,
questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome
in queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società
nel periodo 1895- 1904, si deve concludere che in esse le Società hanno
vita più breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:
Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle
sciolte nel decennio: Piemonte Liguria
Lombardia Veneto. Emilia.
Toscana Marche Umbria Abruzzi
Campania Puglie. Basilicata
Calabria Sicilia . Sardegna
Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo
danno le Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la
Sardegna. ° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre
1904 sono composte di soli uomini . » » di sole
donne » » di uomini e donne se ne ignora la
composizione . 5,078 252 1,017
189 Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto,
sono 1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale
e 1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15
aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi
fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per
%• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società
esi¬ stenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri
che la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli
e formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione
nello esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi,
non le asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il
lento incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero
ri¬ spetto alla massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto
in pregiudizi non ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella
imperfetta conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca,
indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge.
Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano dal
campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze trovano
più conveniente esplicazione in altre forme di organizza¬ zioni, che in
ben ordinato reggimento politico hanno diritto di cit¬ tadinanza per la
legittima difesa di interessi professionali e per la protezione del
lavoro. Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo
soccorso, se¬ condo le statistiche alle tre date, risulta nelle cifre
seguenti: nel 1885 — 730,475 nel 1894 - 933,685 nel 1904 —
926,026 Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre
indagini le indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la
integrazione, il criterio della media dei soci per ciascuna Società, si
avrebbero le cifre seguenti : nel 1885 — 760,085 nel
1894 — 956,328 nel 1904 — 953,455 La media dei soci per ogni
Società nel 1885 risulta di 153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 .
9. Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti
dell’Ita¬ lia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche
nell’Emi¬ lia, nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito
in tutti gli altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio
dei soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e
Sardegna, si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri
com¬ partimenti. Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre
1904, la diversa com¬ posizione numerica di esse è indicata dalle cifre
seguenti: Sino a 99 soci . — 53 . 6 Con soci da »
» da » » da » » da » » da » »
da b b da 1000 a 1500 — 0 . 5 b b oltre . 1500 —
0.3 100 a 199 — 27 . 6 200 a 299 — 27 . 3 300 a 399 —
4.5 400 a 499 — 2.3 500 a 699 — 1.2 700 a 899 — 0.8
In complesso, in tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se
ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più
della metà delle Società conta meno di 100 soci; ed in ge¬ nerale un
quarto circa delle Società conta un numero di soci da 100 a 200.
La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei
926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne. Sul
movimento economico dqlle Società di mutuo soccorso si pos¬ sono fare
raffronti con la statistica del 1885; quella del 1895 non con¬ tiene
alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati riferentisi alle due
date: Entrata. Spese . Patrimonio L.
7. L. 14,632.425 .404.205 » 11.790.028 1.200.840 »
72.395.544 Il patrimonio medio per ciascuna Società, che nel 1885
era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L. 12.-017,85. Volendo
integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non diedero la
indicazione del patrimonio sociale, assumendo come cri- terio il
patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti: Con lo stesso
metodo si possono integrare le cifre afferenti alle entrate ed alle
spese. Secondo tali risultati,!che non si possono discostare molto
dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L.
4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218
sul pa¬ trimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100. t 9 o^?
trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di L. 2,342,43, con
un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi e con un massimo di L.
3833,27 per le Società della provincia di Roma. La media delle entrate
per ciascun socio è di L. 16 con un Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la
Calabria e un massimo di L. 18,92 per la „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ
- nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre: “SJ on ? dl ®
oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, do¬ nazioni ed altro
(patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di entrate nel 1904 ,1
tre elementi davano le cifre seguenti: Contribuzioni di soci
effettivi .... 68 80 Contributi di soci non effettivi, donazioni,
ecc 7 28 Altre entrate . . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor
6 di entrata è dovuto, come abbiamo già no¬ tato, alle contribuzioni dei
soci effettivi. E la proporzione diventa maggiore quando si consideri che
le altre entrate slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla
loro volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle
entrate 1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^
SSmo Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in
Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società
riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al
1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti: Redditi
patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi . . .
Redditi straordinari | Rendita di beni immobili ... 1.
69 ( Interessi attivi.17. 13 (effettivi.38.60
^ non effettivi.0. 99 l di Magazzini di consumo ... 27.
58 1 di aziende sociali.6.85 .7.16 Anche
per queste Società, nella media generale del Regno, il maggiore delle
entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi, esclusi però il
Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene da¬ gli introiti dei
magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior parte delle entrate
sono dovute alla assunzione da parte di due So¬ cietà di Palermo, quella
fra la gente di mare e T altra dei capitani marittimi, di appalti di
carico e scarico di merci. In Lombardia le contribuzioni dei soci
effettivi eguagliano quasi i redditi patrimo¬ niali; ivi infatti sono le
Società più antiche e con patrimonio più rilevante. Le contribuzioni
dei soci non effettivi variano dal 2. per 109 nell’Umbria, al 0. 5 per
100 nelle Puglie, perchè appunto nelle So¬ cietà di questa regione è
minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media per
ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire 13.
Nelle medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30 per
le Soc età degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle della
provincia di Roma; il minimo ed il massimo delle spese si riscontrano quindi
nelle stesse regioni nelle quali si hanno il minimo ed il massimo delle
entrate. La spesa per ciascun socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67
negli Abruzzi e un massimo di lire 16,51 in Liguria. Nello
insieme delle Società non è riuscita possibile una minuta discriminazione
delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi divisioni: spese per
sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad ogni 100 lire di
entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti: spese per
sussidi.51.4 altre spese.29.7 Le spese superarono le
entrate dell’1.8 per 100 soltanto in Liguria: nelle altre regioni le
spese furono inferiori alle entrate. Nelle So¬ cietà della Basilicata,
della Calabria, della Sicilia la proporzione delle altre spese alle
entrate è superiore a quella delle spese per sussidi ai soci e alle loro
famiglie, indizio di non buono e parsimonioso or¬ dinamento
amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore delle spese fu
assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie. Come per le
entrate così per le spese si hanno più minuti rag¬ guagli nelle spese
delle Società riconosciute, erogate durante l’anno 1903. Nelle cifre
seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa Spese di
malattia j f^^se '. ! : Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro
Sussidi di vecchiaia. Soci defunti Altri sussidi
l Onoranze funebri. . ^ Sussidi alle famiglie
19,45 3.01 4,40 10 87 0.75 2.62
1.34 03 ( Magazzini di consumo . Ҥ < Altre aziende sociali
. ’S g ( Altre spese. Spese di amministrazione Spese
straordinarie. . . Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per
cento del totale delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in
Sicilia ad un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le
regioni, esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese
per sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento
nel¬ l’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di
vecchiaia. Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte
(56.02 per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97
per cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per cento
in Piemonte, al 33.47 in Basilicata. . 28.78 .
7.05 . 2.6S . 13.14 . 5.91 La sostanza
patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che come abbiamo veduto, è
di lire 72.395.544. ragguagliata per Società e per soci e distinta fra
Società registrate e Società non registrate, dà le cifre seguenti:
patrimonio medio. per ciascuna Società Società
riconosciuta 24.267,00 Società non riconosciuta 7.887,67
Riconosciute e non riconosciute 12.017,85 per ciascun
Sòcio 123.32 60,16 82,50 È più
alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimo¬ stra che il
riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi ele¬ mento di
singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio do¬ tati e
quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della
personalità giuridica. Dalla media generale del patrimonio per Società
si discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la
Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media
del pa¬ trimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in
Calabria. Si hanno i dati della composizione del patrimonio
soltanto per le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre
1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute
ammon¬ tava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni
stabili ...... L. 3.580.079 10,0 Titoli pubblici e privati .... »
15.239,047 42,6 Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374
40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura massima
di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha il 33.5
per cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col 2.5 per
cento. Negli investimenti in titoli pub¬ blici e privati il massimo è
nella provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il
massimo in mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria
presenta invece in que¬ sti impieghi il minimo col 13.8 per cento.
Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società di
mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posse¬ duto.
Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero delle Società
per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle Società
che hanno un patrimonio: Da L. 0 a 999
Cifre assolute 1.517 Su 100 Società 23.6
11 1000 a 4999 2.117 35,3
» 5000 a 9999 9S9 16.5 n 10.000
a 49.999 1.239 20.6 n 50.000
a 99.999 156 2.6 n 100.000
a 249.999 60 1.0 ii 250.000
a 49.1,999 12 0.2 n 500.000
a 1.000.000 5 0.1 Oltre un
milione 4 tu Senza indicazione del
patrimonio 535 — Di 5999 Società che hanno comunicato
1’ ammontare del loro pa¬ trimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute,
hanno un patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per
cento. 11 23.6 per cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire
1000; il 35 3 per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per
cento un patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un
patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio
da lire 50.000 a 100.000. 5. Le federazioni.
Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il rico¬
noscimento giuridico delle Società composte di non operai è am¬ messa la
costituzione di consorzi fra Società riconosciute per for¬ mare un fondo
di riserva consorziale, per assumere impiegati co¬ muni, per stipulare
contratti con medici e farmacie, per mettere in comune alcuni servizi, o
anche alcune assicurazioni. Si può strin¬ gere anche un accordo fra
Società non tutte legalmente riconosciute per esercitare un controllo sui
soci sussidiati o per regolare il pas¬ saggio dall’uno all’ altro
sodalizio di quei soci che cambiano resi- ^Ta legge francese del
1898 sulle Società mutualiste consente la costituzione di unioni fra le
Società, conservando ciascuna la propria autonomia, aventi per oggetto
principalmente : l’organizzazione a favore dei membri effettivi delle
cure e dei soccorsi indicati nella legge e specialmente la instituzione
di farmacie nelle condizioni stabilite dalle leggi speciali sulla materia
; l’ammissione dei membri effettivi che abbiano cambiato residenza; il
regolamento delle pen¬ sioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di
assicurazione mutua pei rischi diversi a cui le Società debbano
provvedere, specialmente la fonda¬ zione di Casse di pensioni e di
assicurazioni comuni a più Società per le operazioni a lunga scadenza e
le malattie di lunga durata; il servizio del collocamento gratuito.
La statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di
Consorzi o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno
alquanta analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti Congressi
regio¬ nali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione
di unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono costituite
e per quali scopi. Nel primo Congresso nazionale delle Società di
mutuo soccorso tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato
«d'organizzare fra m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in
federazione nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle razionalmente,
con a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria », fissando
intanto a Hi n^ ta 1 o annUa dl , pre ,. 5 per le Societ à aventi non più
di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore; e «di indire
un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie, quelle delle
Ca- La fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa comune
». con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno 1900,
Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole
morale. Società federate ed? ,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi
delle nomico delle classi i a JÌ ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale
ed eco- raS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per
aggiungere p ento la Federazione si propone in modo speciale: previdenza
e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^ istituti di mutualità, di
Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°"- fare opera di
solidarietà con tutte le li“■ ,QM . de ! lavoratori; e ,SC ° P0
.iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r slazione che
valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si ,f tema completo di legi- a tutelare
le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione, sulle
classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano nella
m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo mediante
pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza, meZ
SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte
le Soc ietà italiane di siano inspirate ai5? f a „ 08 ,? ute 0 di fatto -
P^chè- videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della
pre- di iirc 5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua
anticipata: se hanno da 100 a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di
lire 10 ài lire 20 se hanno più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci
’ 6 «5dfott federa a e hano diritt0: consigli ed aiuti
morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva in ogni circostanza teresse
generale- 1 " 81 d<J1 seryizl che la Federazione stabilirà
nell’in- àana, monitore della 6 P^derazton^^d^ giorna l e La
Cooperazione Ita- Congresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di
ogni « d) di ottenere gratuitamente consulti legali e pareri di
in¬ dole amministrativa; « e) di valersi del giornale La
Cooperazione Italiana per trattare quelle questioni che si riferiscono
agli interessi della mutualità e della previdenza ». Gli
organi della Federazione sono: il Congresso delle Società federate; il
Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal Congresso fra i
soci delle Società federate; la Commissione esecutiva composta di nove
membri scelti fra i soci delle Società federate e residenti in Milano; i
Comitati regionali, secondo le circoscrizioni stabilite dalla Commissione
esecutiva; il Collegio dei Sindaci com¬ posto di tre sindaci effettivi e
due supplenti, nominati dal Congresso fra i soci delle Società federate
residenti in Milano; le Commissioni di consulenza, di statistica, di
propaganda, ecc. quando ne fosse re¬ clamata la costituzione.
La Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello di
Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Fi¬ renze
nel 1904. Le Società federate sono andate crescendo nei cinque anni
1901-1905 nella proporzione seguente: 1901 — 548 1902 —
573 1903 — 720 1904 — 733 1905 — 745
In un Congresso internazionale e nel chiudere questa rela¬ zione
la quale dimostra quale sia la condizione delle organizzazioni mutualiste
in Italia, io non credo che si possano presentare, come epilogo dei fatti
osservati, voti e proposte che abbiano riferimento alle particolari
condizioni delle nostre Mutue ed al loro avvenire. Credo soltanto
possibile esprimere un voto il quale ha necessario legame con la proposta
costituzione di una Federazione internazio¬ nale della mutualità, che
sarà vanto di questo III Congresso, poiché, a mio giudizio, una
Federazione internazionale deve trovare il suo principale fondamento
nelle organizzazioni federative nazionali. Ed il voto è il
seguente: Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni
od Unioni regionali di mutuo soccorso, le quali si propongano i
fini additati dalle Norme e meglio specificati dalla legge francese,
in quanto siano applicabili alle particolari condizioni e funzioni
delle nostre Società ; Che le Federazioni regionali facciano
capo ad una Federazione Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione
d’indole morale che è nel programma dell’attuale Federazione, compia
anche alcuni uffici propri delle federazioni regionali, specialmente
quello di sovvenire i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i
quali, per ragioni di lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del
territorio nel quale la Federazione regionale esplica la sua azione.
Uo spirito cooperativo. Se il tracollare di tante impresa o
società sorrette da grossi capitali aggiunge nuove pa^ne ai volume
delle nostre afflizioni , è bello invece vedere per virtù popo-
lana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche in Italia i
sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso. Animati nelle loro operazioni
dal sentimento della pietà , e non mossi da studio di soverchio guadagno
, finiscono col raccogliere anche la ricchezza , come premio della
loro virtù e col dare un'alta pro\a di quella verità che gli affari
più cauti ed onesti sono sempre in (in dei conti i più lucrosi. Così
queste società nuove di operai e di pic- coli indaslriali , svincolale
dai vecchi rancori , amiche deirordiiie e della liherlA, v:inno sempre
meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni dell' azione, c creando una
buona Speranza per l'avvenire della nostra patria. Fatta
Tlta- lìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e ca-
scanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero , sì sostituisca
la fede energica nel lavoro e neir associa- zione. Occorrono
a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di onesto e di
utile pare impossibile, e che nel meditare al proprio, tornaconto non
dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le citlà^ d'Italia
sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano
inlen- dere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere
buono a quello stesso modo , e sto per dire , con quella spensieratezza ,
colla quale i più le stemperano nella ca- scafigine e nelT ozio.
E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi nei gruppi de'
nostri cooperatori , le quali , mef^lio di tanti discorsi accademici che
entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi volumi di economia politica ,
senza lettori, val- gono a provare colla evidenza dei fatti , che la
maggiore delle industrie è l'onestà dei costumi, e che il lavoro e
r associazione non accrescono soltanto la nostra fortuna materiale, ma
ben di più» il patrimonio dei nostri affetti e delle virtù nostre.
Di fronte al movimento d'associazione che si estende da tutte le
parti, è. necessario stabilire i cardini su cui s' aggiri ben definito l'
oggetto e lo scopo dell' associa- zione. Fino ad oggi te
società di commercio e dMndostrla avevano per unica mira il guadagno di
coloro che le di- rigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo , aveva
per motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli , la
speculazione e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno
fatto colossali e scandalose fortune con desolazione c ro- vina di una
falange di creduloni e di delusi. Le società cooperative hanno invece per
ragione la fra- ternità, per principio l'eguaglianza, per mezzi
l'onore, la probità e il lavoro dei cooperatori associati ; e per
ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà ai- spiaiTo d'
associazione. 25 r uomo il mezzo di
amministrare e di gestire da sè stesso ciò che gli appartiene , ed a
ciascun cooperatore accorda la facoltà di aver parte air amministrazione
delle cose co- muni. Còsi la cooperazione sorretta dall' intelligenza ,
vi* vificata dair amor fraterno , rivela air uomo T arcano della
sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga agli sperati e (Te ili
senza deviare dai principii che sono fon- damenlo di ogni rigenerazione
sociale , si addomanda ai cooperatori vigilanza attiva e studiosa,
saggezza, aniiega- zione e virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui
ruppero tanti , cessino di tenersi in guardia contro i funesti
allctlamenli , i desiderii ambiziosi , le passioni egoistiche e gelose.
Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi con- tengono i germi di
discordia e di dissoluzione che bi- sogna sradicare dalla loro prima
comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative formate lìnora in Italia,
mentre dobbiamo conoscere la devozione , il disinteresse dei loro
fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza fe- lici, tenendo calcolo
delle difficoltà che erano da supe- rare, converrà sìeno impiegate
maggiori forze e sieno sbandite tutte quelle mezze misure che conducono
facil- mente air aborto. Si ha bisogno di uscire al più
presto dalie vecchie abitudini, dai sistemi restrittiyi, e rendersi
p^puasi che un progresso non è realmente buono se non m quanto
possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima della
cooperazionc , come d'ogni giustizia; che il genio cooperativo nel suo
oggetto , nel suo scopo e nelle sue conseguenze sociali , ha una missione
immensa da com- piere, e che deve penetrare come il sole, tanlo nelle
campagne quanto nelle grandi città. Ma perchè le società di credito
e di produzione pos- sano agire senza ostacoli deesi sgombrare il terreno
del- l' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate alle
campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza cogli operai.
Per togliere dallo stato precario e dalla miseria, ove si trovano, lutti
questi campagnoli che disertano la gleba per cercarsi lavoro nelle
manifatture » bisognenibbe procurare la loro emancipazione col
mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territoriale
per mozzo delle associazioni cooperative. Al che condurrebbero quando si
formassero de' sodalizii agricoli c industriali, abbastanza potenti per
oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via aperta alla loro
aUivilà. Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al
riparo dalia concorrensa industriaJi superflui, poiché ove le società
cooperative non propagassero ia loro azione nelle campagne, e restassero
nelle sole pitià, su- birebbero i maggiori disinganni. Ed
oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge quella che i lavoratori si
fanno fra essi e che forma reggette dMndebite lagnanze. E infatti
coltivatori, affit- jtaìuoli , proprielarii si lamentano troppo spesso dr
questa concorrenza che , a detto loro , impedisce di vendere i frulli
del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pen- sano intanto che la
concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra
concorrenza, quella de' consu- matori; non pensano che se essi hanno
quelle vanghe, quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio,
e appunto per la concorrenza delle fucine che procura a minor
prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli isiru- menti de' tgro
mestieri ; che è la concorrenza dei tes- sitori e de" granaiuoli che
fa comperare ad essi con mo- dici valori il vestito e il nutrimento, e
tutto quanto entra nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si
rompe anche la concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle dai campi
e intrec- ciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia
che è il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un
gran prezzo dell’opera il far in modo che ì campagnoli restino nelle
campagne , nò depongano la marra e il sarchiello pel maglio o pel
telaio. La concorrenza è ìm gran motore delle attività umane,
e trova la sua perpetua alimentazione nelP interesse indi- viduale. Essa
non e che il risultato dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse
, e porta poi come ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il
principio deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza
degli uni e degli altri promana il vantaggio di lutti; nè per-
meile ad' alcuno di predominare a scapito degli altri, è una
compensazione che ci facciamo a vicenda. Senza la concorrenza dei
produUori i consumatori pa- gherebbero tutto ad una esorbitanza di prezzi
, e senza la concorrenza clie i consomatori si fanno tutto cadrebbe
a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato alla
produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae l’emulazione «
che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per Fat- tività deir
uomo , e ne sorregge ne^ suoi lavori la medi- tazione e i sudori per
trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale intento , e trovare nuovi
processi di produzione più economica e più abbondante per
accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore , e per
soggiogare le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza
deir uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa
far meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti; egli
sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora meglio, e
al venditore che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure restrittive,
chi domanda ai governi la proibizione d' introdurre merci forestiere ,
attenta alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo pro-
fitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stra- nieri.
Ha quando V equilibrio delle classi si rompe allora la concorrenza
conduce diviato alla ruina. E pur troppo ve- diamo i giovani campagnoli
non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella delP
artigiano delle città, perchè a questo la giornata si paga più cara
che ad essi , ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario
alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate agli ordigni
degli opificii tolgono le larghe emanazioni di quella occupazi.one che
fin dai primi tempi alimentò l'uomo «uila terra. Eppure l uomo della
campagna quando pensa all'artiere della città, dice: in (jual minor conto
siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in
minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che i contadini il
sappiano, che abbiano ànch'essi le loro istituzioni da cui sieno
allettati, e che le provvide virtù camminino fra i popoli agricoli »
sotto i tetti di paglia , tra i novali e i vigneti , e che la vanga e
il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed al
telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa,
impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo
soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente,
contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo,
considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Codronchi: l’implicatura
conversazionale del contratto -- giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio
– Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Imola).
Filosofo italiano. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for
the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see
conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do
confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’
approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the
reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for
‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too
seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games –
and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was
talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract
bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the
‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that
‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la
laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In
seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con
Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue
saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità
l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di
contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto
tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato
nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato
sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel
quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una
legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time,
I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk
exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels
outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my
stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer
help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become
stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you
are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit,
characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative
transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting
a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in
conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the
other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even
if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each
party should, for the time being, identify himself with the transitory
conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should
be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding
(which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being
equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties
are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start
doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO
DEL CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices.
Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA
REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA
D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa
operetta che sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della
filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla
giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della
prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda;
onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione,
che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è
degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro
cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei
sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real
patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e
condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più
raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e
universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a
procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere
tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua
felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel
petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce
egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani
di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma
sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che
se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa
sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che
non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi
dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco
intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le
vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al
commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano
per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre
inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e
più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili
società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi
dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un
giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente,
sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta,
la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane
dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale
colla polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si
appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della
fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli
pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente
quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi
perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e
vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che
dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è
necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado
di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente
quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende
soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza
è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a
ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita,
e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità. Ma io
crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed
asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire
trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al
pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la
tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia
istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare
della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla
a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune
riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la
chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò
quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli
più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una
bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo
quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza
(res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è
affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E
quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio
relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”).
Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma
certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio
tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue
somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla
consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi
è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in (a).
Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso
egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue
i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più
valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza
puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome
tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha
anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da
poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne
acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi
adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto
aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per
giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie
delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto
aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e
per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario
fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il
principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo
sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto
anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una
speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così
definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere, e
l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o
sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare
questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due
elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha
un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco;
ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un
esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La
probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di
casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si
facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si
avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento
separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien
espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli
insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere;
per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo
conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si
fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia
l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo
degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana
regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare
acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia
uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata
uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto
della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè
in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è
pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo
che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale
la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa
quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa,
quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri.
Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria
converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il
prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo
universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in
ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res
sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora
visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il
prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi
favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per
premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso
che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei
contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne
verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad
uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de
favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la
somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i
contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto
aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano
fra di loro, come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli. Dagli
enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi
dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente, qual ſia il vero valore del
prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e
ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą
del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la natura e le leggi
dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino una facile e
natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono
comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e dalle
diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i
rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre fi
poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali
poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei
caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è
ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e
dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei
diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di
trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la
maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto,
e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed
aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima
claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo
Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il
numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori,
e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi
ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi
favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto
gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una
curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente
aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi
calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati
ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in
quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi
del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e
dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a
queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà
più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per
ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione
comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente,
non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che
non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura
un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea
ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero,
che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per
le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel tal
moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè meno,
data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono
neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei
giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di
meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi
pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo,
e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne' contratti
ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in
gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore di una vita
diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio. Le
fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo. Nella gloria,
nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo, che molte
volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe perfettamente non
corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura
ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori
eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la
legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra
prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che ambi ſi ſono propoſti
d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime
leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che così in queſte
ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi
celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata
dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e del compleſſo
delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti i caſi ſuol
chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax.
Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della
fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un fenſo di verſo da
quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo che non ragiona.
<< tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una
maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e alla quale è at
taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un
ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe
condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri '
compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la
ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire
dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo
di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare
una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo
la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta
la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il primo altro
non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma
delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me trovare in
queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come
pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i caſi
favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi potrà
fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una evidente
verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali dipendendo
la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora
dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi, e per
conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di
cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un
giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei caſi
altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri, altro
non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario. Ma
quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque
anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita
proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da
ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo
revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più
ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino
maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro
in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe
favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di
depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce
nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che
fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero
di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle
leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare
in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi
trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo
dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un
dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto
eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è
più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della
noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può
eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel
primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le
leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi
favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali
queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi
zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei
contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al
contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la
faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome
ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che
l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione
reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i
giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà
oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi
favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al
noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla
propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje
&tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile
a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza
internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte
ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel
loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che
chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed
azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare
il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero
compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado
già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi
conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e
l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non
reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma
ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ).
Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem
plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite
maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del
Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio
nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha
ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano
la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che
dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi
favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in
ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende
nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in
particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti
rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma
ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo.
Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa
for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può
aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la
ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per
dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto
dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano un
tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo
poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del
gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione eſigano le
accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di queſte ſono
quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze
facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei
puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi conſiderare,
la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei
primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd omettere, che
eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere
per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte
fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa
figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto un giro quando
l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del
gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la media diventa il
9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non
variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi ha dunque
nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione
delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o fiſſare il nu
mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non poſſa ſalire o
ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma
relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra
indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde ſi
vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più della
poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo
ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti
giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i
giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera, ſi
uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte occupazioni, ed al
domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì di frequente
irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di gioco, o un ſol
colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici. Si
aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera faccia
dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte, e i
mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i
celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour
occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur
foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco
di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi
Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti
commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata
come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti
quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di
azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta
neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa
rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti
coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che
chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da
un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna
miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le
leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli
accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di
azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro
porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto
contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far
conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida
maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei
ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella
di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande
che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire,
che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta
diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione, che
ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in genere
di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta
maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti
illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto
neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata
ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano
che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una
piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo
doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e
fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un
riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto
fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme
era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la
condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a
quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a
moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle
coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto
è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel
ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della
rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che
viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in
vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato.
Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un
propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo
ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro,
che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa
famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco
tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti
ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti
dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno
un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o
vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il
denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla
maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia
privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni,
o reali, o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo
poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran
quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il
ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che
rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un
piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo
gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf.
fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione,
ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe
non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a
render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto
gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le
ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della
ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli
occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il
più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa
reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio
ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle
più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in
altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito
ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente,
accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico
vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla
loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo,
e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento
però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1fi
attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico,
di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono
per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che
hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo
che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto
amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti
nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte,
ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine
dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri
ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in
Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome
ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha
ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di
ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme
di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come
nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte,
perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a
quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual
prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri
relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più
vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de
dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non
ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro
che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi
impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di
Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati
così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata
regolata l'economia di queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato
mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma
ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a
ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome
chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le
qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in
un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri
neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo
eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto
medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla
regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere
pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio
dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono
vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini
chiamavaſi olla fortunae. In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di
Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad
eſſer miniſtra della ſua beneficenza. Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa
fra quelli che giocano alla lotteria, e allora ſe il premio non è denaro ma un
altra coſa qualunque che abbia prezzo, ſi giuſtifica più facilmente, giuſta
l'opinione del Barbeirac, la notata diſuguaglianza: e l'economo del gioco può
vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio, ma
ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua,
e il diſpendio, quando ve n'abbia. Queſti lotti fi riducono, dice il citato au
tore ad una ſpecie di compra, che ſi fa in comune, a condizione che la ſorte
decida a chi debba appartenere la coſa comprata. Se ſiavi adunque
dell'alterazione nella propor zione, ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe
comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che
ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli
parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno
fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di
viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi
potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario
prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in
ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli
poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di
paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del
gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le
ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una
compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione,
giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della ſperanza, ma
bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo
una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare.
Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le
ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della
ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo
della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere
qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi
popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o
col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano
ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre
molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E'
incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di
queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi
offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti
Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge
con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a
caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della
rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe
per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli
amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d'
Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano
per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio
dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi
odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di
Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e
piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle
parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo
propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei
monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che
chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente
eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte
enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima;
eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè
tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e
commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe,
e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice
della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien
eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa
alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in
talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno,
giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione
tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento
della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti
ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono
rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei
caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri
riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i
favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma
dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può
dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello
degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all'
urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a
farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti
depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del
quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando maggior por
zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime
regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato
diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano
ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti
diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai
medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che
coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei
contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra
la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare
un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni
che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi
conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi
fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma
no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo
Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di
eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a
regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione
di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi
quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi
bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti
che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a
formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del
paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur
trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che
nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi
e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette
da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano
a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo. La ſeconda,
che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre
cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate
l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi
conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee,
che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli occhi
divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o tutto
deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe
infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero
eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei
quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non
quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se
così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne
verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento
farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no
da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne
po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare
al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare che un
evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi
nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che
a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri
chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti
chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante maniere
poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze
ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi
videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle ragioni
medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione
con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono ancor eſſe, e
capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei ricorrere a tante
fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno può avere la ſua
prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e tortuoſi
fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo averla
conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e la
immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero
l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità
e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui
non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto
moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe
ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi
poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la
ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è
compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in
infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render
certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della
natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni
poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce
non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo
noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e
riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che
promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella
che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud
fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più
aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della
natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un
filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co
ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed
uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato
alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai
morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in
quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono
certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo
glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole
degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili
fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo
regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe
trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa
che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà
mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non
ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a
verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo.
E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro
circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui
parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe
morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre
eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E
chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che
contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma
quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di
arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la
probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta
farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando
anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi
ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che
in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come
infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente
inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i
contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli.
Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi
alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la
giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì
neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa
alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe
introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la
vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai
contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si
eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime
generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima
l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare
ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del
pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa
offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria
generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e
conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee
ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione
ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben
regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le
conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In
queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di
condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che
manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i
gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo
ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e
queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a
quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè
le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano
certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla
uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le
maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove
ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni
fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno
fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani
la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in
natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac
compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di
queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un
qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il
prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi
gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e
fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta
facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi
conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato
ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe
parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un
contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che
può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni;
e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del
pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo
il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo
quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la
floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che
riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito.
Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che
il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato
che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica
Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli
anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le
ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano,
gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima delle quali ha
faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda
compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e
inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno
trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano
eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono
l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e
queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre
ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la
validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del
ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè
l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi
ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo
poi, e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione
ſulle merci o proprie, ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto
l'aſſi curazione: o appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto
il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo
ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti,
alcuni caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le
merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune
piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte
quando ſi ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei
contraenti. Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di
aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ
faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che
influir poſſono full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le
cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in
dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda; il
mare cioè più o meno ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli
ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in
una ſtagione, che in un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di
reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte
ridur ſi ponno, anzi con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili
all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè
o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato, o da quella
dipendenti almeno mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano:
l'abilità dei marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa
dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano
fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le
fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra, ſono o le
uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali. 67 i Se il fondare un
calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che
ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle
cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi
che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera
libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente
probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi,
per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e
contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in
queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o
morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci
proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che
hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il momento
di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o temperata
colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e
ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In
queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle
combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave,
nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la
confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti
oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta
la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle
prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene
per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi
ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i
contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi
entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli,
perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69
ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono
oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali
perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati.
La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati,
come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e
nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la
proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei
primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può
determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente
delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione
ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe
ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i
dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo il
medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi entra
anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga
zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha queſta
veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per la ſola
oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di
varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole, non
obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro
influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i
gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta un
vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno:
infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che
alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi
per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile
loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che
ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto
l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va
lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa,
che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più
volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi
calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare
una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti.
Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei
contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all'
aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga
all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il
contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare
all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato
non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa
la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo
alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal
contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della
ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende
il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe
aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante
fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi
quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe
aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74
l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede,
qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di
pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta
ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In
queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità,
poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in
proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del
ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere
di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento
favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro.
Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera
che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto.
Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di
una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi
potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te
volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere
egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci,
ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in
altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente,
e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto.
Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo
che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione
di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della
notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a
prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne,
ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza
che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore
ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che
appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli
uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni
che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto
che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un
uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono
del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo
guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale
collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad
oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il
dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non
avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non
curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal
provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più
molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur
dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il
vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco
nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente,
accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie
mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran
lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci
domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un
frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo
l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo
paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca
il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti.
Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la
ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di
più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi
affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito
di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e
per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca
pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un
certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli
ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le.
Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo
d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia.
Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato
numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è
neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia
uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni,
o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo
che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un
vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di
perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti
gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle
medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone
che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il
diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe
ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la
media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della
ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi
ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle
quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può
dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op
porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei
noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il
prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite
vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero
dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i
quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la
ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81
ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine
del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si
ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto
numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione,
ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito
per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le
condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar
la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una
vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto
l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si
penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi
otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando
nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la
forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare
la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali
ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole
di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli
s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che
le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati
moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla
vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo
non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi
eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come
quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello
che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia
ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè
in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà
più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla
fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza
del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie
cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata
nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei
due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi
dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per
eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B,
ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno
nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola.
(C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni
ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi
avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al
primo anno farà il capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del
primo frutto; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore
adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta
ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria,
quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo
la eſpo fta formula, e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca,
ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto
contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in
viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per
ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni,
per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta
parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali
dev'eſſere prima a parte no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85
cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere,
e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le
tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri
accidenti della vita umana; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui
ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle
forti, e delle aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile
che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti
dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun
malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte.
Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la
pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente
farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le
circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili le ſue
oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri
fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura
della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad
Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel
lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di
Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende
dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di curioſità,
che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera,
ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche, ed ulti
mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un
libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo
d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo
Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è
tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei
noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente.
Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari,
ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome
dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di
rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi,
che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa.
Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo
di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi
durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione
che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito
dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate le
anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua opera
intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il far ciò
e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi.
Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia
quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti;
voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di
queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre di fomi
gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi
dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà
armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed
anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione,
allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli
ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus
De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la
Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages,
Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, & j'aurai
penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la
ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu
queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così
gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo
utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente
raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve
contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali
rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi
potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato
dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla
compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che
in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1
1. 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui
ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla
conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato,
e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio
dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle.
Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la
natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il
numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il
numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e
per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia
vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente
dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle
altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e
quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà
Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai
cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne
formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla
fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto
di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della
medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre
palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m;
112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto
ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di
quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io
chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità
dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e
ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe
attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due
palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei
giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi
moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare
nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che
per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo
neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa
da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ra 97
giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe
a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa
minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a
quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche
in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto
dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio
ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe vogliaſi,
compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata
conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i riſultati
coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza, ed una
cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha
dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la diſtingue
dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito fortunato dipende
in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla propria in duſtria
o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e rendergli coſpiranti al
termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato. L'induſtria però
di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione
nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco, che ſi vanno
ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza delle quali porge la
norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti
medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario; e in
qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria, è ſempre vero che i
giochi che di effa, e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non
traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo,
In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime
circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della
natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti; in certe cioè,
e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento, ma fiſabili quanto baſta
per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza, acciò il contratto ſia
giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti
dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe,
perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde
terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però poſſono eſſere o molte o poche
le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in
maggiore o mi nor numero, prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte.
Inoltre la deſtrezza di combinare, di de durre, di rammentarſi gli elementi
delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle
medeſime nel decorſo del gioco, è variabile, come può ognuno of ſervare, quanto
è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa
lute, e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in
una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa
richiegga applicazione di mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte
come cauſe incerte ed indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo
corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo,
e quanto alla loro frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del
gioco; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i
giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco,
e da circoſtanze incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti
l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto,
dice la Bruyere, imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore
del primo, e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi
francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e
che là metton capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e
i piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima
di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con
eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e
l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto
eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e
dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi
riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza,
e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e
potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i
progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano
nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in
qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore
riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia
quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva,
ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina
zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte
l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date
condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere
il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi
favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte
dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà
diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi
favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema
III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la
regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in
103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe
io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e
in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove
trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe
e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di
offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non
omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli
uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla
ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque
claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli,
queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che
ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di
fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in
alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per
eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte
per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia
della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e
coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi
raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro
babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone
accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto
queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo,
la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando
queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto
diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la
ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili,
quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono
ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura.
Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque
arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1
Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non
ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte.
Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di
probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi
dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente
poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io
dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per
queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di
fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le
combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria
una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe
pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un
infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere
offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade,
ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le
facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il
caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia,
a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò
non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato )
che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad
un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi
raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per
dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme
ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè
vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno,
che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro
diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A
non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro
diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe
combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia
palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè
croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto
prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due
coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite
diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni
delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure
ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi
che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle,
ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto.
Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la
infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a
ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine
fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo
ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così
dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti
getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non
così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili
fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici
adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove
nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che
la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare
mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità
che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia.
110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo
in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e
riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle
medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe
ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero
due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in
aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non
ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere
tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle
addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe
tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a
colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello
ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle
diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola
Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi
combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo
poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per
infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio
è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto,
che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun
riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo
alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere
la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce
ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due
tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33,
niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure
il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente
poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo,
che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei
pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro,
alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo?
perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre,
ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà
poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la
moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta
fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a
quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni
dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte
l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non
le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente
impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente
variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le
diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i
tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane
tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti;
cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi
della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne
di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo
ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di
lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono
della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non
col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare
la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert
degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due
rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per
mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più
ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata
dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è
di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420
anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata
media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di
32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20
Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe
fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che
riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi
denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra.
Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe
ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata.
E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi
favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti
ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme
di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari
che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente
poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le
combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina
zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o
aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto
difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni
medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me
ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e
moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli
uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici
diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che
l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più
ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e
coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con
ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa
conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior
numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di
altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal
corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni,
conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto
maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello
degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche
cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal
ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che
vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che
o per un maſſi mo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa
faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può
gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta;
con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo
faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare
in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo.
Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che
laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite
volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo
ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme
ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli altri
caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo or
dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non la
intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima?
Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig.
d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto,
che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la preteſa
variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che nonoſtante la
variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della direzio ne;
queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l '
uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni,
non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce; e non
ogni variazione, e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef
fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert, nei
quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa conſociazione di parti, ognun vede,
che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo. O ſi riſguardi
adunque la diverſità negli effetti; e negli addotti eſempi, queſti ſono in
finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare, che palle, o
croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e
negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite, giacchè ogni minima variazione
influiſce come nuova cauſa; nel caſo della moneta non è così, potendoſi dare
moltiſſime combinazioni di forza, altezza, direzione, che producano ſempre
l'iſteſſo effetto; potendoſi anche dare che in infiniti getti, o in un numero
aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa
altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero, benchè forte; oppure che fi muti
ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o
non combinano con quello della moneta; o al più provano una no tabile
difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della
moneta; verità che ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le
oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere,ed io ſuppon go nell' applicargli,
il caſo probabile, e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di
probabilità; dal che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o
neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito appariſca, per poterne
formare la propor zione.. Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile
un continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta, le oſſervazioni, e
non altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer vazioni io dico, che io medeſimo ho
prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di
azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert
non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità, che anzi in qual che caſo ſe
ne poſſono tirare delle conſeguen ze, che lo conferinano. Chi gettando un dado
intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta,
quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma
vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre
l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6,
arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla
prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero
che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di
queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile
che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che
reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i
principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane
l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di
pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di
una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento,
ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo
per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA),
na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro
e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e
della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle
materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè
dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo,
essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime, illuminando la
mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla
scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla
altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo: nè i
gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore
monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse
di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che
poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali
resi pubblici con le stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel
tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale
di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere
che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se
come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà
manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più
valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce
risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come
u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante,
quale il vedi in Camil lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile
sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e
leganze di che lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola
venne decorato della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli
Industriosi di cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta:
d'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di
pubblico diritto da quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima
d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo
gran duca Leopoldo gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un
tempo la cattedra di etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di
lezioni, degno per fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel
principe intitolò il Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta,
per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le
leggi ed i fasti dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in
Firenze, dai torchi del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e
prezioso libro col titolo di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove
risplende la dottrina di pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia
gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo,
per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse
intanto tal fama del sa pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che
con reale decre to del 25 novembre 1787, il no minò membro del supremo consi
glio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno
di Gaetano Filan gieri, cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di
re ciproca stima e di amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere
dal Filangieri proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere
di Puglia che leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in
Milano il 1818. ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a
veva il suo collega consigliere Codronchi proposto, quando a questo fine per
sovrano volere eb be a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo
servi gio ebbe onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con
parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito
consigliere in latina e pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio
meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto,
e di sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a
maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di
quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa
regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a
Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al suo
impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse
tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non
comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere
del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma
salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a
quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il
conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e
delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile
istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di
bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso;
e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè
mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe
providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della
vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della
quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena
calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed
alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della
acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per
la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono
congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re,
integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of any
text-book on Mercantile Law will hardly deny that Contract is the
handmaid if not actually the child of Trade. Merchants and bankers must
have what soldiers and farmers seldom need, the means of making and
enforcing various agreements with ease and certainty. Thus, turning to
the special case before us, we should expect to find that when Rome
was in her infancy and when her free inhabitants busied themselves
chiefly with tillage and with petty warfare, their rules of sale,
loan, suretyship, were few and clumsy. Villages do not contain
lawyers, and even in tdwns hucksters do not employ them. Poverty of
Contract was in fact a striking feature of the early Roman Law, and
can be readily understood in the light of the rule just stated. The
explanation given by Sir Henry Maine is doubtless true, but does not seem
altogether adequate. He points out 1 that the Roman house- hold
consisted of many families under the rule of a 1 Ancient Law, p.
312. B. E. 1 2 paternal autocrat, so that few freemen
had what we should call legal capacity, and consequently there
arose few occasions for Contract. This may indeed account for the
non-existence of Agency, but not for that of all other contractual forms.
For if the households had been trading instead of farming
corporations, they must necessarily have been more richly provided in
this respect. The fact that their commerce was trivial, if it existed at
all, alone accounts completely for the insignificance of Con- tract
in their early Law. The origin of Contract as a feature of social
life was therefore simultaneous with the birth of Trade and
requires no further explanation. It is with the origin and history of its
individual forms that the following pages have to deal. As Roman
civilization progresses we find Commerce extending and Contract
growing steadily to be more complex and more flexible. Before the end of
the Roman Republic the rudimentary modes of agreement which
sufficed for the requirements of a semi-barbarous people have been
almost wholly transformed into the elaborate system f of Contract
preserved for us in the fragments of the Antonine jurists. At the
most remote period concerning which statements of reasonable accuracy can
be made, and which for convenience we may call the Regal Period, we
can distinguish three ways of securing the fulfilment of a promise. The
promise could be enforced either (1) by the person interested, or
(2) by the gods, or (3) by the community. When however we speak of
enforcement, we must not think of what is now called specific
performance, a con- ception unknown to primitive Law. The only kind
of enforcement then possible was to make punish- ment the alternative of
performance. I. Self-help, the most obvious method of re-
dress in a society just emerging from barbarism, was doubtless the most
ancient protection to promises, since we find it to have been not only
the mode by which the anger of the individual was expressed, but also
one of the authorised means employed by the gods or the community to
signify their displeasure. This rough form of justice fell within the
domain of Law in the sense that the law allowed it, and
even encouraged men to punish the delinquent, whenever religion or
custom had been violated. But as people grew more civilized and the
nation larger, self-help must have proved a difficult and therefore
inade- quate remedy. Accordingly its scope was by degrees narrowed,
and at last with the introduction of surer methods it became wholly
obsolete. II. Religious Law, as administered by the priests,
the representatives of the gods, was another powerful agency for the
support of promises. A violation of Fides, the sacred bond formed
between the parties to an agreement, was an act of impiety which
laid a burden on the conscience of the delin- quent and may even have
entailed religious disabili- ties. Fides was of the essence of every
compact, but there were certain cases in which its violation was punished
with exceptional severity. If an agreement had been solemnly made in the
presence of the gods, its breach was punishable as an act of gross
sacrilege. III. The third agency for the protection of
promises was legal in our sense of the word. It consisted of penalties
imposed upon bad faith by the laws of the nation, the rules of the gens,
or the by-laws of the guild to which the delinquent belonged. What
the sanction was in each case we are left to conjecture. It may have been
public disgrace, or exclusion from the guild, or the paying of a
fine. And as some promises might be strength- ened by an appeal to the
gods, so might others by an invocation of the people as witnesses.
Agreements then might be of three kinds corresponding to the three kinds
of sanction. They might consist of (1) an entirely formless
compact, (2) a solemn appeal to the gods, or (3) a solemn appeal to
the people. I. A formless compact is called pactum in the
language of the twelve Tables. It was merely a distinct understanding
between parties who trusted to each other's word, and in the infancy of
Law it must have been the kind of agreement most generally used in
the ordinary business of life. Such agreements are doubtless the oldest
of all, since it is almost impossible to conceive of a time when
men did not barter acts and promises as freely as they bartered goods and
without the accompani- ment of any ceremony. Compacts of this sort
were protected by the universal respect for Fides, and their violation
may perhaps have been visited with penalties by the guild or by the gens.
But intensely religious as the early Romans were, there must have
been cases in which conscience was too weak a barrier against fraud, and
slight penalties were ineffectual. Fear of the gods had to be
reinforced by the fear of man, and self-help was the remedy which
naturally suggested itself. In the twelve Tables pactum appears in a
negative shape, as a compact by performing which retaliation or a
law-suit could be avoided 1 . If this compact was broken the offended
party pursued his remedy. Similarly where a positive pactum was violated,
the injured person must have had the option of chastising 1
Gell. zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20. the delinquent. His revenge
might take the form of personal violence, seizure of the other's
goods, or the retention of a pawn already in his possession. He
could choose his own mode of punishment, but if his adversary proved too
strong for him, he doubtless had to go unavenged ; whereas if the broken
agree- ment belonged to either of the other classes, the injured
party had the whole support of the priesthood or the community at his
back, and thus was certain of obtaining satisfaction. It is
therefore plain that though formless agreements contained the germ of
Contract, they could not have produced a true law of Contract, because
by their very nature they lacked binding force. Their sanction
depended on the caprice of individuals, whereas the essence of Contract
is that the breach of an agreement is punishable in a particular
way. A further element was needed, and this was supplied by the
invocation of higher powers. II. At what period the feshion was
introduced of confirming promises by an appeal to the gods it would
be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such appeals
was alone con- sidered, and their form was of no importance. But
under the influence of custom or of the priest- hood, they assumed by
degrees a formal character, and it is thus that we find them in our
earliest authorities. Since Religion and Law were both at
first the monopoly of the priestly order, and since the religious
forms of promise have their counterpart in the customs of Greece and
other primitive peoples, whereas the secular forms are peculiarly Roman 1
, the religious forms are evidently the older, and formal contract
has therefore had a religious origin. Fides being a divine thing, the
most natural means of confirming a promise was to place it under
divine protection. This could be accomplished in two ways, by
iusiurandum or by sponsio, each of which was a solemn declaration placing
the promise or agreement under the guardianship of the gods. Each
of these forms has a curious history, and as they are the earliest
specimens of true Contract, we may discuss them in the next
chapter. III. Another method, and one peculiar to the Romans,
which naturally suggested itself for the protection of agreements, was to
perform the whole transaction in view of the people. Publicity
ensured the fairness of the agreement, and placed its ex- istence
beyond dispute. If the transaction was essentially a public matter, such
as the official sale of public lands, or the giving out of public
contracts, no formality seems ever to have been required, so that
even a formless agreement was in that case binding. The same validity
could be secured for private contracts by having them publicly
witnessed, and the nexum was but one application of this principle.
In testamentary Law it seems probable that the public will in comitiis
calatis was also formless, whereas in private the testator could
only give effect to his will by formally saying to his
fellow-citizens " testimonium mihi perhibetote" Thus the
two elements which turned a bare agreement into a contract were
religion and publicity. The naked agreements (pacta) need not concern
us, since their validity as contracts never received complete
recognition. But it will be the object of the following pages to show how
agreements grew into contracts by being invested with a religious
or public dignity, and to trace the subsequent process by which
this outward clothing was slowly cast off. Formalism was the only means
by which Contract could have risen to an established position, but
when that position was folly attained we shall find Contract discarding
forms and returning to the state of bare agreement from which it had
sprung. Art 1. Ivsivrandvm is derived by some from
Iouisiurandum 1 , which merely indicates that Jupiter was the god by whom
men generally swore. To make an oath was to call upon some god to
witness the integrity of the swearer, and to punish him if he swerved
from it. This appears from the wording of the oath in Livy 2 , where
Scipio says: "Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime,
domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and from
the oath upon the Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus,
where a man throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn
me Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem" A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. Cicero remarks 8 that the oath
was proved by the language of the XII Tables to have been in former times
the most binding form of promise ; and since an oath was still morally
binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii. 53. » Off.
ni. 31. 111. in the time of Cicero, though it had then no
legal force, the point of his remark must be that in earlier times
the oath was legally binding also. From Dionysius we know that the altar
of Hercules (called Ara Maxima) was a place at which solemn
compacts (ovvdfjtcai) were often made 1 , while Plautus and Cicero inform
us that such compacts were solemnized by grasping the altar and taking
an oath 2 . It would seem probable that the gods were consulted by
the taking of auspices before an oath was made. Cicero says that even in
private affairs the ancients used to take no step without asking
the advice of the gods 8 ; and we may safely conjecture that whenever a
god was called upon to witness a solemn promise, he was first enquired
of, so that he might have the option of refusing his assent by
giving unfavourable auspices. The terms of the oath were known as
concepta uerba, at least in the later Republic, and like the other forms
of the period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did not
mean then, as now, false swearing. It meant the breach of an oath 5 , the
commission of any act at variance with the uerha concepta 9 .
There is some dispute as to what were the exact consequences of
such a breach. Voigt 7 thinks that it merely entailed excommunication
from religious rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining
that its consequences in early times were far more serious ;
1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90. 8
Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13. 6 i.e. 8ciem fallere, Plin.
Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4. 6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. in.
229. 8 Ram. RG. n. § 149. they amounted in fact to complete
outlawry. Cicero says that the sacratae leges of the ancients
confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex was one which declared
the transgressor to be sacer (i.e. a victim devoted) to some particular
god 1 , and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius 2 and in
the XII Tables 8 was the epithet of condem- nation applied to the
undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems
highly probable that the breaker of an oath became sacer, and that
his punishment, as Cicero hints 4 , was usually death. The formula of an
oath given by Polybius 6 is more comprehensive than that given by
Paulus Diaconus 8 , for in it the swearer prays that, if he should
transgress, he may forfeit not onry the religious but also the civil
rights of his countrymen. This shows that the oath-breaker was an
utter outcast; in fact, as the gods could not always execute vengeance in
person, what they did was to withdraw their protection from the
offender and leave him tolhe punishment of his fellow-men 7 . The
drawbacks to this method of contract were the same as those of the old
English Law, which made hanging the penalty for a slight theft ; the penalty
was likely to be out of all proportion to the injury inflicted by a
breach of the promise. So awful indeed was it, that no promise of an
ordinary kind could well be given in such a dangerous form, and
consequently the oath was not available for the 1 Festus, p. 318,
s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230, s.u. plorare. 8 Seru. ad Aen. 6.
609. 4 Leg. n. 9. 22. B in. 25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v.
11. 16. common affairs of daily life. The use of the
oath therefore disappeared with the rise of other forms of binding
agreement, the severity of whose remedies was proportionate to the rights
which had been violated; while at the same time the breaking of an
oath came to be considered as a moral, instead of a legal, offence, and
by the end of the Republic entailed nothing more serious than disgrace
(dedecus). In one instance only did the legal force of the oath
survive. As late as the days of Justinian^ the services due to patrons by
their freedmen were still promised under oath 1 . But the penalty for
the neglect of those services had changed with the development of
the law. At and before the time of the XII Tables, the freedman who
neglected his patron, like the patron who injured his freedman 2 ,
no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing for his life, as we are
told by Dionysius 3 . But in classical times the heavy religious penalty
had disappeared, and the iurisiurandi obligatio was en- forced by a
special praetorian action, the actio operarum*. By the time of Ulpian the
effects of the iurata operarum promissio seem indeed to have been
identical with those of the operarum stipu- latio*, though the forms of
the two were still quite distinct. We may then summarise as
follows our knowledge as to this primitive mode of contract :
The form was a verbal declaration on the part of the promisor,
couched in a solemn and carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen.
6. 609. 8 n. 10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10.
1 worded 1 formula (concepta tierba), wherein
he called upon the gods {testari deos)*, to behold his good faith
and to punish him for a breach of it. The sanction was the
withdrawal of divine protection, so that the delinquent was exposed
to death at the hand of any man who chose to slay him.
The mode of release, if any, does not appear. In classical times it
was the acceptilatio*, but this Was clearly anomalous and resulted from
the similar juristic treatment of operae promissae and operae
iuratae. Art. 2. Sponsio. Though the point is contested by
high authority, yet it scarcely admits of a doubt that there existed from
very early times another form, known as sponsio, by which agreements
could be made under religious sanction. This method, as Danz has
pointed out, was originally connected with the preceding one. It was
derived from the stern and solemn compact made under an oath to the
gods. But Danz goes too far when he identifies the two, and states that
sponsio was but another name for the sworn promise 4 . The stages
through which the sponsio seems to have passed tell a different
story. The word is closely connected with airovSij, tnrivSeiv, and hence
originally meant a pouring out of wine 8 , quite distinct from the
con- vivial \ocfirf or libatio 6 , so that " libation " is not
its proper equivalent. The other derivation given by 1 38
Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52. * 46 Dig. 4. 13. 4 Danz,
Sacr. Schutz, p. 106. 8 Festus p. 329 s.u. spondere. 6 Leist,
Greco-It. R. O. p. 464, note o. Varro 1 and
Verrius 2 from sports, the will, whence according to Girtanner 8 sponsio
must have meant a declaration of the will, savours somewhat too
strongly of classical etymology. I. This pouring out of wine,
as Leist 4 has shown, was in the Homeric age a constant accom- paniment
to the conclusion of a sworn compact of alliance (optcia iriara) between
friendly nations. The sacrificial wine seems originally to have
added force to the oath by symbolising the blood which would be
spilt if the gods were insulted by a breach of that oath. In this then
its original form sponsio was nothing more than an accessory piece of
cere- monial. II. The second stage was brought about by
the omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as
the principal ceremony in making less important agreements of a private
nature. In the Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is
customary at betrothals 5 , and comparison shows that the marriage
ceremonies of the Romans, in connec- tion with which we find sponsio and
sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the bride 6 , were
very like those of other Aryan communities 7 . We may therefore
clearly infer that at Rome also there was a time when the pouring out of
wine was a part of the marriage-contract; and thus our derivation of
the word receives independent confirmation. III. In the third
and last stage sponsio meant 1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u.
spondere. 8 Stip. p. 84. 4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ. p.
448. 8 Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc. ciu
nothing more than a particular form of promise, and
it is easy to see how this came about. At first the verbal promise took
its name from the ceremony of wine-pouring which gave to it binding force
; but in course of time this ceremony was left out as taken for
granted, and then the promise alone, provided words of style were
correctly used, still retained its old uses and its old name. Sponsio
from being a ceremonial act became a form of words. Such was the
final stage of its development. The importance attached to the use
of the words spondesne ?, spondeo in preference to all others 1
thus becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant " Do
you promise by the sacrifice of wine V "I do so promise," just
as we say, "I give you my oath," when we do not dream of
actually taking one. Another peculiarity of sponsio, noticed
though not explained by Gaius 2 , was the fact that it could be
used in one exceptional case to make a binding agreement between Romans
and aliens, namely, at the conclusion of a treaty. Gaius expresses
surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice of
pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early formalities of an
international compact (op/cia mard), it was natural that the word spondeo
should survive on such occasions, even after the oath and the wine-
pouring had long since vanished. Sponsio being then a religious act
and subse- quently a religious formula, its sanctity was doubtless
protected by the pontiffs with suitable penalties. What these penalties
were we cannot hope to know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94.
though clearly they were the forerunners of the penal sponsio
tertiae partis of the later procedure. Varro 1 informs us that, besides
being used at be- trothals the sponsio was employed in money
(pecu/nia) transactions. If pecunia includes more than money we may
well suppose that cattle and other forms of property, which could be
designated by number and not by weight, were capable of being promised
in this manner. Indeed it is by no means unlikely 2 that nexum was
at one time the proper form for a loan of money by weight, while sponsio
was the proper form for a loan of coined money (pecunia nwmerata).
The making of a sponsio for a sum of money was at all events the
distinguishing feature of the afibio per sponsionem, and though we
cannot now enter upon the disputed history of that action, its
antiquity will hardly be denied. The account here given of the
origin and early history of the sponsio is so different from the
views taken by many excellent authorities that we must examine
their theories in order to see why they appear untenable. One great class
of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institu- tion, but was introduced at a date subsequent to the XII
Tables. The adherents of this theory are afraid of admitting the
existence, at so early a period, of a form of contract so convenient and
flexible as the sponsio, and they also attach great weight to the
fact that no mention of sponsio occurs in our fragments of the XII
Tables. While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the
early 1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42.
J sponsio the actionability and breadth of scope
which it had in later times, still it may very well have been
sanctioned by religious law, in ways of which nothing can be known unless
the pontifical Commentaries of Papirius 1 should some day be discovered.
As to the silence of the XII Tables on this subject, we are told by
Pomponius that they were intended to define and reform the law rather
than to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they may well
have passed over a subject like sponsio which was already regulated by
the priesthood. Or, if they did mention it, their provisions on the
subject may have been lost, like the provisions as to iusiurandum, which'
we know of only through a casual remark of Cicero's 8 . The
early date here attributed to the sponsio cannot therefore be disproved
by any such negative evidence. Let us see how the case stands with
regard to the question of origin. (a) The theory best known in
England, owing to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was
a simplified form of neocum, in which the ceremonial had fallen
away and the nuncupatio had alone been left 4 . This explanation is now
so utterly obsolete that it is not worth refuting, especially since
Mr Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in itself is
utterly fatal to such a theory is that the nuncupatio was an assertion
requiring no reply 6 , i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4.
8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326. 5 Hunter, Roman
Law, p. 385. 6 Gai. n. 24. B. E. 2 whereas the
essential thing about the sponsio was a question coupled with an
answer. (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that
spondere signified originally " to declare one's will," and he
vaguely ascribes the use of sponsiones in the making of agreements to an
ancient custom existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees
with the view here expressed that the sponsio was known prior to the XII
Tables, but thinks that before the XII Tables it was neither a
contract (which is strictly true if by contract we mean an agreement
enforceable by action), nor an act in the law, and that its use as a
contract began in the fourth century as a result of Latin influence 2 .
In another place 8 he expresses the opinion that its introduction
as a contract was due to legislation, and most probably to the Lex Silia.
The objections to this view are (1) that the etymology is probably
wrong, and (2) that the inference drawn as to the original meaning of
spondere iuvolves us in serious difficulties. An expression of the will
can be made by a formless declaration as well as by a formal one.
And if a formless agreement be a sponsio, as it must be if sponsio means
any declaration of the will, how are we to explain the formal
importance attaching to the use of the particular words "
spon- desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious
nature of the sponsio, which I have endeavoured to establish, and (4) it
forgets that sponsio, being part of the marriage ceremonial, one of the
first subjects 1 Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43. 8 Ius
Nat. §§ 33-4. to be regulated by the laws of Romulus 1 , is
most probably one of the oldest Roman institutions. Again (5), as
Esmarch has observed 2 , the legislative origin of the sponsio is a very
rash hypothesis. We only know that the Lex Silia introduced an
improved procedure for matters which were already actionable, and
had a new formal contract been created by such a definite act we should almost
certainly have been informed of this by the classical writers.
(c) Danz also derives sponsio from sports, the will; but he takes
spondere to mean sua sponte iurare, and thinks that the original sponsio
was exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more than an oath
of a particular kind 3 . . His chief argu- ment for this view is to be
found in Paulus Diaconus, who gives consponsor = coniurator. But why
need we suppose that Paulus meant more than to give a synonym ? in
which case it by no means follows that spondere = iurare. For such a
statement as that we have absolutely no authority. Moreover, as we
saw above, iusiurandum was a one-sided declaration on the part of
the promisor only. How then could the sponsio, consisting as it did of
question and answer, have sprung from such a source ? especially
since the iusiurandum, though no longer armed with a legal
sanction, was still used as late as the days of Plautus alongside of the
sponsio and in complete contrast to it ? (d) Girtanner, in
his reply to the "Sacrale Schutz" of Danz 4 , maintains that
sponsio had nothing 1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. n.
516. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif.
2—2 9 to do with an oath, but was a simple
declaration of the individual will, and that stipulatio had its
origin in the respect paid to Fides. This view however is even less
supported by evidence than that of Danz 1 . Arguing again from analogy
Girtanner thinks that, as the Roman people regulated its affairs by
expressing its will publicly in the Comitia, so we may conjecture that
individuals could validly express their will in private affairs, in other
words could make a binding sponsio. But this, as well as being a
wrong analogy, is a misapprehension of a leading principle of early Law.
For, as we have seen, no agreement resting simply upon the will of
the parties (i.e. pactum) was valid without some outward stamp being
affixed to it, in the shape of approval expressed by the gods or by the
people. In the language of the more modern law, we may say that
such approval, tacit or explicit, religious or secular, was the original
causa ciuilis which dis- tinguished contractus from pactiones. Now a
popular vote in the Comitia bore the stamp of public approval as
plainly as did the nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was
clearly not endorsed by the people ; therefore the endorsement
which it needed in order to become a contractus iuris cvuilis must have
been of a religious nature, and that such was the case appears plainly if
we admit that sponsio originated in a religious cere- monial such
as I have described. To recapitulate the view here given, we
may conclude that sponsio was a primordial institution 1 See
Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and
Latin peoples, which grew into its later form through three stages, (a)
It was originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact
of alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it
became a sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not made
under oath such as betrothals. Just as iusiurandum for many
purposes was sufficient without the pouring out of wine, so for
other purposes sponsio came to be sufficient without the oath, (c) Lastly
it became a verbal formula, expressed in language implying the
accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no
sacrifice was ever actually performed. In this final stage, which
continued as late as the days of Justi- nian, Its form was a
question put by the promisee, and an answer given by the promisor, each
using the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "
" Spondeo? " Centum dari spondes ? " " Spondeo?
Throughout its history this was a form which Roman citizens alone could
use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further
proof of religious origin. Why they used question and answer rather
than plain statement is a minor point the origin of which no theory has
yet accounted for. The most plausible conjecture seems to be that
the recapitulation by the promisee was intended to secure the
complete understanding by the promisor of the exact nature of his
promise. Its sanction in the early period of which we are
treating was doubtless* imposed by the priests, but owing to our almost
complete ignorance of the pontifical law we cannot tell what
that sanction was. Having now examined the ways in which
an agreement could be made binding under religious sanction, let us
see how binding agreements could be made with the approval of the
community. There is reason to believe that this secular class of
contracts is less ancient than the religious class, because nexum and
mancipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and
sponsio are found, as Leist has shown, in other Aryan civilizations
1 . Art. 3. nexvm. There is no more disputed sub- ject
in the whole history of Roman Law than the origin and development of this
one contract. Yet the facts are simple, and though we cannot be sure
that every detail is accurate, we have enough information to see
clearly what the transaction was like as a whole. We know that it was a
negotium per aes et libram, a weighing of raw copper or other
commodity measured by weight in the presence of witnesses 2 ; that the commodity
so weighed was a loan 8 ; and that default in the repayment of a
loan thus made exposed the borrower to bondage 4 and savage
punishment at the hands of the lender. We know also that it existed as a
loan before the XII Tables, for it is mentioned in them as
something quite different from mancipium 6 . To assert, as Bech-
mann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I.
Civ. I« e Abt. pp. 435-443. 2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L.
L. 7. 105. 4 Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22.
well as loan " mancipiumque " must therefore be an
interpolation into the text of the XII Tables 1 , is an arbitrary and
unnecessary conjecture. The etymology of nexwm, and of mancipium shows
that they were distinct conceptions. Mancipium implies the transfer
of mami8, ownership ; nexum implies the making of a bond (cf. nectere, to
bind), the precise equivalent of obligatio in the later law. It is true
that both nexwm and mancipium required the use of copper and
scales, to measure in one case the price, in the other the amount of the
loan. But this coincidence by no means proves that the two transactions
were identical. A modern deed is used both for leases and for
conveyances of real property, yet that would be a strange argument to
prove that a lease and a conveyance were originally the same thing.
Here however we are met by a difficulty. If, as some hold 8 and as
I have tried to prove, we must regard mancipium as an institution of
prehistoric times distinct from the purely contractual nexwm, how
are we to explain the fact that nexwm is used by Cicero 8 and by other
classical writers 4 as equi- valent to mancipium, or as a general term
signifying omne quod per aes et libram geritur, whether a loan, a
will, or a conveyance ? Now first we must notice the fact that neamm had
at any rate not always been synonymous with mancipium, for if it had been
so, there could have been no doubt in the minds of 1 Kauf f
p. 130. * Mommsen, Hist. 1. 11. p. 162 n. * ad Fam. 7. 30 ; de Or.
3. 40; Top. 5. 28; Parad. 5. 1. 35. ; pro Mwr. 2. 4 Boethius
lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u. nexwm ; Manilim in
Varro, L. L. 7. 105. Scaeuola and Varro that a res nexa was the
same thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro both deny,
and we must remember that Mucius Scaeuola was the Papinian of his day.
Manilius 1 on the other hand, struck perhaps by the likeness in
form of the obsolete nexum to other still existing negotia per aes et
libram, seems to have made nexum into a generic term for this whole class
of trans- actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2 . The
new and wider meaning, given by them to that which was a technical term
at the period of the XII Tables, apparently became general in
literature, partly for the very reason that nexum no longer had an
actual existence, partly because need liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in
matters which had nothing to do with the original nexum, namely in
the release of judgment-debts and of legacies per damnationem*. One
peculiarity men- tioned by Gaius in the release of such legacies
seems altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of
the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res maricipi included land and cattle.
Therefore if mancipiwm were only a species of nexum we should certainly
find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi, but this, as
Gaius shows, was not the case. The view that nexum was the parent
gestum per 1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s. u.
nexum. 3 Gai. iii. 173-5. aes et libram,
and that mancipium was the name given later to one particular form of
nexum, is worth examining at some length, because it is widely
accepted 1 , and because it fundamentally affects our opinion concerning
the early history of an important contract. Bechmarm 2 thinks it more
reasonable to suppose that nexum narrowed from a general to a
specific conception. But it is scarcely conceivable that nexum should
have had the vague generic meaning of quodcumque per aes et libram
geritur* when it was still a living mode of contract, and the
technical meaning of obligatio per aes et libram when such a contractual
form no longer existed. What seems far more likely is that nexum had
a technical meaning until it ceased to be practised subsequently to
the Lex Poetilia, and that its loose meaning was introduced in the later
Bepublic, partly to denote the binding force of any contract 4 ,
partly as a convenient expression for any transaction per aes et
libram\ Even in Cicero we find the word nexum used chiefly with a view to
elegance of style 8 in places where mandpatio would have been a
clumsy word and where 7 there could be no doubt as to the real meaning.
But when Cicero is writing history, he uses nexum in its old technical
sense and actually tells us that it had become obsolete 8 . 1
See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22. 2 .16. p.
181. • Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum. 4 Cf. "nexu
uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cic. de Or. in.
40. 159. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.
7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf.
Liu. mi. 28. 1. Rejecting then as untenable the
notion that nexum denoted a variety of transactions, let us see how
it originated. The most obvious way of lending corn or copper or any
other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower,
who would naturally at the same time specify by word of mouth the terms
on which he accepted the loan. In order to make the transaction
binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if
the transaction took place, as it most likely would, in the market-place,
the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may
believe, that a nexurn was originally made. It was a formless agreement
necessarily accompanied by the act of weighing and made under public
super- vision. It dealt only with commodities which could be
measured with the scales and weights, and did not recognize the
distinction between res mancipi and res nee mancipi, — a strong argument
that nescum and mandpium were, as above said, totally distinct
affairs. Its sanction lay in the acts of violence which the creditor
might see fit to commit against the debtor, if payment was not
performed according to the terms of his agreement. Personal
violence was regulated by the XII Tables, in the rules of manus iniectio,
but before that time it is safe to conjecture that any form of
retaliation against the person or property of the debtor was freely
allowed. The fixing of the number of witnesses at five 1 ,
which we find also in rnancipium, . is the only modification of nexum
that we know of prior to 1 Gai. hi. 174. .
the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the
reforms of Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing
the five classes of the Servian ceruma, personified the whole
people. This is a mere conjecture, but a very plausible one. For we
are told by Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject
of Contract and Crime, and in another passage of the same author 8
, we find an analogous case of a law which forbade the exposure of
a child except with the approval of five witnesses. But here a question
has been raised as to what the witnesses did. The correct answer, I
believe, is that given by Bechmann 4 , who maintains that the witnesses
approved the transaction as a whole, and vouched for its being properly
and fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the
function of the witnesses was to superintend the weighing of the copper,
and that before the intro- duction of coined money some such public
supervision was necessary in order to convert the raw copper into a
lawful medium of exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that
neacum had two marked peculiarities: (1) it was a legal act per-
formed under public authority, and (2) it was the recognised mode of
measuring out copper money by weight. The first part of
Huschke's theory may be accepted without reserve, but the second part
seems quite untenable. We have no evidence to show that nexum was
confined to loans of money or of 1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii.
15. 4 Kauf, i. p. 90. 8 Nexum, p. 16 ff. copper.
Indeed we gather from a passage of Cicero that far, corn, may have been
the earliest object of nexum 1 , while Gaius states that anything
measurable by weight could be dealt with by neari solvtio*. No
inference in favour of Huschke's theory can be drawn from the name
negotium per cms et libram, for this phrase obviously dates from the more
recent times when the ceremony had only a formal signifi- cance,
and when the aes (ravduscvlum) was merely struck against the scales. If
then we reject the second part of Huschke's theory, and admit, as
we certainly should, that nexum could deal with any ponderable commodity,
it is evident that his whole view as to the function of the witnesses
must collapse also. The very notion of turning copper from
merchandise into legal tender is far too subtle to have ever occurred to
the minds of the early Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the
original object of the State in making coin was not to create an
authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and
fineness of the medium most generally used. The view of Buschke
seems therefore a complete anachronism. There is also another
interpretation of neawm radically different from the one here advocated,
and formerly given by some authorities 4 , but which has few if any
supporters among modern jurists. This , view was founded upon a loosely
expressed remark of Varro's in which nexus is defined as 1
Cic. de Leg. Agr. n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf, i. p. 87. 4 See Sell,
Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in Danz, Rom. RG. n.
25. a freeman who gives himself into slavery for a debt which he
owes 1 . The inference drawn from this remark was that the debtor's body,
not the creditor's money, was the object of nexwm, and that a
debtor who sold himself by mancipium as a pledge for the repayment
of a loan was said to make a nexum' 2 . Such a theory does not however
harmonize with the facts. The evidence is entirely opposed to it,
for Varro's statement, as will be seen later on, admits of quite
another meaning. Neither nexum nor man- cipium is ever found practised by
a man upon his own person. Nor could nexum have applied to a
debtors person, for the idea of treating a debtor like a res mancipi or
like a thing quod pondere numero constat, is absurd. Again, if nexum =
mancipium, the conveyance of the debtors body as a pledge must have
taken effect as soon as the money was lent, therefore (1) by thus
becoming nexus he must have been in mancipio long before a default could
occur, which is too strange to be believed, and (2) being in
mancipio he must have been capite deminutus*, which Quintilian expressly
states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly then mancipium was under
no cir- cumstances a factor in nexum. Thus it would seem that
the theory which regards nexum as a loan of raw copper or other
goods measurable by weight, is the one beset with fewest
difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in the later
law were called res fungibiles. 1 Varro, L. L. vii. 105 and see page
52. 8 nexum inire, Liu. vn. 19. 6. 3 Paul. Diao. p. 70,
*. u. deminutus. 4 Decl. 311. The borrower was not required
to return the very same thing, but an equal quantity of the same
kind of thing. And this explains why neanim, the first genuine
contract of the Roman Law, should have received such ample protection. A
tool or a beast of burden could be lent with but little risk, for
either could be easily identified ; but the loan of corn or of
metal would have been attended with very great risk, had not the law been
careful to ensure the publicity of every such transaction.
lusiurandum or sponsio might no doubt have been used for making
loans, but they both lacked . the great advantage of accurate
measurement, which neanim owed to its public character. It was the
presence of witnesses which raised neanim from a formless loan into
a contract of loan. This general sketch of the original neanim
is all that can be given with certainty. The details of the picture
cannot be filled in, unless we draw upon our imagination. We do not know
what verbal agreement passed between the borrower and the lender,
though it is fairly certain that payment of interest on the loan might be
made a part of the contract. We cannot even be quite sure whether
the scale-holder (libripens) was an official, as some have
suggested, or a mere assistant 1 . Our description of the contract
may then be briefly recapitulated as follows: The form
consisted of the weighing out and delivery to the borrower of goods
measurable by weight, in the presence of witnesses, (five in
number, probably since the time of Seruius Tullius),
whose attendance ensured the proper performance of the ceremony. The
ownership of the particular goods passed to the borrower, who was merely
bound to return an equal quantity of the same kind of goods, but
the terms of each contract were approximately fixed by a verbal agreement
uttered at the time. The sanction consisted of the violent
measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the noto- riety of
the transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other
agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony pre-
cisely similar to that of the nexum itself, the amount of the loan being
weighed and delivered to the lender, in presence of witnesses 1 .
Art. 4. We have now examined three methods by which a binding
promise could be made in the earliest period of the Roman Law. The next
question which confronts us is whether there existed at that time any
other method. The other forms of contract, besides those already
described, which are found existing at the period of the XII Tables,
were fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio. Did any of
these have their origin before this time ? Fiducia is doubtful, and lex
mancipi, as we shall see, owed its existence to an important
provision 1 Gai. in. 174. \.t
of that code. As to the origin of uadirnonium, we cannot be
certain, but judging from a passage in Gellius 1 we are almost forced to
the conclusion that uadimonium also was a creation of the XII
Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V asses et
taliones...omnisque ilia XII Tabhlarum antiquitas." We know that
twenty-five asses was the fine imposed by the XII Tables for cutting
down another man's tree, therefore it would seem from the context
that uades had also been introduced by that code. The point cannot be
settled, but since the XII Tables were at any rate the first
enactments on the subject of which anything is known, we may
discuss uadimonium in treating of the next period. The only contract of
which the remote antiquity is beyond dispute is the dotis dictio.
Art. 5. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us that in the earliest
times a dowry was given with daughters on their marriage, and that if the
father could not afford this expense his clients were bound to
contribute. Hence it is clear not only that dos existed from very early
times, but that custom even in remote antiquity had fenced it about with
strict rules. From Ulpian 8 we know that dos could be bestowed
either by dotis dictio, dotis promissio, or dotis datio. The promissio
was a promise by stipu- lation, and the datio was the transfer by
mancipation or tradition of the property constituting the dowry ;
so that these two are easy to understand. But dotis dictio is an obscure
subject. It is difficult to know whence it acquired its binding force as
a contract, 1 xvi. 10. 8. 2 ii. 10. 8 Reg. vi. 1.
since in form it was unlike all other contracts with which we
are acquainted. Its antiquity is evidenced not only by this peculiarity
of form, but 9,lso by a passage in the Theodosian Code which speaks
of dotis dictio as conforming with the ancient law 1 . An illustration
occurs in Terence 2 , where the father says, "Dos, Pamphile, est
decern talenta" and Pamphilus, the future son-in-law, replies,
"Accipio"; but we need not conclude that the transaction was
always formal, for the above Code 8 , in permitting the use of any form,
seems rather to be restating the old law than making a new
enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4 and by Gaius 5 , was
that dotis dictio could be validly used only by the bride, by her father
or cognates on the fathers side, or by a debtor of the bride acting
with her authority. Dictio is a significant word, for Ulpian 6
distinguishes between dictum and promis- sum, the former, he says, being
a mere statement, the latter a binding promise. This distinction
should doubtless be applied in the present case, since dotis dictio
and dotis promissio were clearly different. The following theories seem
to be erroneous : (a) Von Meykow 7 holds that dictio was adopted as
a form of promise instead of sponsio for this family affair of dos, in
order not to hurt the feelings of the bride and of her kinsmen by
appearing to question their bona fides. That theory would be a
plausible explanation, if dictio could ever have meant a 1 C.
Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. 3 3. 13. 4. 4 Reg. vi. 2. 5 Epit. n.
9. 3. 6 21 Dig. 1. 19. 7 Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.
B. E. 3 promise, but from what Ulpian says, this can
hardly be admitted. (6) Bechmann 1 , again, connects dotis
dictio with the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.
The dos, he thinks, was promised by a sponsio made at the betrothal, so
that the peculiar form known as dotis dictio was originally nothing more
than the specification of a dowry already promised. The dotis
dictio would therefore have been at first a mere pactum adiectum, which
was made actionable in later times, while still preserving its ancient
form. The objection to this theory is tKat it lacks evidence :
indeed the only passage (that of Terence) in which dotis dictio is
presented to us with a context goes to show that this contract was in no
way connected with the act of betrothal. (c) Another
explanation is given by Czylharz 2 , ie. that dotis dictio was a formal
contract. His view is based on the scholia attached to the passage
of Terence, which say of the bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset
' accipio' dos non esset." Czylharz therefore looks upon the
contract as an inverted stipulation. The offer of a promise was
made by the promisor, and when accepted by the promisee became a
contract. Though such a process is quite in harmony with modern notions
of Contract, it would have been a complete anomaly at Rome. And we
cannot believe that, if acceptance by the promisee had been a necessary
part of the dotis dictio, we should not have been so informed by
Gaius, when he has been so careful to impress 1 Rom. Dotalrecht. 2
Abt. p. 103. a Z.f. R. G. vn. 243. upon us that the dotis dictio could be
made nulla interrogatione praecedente. Thus the view of Czylharz
besides being in itself improbable is almost entirely unsupported by
evidence. Even the scholiast on Terence need not necessarily mean
that " accipio " was an indispensable part of the trans-
action. He may merely have meant that the bride- groom at this juncture
could decline the proffered dos if he chose, and this interpretation is
borne out by Iulianus 1 and Marcellus 8 , who give formulae of
dotis dictio without any words of acceptance. A satisfactory
solution of the problem seems to have been found by Danz 8 . He looks
upon dos as having been due from the father or male ascendants of
the bride as an officium pietatis 4 , and quotes passages from the
classical writers in which they speak of refusing to dower a sister
or a daughter as a most shameful thing 5 . The source of the obligation
lay in this relationship to the bride, not in any binding effect of the
dotis dictio itself. But in order that the obligation might be
actionable its amount had to be fixed, and this was just what the dictio
accomplished. It was an acknowledgment of the debt which custom had
decreed that the bride's family must pay to the bridegroom. In this
respect the dos was precisely analogous to the debt of service which a
freedman owed as an offidum to his patron, and which he acknowledged
by the iurata operarumpromissio. The dos and the operae were both
officio, pietatis, but 1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig. 3. 59. 3 Rom. RO.
I. 163. 4 See 23 Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin. 3. 2. 63 ; Oic. Quint.
31. 98. 3—2
it became customary to specify their nature and their
quantity. In the one case this was done by an oath, in the other by a
simple declaration, and in both cases the law gave an action to protect
these anomalous forms of agreement. What kind of action could be
brought on a dotis dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an
actio dictae dotis, for which he even gives the formula, but
formula and action are alike purely conjectural. We can only infer that
the dotis dictio was action- able since it constituted a valid contract.
How or when this came to pass we cannot tell. A further advantage of
Danz' theory, and one not mentioned by him, is that it explains the
capacity of the three classes of persons by whom alone dotis dictio
could be performed. (1) The father and male ascendants of the bride were
bound to provide a dos under penalty of ignominia; the bride, if
sui iuris, was bound to contribute to the support of her husband's
household for exactly the same reason 3 ; and (3) a debtor of the bride
was bound to carry out her orders with respect to her assets in his
posses- sion, and supposing her whole fortune to have con- sisted
of a debt due to her, it is evident that a dotis dictio by the debtor was
the only way in which this fortune could be settled as a dos at
all. Thus the hypothesis that the dos was a debt morally due from
the father of the bride, or from the bride herself, whenever a marriage
took place, completely explains the curious limitation with 1
XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 8 Cic. Top. 4. 23. FORM
OF D0TI8 DICTIO. 37 regard to the parties who could perform
dotis dictio. The nature of the transaction may then be summarized
as follows : Its form was an oral declaration on the part of
(1) the bride's father or male cognates, (2) of the bride herself, or (3)
of a debtor of the bride, setting forth the nature and amount of the
property which he or she meant to bestow as dowry, and spoken in
the presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be
settled in this manner 1 . No particular formula was necessary. The
bridegroom might, if he liked, express himself satisfied with the
dos so specified ; but his acceptance does not seem to have been an
essential feature of the proceeding. Most probably he did not have to
speak at all. Its sanction does not appear, though we may be
sure that there was some action to compel perform- ance of the promise.
This action, whatever it may have been, could of course be brought by the
bride's husband against the maker of the dotis dictio. Perhaps in
the earliest times the sanction was a purely religious one.
Art. 6. Now that we have seen the various ways in which a binding
contract could be made in the earliest period of Roman history, we may
con- sider briefly the general characteristics of that primi- tive
contractual system. The first striking point is that all the contracts
hitherto mentioned are unilateral: the promisor alone was bound, and
he was not entitled, in virtue of the contract, to any
counterperformance on the part of the promisee. 1 Gai. Ep. 3.
9. The second point is that the consent of the parties was not
sufficient to bind them. Over and above that consent the agreement
between them was required to bear the stamp of popular or divine
approval. Even in dotis dictio, as we have just seen, a simple
declaration uttered by the promisor was invested with the force of a
contract merely because the substance of that declaration was a transfer
of property approved and required by public opinion. Thirdly we
notice that the intention of the con- tracting parties was verbally
expressed, but that the language employed was not originally of any
impor- tance (except in the one case of sponsio), provided the
intention was clearly conveyed. We must therefore modify the statement so
commonly made that the earliest known contracts were couched in a
particular form of words. For how did each of these particular
forms originate and acquire the shape in which we afterwards find it ? By
having long been used to express agreements which were binding
though their language was informal, and by having thus gradually
obtained a technical significance. Conse- quently the formal stage was
not the earliest stage of Contract. The most primitive contract of all
was not an agreement clothed with a form, but an agree- ment clothed
with the approval of Church or State. Nicola Codronchi. Keywords: Su
i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto
epistemico, contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere
informale o formale. tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il
giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi)
e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura.
Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della comunita
come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente piu tard
ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si
manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del
primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la
proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di
p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library.
Grie e Colazza: l’implicatura
conversazionale dell’iniziazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into
‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much
different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito
agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle
dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro
con l'antroposofia Colazza apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di
concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la
«via del pensiero cosciente». Altre
opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee).
Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur. A strong anthroposophical influence came from Giovanni
Colazza and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which adopted
the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche
che si svolgevano in casa dell'amico Giovanni Colazza, e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto
che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere,
ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è
l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti
di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti
passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò
che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli
eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna
speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente
contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi
dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene
nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’,
inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale
della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di
pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo
della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli,
rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico.Bisogna osservare una
pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne
una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara
immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando
ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza
non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla
in sé e coltivarla. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul
mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine
minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio
dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il
rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle Forze cosmiche.
Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso
l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in
Silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si
lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un
effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione,
se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e
vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento
interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori
paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la
percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto
animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione:
radice, fusto, fogliame, fiori, frutto.
Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione,
la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze
insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è
l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo
vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e
percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad
esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita,
dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà
in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di
piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la
vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare
una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa
immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme,
realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella
sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare
il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di
questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo
contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un
evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti
di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi
quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare,
anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel
sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di
neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o
impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo
spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale
disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare
autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le
forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I
vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi,
legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i
pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGLI ESERCIZI. Tutti
gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del
corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità
del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico
come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare,
quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra
coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il
sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il
centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di
esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il
sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si
ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli
organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come
“attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro
il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di
gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile
ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione
dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è
l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la
percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico
Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di
luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa
viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica
non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o
immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma
il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata.
Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà
possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria.
Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande
autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni.
Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale,
una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a
qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità
karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne
farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo
non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro
passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i
mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è
“Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per
potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo
calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali
sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte
dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse,
datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter
riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a
loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse
possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre
pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto
i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi
inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire
fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna
rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i
desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la
percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono
spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la
durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore
comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia
di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per
raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana,
può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a
mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua
razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali
corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà
interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie
per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE
sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è
connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel
campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca
l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la
chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo
esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o
un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in
immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma
soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far
scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una
parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo
apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale
dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna
aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire
consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza
che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto
concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà
responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri
permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di
esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io
inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale
solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi
al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto
dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non
bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si
trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre
essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve
ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto
del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei
regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare
per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la
direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed
equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni
siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere
abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA
POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e
orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione.
Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna
vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa,
supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali,
inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il
corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso
longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane
connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la
coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio
che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di
percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi,
perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla
chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del
loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare
tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non
ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL
LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle
“forme”. Come gli altri, anche questo
centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono
sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un
oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così
dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in
modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire
correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli
dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni;
uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti,
prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che
non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci
non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della
Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre
a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le
determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei
motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori
altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre
far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli
o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica
dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che
ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose
da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità,
equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere
le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina
certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un
buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente
importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con
un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici
PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri
le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali.
Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve
sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito:
incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare
duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale
difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma
non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie
passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler
tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia
di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO
ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è
percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione
sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del
Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando
con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di
natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in
cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le
correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali,
nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere
possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente,
dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di
pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il
Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare
tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore
l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere
il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei
esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA
VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una
specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere
pronti per qualche cosa. E’
relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un
libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità,
perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un
passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle
situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo
assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA
COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è
connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha
assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero,
di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate,
queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto,
in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo
inferiore, il suo Ego. Si ha la
percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che
tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento
delle immagini, tipico del mondo astrale. Il praticare esercizi in modo non corretto,
disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe
causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed
aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche
possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al
risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare
nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante
la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di
sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà
portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la
stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione
indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione,
meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in
meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno
senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero
scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza.
Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere
degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza.
LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il
discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione
delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi
spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare:
divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e
indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel
proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può
sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un
estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del
Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il
mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E
L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in
modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve
distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui. Il fatto di poter dominare le reazioni e i
sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché
le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si
deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al
discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo
spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà
prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di
moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma
per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi
superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali.
Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno
a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato
pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano
della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi
direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo
eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si
avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente
visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano
diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si
era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro
essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti
interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si
presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima
esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al
cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi
raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità
nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie
limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo
essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento
inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO.
Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai
potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando
per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria
figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo
all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il
nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le
cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare
in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la
responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a
questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento
del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni
mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion
di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura. Il coraggio di affrontare il guardiano è
contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie
mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore,
rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore
resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile
e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in
modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere
figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento
dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel
nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto
la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé
stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di
essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per
prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si
comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si
sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE
GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel
quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che
condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel
quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il
riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che
ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere
nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno
la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a
quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo.
Breno. Kur. “ Giardino di Maturità , chiamano
certi antichi saggi il luogo, in cui pone piede l'uomo allorchè gli
divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo quei saggi in quel giardino
non ci sarebbe fiore, che non re- casse il suo frutto, non uovo, che non
por- tasse .a maturità la vita in esso germinante. Ma come oscure
e- pericolose vengono al tempo stesso descritte le vie che menano
alla «= Porta Stretta », la quale appunto chiu- de quel giardino. Si
assicura, però, che quel- l'oscurità diviene più chiara del sole e
che quei pericoli non hanno potere contro le forze di cui ferve
l'anima di colui, al quale queste vie sono mostrate con provvida
mano da un “ mistico ,, da un “ /niziato ,. Tutto ciò come
puerile concezione di un' e- poca, in cui nulla si sapeva delle
scienze dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu- minato, che
crede di saper distinguere fra i vaneggiamenti di una fantasia
brancolante e le ponderate vedute d'un intelletto “ scier-
“i So ca | oggi tificamente disciplinato ,. E chi,
ciò nono- stante, parla oggi di coteste concezioni, può Al star certo
di vedere sul volto di molti dei È , suoi contemporanei un sorriso, se.
non di di : ll sprezzo, per lo meno di compassione. Ta
Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono I alcuni che, come quegli
antichi saggi, par- MAS lano del « rondo dell'anima , e della “ pa-
“N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono riputati | fe AMA ì È
3 | persone che parlano di un mondo immagi- fa nario, figurato loro
soltanto dalla propria | » Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che
essi, LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto i tanto grandiosi
risultati, grazie alla pura e i, now austera logica, vadano brancolando
come eb- branco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la li
sicurezza, perchè non si attengono a ciò È che esiste “ positivamente
,,. Ora, che cosa dicono questi edbri stessi i a codesti contradittori
? Quando si sentono f arrivati all'alto punto, in cui è loro
conferito il diritto di parlare di sè, allora dalle loro È
labbra si odono uscire le parole seguenti : È “ Noi comprendiamo
benissimo voi, ‘che dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo che
molti di voi sono persone da bene, che senza riserva si pongono al
servizio del Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che
Bee a), jr er => voi non ci potete capire,
fin tanto che pen- sate come appunto pensate. Sulle cose, delle
quali noi abbiamo da ragionare, potremo di- iscorrere con voî, soltanto
quando vi sarete presi voi stessi la pena di apprendere il lin-
guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia- razione molti di voi, certo,
non vorranno più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno di aver
riconosciuto che al farneticamento della nostra fantasia si accoppia in
noi an- che un immedicabile orgoglio. Noi però comprendiamo voi
anche in siffatta affer- mazione e sappiamo al tempo stesso che
dobbiamo essere non già superbi, ma mo- desti. Per incitarvi a tentare di
entrare nel nostro ordine di idee non ci resta che una cosa da
dire: Credeteci, noi non ricono- sciamo un vero diritto di parlare delle
no- stre conoscenze se non a colui, il quale sia capace di sentire
con voi ciò che vi co- stringe alle vostre asserzioni, e che cono-
sca a fondo la forza, la potenza convincente e la portata della vostra
scienza. Colui che non reca in sè la sicura consapevolezza di poter
pensare ponderatamente, scientifica mente, come l’ astronomo o il
botanico 0 lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di
vita spirituale, di conoscenze mistiche do- 9 e = e Re vrebbe
contentarsi di apprendere, e non già volere insegnare. Ma non ci si
frain- ‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti,
non di studiosi, Studioso di misticismo può : divenire chiunque,
giacchè nell’ anima di ogni persona si trovano le facoltà, i
poteri presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi- stico dovrebbe
parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai
quali, secondo il grado del loro intendimento, egli non potrebbe dire un
centesimo della verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro oggi
riconoscono questa millesima parte ; domani riconosceranno la centesima.
Tutti possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,, non dovrebbe
voler diventare nessuno, che sia incapace di assoggettarsi alla
disciplina del più austero intelletto e della scienza' più severa.
Sono veri insegnanti di misticismo soltanto coloro che sono stati
precedente- mente rigidi cultori della scienza, e che sanno perciò
che cosa viga nella scienza. Anche il vero mistico ritiene visionario,
inebriato, chiunque non sia capace di deporre in qua- lunque momento
il solenne paludamento del mistico per indossare la modesta tunica
del fisico, del chimico, del botanico “e dello zoologo »,
sitori ;' con la massima modestia li assicura ‘che intende
il loro linguaggio e che non si arrogherebbe il diritto di essere un
mistico, se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Al- lora, però,
egli può anche aggiungere di sa- f |pere, e di saperlo come si sanno i
fatti della Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi- ® \tori
imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa
que- sto come chiunque, il quale abbia studiato chimica, sa
che, date certe condizioni, dal- l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l'
acqua. Che Platone non volesse ammettere ai gradi superiori
della sapienza nessuno che > mon conoscesse la geometria, non
significa «già che egli facesse suoi alunni soltanto i
li Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppo-
A 9 U L _ dotti in geometria, ma significa
che quei suoi alunni dovevano essersi educati alla se- vera,
rigida, ed esatta investigazione, prima che venissero loro schiusi gli
arcani della vita spirituale. Una tale esigenza ci appari sce nella
sua giusta luce se ‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali
viene meno l'ele- | mento di fatto, a cui si saggia e
corregge ad ogni piè sospinto l' investigazione ordi- naria del
mondo. Se il botanico si forma “concetti erronei, subito i suoi sensi lo
illu- n conci Da (UR IZA
— 20 — minano circa il suo errore. Tra lui e il mi- stico
corre il rapporto stesso che intercede fra chi cammina su strada piana e
chi ascende una montagna: il primo può cadere a terra, ma solo in
casi eccezionali potrà causarsi la morte ; all’ altro, invece, questo
pericolo sta sempre dinanzi, E certamente nessuno che non abbia
imparato a camminare può ascendere una montagna. Poichè ; fatti
spi- rituali non correggono i concetti allo stesso modo che li
correggono i fatti del mondo esteriore, un pensare rigorosissimo e
degno della massima attendibilità è un ovvio pre- supposto per
l'investigatore mistico. Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,
si riconosce che cosa intendevano dire que- gli antichi saggi, allorchè
parlavano dei pe- ricoli che minacciano chi voglia penetrare negli
arcani del mondo. Se alcuno si ap- pressa a questi arcani con mente
indiscipli- nata, essi determinano nella sua anima de- plorevoli
disordini. Divengono pericolosi come una bomba di dinamite nelle mani di
un fanciullo. Perciò da ogni investigatore mi- stico si esige
rigorosamente che la norma- lità del suo pensare, di tutta, anzi, la
sua vita psichica, abbia saggiato le proprie forze
SE E attorno a problemi gravi e spinosi, prima
che egli si appressi ai compiti più elevati. Valga ciò come accenno a
quel che il mi- stico intenda dire, quando parla dei primi gradi
della Iniziazione nelle verità superiori. Pn _* * *
Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI Mrfica | più
alti gradi della cultura moderna, stimano che sano pensare e misticismo
siano due termini incolta sano che una illuminata educazione
scienti- fica debba estirpare dall'individuo qualunque | tendenza
mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali tendenze
chi conosca gli impor» tantissimi risultati della moderna scienza na-
| turale. Se avesse ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora,
certo, concedere che la Mistica non abbia nel nostro tempo se non |
piccola probabilità di trovare accesso alle anime dei nostri
contemporanei; giacchè nes- «suno, il quale abbia intendimento dei
biso- gni spirituali di questa nostra età, può du- bitare che siano
pienamente giustificati i trionfi della scienza naturale già
conseguiti. e ancora da conseguire in avvenire. Biso- vi
MER Na bilmefite antitetici. Essi pen- K pate
ticolar modo incomprensibile che abbia an) "fi LI
Peli so Naturalistici itreprimibili do u + Con una certa
tr ‘ zione cotesti insoddisfatti <j O Opère dei mistici, e
]} trovand ciò, I cui le” oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro
ino Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha bj. Sogno: una
effettiva aura di vita Spirituale! Si In contatto con e Sa costoro
sentono | Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo | eve
incessanternente ce vino! D’ rcare: l’ali Ta parte,
Però, essi sj Petere ;l ito diate a
monito: « Bj ‘formarvi, mediante Ja cie rale, un pen |
non vj chiappanuvole vai monito, l’anima loro sj
inaridisce, econdita , . tò, in fondo all’ an ogni individuo
Verità, e i che grande maestra dell’uomo è la ]
mande AIR Chi potrebbe non dare, per intimo
consenso, ragione al Goethe, allorchè dice che dagli errori e dalle
disarmonie degli uomini egli si ritira sempre con rinnovato contento,
ri- volgendosi alle eterne necessità della natu- ra? E chi potrebbe
leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali
il grande poeta descrive i sentimenti che lo assalirono in una
solitaria meditazione sulle ferree leggi, secondo le quali la natura
forma le montagne ? “ Seduto su di un’ alta e nuda
vetta, e spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io
posso dirmi: “ qui tu poggi immediatamente su di un suolo, che
‘arriva fin giù ai più profondi strati della terra.
In_questo istante, in cui le eterne forze di attrazione e di movimento
della terra quasi direttamente agiscono su di me, in cui più
presso a me aliano e mi avvolgono gli influssi del cielo, vengo
come sospinto a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla
natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa cima nuda volgo lo
sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia schiu- dere
l'anima propria unicamente ai più pri- mordiali, più antichi e più
profondi senti- — menti del vero. Sì, egli può dire a se
stesso: SONG). pe Qui, sull'antichissimo ed eterno
altare, im- mediatamente eretto sul punto più basso della
creazione, offro sacrifizio all'Essere di tutti gli esseri. »
E' pur naturale che questa disposizione d'animo, per cui si resta
reverenti dinanzi alla grande istruttrice Natura, si trasferisca
sulla scienza ‘che ne discorre. Non deve esistere antinomia fra i
senti- menti che pervadono l'anima, quando essa si approssima alle
“ austere e profondissime verità primordiali , circa la vita
spirituale, e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si posa
sull'attività costruttrice della natura. Manca forse intelletto al
mistico per co- testa armonia della natura coi sentimenti più sacri
all'anima umana? Tutt'altro; giacchè al di sopra dell’altare, sul quale
il vero mi- stico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può
spingersi l'indagine umana, stette scritto a lettere di fuoco fiammante,
come legge. suprema: “ Natura è la grande guida al divino, e la
conscia ricerca umana delle fonti del Vero deve seguire le orme
della sua recondita, volontà |. Se i Mistici seguono questa
loro norma suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussi- stere fra le
vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E
tanto meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in
un'epoca, che tanto deve alla scienza na- turale. Per
intendere bene quest’ ordine di de occorre domandarci: “ In che, dune
ue consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie e il Misticismo ? E
in che potrebbe, invece, | aversi un'antitesi? ,,
Ebbene, l'accordo non può venir cercato | se non nel fatto che le
rappresentazioni che ci facciamo intorno alla entità dell’
uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in- | torno agli
altri esseri della natura; nel rav- | visare, quindi, nel ’opera della
natura e nella — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di “ ordine
retto da leggi ,. L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si vo-
lesse vedere nell’uomo un essere di specie "completamente diversa
dalle creature natu- rali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal
senso si sbigottirono fortemente quando, più di 40 anni fa, il grande
scienziato Huxley, informandosi allo spirito stesso della scienza —
naturale moderna, sulla base della somi- pigliante struttura anatomica,
concluse la stretta parentela fra l’uomo e gli animali supe- ori
con queste parole: “ Possiamo prendere in esame un sistema di organi
qual- siasi; l'esame comparativo di essi nella serie delle scimie
ci conduce sempre a questo me- È desimo risultato: che le diversità
anatomi- che, per le quali l’uomo è distinto dal go- rilla e dallo
scimpanzè, non sono tanto grandi quanto quelle che separano il gorilla
dalle altre scimie inferiori ,,. Una. tale asserzione può,
però, sbigottire solamente quando la si riferisca in modo errato
all’ essezza dell'uomo. Certo ne può. facilmente rampollare il pensiero:
“ Ma come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie | , Que- sta stretta
affinità non suscita però nel mi- stico nessuna preoccupazione , giacchè
per lui ne balza subito anche l' altro pensiero: | “A quali fini
superiori, però, possono ser- \vire gli organi che ritrovansi nelle
bestie, — allorchè sono trasformati in organi umani! » Il mistico
sa che l'occulta volontà della na- tura muta la percezione animale in
percezione umana cofì lo sviluppare in altra forma gli-organi animali.
Egli segue le sicure orme della natura e ne continua l'operato. Per
lui i l'opera della natura non è punto terminata con ciò che essa
gli ha donato. Egli diviene un fido discepolo della natura per il
fatto appunto di portarne l’opera a maggiore al- 1
toi tezza. La natura lo ha portato fino al
pen- sare e al sentire umano; egli, però, non prende questo pensare
e questo sentire come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende
capaci di attività superiori. Avviene per opera della sua volontà ciò,
che nell'ambiente na- turale esteriore avviene indipendentemente da
essa. Gli occhi, come sono ora in lui, attestano che gli organi visivi
sono capaci di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©» nelle
scimie. Così l’ occhio può venir tra- stormato. Le facoltà psichiche del
mistico evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto,
nello stesso rapporto in cui sono gli occhi umani rispetto a quelli
delle scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende tende
l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel misura, in cui l’animale
può intendere il, mote pensare dell’uomo. E come alla creatura non
pensante si schiuderebbe tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè
la facoltà del pensare, così il mistico, dopo lo svi- luppo
delle sue facoltà superiori acquista la visione di un altro mondo. In
questo “ altro mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re »Yiene
Mistico rinnega la natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha
prodotto senza di lui con la propria volontà occulta. Per-
di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY
CELL. PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest
NL Los ; mid : ni gd ed deli è y villa mM ni collo i fiat 1a
CA di (ANI it pece iò egli si pone in contrasto con la
natura, «giacchè questa trasmuta continuamente le
proprie forme: dal vecchio essa crea eterna- mente il nuovo.
Ora, chi, conformemente %@. alla moderna scienza naturale, crede a
que- sta trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e,
ciò nonostante, non vuole trasmutare se esso , costui riconosce,
sì, la natura, ma A; nella sua propria vita si pone in
contradi- &l-zione con essa. Non si deve soltanto rice-
> noscere l'evoluzione, si seno ivato Non si limitino,
dunque, le facoltà della nostra vita ;, col tener conto
esclusivamente della nostra ‘ parentela con gli altri esseri. A chi
per edu- cazione mistica diviene un fido alunno della
natura, si schiude il senso per la superiore evoluzione.
A proposito di questi cenni sulla Mistica e sulla /riziazione
molti diranno: « Ma che ci giova questo discorrere di facoltà a noi
sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre- deremo ! ,.
Nessuno, però, può dare a un altro cosa che questi rifiuti. E il
più delle volte ciò che incontrano i nostri mistici è .
un brusco rifiuto. Al presente essi non pos- sono fare. molto .di
più che raccontare le loro cognizioni mistiche a quelli che
vo- gliono prestare ascolto. Ciò , naturalmente
n nt x IE RAIPAT cn potima tl — 29 C j Pa
ENTI OT le ero Art 1 er? che, I, , a . = ì” \ wr / a)
i e. e 7 pederntdt hern ci tCAns4- 1 È à a tutta
prima un volersela cavare col RE ce raccontare che cosa c'è in
America a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci! ,,. Ma pare, non
è realmente una scappatoja, perchè i processi dello spirito sono
diversi da. quelli fisici Molto tempo prima che l'uomo sia in grado
di fissare la verità im piena luce, egli ha la possibilità di
intrave- derla, e di accoglierla nel suo sentimento. E questo
sentimento stesso è una forza, che lo può condurre più avanti. E' questa
una fase per cui è necessario passare Chi segue con ricettivo
abbandono la narrazione del Mistico, già calca il sentiero che mena
alle verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende
completamente l’Iniziato: ma angie per vero rende anche il non iniZiato
ricettivo alle parole del Mistico. E questa sua ricet- tività è strumento
con. cui egli lavora a schiu- dere i propri organi mistici. Ciò che
prima-, mente occorre è che si abbia questo senso | della
possibilità di conoscenze superiori: al- | lorà not si passa più
incurantemente ac- canto alle persone che di queste conoscenze
superiori tengono parola. E' stato già detto che anche al
presente ci sono persone che si adoperano a rinno- vare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt
u pe ud) fasi cl fa ine piftae 1 Om?
eudere } fnmmale tri rautwews i E Qui vi
voglio intrattenere di due esempi di tal genere, cioè del libro “ //
Cristiane- simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di Annie
Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati » el geniale pensatore e
poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste opere gettano luce
sulla natura della così detta Iniziazione. Annie Besant, mostra come il
Cristianesimo debba venire compreso quale risultato di codesta
Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg- gia le figure dei massimi duci
spirituali della umanità, fondandosi sulla convinzione che le
grandi confessioni religiose e le grandi filosofie cosmologiche da quei
duci dispen- sate all'umanità, celano verità eferne, che si
possono cercare e re soltanto in quelle dottrine filosofiche e
religiose. Ambedue queste opere trovano la propria
giustificazione unicamente nel campo del Mi- sticismo. Esse traggono la
loro origine da quella corrente spirituale dei tempi nostri, che è
destinata ad elevare l'umanità da un incivilimento puramente esteriore
all'altezza (1) Traduzione Italiana di D. e O.
Calvari, Roma, 1904, (2) Traduzione Italiana edita da G.
Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti | RA fOdeth4,
nu pori? IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il
“pensiero scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa
corrente. La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo
spirito col.negarlo , e che | non si contr lle leogi naturali
col_cer- re Treo © x iii dpi uelle spirituali. Non si designeranno
iù i Mistici come oscurantisti , giacchè si saprà che soltanto pei loro
avversari il campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà
più l' Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda-
pla 2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
con- sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo
esteriore, bensì na osservanza di un determinato orientamento della..vita
si- È ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe
verità, le quali non con- templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A
cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\ itori v Bi n_simbolo ». In_s
sid | oe alla esistenza umana giacciono capacità,su- | CRA i GIONO
CA \periori, come il frutto giace.in grembo al fiore. E perciò
nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia UT E E I
ipa ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P
even ord LISI (NE presumere di dire che “ nel
suo mondo vi i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ». Il Se
un uonio ha tanta presunzione, assomi- i glia al verme che ritiene_come
orizzonte i | della esistenza il mondo dei suoi sensi. li —_
* Giardino di maturità » Chiamasi quel IR luogo, dove divengono palesi
gli arcani del mondo. Per accedere a tal luogo bisogna tI che
l’individuo stesso. tenda la sua volontà AU x al raggiungimento della
propria maturità. Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da
te È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli
| see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi
en- n trare per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino È di maturità
,. TAR Come molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse
numerose verità dalla pro- fonda vena del suo intuito ,
enunciandole non già in diffusi e circostanziati discorsi, bensì in
brevi e spesso enigmatici accenni. sr Uno di tali accenni è in questo
periodo: dg “ Nelle opere dell’ uomo, come in quelle n e della
Natura, sono le intenzioni, che meri- / tano specialmente la nostra
attenzione ,,. E' questo un aforisma che verrà com- preso in
tutta Ia sua profondità quando lo Î si applichi ai più importanti fenomeni
della vita spirituale umana. Giacchè, come pos= Î
sigg siamo acquistarci senso e comprensione
per le azioni di un singolo individuo soltanto quando ne veniamo a
conoscere le_inten- zioni, così ci accade anche per la storia del-
l'intiero genere umano. Ma che abisso in- tercede fra l' osservazione
degli atti che si svolgono palesemente alla luce del giorno, e il
riconoscimento delle intenzioni che giac- ciono nelle regioni occulte
dell'anima! Si può essere addirittura rudimentali quanto a intuito
e a intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere tuttavia capaci di
osser- varne le azioni; ma bisognerà avere almeno un po'
delle sue qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si vuole
penetrarne le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo !
agire rimane un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci manca la
chiave, Non accade diversamente con i grandi fatti della storia
spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti davanti agli
occhi dello storico; ma le intenzioni giacciono in profondità molto
recondite. In queste profondità deve pene- frare colui, che vuol
procurarsi la chiave per la comprensione. Orbene, l'iptenzione di
un’a- zione giacerà tanto più profondamente re- condita, quanto più
questa azione avrà im- portanza e quanto più ampia sarà la sua
8 n ce RR portata. L'intenzione di un
atto della vita quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma non può
essere così, naturalmente, di azioni, la cui portata abbraccia una serie di
secoli. Chi a ciò pon mente giunge a presentire che cosa siano i
Misteri: giacchè in cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei
grandi fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il mondo intero
nella loro portata. E coloro che conoscono queste intenzioni e
posseno con ciò conferire alle proprie azioni stesse \ quel peso
che le rende realmente efficaci per lunga serie di secoli, sono gli
/niziati. Solo chi nella storia del mondo scorge unicamente una
mèra successione di casi fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri
e degli Iniziati. In tal caso non c'è che da attendere che un uomo
siffatto si ponga un bel giorno a studiare con occhio amorevole i
fatti della storia. Allora un po’ per volta albeggerà al suo sguardo un
significato, un nesso, ed egli finirà per non più conside- rare
Tortuiti quei fatti storici, come non con- sidera automa un individuo che
veda muo- versi ed agire. Giungerà così nella sua in- vestigazione
là, donde gli Iniziati dirigono il progresso umano, secondo le
conoscenze the sono avvolte nell'ombra dei Misteri.
AA vila AATZzat fer, i 40 dad x x £ > it hu
v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri
parlano i testi religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono
condotti coloro, che non si fermano alla vita estrin- seca dei fondatori
delle varie religioni , nè alle vicende storiche del propagamento
delle loro dottrine; ma che, invece, cercano di elevarsi_alle
intenzioni di quei fondatori di | religioni. Non dovrebbe eccitare stupore
il fatto che queste intenzioni rimangano av- volte in arcana
oscurità e vengano comu- nicate soltanto a degli eletti entro le
scuole di sapienza, che sono appunto i Misteri; giacchè si fa opera
saggia solo quando a un individuo si comunica ciò che egli può
capire, o, con altre parole, quando gli si comunica qualcosa, soltanto
quando egli si sia messo in condizione di capirla. Per com- piere
azioni che abbiano peso e valore oc- |_——corre possedere un’alta
sapienza, e per ap- propriarsi un'alta sapienza bisogna passare per
un periodo lungo e arduo di prepara- zione. Così avviene nei
Misteri. L’ evoluzione spirituale dell'umanità pro- cede
innanzi per opera delle varie religioni e cosmologie. Chi coopera a questa
evolu- zione mette in movimento le forze spirituali degli uomini.
Bisogna che egli conosca le leggi da cui dipende questo movimento,
DE: pri come deve conoscere le leggi
della chimica chi vuol mescolare le sostanze con effettuale
risultato. Néi Misteri vengono insegnate le . leggi supreme della vita
spirituale; viene in- _ segnata la chimica dell'anima. E
bisogna cercare di penetrare nella natura di queste
leggi, se si vogliono sorprendere , o anche solo presentire, i
moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi Istruttori
della umanità. All'unisono con tutti coloro che
cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi-
rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/ Cristianesimo
esoterico, (0 I Misteri mino- ré) », di un “ lato occulto delle
religioni , (1). A lea Nell’analisi dei mistici arcani del
Cristiane- 1% simo, del così detto suo contenuto esoterico,
ne. essa luminosamente si addentra e trascina. d il lettore
nell'intimo della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a
questo pro- | Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven-
gono date al mondo da uomini più saggi delle masse etniche ,
alle quali le religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo
(1) Vedi pure «Il Cristianesimo come fattore mi-, —
stico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7 porad,
Firenze). Lolo scrullo du fevomeri sia Pe i Dul
th h Ha DI ire _ eSleeml J > Uibftsore » Sé
Lap de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.
Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino agli
individui e avere in- fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono
î tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione
potrebbe venire rappresentata come una scala ascendente di gradi, su
ognuno asLelo api dei quali si trovano
uomini. I massimamente evoluti stanno di un gran tratto più su dei
meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A rattere; ad ogni grado
varia la capacità di 4 .. comprendere egualmente che quella di agire.
} E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE _ segnamento
religioso; quel che gioverebbe all'uomo d'intelletto resterebbe
inintelligibil all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e in
estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì ferente il delinquente...2
LE La religione deve essere graduata con l’e- = voluzione,
altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB: Es. Chr. pag. 3-4): ;
Il modo, dunque, in cui il maestro di re- : ligione parla a uomini di grado
evolutivo i - . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1 .
del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per riuscirvi
bisogna che egli stesso | porti nell'anima propria il nocciolo della sa-
"i | pienza, per mezzo della quale egli ha da
START. agire; e il modo come egli porta in sè que- sto
nocciolo deve essere tale da renderlo capace di parlare ad ognuno secondo
la sua comprensione. Perciò chi studia i discorsi degli Istruttori
religiosi dal loro lato este- riore, conosce soltanto un lato e
precisa- mente quello più estrinseco della loro sa- pienza.
Acutamente accenna a questi fatti Edoardo Schuré nel suo libro sui “
Grandi Iniziati ,. Ivi egli descrive i grandi Maestri di sapienza:
Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo , Pitagora, Platone, Gesù, da
quello investigatore intuitivo, da quel nobile artista dei
pensiero, da quell'anima satura di pro- fondo sentimento religioso ch’
egli è. Così nell'introduzione al libro egli espone il suo. modo di
vedere : “ Tutte le grandi religioni hanno una sto- ria
esteriore ed una interiore; l'una visibile, l'altra nascosta. Per istoria
esteriore sono da intendersi i dogmi & i miti pubblicamente ©
insegnati nei fémpli e nelle” scuole, ricono- sciuti nei culti e nelle
superstizioni popolari. Per istoria interiore è da intendersi la
scienza profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire dei grandi
Iniziati, profeti o riformatori che hanno istituite, sorrette e propagate
le reli- gioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si
legge dovunque, si svolge alla vista di tutti, ma non per questo è
meno oscura, complicata, contradittoria. — La se- ‘conda, che io
chiamo la tradizione esote- |, rica, o dottrina dei misteri, è
difficilissima € Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa
infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle segrete confraternite,
e i suoi drammi più appassionanti hanno intieramente per iscena
l’anima dei grandi profeti, che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè
confidato ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute, o le
proprie estasi più paradisiache. Questa seconda storia vuole essere
indovinata, ma non appena si è scorta, apparisce luminosa,
organica, sempre in armonia con se stessa. Potrebbe essere anche chiamata
la storia della religione eterna e universale. In essa le cose mostrano
il loro rovescio e la co- scienza umana il suo diritto, mentre la
sto- ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD questa
seconda storia cogliamo il punto ge-N netico della religione e della
filosofia , che _ 3) si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse
9/8, per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T} unto è
costituito dalle verità trascendenti. N vi troviamo la causa, l'origine e
il fine del tene prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della RES
1; RARO provvidenza mediante i suoi agenti terre- stri.
,, Questi “ messaggeri terreni , lavorano nell'officina
Spiritualistica, nel laboratorio spi- ritualistico della umanità. Ciò che
li abilita a questo lavoro sono le leggi imperiture della chimica
spirituale ed i processi chimici spi- rituali che esse operano: vale a
dire i grandi prodotti intellettuali e morali della storia del
mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto simbolo, immagine
della sapienza superiore dimorante nella profondità delle loro
anime, immagini e simboli proporzio- nati all'intendimento di coloro, che
ad essi porgono orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle
condizioni, che garantiscono la comprensione e il “ reffo uso » della
sa- pienza superiore, questa può venire dischiusa. E allora. nella
Iniziazione mistica sentono l'immediato contatto coi primordiali
motivi spirituali, con le potenze genitrici della esi-
stenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com- penetrato
di siffatti sentimenti: Clemente Alessandrino, lo scrittore cristiano del
2° e 3° secolo della nostra èra , il quale prima del suo battesimo
fu un “ Misto ,, ossia A EE
un alunno dei Misteri, esalta questi con le seguenti parole :
“O veramente santi Misteri! O puris- sima luce! Una face viene
portata dinnanzi a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io sono
santificato, allorchè ricevo la consacra- zione. Gli arcani però .me li
rivela lo spi- rito primordiale e suggella in me l’Iniziato con l'illuminazione;
iniziato nella Fede mi presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser=
bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce- rimonie iniziatiche dei
miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze
spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa carola attorno all’
increato, all'imperituro, al tutt'uno spirito dei mondi, e la favella
che a te dal Cosmo viene inspirata intonerà gl'inni di lode a
questo Tutt'Uno ,.. . Si comprende la descrizione che fa
Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini- ziati devono
parlare di sè come lo fa Cle- mente Alessandrino con le parole
suriferite: “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA siani, i Misteri Orfici e quelli
Bacchici, e i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre- cia, i
Misteri di Samotracia, della Scizia, della Caldea, sono universalmente
noti, al- meno di nome, come le parole d'uso fami- liare. Persino
nella forma estremamente at- tenuata dei Misteri eleusini il loro
valore viene altamente magnificato dai più eminenti uomini della
Grecia, come Pindaro, Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E
nei Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento del sapere, alla
sola spiegazione di cose ignorate, ma alla elevazione di tutta la
na- tura umana, di modo ch’ essa si compene- tri di quella “sacra
disposizione iniziatica, che pone in grado di comprendere le fonti
e principi del Cosmo. Il mistico non solo conosce le cose superiori, ina
oltre a ciò la sua propria natura si fonde con esse. Egli deve
quindi essere preparato al fine di po- tere accogliere come si deve le
fonti di ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel no- stro
tempo, in cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò che è
scientifico in senso materiale, diviene difficile il credere che,
circa le cose supreme, quello, che im- (1) V. Esot.
Chr. pag. 21, a porta veramente
è una disposizione d° a- nimo. Per tal modo si fa della cognizione
un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è per il Mistico. Si dica a
qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del mondo: Il Mistico
troverà sempre che una siffatta esposizione è vuota risonanza, che sfiora
l'o- recchio e svanisce, se |’ anima non. è stata prima preparata
ed innalzata ad un livello superiore ; egli troverà che il sentimento
non ne resta affatto toccato, se non è staîc di- sposto a sentire
l'accoglimenio della sapienza come un “ Sacramento ,. Solo chi
intende ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’ alto della quale
discendono certe espressioni del Mistico, come quelle di Filone: «
Sovente, allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4% reità_e
rientro in me, distogliendomi dal mondo esteriore, e penetro dentro me
stesso, . scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono certo di essermi
internato nella parte mi- gliore di me; metto in attività la vita
vera, sono unito col divino e in lui fondato, e conseguo la forza
di trasferirmi nel mondo trascendentale. Quando, poi, da codesta
contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo riposo nell’ elemento
spirituale del mondo, discendo nuovamente alla consueta forma- 3011.
VEDE zione di pensieri, allora mi domando come potè avvenire
che l’ anima mia si impigliasse nel vivere quotidiano, posto che la sua
pa- tria è pur quella dove testè mi sono sof- fermato ! “ — Chi sa
quale grado di puri- ficazione del sentimento e della funzione
intellettiva sia necessario per arrivare a sen- tire così conosce anche
le ragioni per cui la sapienza mistica, la sapienza consacrata non
può essere oggetto della vita consueta quotidiana, nè dell’ insegnamento
ordinario, nè dei documenti della storia esteriore; e perchè essa
stia chiusa nell'anima dei di- vini messaggeri e debba costituire,
come dice E. Schurè, il riservato oggetto della iniziazione in
fratellanze appartate. Ma, quan- tunque questa immediata comprensione
della verità rimanga un fatto d’ insegnamento del tutto intimo,
pure tutti gli uomini parteci- pano dei benefici della sapienza. Come
i benefici delle ferrovie elettriche ricadono su tutta la popolazione,
pur restando monopolio degli elettrotecnici la conoscenza delle.
leggi Pe così avviene, quanto ai frutti, ella efficacia e della
sapienza dei Misteri, E come il beneficio delle cognizioni tecni-
che si traduce nelle istituzioni esteriori della civiltà. così
quello della sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel contenuto
spirituale della vita dell'umanità: cioè nei suoi miti, nei concetti
informatori delle sue credenze e delle sue religioni, nel suo mondo
di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì nelle sue idee di morale e
di diritto, e da ultimo anche nella sua attività artistica, nelle
sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico mostra «che la sapienza più
profonda della umanità è la radice di tutti questi vari con- tenuti
della vita, rendendosi ben conto che essi tutti possono trovare la loro
vera spie- gazione soltanto in quella sapienza. Clemente
Alessandrino parla del fatto che “ un uomo può avere la fede seriza
posse- dere eru Izione ,, ma al tempo stesso pro- clama essere
impossibile che un uomo senza sapienza comprenda gli oggetti che
vengono spiegati nella fede , (v. Besant, Esot. christ. pag.
84). Ogni Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che
tra i due non può esistere contraddizione j ma anche alla Mistica
egli può fare riconoscere valore unicamente sulla base della vera
scien- za. Anche di ciò parla Clemente: ... Alcuni che si
ritengono favoriti da na- tura, non desiderano di occuparsi nè di
fi- GE E Je ep 46
losofia, nè di logica; anzi essi non deside- rano di studiare e imparare
la scienza na- turale; essi_ richiedono nuda fede soltanto... Io,
pertanto, chiamo dotto veramente colui che tutto mette a contributo per
la verità, così che traendo dalla geometria e dalla mu- sica, dalla
grammatica o dalla filosofia stessa, ciò che è utile, difende la fede da
ogni as- salto..... Quanto è necessario per chi desidera
par- tecipare dei poteri di Dio il trattare filoso- ficamente
soggetti intellettuali !.... ... Lo gnostico (Mistico) si vale del
rami dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es.
Chr. Pag. 84). Chi ha colto questo profondo accordo della
Fede col Sapere si trova costretto a rile- vare sempre di nuovo una
caratteristica pe- culiarità della nostra civiltà moderna, la quale
ha invece scavato un abisso tra Fede e Scienza. E. Schurè
accenna a questo abisso fin dai periodi introduttivi del suo libro
: “Il peggior male del nostro tempo è il mostrarsi la Scienza
e la Religione come due forze nemiche e irreducibili. Infermità
intellettuale questa tanto più perniciosa in quanto che deriva dall'alto
e furtivamente LT s' infiltra, ma sicuramente,
in tutte le mem- bra, come un veleno sottile che si respiri nell’
aria. Orbene ogni infermità dell’ iritel- ligenza diviene a lungo andare
infermità dell'anima e in conseguenza un male so- ciale.
“« Fintanto che il Cristianesimo non fece che affermare
ingenuamente la fede cristiana in seno a una Europa ancor semibarbara,
come era nel medio evo, esso fu la più grande delle forze morali, e
ha plasmato l’anima dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza
sperimentale , apertamente ricostituitasi nel secolo 16°, non fece che
rivendicare i legit- timi diritti della ragione e l’ illimitata sua
libertà, essa fu la più grande tra le forze intellettuali; essa ha
cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari catene, e fornito
la mente umana di fondamenta in- crollabili ,,. Non meno
energicamente Annie Besant accenna a questa peculiarità della
civiltà spirituale moderna : “ ... Per ognuno che studi
l’ultimo imme- diato quarantennio del secolo passato è chiaro che
persone meditative e morali sono in gran numero esulate dalle chiesé perchè
gl’ inse- gnamenti che vi ricevevano urtavano, offen-
RIN. PSE devano la loro intelligenza e il loro
senso morale. E' vano pretendere che l’agnosticismo
così ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra- : dice solo
nella mancanza di moralità o in È; una deliberata involuzione della
mente. Chiun- A que attentamente studi gli esposti fenomeni,
ammetterà che uomini di forte intelletto sono stati allontanati dal seno
del Cristianesimo per via della rude goffaggine delle idee re-
ligiose loro presentate, delle contradizioni negli insegnamenti delle
varie autorità, nelle vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee n
che nessun intelletto colto e metodicamente ; disciplinato potrebbe di
leggeri accettare ». a (A. B. Cris, esot. pag. 32-38). Alla
domanda: “ Che cosa è da farsi in questa direzione ? , Annie Besant
risponde inspirandosi alla veduta che anche la radice del
Cristianesimo giace in una sapienza oc- culta e che la Fede deve, quindi,
per sus- I sistere risospingersi a questa radice: “ Se il
Cristianesimo vuol continuare a vi- i co vere, deve ricuperare il
sapere che ha e ria- d | vere la propria Mise € l propri insegna-
sd cculti; deve di nuovo erigersi come. ‘un istruttore autorevole di
verità spirituali, ma rivestito della sola autorità meritevole ..
x * ' Me, ù Mes di
essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè, della conoscenza. Se
questi insegna- menti ‘verranno recuperati, la loro influenza sarà
subito constatabile nelle più ampie e più profonde vedute che si avranno
circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno
riconosciuti subito quali parziali presentimenti di realtà fonda-
mentali. In primo luogo il Cristianesimo esoterico riapparirà nel /uogo
santo, nel Tem- pio, così che tutti i capaci di riceverlo pos- sano
seguirne le linee di pensiero palese, e secondariamente il Cristianesimo
occulto ri- discenderà nell'adito celato dietro la Cortina che
custodisce il « Sancta Sanctorum , in cui può entrare l’ iniziato
soltanto. (A. B. Es. Chris. Pag. 40-41). Mediante il senso
della vista l'uomo per- cepisce la natura con cento e cento sfumature di
luce è di colore. Sono i raggi della luce solare che, riverberati dagli
oggetti, ne determinano gli aspetti cromatici variamente sfumati.
Sebbene per tal fatto la percezione della luce solare sia una funzione
abituale dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la
fonte stessa de a luce: Sole; esso viene accecato dal contatto im-
mediato , diretto, dei raggi solari. Ciò che ‘ 0° néi
suoi effetti è adeguato al compito quo- tidiano dell'occhio, dà occasione
a una sof- ferenza, quando, come causa in sè, colpisce l'organo
sensorio. Chi sa applicare nel giu- sto modo questa immagine alla vita
spiri- tuale dell'uomo, comprende perchè “ coloro che sanno »
parlano di “ pericoli » della Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli
esi- stono innegabilmente; se non che, chi ne parla non va preso
alla lettera, interpretando la parola « pericoli ,, nel senso usuale.
La intelligenza e la ragione umana sono tanto poco assuefatte a
riconoscere le fonti del vero nel complesso totale del mondo,
quanto poco è capace l'occhio di fissare direttamente il Sole. Come
l'occhio sente a sè rispon- denti gli effetti delia luce, così
intelletto. e ragione sentono a sè rispondenti gli effetti della
sapienza eterna nei fenomeni della na- tura e nel decorso della storia
degli uomini. Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla
sorgente stessa della luce, così l'intelligenza umana” vigne meno dinanzi alle
fonti pri- mordiali della sapienza. Questo umano inten- dimento nel
subito arretra, rinuncia. Or bi- sogna assimilare nel debito modo ciò
che allora succede nell’ uomo , al fatto dell’ ab- bacinamento
chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer:
Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura e nell'attività
dello spirito soltanto il riflesso della Verità, e non questa imme-
diatamente , egli viene meno di fronte alla verità stessa, quando questa
gli si presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che
quotidianamente I prnia, l'uomo sente le manifestazioni della sapienza
supe- riore come illusioni, come costruzioni di una fantasiosità
irreale: esse non gli possono dire nulla, sono per lui come forme aeree
che svaniscono quando egli le vuole afferrare, così come è solito
afferrare gli oggetti della realtà consueta. Questa lo avvince a sè
con mille lacci; ciò che essa gli può promettere egli lo conosce,
lo ha imparato ad apprez- zare in mille modi. Chi qui vede giusta-
mente, comprende che cosa intendano dire le leggende religiose quando
parlano del Tentatore, che promette tutte le magnifi- cenze di
guesto mondo a coloro, i quali vo- gliono intraprendere il sentiero della
illumi- nazione superiore. Se noh è risvegliata in. loro la forza
di resistere a cotesto Tenta- tore, essi cadono inesorabilmente in sua
ba- lia. Con ciò si accenna a quel che s'intende per “ pericoli
della soglia ,, che occorre varcare, se si vuole calcare il “ sentiero
, della sapienza. Niuno può giungere a que- sto
sentiero se non intende valersi dell’ oc- chio spirituale,
dell'intelletto e della ragione, diversamente da come vengono
adoperati) nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla
soglia come un trasmutato, come "°° uno, il cni°occhio spirituale è
stato raffor- zato; ed è singolarmente difficile nell’ età nostra
attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè appunto
dalla nostra scienza esso viene rivolto o a.ciò che è concreto li
tangibile. Per compiere le sue conquiste nel campo delle forze naturali
esteriori que- , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco alle
potenze spirituali dell’esistenza. Non si fraintenda tutto ciò,
prendendolo per un rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l
canismo di un orologio non ha certo biso» i} gno di risalire con
l'indagine fino ai pen-/! ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ;
egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla
[RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo stesso
meccanismo. a nessuno può com- preridere come le forze e le cose
che coo- perano nell’ orologio siano state originaria-
mente combinate, se non va in traccia dello | spirito che le
ha combinate e non indaga le ragioni per cui esse sono state così
com- f frze Tmnon © SEXI ma ) fe | fa
meda; meo N el Mm NK ke -- bt re e —————€ o’ uc gi Riti fet
rextore9 Lo fel #0 A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a
È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il
naturalista può comprendere giu- stamente la Natura solo se in lei stessa
ri- le cerca anzitutto le forze con cui essa opera. "° Se
afferma che queste si sono combinate | ® cudl da sè, assomiglia a colui
che non si perita Y0Me flat di pensare che un orologio si sia
conge- gnato da sè. S izione-è non il A | lo spirito Ge Le
cose, bensì il trasferirlo alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso
è, non colui che cerca l'inventore dell’ orolo- gio, ma colui
che nell’orologio stesso im- magina ‘uno spirito , il quale manda avanti
Î le lancette. Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono
coloro che vanno in traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si
può metterli in un fascio con quelli che a buon diritto sono
accusati di superstizione e che cen altrettanto buon diritto vengono
oggi riguardati come turbapace, perchè compro- mettono i “ benefizi
, che la nostra coltura scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio
_ velato da. preconcetti saprà a chi si vuol alludere nelle due
categorie citate). Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d accesso
alla visione superiore, se vuole riu i " scire ad avanzare, deve
essere provvisto della 2 sN forza che mena ad avvertire il Reale là
dov@mnn l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x
i T] x > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti
Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in — 54 — x gono
soltanto fantasticaggine ed illusione. . Giacchè il perenne e l'eterno
sono appunto, là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi* torio
e temporaneo altro non appare che fantasticaggine ed illusione. Nessun
utile, dunque, risentirà un uomo che venga con- dotto dinnanzi alla
sorgente della eterna sa- pienza colgalo corredo.della.sua
intelligenza rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado d
Iniziazione non consiste nell'impartire un nuovo sapere intellettuale, ma
nella com- pleta trasmutazione delle forze conoscitive dell’uomo.
Con fine intuito pertanto, Edoardo Scuré descrive nei suoi “ Grandi Iniziati
, il cammino di chi tende al “ Sapere , me- diante i Misteri:
ALE « L’ iniziazione era a leaneno r, le di futfo l'essere umano
_ad ascen- lere le vette vertiginose dello spirito , dal- l'alto
delle quali si può dominare la vita..... , E più innanzi egli
dice: “«“ Per giungere a questa padronanza l’uomo ha bisogno
di una totale rifusione del pro- prio essere fisico, morale e
intellettuale. Or- bene, questa rifusione non è possibile se non
mediante |’ esercizio simultaneo della volontà, dell’intuito e del
raziocinio. Mercè il loro completo accordo l’ uomo può svi-
} ;) I Fapiecinia TX. iNalonta
Ponso ; I he sli luppare le proprie facoltà
fino a limiti in- definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' ini-
ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro- fondo e un'applicazione
costante l’uomo può _ mettersi in rapporto cosciente con le forze
occulte dell'universo. Con uno sforzo por- entoso egli puo raggiungere la
percezione spirituale diretta, schiudersi i sentieri che portano.
all’olt a, al superfisico, e di- venire capace di regolarvisi. oltanto
allora può dire di aver vinto il destino e di es- Sersi conquistato
fin da quaggiù la propria tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato
può vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a dire veggente
e formatore di anime. Infatti soltanto colui, che comanda a se
stesso può comandare agli altri, e soltanto chi è libero può
liberare ». (Opera cit.). La missione dei Misteri va
intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro primo grado.
‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della produzione di nuove
forze | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,
ivenire un altro, prima di venir condotto al Sole spirituale, alla
sorgente della sa- pienza. Colui, le cui forze non sono temprate
al- / dl16g — lorchè pone il piede
sulla “ Soglia ,,, non sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali,
(}. che quivi gli si fanno incontro. In luogo di — entrare in
rapporto con_un mondo supe- riore egli ricade nel mondo inferiore. À que-
sto pericolo trovasi esposto chi va in cerca delle sorgenti della
sapienza. Se egli soc- combe, allora ha temporaneamente ucciso in
sè l'eterno germe. Questo era per l'in- nanzi dormente in lui, ma, pur
così dor- mente, era tuttavia ciò che nobilitava la passeggera,
inferiore natura e la trasfigura- va. Ingenuo ed inconsapevole , l'
individuo viveva con questo rudimento di spiritualità superiore.
Dal mal riuscito tentativo, di.ini- ziazione quel latente rudimento JÉne.
di- strutto. All'individuo non resta che l'istinto di vivere
nel transitorio, di yivere «Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il
fatto di. avere sentito come_illusorio il “ divino spi- rituale , ,
egli divinizza il « sensibile_mate- riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia
,, può andare perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro,
la sua parte immortale. Que- sto è il pericolo analogo all’
accecamento dell'occhio nella similitudine su riferita. E' ovvio
che coloro, cui nei misteri in- combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per
pro- . Wei | Rito fonda
consapevolezza della propria respon- sabilità, estremamente esigenti
verso i disce- poli, giacchè tali esigenze dovevano servire a
temprare nel senso indicato le loro forze spirituali. E. Schuré descrive
la scala gra- duale della Iniziazion ‘a_praticata I riella
scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.) e-la sua descrizione è tutta
improntata di geniale senso d’arte e di mistica profondità. Mi
appoggerò appunto ad essa per parlare di quei gradi iniziatici.
Erano ammessi all’Iniziazione soltanto co- loro che offrivano
sicurezza di riuscita per la costituzione appropriata della loro
natura intellettuale, morale e spirituale. Per costoro cominciava
allora il periodo della « Prepa- razione ,. Per molti anni essi
diventavano itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno sf crede
autorizzato a giudicare e criticare mon appena abbia appreso qualche
cosa, 0, torse anche più sovente, quando non ha an- cora imparato
nulla, non è punto facile ren- dere simpatica l’idea" quel lungo
udito- rato. All'uditore era imposto il più assoluto silenzio,
inteso non nel senso esteriore di ‘ astinenza da ogni parola, bensì
nel senso di | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva Accogliere
del tutto spregiudicatamente l’istru- due crilica
PESTO, gp zione, senza turbare questa
spregiudicatezza con una prematura analisi critica. Il saggio
sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un certo tempo non_.era loro
Jlecito..criticare, giacchè il sapere che ricevevano era appunto
ciò che occorreva per renderli maturi all critica. Come è possibile che
impari vera- [mente chi vuole immediatamente criticare \{ quel che
apprende? Con questo metodo di ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno
reso maggio a una massima, che sola può fare ascendere i gradini
della conoscenza. Chi ha percorso la via della conoscenza lo sa.
Egli non può che sentire pietà per coloro, che si creano intoppi su tale
strada coi loro giudizi prematuri e con le loro critiche. Il nostro
tempo è tutto pieno di questo_im- maturo spirito di critica: basta
osservare in- torno a noi ciò che i nostri oratori dicono e ciò che
i nostri scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo un pò di
spirito pitagorico, resterebbero. inespressi più dei nove decimi di
quanto vien detto e altret- tanto rimarrebbe non stampato di quanto
vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è
ap- piccicato in testa un paio d'idee, si crede autorizzato a
sputar sentenze e giudizi sui sel RARI TESE, soggetti
più essenziali. Invece un tale di- ritto spetta soltanto a chi abbia
imparato a contenere per anni il suo giudizio e a por- gere ascolto
spregiudicat ea quanto i savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate
tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace norma dell'anima di chi non è
maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale pro- prio nulla,
nulla affatto di fronte alla Ve- rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto
esa- minare dalla verità stessa. Invece di dire: “ Io esamino tutto
e voglio tenermi il meglio » , molti dovrebbero dire : “ Io voglio fare
esaminare me stesso dalla Verità, e quando io sia sufficientemente buono
per essa, allora ch' essa mi prenda! , Chi non si è esercitato per
anni ad adattare, a inal- veare la propria vita in questo illimitato
ab- bandono al giudizio delle sagge guide della umanità, non
arriverà mai a formulare giu- dizi che siano più che fumo e vacua riso-
nanza. Pa Una norma siffatta è certamente invisa in questo
nostro tempo “ illuminato ,, in cui dominano la pubblica criticaglia, e
lo spi- rito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici si
attenevano appunto a cotesta norma. Rag- giunta la voluta maturità, l'
uditore vedeva | 4 iena: acli Neg
giunto per lui il “ giorno d'oro ,,, col quale cominciavano le
rivelazioni sull'essenza della natura e dello spirito umano. A poco a
poco i gli si faceva comprendere la “ zomìa », le 4 B:, ” leggi
della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia afferrare questa
romia col non raffinato intelletto ordinario non ne com- prende
nulla. Il Goethe una volta accennò a questo. Allorchè nel suo viaggio per
l'I- talia e per la Sicilia si era dato con tutta lena allo studio
delle piante, e si era for- mato quelle sue vedute tanto citate ma
tanto poco comprese sulla_“ pianta archetipa , scriveva in.
Germania che avrebbe voluto fare un viaggio in India, non per
scoprire qualche cosa di nuovo, bensi per guardare a_Suo..modo_.il
già scoperto» Quel che im- porta, appunto, non è il conoscere le
leggi messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi bensi il
penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’ intima essenza della vita
vegetale. Si fica essere un erudito professore di botanica e non capir
nulla di questa vita vege- tale. | nostri scienziati hauno veramente
delle strane idee a questo proposito. Essi o cre- dono che, in
genere, non si possa penetrare nell'intimo della natura, o affermano che
la nosira indagine non è ancora fanto avan- Db zata.
Essi non sospettano che con questa indagine mediante i sensi e
l'intelletto pos- sono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico le
nostre cognizioni, ma che per investigare (| « interno ,, è, invece,
necessaria una ma- niera di pensare tutta diversa da quella che
essi mettono in pratica. Non vogliono sa- perne dell’ “ inventore
dell'orologio ,,, men- | tre studiano l'orologio alla stregua dei
prin- cipi della fisica. Poichè non possono tro- vare nell'orologio
nessuno “ spiritello ,, che spinge avanti le lancette, o negano lo
spi- rito, che ha congegnato le ruote, o asseri- scono che esso è
inaccessibile all’umana co- noscenza, 0 del tutto o “ fino ad oggi
,. Chi parla dello spirito della Natura viene accusato di
sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è colpa sua se gli accusatori non
sen- tono in ciò altro che parole! I discepoli pi- tagorici, al
secondo grado della loro istru- zione, venivano introdotti nelloSpirito
della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo grado,
potevano venir condotti alla “« grande Ini- ziazione ». A questo punto
erano maturi per accogliere in sè i “ Segreti della esistenza »; il
loro occhio spirituale era ormai sufficien- | temente vigoroso;
oramai non apprendevano 19 6a — i
| più a conoscere soltanto lo spirito delia na- i tura, ma anche le
intenzioni di questo spi- i rito. Da questo punto in poi non sì può
più i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma soltanto per
via d'immagini, giacchè il no- (a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto
| e non ha parola adatta alla conoscenza su- È periore, di cui qui ci
occupiamo. In questo È senso va inteso pure quanto segue.
Prima di ogni altra cosa l'individuo ap- prendeva a spingere lo
sguardo oltre la pro- pria esistenza personale. Da ciò traeva l' e-
sperienza che quella sua vita era la ripeti- iS . zione di vite anteriori
a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva convincere che quel i
che è lecito chiamare “ anima , nel giusto senso della parola, si
rincarna ripetutamente, e che le capacità, le vicende e le azioni
della Me sua vita presente erano da interpretarsi come effetti di
cause reperibili in quelle sue vite antecedenti. Egli si rendeva anche
conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita presente dovevano
produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire. i ; Su ciò bastino
qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione di parlare in altro
luogo esaurientemente delle grandi leggi della “ Rincorporazione
, e della “ Legge cos- — ve
= Bb: — mica », ovvero, in altre parole, della “ Rin-
carnazione , e del “ Karma ,, (1). Queste verità potevano divenir
convin- zioni per il discepolo dei Misteri, come è verità per
l'uomo comune che 2 x 2-4; per- chè al terzo grado il discepolo era a
ciò maturo. Ma anche a questo grado si può avere un giudizio
completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente perchè si è
ormai acquistata la capacità di compren- derne giustamente il significato.
Anche oggi, come in ogni tempo, molto si criticano tali concetti ;,
ma ciò che viene criticato in realtà sono soltanto le arbitrarie ,
concezioni dei critici stessi, che non hanno alcuna importanza. Del
resto, però, si deve anche pienamente convenire che pure molti
seguaci della idea della rincarnazione non hanno di essa concetti
migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi
difendono queste dottrine, le comprendono veramente. Anche tra questi
difensori ce ne sono molti che sono troppo scansafatiche 0
troppo.... « consci di sè » per apprendere in silenzio prima di far da
insegnanti. 0° (1) Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori
Teo- sofia — Scienza occulta — e i minori Azione del Kar-
ma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. LL NEI Ora, se
non forse presso i Pitagorici, c'era, però, in altri Misteri, dopo la
grande « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della vera “
Iniziazione mistica ,,. In essa non soltanto l'osservare e il pensare, ma
tutto il vivere conscio veniva esteso oltre l'immediata per- sonalità
dello individuo. Per essa il discepolo non diveniva soltanto un sapiente,
soltanto un veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza delle
cose, ma la viveva con esse. Molto arduo è dare una idea di ciò, di cui
qui si tratta. Il veggente non ha soltanto la sen- sazione degli
oggetti, bensì sente regoli og- getti stessi, trasferendosi nel loro
interno; egli non pensa circa la natura, bensì esce di se medesimo
e s'interna, pensando, re//a natura. (E' questo un procedimento noto
al Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi dei sensi astrali »)
(1). L'uomo intellettuale non bada ai veggenti: essi debbono esser
per lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece, ha senso per le
loro doti, li ascolta con pio rispetto, giacchè sente parlare in loro non
più una persona umana, bensì la stessa Saggezza vivente. Essi hanno
fatto olocausto delle (1) Cfr. dello stesso autore: « Come si
acquista co- noscenza dei mondi trascendentali v. EA
proprie inclinazioni, simpatie, opinioni per- sonali per poter prestare
la propria bocca all’eterno Verbo, “« mediante il quale fu- rono
fatte tutte le cose ,. Giacchè dove parla ancora l'opinione umana, dove
cam- _ peggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi tace la sapienza
eterna. E quando questa giunge all'orecchio di coloro che non
‘hanno ancora sentimento per essa, appare loro soltanto come personale
parola umana, per quanto in essa possa chiudersi una forza divina.
Ma dai veggenti stessi, gli uomini ‘potrebbero imparare ad “ ascoltare »,
giac- chè il veggente fa tacere la sua umana per- sonalità quando a
lui parla la voce della Ve- rità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi,
le sue inclinazioni gli stanno dinanzi altret- tanto insignificanti
quanto il tavolino che ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel- |
l'ascoltazione interiore. . Solo il veggente ascenderà al grado
suc- cessivo, che gli antichi chiamavano del " Teurgo » e che
nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui si
opera una “ completa riversione , delle facoltà umane. Forze che, di
solito, afflui- scono nell'individuo da/ di fuori, ora si ef-
fondono da /uîi. In certi campi, nei quali 5 RS a l’uomo è
soltanto un servitore, diviene un dominatore colui, le cui facoltà sono “
tra- smutate ,. E poichè solo il veggente è in grado di giudicare
la portata e la maniera “a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne
verrà Ti in possesso senza aver raggiunta la purità _ del
veggente, ne farà mal uso. E questa do « sapienza senza purità ,, è possibile
a causa w di un cencatenamento di circostanze, di cui <a qui non
è il caso di tener discorso. Sulla Ini- ziazione superiore, a proposito
dei Pitago- rici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo :
1 i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toc- +. cato la cima della
iniziazione antica. Da dr questa vetta la terra apparisce come im-
cf ersa nell'ombra, come un astro morente. \\*® Di lì si schiudono
le prospettive sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso
complesso | Le * Scegatao ii a n 1 la vista dall'alto, l'epifaria
dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era
l’assorbire VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.
È le regioni incommensurabili del Cosmo, li UH aveva tuffati negli
abissi dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti
migliori, più forti e meglio temprati pei cimenti della vita.
I, Il Maestro aveva condotto i discepoli per iniziati
dovevano ritornare sulla terra da quei î =Sf ia Alla
iniziazione della intelligenza doveva seguire quella della volontà,
ed era di tutte - la più ardua, giacchè ora per il discepolo
si trattava di far discendere la verità nelle pro- fonde latebre
dell’ esser suo , e di porla in azione nella pratica della vita.
Per raggiungere questo scopo ideale oc- correva secondo Pitagora
riunire tre perfe- zioni: avere realmente la verità
nell’intelletto, la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.
Un'igiene sapiente, una regolata continenza dovevano serbare al corpo là
purezza che si richiedeva non come scopo, ma come mezzo, |
Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e quasi un imbratto nel corpo
astrale, vivente | organismo dell’ anima, e per conseguenza anche
nello spirito... A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se
possiede bastante energia, entra in possesso di facoltà e di poteri
novelli. Si schiudono i sensi in- terni animici, e la volontà si riversa
radiosa negli altri sensi.... (vedi E. Schuré op. cit. Cap. 8).
Di tutto ciò che l'uomo compie prima di raggiungere questo grado,
le cause sono da ricercare in regioni a lui completamente sco-
nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece, | spazia in coteste regioni, e
“ in perfetta & =.
8-2 consapevolezza , egli irradia da sè quanto nell'uomo
dorme di solito “ inconsciamente , nelle più profonde latebre dell'anima,
Egli trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo
aveva diretto in- visibilmente da “ tergo ». Col sussidio di
siffatti pensieri si dovreb- bero leggere periodi come il seguente,
tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il Mundakopanishad: “ Quando il
veggente vede l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui
grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che ha gettato via merito e
demerito, raggiunge immacolato l'unione suprema ». Alle vette,
dunque, che vengono così con-. quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e
la mistica fede nella fulgida forza di codeste vette gli conferisce
la capacità di trapassare. alcuni dei nebulosi veli che nascondono
la. vera natura delle grandi Guide dell'Umani tà. Ciò lo rende
capace di descriverli, questi “ Grandi Iniziati ,: Rama, Krishna, Ermete, Mosè,
Orfeo, Pitagora, Platone e Gesù. A grado a grado da coteste Guide
sono state irraggiate nell'umanità le forze a_ seconda della maturità
raggiunta dal genere umano nelle diverse epoche. Rama condusse alla
porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle
mani di al- «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora additarono l'interno, e
Gesù, il Cristo, presentò il “Sancta Sanctorum ,, l'intimo sacro.
penetrale. Sarebbe sciupare tutto il singolare incanto del libro dello
Schuré il volerne rac- contare il contenuto, nel quale, così com'è
ognuno dovrebbe profondarsi da sè. Ed, Schurè accenna al fatto che pel
tra- mite del Fondatore del Cristianesimo le forze della sapienza
dei Misteri sono state riversate nelle vene spirituali dell’
umanità in forma tale, che le orecchie dell’ umanità hanno potuto
udirla. E anche in questo ter- reno la verità deve essere cercata pei
sen- tieri che E. Schurè ci presenta. La forza . che s'
irradia dalla personalità di Gesù, è forza vivente nei cuori di tutti
coloro, che la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere la vivente
Parola che in questa forza agi- | sce, può solo colui che se ne procaccia
la chiave, mercè la comprensione della sa- pienza dei Misteri. E a
ciò fornisce, per — quanto è possibile, il fondamento A. Besant |
col suo “cristianesimo esoterico ,. E' questo un libro, per mezzo del quale
l'occulto | significato delle parole bibliche si svela al lettore
che tutto vi si abbandona, Sg VI Siffatti libri-chiave sono
necessari ai no. stri giorni. L'umanità era in condizione del F
tutto diversa dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, “l'annunzio gioioso.”Oggidì
l’in- telletto ha ben altro allenamento che non ne avesse 19 secoli
fa. Oggi l’ uomo ‘può trasmutare in vita propria la forza vivente
della “ Parola palese » soltanto se riesce ad afferrare cotesta forza
mediante la propria facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta $
vero eternamente, anche se il modo come i l'uomo deve afferrarlo si
cambia nel corso i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio-
7555 }cinio facciano valere i propri diritti è una necessità ; chi
conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà
oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è stato dato ad altre forze
dell'anima. Da que sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe
scaturire l'attività del vero teosofo , e così vuole essere interpretato
il “« Cristianesimo esoterico , di Besant. Il teosofo sa che nel
Cristianesimo c'è la Verità, e sa al- tresì che Gesù, nel quale s'incarnò
il Cri- ‘sto, non è un “ Duce di morti , bensi un “ Duce di vivi ,.
Il teosofo intende la grande parola del Maestro: “ Io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £
@ÈS te, non a quella dei ragguagli storici, si ri- volge
anzitutto chi, come A. Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che
la “ Pa- rola vivente , ancora * oggi ,, annunzia al- l'orecchio
che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta la sua luce sul
racconto evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della Parola è
rimasto qui fino ad oggi e può dirci come dobbiamo intendere la lettera
dei ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi di- scorsi.
“Le buone novelle » debbono essere intese “ esotericamente cioè,
bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che
imprime su di esse il sigillo di . Gò che è “ Santo ,,. E poichè
l'intelletto e il razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà
d’oggi, bisogna ch’essi vengano libe- rati dai lacci dell’ intendimento
puramente sensistico , della comprensione meramente “ positiva ,
della realtà. L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel
mare che lo riempie di vera religiosità , giacchè non è esatto che
l’assennato intelletto non valga che a distruggere le “ illusioni ,
di cui il sentimento religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo
dell'intelletto abbagliato e inceppato dai successi riportati nella
nozione ALI: 000 e nel dominio delle forze puramente
mate- riali della natura. Gli uomini del presente e con essi i
nostri fisici, i nostri biologi e i nostri storici, si credono Ziberi nel
loro mondo intellettuale unicamente edificato sul fatto positivo.
In Verità essi vivono sotto l’azione di una Suggestione dominante
su tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre- ste diventare voi
fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri
concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del mondo, di sforia umana
e di evoluzione della civiltà, non sono altro che « sugge- \stioni
collettive ,. Un giorno vi cadrà la benda dagli.occhi, e allora soltanto
speri- meénterete fino a qual punto è verità e non . errore quel
che voi pensate dell'elettricità e della luce, della evoluzione animale
ed umana; giacchè, notate bene, anche i teosofi riguar- dano le
vostre asserzioni non come errori, ma come verità. Infatti anche la
vostra in- terpretazione della natura è per loro una “ professione
di fede », e quando essi di- cono “ di volere cercare il nucleò della
ve- rità in tutte le religioni ,, fanno ciò non solo riguardo a
Buddha, Mosè e Cristo, ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed
Hickel, ay ( (A E opere come queile
citate di Schuré e di Besant sono destinate a togliervi la
benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle “ vostre
suggestioni ». Conseguentemente, in libri siffatti quel che importa
non è tanto il loro contenuto let- terale, quanto le occulte forze che
mossero la penna dei loro autori e che si trasfon- dono nelle vene
dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi da un nuovo “
senso della verità ». 1 lettori che subiscono il giu- sto effetto
di tali libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di tipo ,
diremo così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il naso, come
alla asserzione di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,
invece, qualche cosa di più che una va- cua frase, potrà anche
comprendere, come — libri siffatti gli vengano presentati non già
per allettarlo a fare una delle solite letture, ma con l’altra ben
diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati
scritti, debbono suscitare in lui forze dor- menti, anche se a tutta
prima coteste forze possano essere soltanto quelle dell'arimia in-
tellettiva. Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera Iniziazione,
che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori
, evitando di passare per l' intel- letto, mon capisce nulla dei “ segni
dei | tempi , e non può far altro che porre sug- sa gestioni nuove
al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the
Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure –
we were into initiation!” Giovanni
Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione,
iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia,
il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione
di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione,
iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colazza” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colecchi: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo).
Filosofo italiano. Grice: “What I love
about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent
Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte
dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna
alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in
Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a
Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi
italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata
di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini
e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi,
un assertore del criticismo kantiano in Italia.
Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi
colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge
morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla
intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o
l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità
formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in
raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica
e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una
logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un
rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di
filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza
del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia,
Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi
al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F.
Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni
biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel
Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e
nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed educatori,
Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio
Colecchi, in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi,
in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio
Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica
napoletana dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia
italiana, III, Torino; F. Tessitore,
Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore,
Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi vichiani; Io e
Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla
tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori gioi dell’antica lingua del
Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico que ste divine idee; aveva
lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia,
spezialmente nella “Scienza Nuova”, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve
allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se
non che l’uomo di Vico rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato Enea.
Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo
per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la
ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera
mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto.
Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispose Vico a crear il
“diritto universale” della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma
preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito
l'immagine di Roma, si risolse in fine di stabilire Roma come modello di
civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel Blasone, e
pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere,e la romana giurisprudenza
diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir
di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole,
tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del
vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che
metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano
prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla
città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in
Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante
critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due
simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del
filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via
di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente
che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per
isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un
sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione,
per la potente sintesi di Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di
Koesingberga, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato
il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo
corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non
sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del
Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore
ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità ha parlato pur anche
dell'origine e del progresso della civiltà de'popolo romano. Imperocchè se
Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla
formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la
corona dell'organizzazione. Vico, seguace di Platone e non d’Aristotele, con
maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla.
E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di Vico
sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo
linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato
potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di
Vico, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel
Vico spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro
assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno
alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la
*forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi
il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio
governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi
migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La
massima di Vico pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm
viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei
lettori, se da Vico stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico
principio e fine del diritto è per Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero
l’umana ragione (la vernunft di Kant), la quale è virtù in quanto combatte con
la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità
non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza,
onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche
nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la
diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è
figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa
caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li
trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli
del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso
Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona
occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa
utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana
debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse
gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra
loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma
per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che
interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un
figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli
Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici,
tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice.
L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica --
misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia
*distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi
delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia
della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale
si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --
ed ba luogo in ogni società eguale. Nè osta punto (come crede Grozio, il
quale dital L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione
della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto;
e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante
che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come
piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero
per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu
l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla
vita sociale. qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la
rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi
giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal Vico da vero
suo priocipio, e sfuggita al positivista Carmignani, il quale fa della morale e
del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra
loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza,
la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con
ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle
cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la
incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il
diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici
appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono
cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto
era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi,
per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii
delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col Vico all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle
utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne,
inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono
due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è
l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della
legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua.
equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa
vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere
con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono;
il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da
Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al
diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale
divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï
delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e
patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col
Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè
dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si
ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza
frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e
poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural
pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore
disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore
al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali
cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta
il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero.
Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto
delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta
amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo
gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde
Vico, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e
unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì,
un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo
contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande,
il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso
il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi
nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in
ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico,
in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da
altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la
familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si
facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio
chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la
stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la
loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto
spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio,
dalla libertà nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli
ottimati, la regia, e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la
tutela dell’ordine, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano
gli auspicii, il campo, la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso
legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel
sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien
celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per
l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di
essi comanda un solo,o come vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica,
e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun
politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari
che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati,
benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse;
tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà,
il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e
costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto
è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine
delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine,
ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo Diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da Gaio diritto comune a tull ipopoli, altro non è ch e il diritto naturale, il
quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della
legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la
leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la
deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto
non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si
eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più
secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del
certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli
Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le
leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva
Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con
verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge
morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da
nolarsi diligentemente che Vico distingue il diritto io diritto vero, e diritto
certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo
libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente
che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto
che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità
che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze
de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i
quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo
essii più sapienti, i più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i
scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran
pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e
tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina
di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di
collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la
volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè
egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il
legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo
non era ancora. La libertà del diritto,
dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non
può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente
con la morale.
All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of
their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect
with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM
THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of
Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17
adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where Aeneas was kindly
received by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage.
Italy was then, as it is now, divided into a number of small states,
independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions
among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who
opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war
ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In
consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm,
in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son,
succeeds to the kingdom, and to him Silvius, a
second son,
^lom be had by lAvioia. It would be tedious
and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It
will be sufficient to say, that the
sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years
in the family, and that Numitor, the
fifteenth from Aeneas, is the last king
of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi
of the kingdom in consequence of his father's
will, had a brpther named Amnlius,
to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As
riches but too generally prev^ against right, Amolins made
use of his wealth to supplant his brother, and aooo foDod
means to possess himself of the kingdom,
^ot content with the crime of usurpation, he
added that of murder also. Nnmitor's
sons first fell a sacrifice to his suspicions, and to
remove all apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he
caused Rhea Silvia, his brother's only daughter,
to become a vestal virgin, which office obliging her to perpetual
celibacy, made him less uneasy as to the claims of posterity. His
precautions, however, are all frustrated in the
event; for Rhea Silvia, going to fetch wator
frqip a Qeighbopring grove, was met and ravished by a man,
whom, pei^tqw to palliate her offence, she avers to be
Mars, the god of war. Whoever this lover of hers was,
whether some person had deceived her by
assuming so great a name, or Amnlins himself, as some writers are
pleased to a£Srm, it matters not.Certain it is, that, in due time she was
broug:lit to bed of two boys, who were no sooner bom than devoted by the
usurper to destmction. The mother is condemned to be buried alive -the usual
punishment for vestals who had violated their chasti^, and
the twins are ordered to be flung
into tbe river Tiber. It happens, however,
at the time this rigorous sentence
was put into eieculion, that the river
had more than usually overflowed its banks, so
that the place where the children are thrown, being at a distance from thei
main cnirent, the water is too shallow to drown them. In
this ntoation, therefore, they continued without harm; and
that no part of their preservatioD
might want its wonders, we are told, that
they were for some time suckled there by a wolf, until
Fanstulos, the king's herdsman, finding
ihem exposed, brought them home to Acca
Laurentia, his wife, who brought them
up as her own. Some, however, will
have it; tiiat tbe nurse's name was
Lnpa, which gaya rise to the stoijr
vt their being nouriihed by a wolf;
but it is needless to vfad
Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH MBpg«b«ba%
fian 'venevntB vbtfe die vkote « omgrowB
with ftUe. Boraoloa and Bemna, Ae
twins thtu strangely prcwcved. Memed eariy
to diacover afai)iti«i uid desiret above
the me«i- noH of thor aapposed
origiiuL The ahepkenl's life be^an to
di^leaae them, aod fnaa tending the
flock, or hantiag wild beasts, they
soon tnmed their strength agsinst the
robben lonnd the eonntry, whom they
efien atfipt of their [daader to
share it among their feUew-shepherds. In
one of these ezcmnons it was that
Remus is taken priaoner by Nvmttor's berdsmen,
who bring him before the king, and aoensed
him of the very crime which he bad
ao t^tea attempted to sappresa. Bomnlaa,
bowerer, beii^ informed 1^ FaiiBtaliu of his real
birth, was not remisa in assembling ft
munber of hia fbllow^epherds, in order
to resooe bis brother from posoD, and
foroe the kingdtmi from tbe bands of tbe nsnrper.
Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe near
the place by different ways, while Beniiis with eqnal
vigilaooe gm&ed npon tbe dtiuua within.
AmalioB, tfans beaet on all sides, and
not knowing iriiat expedient to think of
for bit seoiuity, was, daring hia amasenent
and distraotion, taken and daio, while Numitor who had been
deposed forty-two years, recognised bis grandscns, and
is restored to the throne. Nnmitor being tints in
qvet posiewion of the kingdom, hot
grandaou resolred to bnild a eify
npoo those hills whoe they had formerly
lived as aheiriierda. The king had too
many oUigations to them not to
approve their des^; he appointed tbem
lands, and gave pennisnoB to .snoh of
hia subjects a» thoo proper to settie
in their new colony. Many of the
neil^draariiig shejdierda also, and sncb as
were fond of change, lepabed to the
intended dty, and prepared to raise. For
the more speedy oarrybg on this work, the people
were divided into two parts, each of
whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy
emnlate the otfaer. Bat what was designed
fi» an advantage proved nearly fatal to
this infimt oolony: it gives birth to two factions, one preferring
Romulus, the other Remus,who themselves arenot agreed upon the spot where
the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by
the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome
should be most favoorable^ afaonld in all reepeots
direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,
thej both take their stations npon diffra«nt
hilk. To Remus appear six vultures, to
Romulus, twice that number, to ttwt
each party thongfat itielf viotoriovi, the
one tiaviog the *first* omen, the
other the most nnmeroiu. Tbifl prodnoed
a contest, whitdi ended ui a batde,
wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was
kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over
the city wbU, itrack him dead upon tbe
qrat, at the same time proKssio^, that
nooe shonld ever inanlt his walla with
impunity. Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age, b^an
the fonndation of acity, that was one day to give laws
to the woild. It was called Rorne after
the uaaie of the foonder, and bnilt
npon the Palatine hill, on which he
had taken lus ancceflsfol omen. The
city was at first almost square,
oontaining «bont a tlwiisand houss. It was
near a mile in compass, and commanded a small territory
ranod it of about eight miles over.
However, smallas it appears, it was,
ootwithstandiiy, vone inhabited; and the
first method made uae of to increase
its numbers vaa the opemng a
sanctosry for all male&otors, slaves,
aod snch as wm« desirons of novelty.
These came in great multitudes, and cootibated to
increase the number of our legtslatoi'B new
subjects. To have a just idea ther^re
of Rome in its infant stale, we have only
to iwsgine a coUec- tion o( cottages,
sairotinded by a feeble wall, rather built
to serve as a military retreat, than
for the purposes of civil >o- cie^,
rather filled with a tnmoltuoas and vicious
rabble, thaD with subjects bred to
obedience and control.We have only to conceive men bred to
rapine, Iwing in a place that merelj
seemed calculated for the security of
plonder; and yet, to our astonishment, we
shall soon find this tumulbioas coocouise
unit> ingin the strictest bonds of
sode^; this lawless rabble putting OB the most sincere regard
for religion; end, thouf^ composed of the
dr^s of mankind, setting examples, to all
the worid, of valour and riitne.
Doiii,,ih,. WWLOU SoARGB mm tbe city
rnsed abore iti &niid«tioB. vhen Hs
rade mhalulsBtB hegaa to tfauik of
gmag some fonn to their. MoslitBtioii.
Their first object was to unite
lifoer^ and em- pire; to fonn a
kiod of mixed monncby, by irfaicfa
all power vw to be dividad between
the prince and the peopte. Bo- nlna,
by an act of great geoeromtf, left
them at liberty to dwose whom they wonld for dieir
king, and tliey in gnrtitiide eoBcmred to
elect their founder; be was accordingly acknowledged as chief
of dieir religion, sovereign magistrate of Rorne, md geoeral
of Ae army. Beside a guard to attend his person, it was agreed that he
should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with axes
tied op in a bnadle of rods, who were
to serve as execntioners of the law,
and to impress hii new subjeots with an idea of
his authority. Yet stUl tUa aKiboriQr was
ondw very great restriotii»ig, as his whole
power CMisisted in caQing the THE SENATEsenate
togedier, in assembling the peo< pie,
io condoctmg the army, when it was
decreed by the other part of the
constitation that they ahonld go to
war, and in k^ pointing the qnestors,
w neainrers of the pnblk: money,
<^ficers which we may soppose at
that time had but very Ktfle eni^oyment,
as neither the soldiers nor magistrates recrived
any pay. The senate, wluch was to
act as cosnsellors to the king, was
composedof an imndred of the printnpal
cttisens of Bune, oODStsting of men whose age, wisdom,
or valoor, gave them natoral an^toiitf over titeir
feUow-«ab|ect8. The king named the fint
senatw, and appointed him to the government of
&e atj, whenever war reqoired the geoeial's absence. In
dds neqiect^e assembly was transacted all the important
boainesa of the slate, the king himself presiding, ^thongh every
question w'as tO'be determined by a minority
of voices. Ai^ they were supposed to
liave a parental affection for die people,
they were called latbMS, and their
descendants patricians. To the pafericiaits belonged
all ttte dignified oiBees
of tlie state, as well r,o,i,,-cMh,. as
of tiie imesfbood. To these the; were appofaited
by the senate and the people, vhile the
lower ranks of citizens, wlio were thns
excluded from all views of promotion
for then- seUes, woe to expect advantages
ou^ from their ntloiir in war, or
their assidiiity in agriculture. The
plebwms, who composed the third part of the
legi»- la^oce, assumed to tbemselTcs the
power of aathorising' those laws iHiicb
were passed b; the kia^ or the
setwle. All tUi^ x^ative to peace or war,
to the electi<Hi of magistiatei, and
even to the choosing a king, were
confirmed by their sufiragea. la their
namMmu aaaomblies. all mterptises against
the enemy were proposed, while the
senate had onij a power of rejeotiog
«r approving their Aemfpit. Thus was
the ststa composed of three orders,
each a check np<»i the other : the
people resolved whedier the proposals of
the king were pleasing to them, the
senate deliberated upon the expediency of
the measure, and the king gave vigour
and spirit by directing the execBtion. Bat
thov^ the pei^le by these regulations
seemed in possession of great pow«,
yet th«re was one cdr-onmstaace which
c<nitiibuted greatly to its dimmntion, nara^, the
rights of patronage which wece lodged
in the smate. I^ king, sensible that
in every state there must be a
'dependaoee of the poor upon the powerful,
-gave permission to every |:4e- beian to
choose one among the senators for
a patron. Tke bond between them was of the strongest
kind ; the patron was to give
[woteotion to his client, to assist
him with lus advice and fortune, to
plead for him before the judge, and
to rescue him from every oppression.
On the other hand, the climt attached
himself to the interests of his patron,
assisted han, if poor, to portion his
daughters, to pay his debts,, or his
rmuom - in case of being, taken
prisoner. He was to follow him on
every service of danger; whenever he
stood candidate for an office, he was
obliged to give him his sufi&age, and
was proUbited from giving testimony in
a court of justioe whenever his
evidence affected the int^ests of his
patron. These reciprocal dotias were held so
sacred, that any who violated them
were ever after held infamous, and
excluded 6x»n all the pro- tection of the
taws : so that from hence we see
the senate in effect possessed of the
snffirages of &ea clients, nnce all
that was left the people was <Hily
the poww of choonng what patron Ibery
should obey. Amoaf a nRtion m>
tMibstont and fierce as the first Romans,
it was wise to enforce obedience ■t
&6 most reqnidte dnty. lie first
care of the new-created king was to
attend to the interests of religion,
and to endeavour to hnmantse his subjects,
by the notion of other rewards and pnnishnients than
diose of hnman law. The precise form
of their worship is nn- known ; bat
die greatest part of the religion of
that age con- siMed in a firm
relianoe upon Ae credit of their
soothsi^ers, irito fvetended, from observations
on the flight of birds and the
entrails of beasts, to direct the
present, and to dive into fntmrity. This
pioos fhrad, wbich first uvse from ignorance,
soon became a most usefnl machine
in the hands of government. Romnlns,
by an express law, commanded, that no
election should be made, no enterprise
undertaken, witfa- flat first conaolting
die soothsayers. With equal wisdom he
•rdained, that no new divinities should
be introdoced into pnhlic worship, that
the priesthood should continue for fife,
and that Aone shonM be elected into
it before the age of fifty. '
He fort>ade them to mix fable witb
the masteries of their reUgion; And,
timt they mi^t be quaKfied to teach
others, he ordered Aat tiiey should
be tiie iHstoriographns of tiie times;
so tiia^ while instructed by priests Bk^
these, the people cordd never degenerate
into total barbarity. Of his other
laws we have but few fragments remmnii^. In
these, however, we learn, that wives were
forbid, upon any pretext whatsoever, to
separate from tbeir husbands; wUle, on
the contrary, the husbaod was empowered to
repudiate the wife, and even to put her to
death with the consent of hef
retatioQB, in case she was detected in
adultery, in at- tempting to poison, in
making false keys,. or even of having drank
too much vine. His laws between
children and their parents w«'e yet
sdll more severe; the father had entire
power over his offspring, both of fortune
and fife; he conid ■ell them or
imprison them at any time of their
lives, or in any ttations to which
they were arrived. The father might
expose his clnldren, if bom witii any
deformities, having previoasly eommunicated bis
intentions to his five next of
kindred. Our lawgiver seemed moze kind
even to his enemies, for his subjectswere prt^hited
from killing them after they bad
surren- dM«d, m even from sdling
them: his ambition only aiaied at
.,Coo<^lc r of luB ateaaeB i^
mak After M> many endeaToiiTs to
inoraase bia BnbjeotBi aad m mmy Inra
to r^nlate them, he next gave ordeis
to ascertna tbeir numbers. Tbb whole
amoanled bat to three tbooMnd foot, and
about as many bnndred horsemen, capable
of beari^ arms. These,
therdbre were divided equally
into three tribes, and to each
he asiigaed a different part of the
taty. Each of these tribes were sabdivided
into ten cmin or compame, consiBting
of an hundred men each, with a
oentnrioB to command it, a priest
c^ed curio to perform the sacrifioes,
and two of the principal inhatntants, called
duumviri, to distribute jnstioe. Aocordijigly to
the number of ooriv he dividedthe
lands into thirty parts, reserving one
portion for public uses, and another
for religiaus ceremonies. Tbo «m- ■phaty
and fingality of tha times will be
best iindeistood by observing, that dach
citizen had not id>ove two ictea of
ground for his owB subsistence. Of
the horsemen mentioned above, dtere were
chosen ten from eei^ curia; tfaey
were particularly appointed to fi^t round
the person of the king; of them
hU gaud was composed, and from tbeir
alacrity in battle, or fhuB the
>ame of their first commander, ^ey
were called ceUrat, a word equivalent
to our light horsemen. A goremmcot
thus wisely instituted, it may be
suppoaed, nduced numbers to come and live
under it: each day added to its strength,
maltitudes flocked in from all the
adjacent towns, and it only seemed to
waqt women to ascertain its du- ration.
In this exiaeiatx, Romulus, by the
advice of the se- nate, sent deputies among the
Sabines, his neighbours, en- treatingtheir
alliance, and upon these terms- ofiering
to cement the most strict confederacy
with them. The Sabines, . who
were then considered as the moat
warlike people of Italy, r^ected the
proposition with disdain, and some even
added raillery to the refusal, demanding,
that as he had opened a sanctuary
for fugitive slaves, why he had not also
opened another for prostitute women. Tbis
answer quickly raised the indignation of
the Rpmans; and the king, in order to
gratify their resentaient, while he at
the same time should people hb ci^,
resolved to obtain by force what was
denied to intrea^. For this purpose
he proclaimed a feast, in honour of
N^tane, diron^ut all the nMghboitring
villagea, and made the meet KAPB
OF THK BABINBS. t mmgaiAMat
pnftamtkmi for it Tbets feuta wen
guan^ preceded by sacrifices, and ended
in' shows of wreeden, ^ft- diaton,
and chariot-^onrses. The Salnnes, as he
had expected, were among the foremost who
came to be spectalon^ fannging their wives
and daughters with them to share t^
pkasore of the sight. The inhabitants
also of maaj of tht ueig^hoariDg
to^os came, who were received by the
RomaM with marks of the most cordial hospitality. lo the
mean time ' the games began, and
while the strangers were most intent
upon the spectacle, a number of the
Roman yonth rushed la mnoag them wiUi
drawn swords seized the yotingedt and
meet beaatilid women, and earned them off by
violence. , In vain the parents
protested against this bre&cfa of
hospitali^; in vain the virgins themselves
at first opposed the attempts of th^
raviBfaers; perseverance and caresses obtained
those &• TOWS which timidi^ at firstdenied:
so that the betrayera, frma being
objects of aversion, soon became partners
of their dearest affections. But
however the afiront might have been
botne by them, it was not BO easily pnt
up by their parents; a bloody war
ei^ sued. The cities of Cenioa,
Antemna, and Cnutuminm, wen the &at
who resolved to revenge the common
cause, which the Salnses seemed too
dilatory in pursuing. These, by making aeparate
inroads, becamea more easy conquest to
Romulus, who first ovothrew the Ceoinenses,
slew dieir king Acron in sio^ combat,
-and made an offering of the royal
spoils to Jupiter Feretrius, on the spot where
the capitol was afterwards built The
Antemnates and Crustuminians shared the
same. fate; their armies were overthrowu,
and their cities takes. The conqueror,
however, made the most merciful use
of las victny; for instead (rf
destroying their towns, or lessemi^l tbent
nnmbeis, he only placed colonies of
Romana in them, to. serve as a
frontier to repress more distant invasions.
Tattos, king of Cures, a Sabine
city, was the last, althou^ the most
formidable who undertook to cevuige the disgrace his
country had suffered. He entered the
Roman territoriea at the head of twenty-five
thousand men| and not content with a
superiority of forces, he added stratagem
also. Tarpeia, who was daughter to the
commander of. the Cajutolme hill, happened
to &11 into his hands, as she
went without 4>e walls of the city
to fetch water. Upon her he prevailed,
by meant of hrga pttuSaet, to
bebrajr aae of the ^^ates to his
army. Tlie i«<irwd she eagdgei for
was vfaat the soldiers wore on their
atteB, by vfaich the meaot their bracelets.
They, however, cotber miataking^ her
meaning, or wiUing to panish her
peifidy, ttvew tlieir bncklera upon her
as they entered, and crushed ber to
death beneath them. The Sabines, being
thus possessed of the Capitoline, had the
advantage of continning the War at
tbeir pleasure; and for some time
only slight enconnters passed between them.
At length, however, the tedionsness of
this contest began to weary out both
parties, so that each wished, but neither
would stoop to sue for peace. The
desire of peace ofteii gives vigour
to measures in war ; wherefore boUt
sides resolving to terminate their doubts
by a detMsive action, a general
engagement ensued, which was renewed for
several days, with almost equal success.
They both fon^t for all that was
vEduable in life, and neither could think
of submitting: it was in the valley between
the Capitoline and Qui- rinal hills,
that the last engagement was fought
between the Romans and the Sabines.
The engem«it became general, and the
slaughter prod^ioua, when the attention of
both sides was suddenly turned from
the scene of horror before them, to
(mother infinitely more striking. The Sabine women, who
h^ been carried off by the Romans, were
seen with their hair loose and iheir
ornaments neglected, fiying in between tbe
combatants, regardless of their own danger, and
with loud outcries only solicitous for
that of their parents, their husbands,
and their cUIdren. " If," cped
ihey, " you are resolved upon
daughter, turn your atma upon us,
since we only are the cause <tf
your animosity. If any must die, let
it be us; since if oar parents
orour husbands faU, we must be
equally miserable in being the surviving
cause." A spectacle so moving could
not be resisted by the combatants;
both sides for a wtiile, as if by
mutual impulse, let fall their weapons, and
beheld the distress - in silent
wnazement The tears and entreaties of
thdr wives and daughters at length
prevaUed; an accommodation ensued, by which
it was' agreed, that Romulus and Tatius
should t«ign jointly in
Rome, with equal power and prerogative;
diat an bailed Sabines should be
admitted into the senate; that the
city should still retain its farmer
name, but that As citizens should
bctdled Qnirites, after Cures, the
principal town of the Sabines; and that both
nations being thus united. 11 •aoh
of the Sabtees u i^ose it shoiM
be sdnAted to Bniad eDJoy all
the privilegea of citizens oi Rome.
llaH erery •torm, vhich seemed to
threateo this growing empire, only served
to increase itvigour. That army, wfaich in
die mondug had resolved upon its destruction,
came in the evetlin^ with j(^ to
be enrolled uiDoag the number of its
ctttzens. RomfoloB saw his dominions and
his sul^ects increased by more then
half in the space of a few hours; and, as if
fortune meant every way to assist his greatness,
Tatins, his partner in the govem-
ment, was killed about five years
after by the Lavinians, for having
protected some servants of his, who
had plundered them and slain their ambassadors;
so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome.
Rome being greatly strengthened by
this new acquisition of power, began
to grow formidable to her neighbours ;
and it -aiay be supposed, that pretexts for
war were not wanting, when prompted
by jealousy on their ride, and by
ambition on that of the Romans.
Fidena and Cameria, two oe^hbonring cities,
were stibdoed and tAken. Veii also,
one of the most powerAil
states of Etruria, shared nearly the same fate;
after two fierce engagements tiiey sued
ftM* a peace and a league, which
was granted upon giving np the seventh
part of tbev dominions, their salt-pits
near the river, and hostages for greater security. Successes
like these produced an equal share of
pride in the oonqneror. From being
contented with those limits which had
been wisely fixed to his power* he
began to affect absolute sway, and to govern those
laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience.
The senate was particularly displeased at
his conduct, finding themselves only used
as instrom^its to ratify the rigour
of his commands. We are not told
the precise manner which they made
use of to get rid of the tyrant: some say
that be was torn in pieces in the senate
botise; otiters that he disappeared while
reviewing his army: eertain it is,
that from the secrecy of the fact,
and the concealment of the body, tbey
took occasion to persuade the multitude, that he was
taken np into heaven; thus him whom
they oonld not bear as a king,
tbey were contented t« worship as a
god: Romnlns reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad
a temple built to turn under the
name of Quirinus, one of the
Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be
had appeared to hm, and desired to
be isTtAed by that tide. We see
little more in the obaraeter of this
princ, than vhat mi^t be expected in
andk an a^, great temperance and
great valour, wbich generally make np
the catalt^e of sar^^e virtues. Howeva,
the gnndenr of an empire, admired by
the whole irorid, creates in u an adnuration of tiie
founder, viftoat mnch raamimng' hia. Grice: “Most of Colecchi’s
essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to
other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and
even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his
influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi.
Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e
Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant,
Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano
kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico –
sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto
naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il
Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia
razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la
sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della
morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico
all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no
caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia
equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine
aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe
geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore
interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come
cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza,
prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della
morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la
tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza,
autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo
dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la
societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come
requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola,
verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine:
primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di
inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo,
il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant,
Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Colletti: l’implicatura
conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like
Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum,
not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and
Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista
Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici,
Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e
Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con
Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio
su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il
"crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo
e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a
oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari,
Laterza, 1980. Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il
marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli
editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di
Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi,
Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica,
Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce "contro" di Forza Italia,
su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia,
Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo
ha fallito Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Milano,
Mondadori, 2001. 88-04-48844-1 Ministero
per i beni e le attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo
contemporaneo, Roma, Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio
Colletti scienza e libertà, Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei
marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri. Collétti, Lucio la voce nella
Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio Colletti, su CameraXIII
legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura,
Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo Preve, nel sito
Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di Colletti
Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati»
nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di luglio-agosto
1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente
Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione reale” (la
Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione dialettica”». Si
tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione
(ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch)»
(1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla formula «A
non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è
niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più
esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità
con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono
ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha la sua essenza
fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione
dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la
koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa dalla formula «A e
B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è
esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che Massimiliano Biscuso –
Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4
«nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli
estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il
contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio quando ci
rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria:
il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo
rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è
l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due
termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere»
(74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché
sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come sarà confermato in
seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai
avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e
non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il
suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è
al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è
impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione,
si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il
modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di
fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali» (80), e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica» (81 – si badi bene: contraddizione logica e non, come ci
si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è
aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola
per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo», 112). Avvertiti di
questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e
tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti
dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà,
contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può
benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza,
per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di
(non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali
risultati convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di
liquidare «gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del
Diamat, sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società»
(95). In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a
che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la
sostantificazione dell’astratto, www.filosofia-italiana.net 5
l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto
modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi
che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società
capitalistica stessa» (97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato
dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa
riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con
molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del
pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire
sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della
rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo
una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una
soggettività utopica» (102). Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del
capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel
senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la
possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si
separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli
dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo
veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé
irreali seppur reificate» (107). «Teoria dell’alienazione e teoria della
contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria» (109): la
contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del
lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la
contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai
maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società
moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un
tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria”
dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo» (111), dove l’unità, essendo
data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure
modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E
questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello
scienziato, naturalista e empirico» (112). Georg Wilhelm Friedrich Hegel
versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den
Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern
(sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt.[3]
Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus
in der Metaphysik' zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper
kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für
Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den
dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt
und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische
Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches
Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa
folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er
müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses
Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur
solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen,
frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein
System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für
ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen
Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der
keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie].
Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode
stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie
selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4]
Logisches Quadrat Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung,
dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den
unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen
bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder
gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten:
Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau
dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und
umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische
Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren
Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide
falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in
konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann,
wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können.
In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz.
Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht
ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im
logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P
sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h.,
wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese
Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches
Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte
Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen
Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Wikipedia
Ricerca Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono
figure leggendarie della Roma antica. Il giuramento degli Orazi
(1784), di Jacques-Louis David, Museo del Louvre Leggenda Modifica Secondo la versione
riportata da Tito Livio (Hist. I, 24-25), durante il regno di Tullo Ostilio
(VII secolo a.C.) Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli
eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al
confine fra i loro territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano
attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa
guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di
rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori
spargimenti di sangue. Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli
figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si
sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non
erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana;
propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella
versione. Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono
uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio,
che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà,
pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva
previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra
loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità differenti.
Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a
sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri
due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla
volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si
sottomise. Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa
sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il
fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette
passare sotto il giogo del Tigillum Sororium,[1] che da allora i Romani
festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre,
per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà del
cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma[2]), di
cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella
estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì,
secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri
perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase
repubblicana[3]). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente
intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina -
nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia
moglie di Marco Orazio. Realtà storicaModifica Il cosiddetto
Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano
testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro
alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli
Orazi al sesto miglio della via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale
via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli
"Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri
personaggi. Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il
re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato. C'è chi indica
San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne
la cruenta battaglia. Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di
questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora,
Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.
TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere
liriche: Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su
libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al
Teatro La Fenice di Venezia il 26 dicembre 1796. Orazi e Curiazi di Saverio
Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per
la prima volta al teatro San Carlo di Napoli il 10 novembre 1846. The Horatian
- Three Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi (1934) è anche uno dei drammi
didattici scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi,
cortometraggio muto del 1910. Orazi e Curiazi, film del 1961 di Ferdinando
Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi 3-2, film-rivisitazione in chiave farsesca
del mito (1977). Curiosità La vicenda dello scontro tra gli Orazi e i
Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del Vesuvio" di
Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il
riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due clan, si scelgono tre
rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali: i fratelli
Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan
di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la sorella degli
Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa al più giovane
degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le relative conseguenze
sono identiche. NoteModifica ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 48.
Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita
sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit
iuvenem. ^ Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di
Bernardo Santalucia, pag.45, § 5 ^ Osservazioni sulla repressione criminale
romana in età regia, di Bernardo Santalucia, pag.46, § 6 Altri progettiModifica
Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Orazi e Curiazi
Collegamenti esterniModifica ( EN ) Orazi e Curiazi, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma
Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia
famiglie romane che condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli
Orazi dipinto di Jacques-Louis David Wikipedia IlGrice: “Colletti takes
negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target,
which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and
‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond
the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The
Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t.
There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere,
as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to
negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the
posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates
Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is
cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness
than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended
use of ‘utterance’ to include the characterization of something that need not
be linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product
which may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords:
curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la contraddizione
dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and
Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat –
contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti –
antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto,
contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica
ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Colizzi: l’implicatura conversazionale –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Norcia). Filosofo italiano. Grice: “By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi
on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from the ground!”
-- Grice: “If I had to chose one
philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while
Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is
involved!” Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. Colizzi
si è appreso attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale
dela sua filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno
spunto, totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale
è emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo
dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che
il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo
concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente
neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi
dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo
principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè
il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of
conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda
l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de
sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con
i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce,
così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il
“de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una
volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica
copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi,
sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica,
cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni uomo,
scopertala, riprodurre e preservare. Cf.
G. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” G. Bruno, “Praxis descensus seu
applicatio entis,” D.Cantimori, “Storia ereticale” (G. Laterza). F. Bolgiani,
“Ortodossia ed eresia: il problema storiografico nella storia e la situazione
ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A
compimento di questo settimo Libro ed
in osservanza alla regola fin qui
seguita, rimanci di far menzione di
que' nostri Concittadini , che in
questo secolo XVII per meriti di
santità, o per dottrina, ovvero per
singolare valore nelle scien- ze, se ne
resero meritevoli. E primo ci si
presenta il Ven. Fr. Agostino da
Norcia della famiglia Colizzi, emulo delle
virtù del suo zio Fr. Giustino da
noi ricordato al Capi- tolo XXIII. De gl’eroici
furori di Giordano Bruno Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento: Giordano Bruno Nolano, De gli eroici furori.
Parigi, appresso Antonio Baio l’anno 1585, in Dialoghi filosofici italiani, a
cura di Michele Ciliberto, Mondadori, Milano 2000 Letteratura italiana
Einaudi Sommario Argomento del Nolano 2 Avertimento a’ lettori 20
Iscusazion del Nolano 22 Prima parte de gli Eroici Furori Dialogo primo 24 Dialogo
secondo 38 Dialogo terzo Dialogo quarto 62 Dialogo quinto Seconda parte de gli
Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo terzo Dialogo quarto
Letteratura italiana Einaudi Al molto illustre et eccellente cavalliero
Signor Filippo Sidneo Letteratura italiana Einaudi 1 Giordano Bruno - De
gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al
molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo
Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto constante-
mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza
d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile può
presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo,
afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or
fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in
atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più
scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con
mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue
torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi
pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una inde-
gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico,
degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del
mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi
suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli, amanti,
coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza,
destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e
gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che
trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super-
bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine,
avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir
veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana Einaudi 2
Giordano Bruno - De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver
pur troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in
car- te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi
un rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti,
d’epistole, de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de
sudori estre- mi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri,
lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, do- glie che fanno stupefar
l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi,
per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per
quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel
manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel
riset- to, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole,
quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel
mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto
di natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un so- gno, un circeo
incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di
bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e
marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco
vera e stabilmente è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un
mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no-
stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva,
ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una
fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni
che son manifesti a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove
suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della gene-
razione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere
messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce
pomo che può pro- Letteratura italiana Einaudi 3 Giordano Bruno -
De gli eroici furori dur l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per
impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro
dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da
persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e
noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che
questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti
re- gni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto
savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi
mi vergogna- rei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un
pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pa- ne per servire alla natura e
Dio benedetto. E se alla buo- na volontà soccorrer possano o soccorrano
gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far
giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che
non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e
sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli,
(non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero
maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso
che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la
raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che
voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire,
o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel
ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non
bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno ono- ri et
ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et amate, come denno
essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto
si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù
che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura italiana Einaudi 4
Giordano Bruno - De gli eroici furori quel splendore, di quel serviggio:
senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un mor- boso
fungo, qual con pregiudicio de meglior piante oc- cupa la terra; e più
noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di
quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fer-
mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordi- ni e misure, a fin che
siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno,
Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da
tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever
nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri
si- mili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno es- sere
differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori
eroici otte- gnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in
stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli
alberi de le selve, e porci cinghia- li sotto gli marini scogli. Però per
liberare tutti da tal su- spizione, avevo pensato prima di donar a questo libro
un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et
affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come
interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo (per dirla) chiamarlo
Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio
re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal ri- goroso supercilio
de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per usurpar in mio
naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi
sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir
si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli de Dio,
de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio divino che
farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la nostra
simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra
Letteratura italiana Einaudi 5 Giordano Bruno - De gli eroici
furori per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e
quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto
l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto
del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro;
perché ivi le figure sono aperta e manife- stamente figure, et il senso
metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove
odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte,
quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che
descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da
la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo
ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario
modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che
ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime
gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida,
a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde
facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima
intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati
concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali
e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo,
sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto
d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a
sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in
tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace,
ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire
come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché
come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo
che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui
Letteratura italiana Einaudi 6 Giordano Bruno - De gli eroici
furori se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine
e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non
sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che
io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi
eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli,
sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto
vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai
delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una
donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a
pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di
quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla
natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti
in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì
pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie
che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da
quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere
ch’un uomo che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più
amore in co- sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al
presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile
l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga
per una di Val- clusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene,
donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver
ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per
cele- brar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli
affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli
altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de
Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ no- Letteratura
italiana Einaudi 7 Giordano Bruno - De gli eroici furori stri tempi
delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del
disonore, del forno, del martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non
meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri
suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché
non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che
son state e sono de- gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es-
sere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la
fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si
biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da
quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile,
non si deve né può intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate
parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in si-
militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le
quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e
proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di
quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a
nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del
sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo
et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per
particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è
quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de
maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le
potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo
considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e
veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi
amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli
uomini, Letteratura italiana Einaudi 8 Giordano Bruno - De gli
eroici furori che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal
dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto
che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento
in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a
gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati
in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’
cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque
arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi
intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si
dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come
quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato
che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a
le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure
è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post
parietem nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La
qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori
e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti,
oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e
prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con-
verta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa
l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la
guerra civile che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi-
mento; onde disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me
sol, quia fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in
vineis». Là Letteratura italiana Einaudi 9 Giordano Bruno - De gli
eroici furori sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto,
l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante
coorte militari de tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor
ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una
naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia:
o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per
qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni
diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi
d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto
l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa
composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di
contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le
speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti
in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando
ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et
odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si
suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi
contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e
subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta
o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son
nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me,
viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap-
partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.
In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di
questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e
fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che
si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso
de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti.
Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e
forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di
sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le
antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli.
argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della
seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato
dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello
sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile
occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo
ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno
illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere
offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza
profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de
le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la
contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa
intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso
l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne
in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate
et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della
complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come
quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale,
fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari
che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, me-
Letteratura italiana Einaudi 12 Giordano Bruno - De gli eroici furori
diante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime
la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume
prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi
più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di
presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli
pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et
exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est
maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso
quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo
dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato
il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo-
roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio,
elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte
del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo
delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà
è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e
reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla
volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio
se l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della
cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza
appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto
quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per
il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo
che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in
gioventù, sin a l’appeti- to in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”;
onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in
prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in
conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la
potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza
vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è
infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en-
te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima
cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le
nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e
potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è
no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo
cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e
concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari-
mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto
che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del
sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla
moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è
designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne
impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co visivo,
è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne indebolisce.
Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato
l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza
discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che
proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual
vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e
cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta
la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che
per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata
Letteratura italiana Einaudi 14 Giordano Bruno - De gli eroici
furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a
gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non
possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza,
e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né
favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la
sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli
ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del
giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti
giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de
l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri.
argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono
introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non
sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser
dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e
dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si
trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici
della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di
chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la
fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e
cause esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra
significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la
volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità
de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra
le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa
similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da
Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve
ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et
in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si
signifi- che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso,
il numero e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori più
illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio
lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il
circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici che per certa
conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato
del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima
conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes ubi
mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno:
rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è
significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene
per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione voglion
che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora è
significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et
un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo
le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni
delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse cose:
perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de
particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato
appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti
sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura
italiana Einaudi 16 Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza
che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella
eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi
grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra
teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et
altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è
vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da
ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella
superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con-
fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et
instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar
questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni
e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser
divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re-
frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne,
che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar
gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per
veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la
raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi,
or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade,
or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno.
All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la
qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da
quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con
l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza
d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir
ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura
italiana Einaudi 17 Giordano Bruno - De gli eroici furori causa
d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si
bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo:
«Figlia e madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e
contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or
che è messa in speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro
mio vase fatale», è significato che seco portano il decreto e destino del suo
cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe;
perché un contrario è original- mente nell’altro, quantunque non vi sia
effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma
commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il
firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano:
quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descen- so da un
tropico et ascenso da un altro. Là dove dice «Per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni», significa che non è
progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da
una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che
sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là
s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario
delle perfezzioni, che sono beltà, sa- pienza e verità, per l’aspersion de
l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di
vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto
divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è
quel fiume che ap- parve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro
flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine
intelligenze che assistenti et ammini- strano alla prima intelligenza, la quale
è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è
per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a
discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la
sua sola pre- senza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza
appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui
salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove
intelligen- ze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si
contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra;
perché il fine et ultimo della su- periore è principio e capo dell’inferiore,
perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via
de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più
chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso,
infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi
in altri luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le
sfere, intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’
mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion
della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano
l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio-
ri, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la
divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita
bontà infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose.
Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad
essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non
vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti
altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et
il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni
con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale.
avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore
d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo
della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che
sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli
suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20 Giordano
Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi,
benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano
gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f
significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2:
correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30:
homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et
inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li
7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se
quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15:
suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio
core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice
quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi
si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21:
XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5,
f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto
infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea
la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2,
li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si
mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1,
li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove
spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De
le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21 Giordano Bruno
- De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre
dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in
schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che
femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive
mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in
ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né
vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole,
dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole.
L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte
faranv’ossequios’il studio e l’arte.
PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23
Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori
Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri-
mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine
a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse
che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole
ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi
mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura,
àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o
fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo,
avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in
vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più
caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come
deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può
trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia,
ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e
difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi
24 Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco,
gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla
contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però
come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da
un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con
più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui
rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so.
Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et
alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché
da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta
ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è
avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro,
che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro
ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione.
cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo
Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se
nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re,
dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che
degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia
speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio
exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti
e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di
vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser
determinate certe specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi
25 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti
de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi-
dio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da
colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole
di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e
specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente
poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a
delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi
dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero,
Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver
propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana
Einaudi 26 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han
torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti
alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno
principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non
osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria
o favola con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel
ch’è detto e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere
d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano
conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono
gli ve- ri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto
non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente
per rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non
possendosi render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi
avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar
là donde l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e
posso- no essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de
sentimenti et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi
ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e
specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e
lauri: ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva
per sa- crifici e leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de
cipresso per funerali: e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se
vi piacesse anco di quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O
fra Porro poeta da scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni,
busecche e cervellate. Letteratura italiana Einaudi 27 Giordano
Bruno - De gli eroici furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di-
verse vene che mostra in diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami
de diverse piante, e potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo
loro sua “aura” con cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto”
al qual si retire nel tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde
dice: O “mon- te” Parnaso dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte”
cliconio o altro dove mi “nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento,
Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso;
monte dove ascendendo “inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo”
il “spirito”; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”;
“cangiate” la mia “morte” in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli
miei “inferni” in cieli: cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi
illustre, mentre canto di morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a
color che son favoriti dal cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni
tanto mag- giori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e
questi per il più de le volte la gloria d’immor- tal splendore. cicada E la
morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso:
[1] In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove per scampo mio convien ch’io
monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi fan presenti le bellezze
conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte:
per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui.
(2) Or non alcun de reggi, Letteratura italiana Einaudi 28 Giordano
Bruno - De gli eroici furori non favorevol man d’imperatore, non sommo
sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro
m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima
qual sia il suo monte, dicen- do esser l’alto affetto del suo “core”; secondo,
quai sieno le sue “muse”, dicendo esser le “bellezze” e prorogative del suo
oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e questi dice esser le “lacrime”. In
quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da
quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser
essere meno illustre- mente coronato per via del suo core, pensieri e lacri-
me, che altri per man de “regi”, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel
ch’intende per ciò che dice: “il core in forma di Parnaso”. tansillo Perché
cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e
spiritualmente da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi
contrarii; come have sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A
l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli
suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun in vano udir si
faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual insano gli dona
bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non accolti sott’un
stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo, chi la mente
m’ingombr’, è un sol viso, Letteratura italiana Einaudi 29 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ad una beltà sola io resto affiso, chi sì m’ha
punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più ch’un
paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in poppa de
l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune
potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il “suono
de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli
guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per
esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che
son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra
parte inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato
fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente
vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o
nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli
loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi
come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri
con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto
riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga
“ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi
“restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di
quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli
constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè
dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il
fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché
cossì la cosa amata l’amore converte Letteratura italiana Einaudi 30
Giordano Bruno - De gli eroici furori ne l’amante, come il fuoco tra
tutti gli elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri
semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un
paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il
fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e
l’altro che è in similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può
essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del
secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna,
content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la
mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me
l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha
refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in
pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir
le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il
furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme
de suoi pensieri, aspirando a l’amo- rosa messe, scorgendo in sé il fervor de
gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge.
Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la “sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”.
Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico si- gnor
e duce de lui; la sorte non è altro che la disposi- Letteratura italiana Einaudi
31 Giordano Bruno - De gli eroici furori zion fatale et ordine
d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa
amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de
l’amante circa la cosa amata, il quale non biso- gna donarlo a intendere a chi
ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore “ap-
paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che ve- ramente ama non
vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de referire quel che ne mostrai
in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai
scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di
sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro
del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più
m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai
scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle
et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce
e l’ardor caro. La sorte “affanna” per non felici e non bramati suc- cessi, o
perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men
proporzionato a la di- gnità di quello; o perché non faccia reciproca correla-
zione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto
“contenta” il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa
in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”,
perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con
cui va sempre Letteratura italiana Einaudi 32 Giordano Bruno - De
gli eroici furori insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per
necessaria conseguenza dove lei si dimostra (co- me sen può far esperienza
nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno,
meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua
figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto
quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio
sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in
pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia;
Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro
crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te
medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor
per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor
saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è
detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per
le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturi- sce il sdegno:
percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e
mette in di- spreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada
Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto
irrazionale? tansillo Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amo- re non
perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è
in sugetti tali: atteso che in Letteratura italiana Einaudi 33
Giordano Bruno - De gli eroici furori qualumque è più intellettuale e
speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo
sveglia- to, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’ani- mositate eroica
et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno
della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e
stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle
extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et
inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende
più sconci: facendoli suggetto di di- spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono
volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli
giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel
conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal
complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nel- la
gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso
e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in
mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sor- te o fato?
tansillo “Cieca” e “ria” si dice la sorte ancora, non per sé, perché è
l’istesso ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti
si dice et è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella
incertissima. È detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche
maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pu-
gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la
sorte, che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Letteratura italiana Einaudi
34 Giordano Bruno - De gli eroici furori Cossì chiama l’oggetto
“alta bellezza”, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a
sé; e però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e
superiore: come lui gli vien fatto sud- dito e cattivo. “La mia morte sola”
dice de la gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei,
cossì anco non ha senso di maggior nemi- ca: come nessuna cosa è più nemica al
ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai
cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta.
tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi mostra il paradiso”; onde fa
veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti,
ma per l’ignobili disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli
notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore
illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita
miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un
altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di
diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si
nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa
presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e
impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi,
porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano
e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par
fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura italiana Einaudi
35 Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra dumque il paradiso
amore, per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa
grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie via”, di- ce de la sorte:
perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che
l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversa- rio. “Ogni
ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da
l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. “Me
l’invola”, dice della Gelosia, non già per non farlo presente to- gliendolo
d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male;
il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la
volontà, “ha gioia” nel suo volere per forza d’amo- re, qualunque sia il
successo. “La mente”, cioè la par- te intellettuale, ha “noia”, per
l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce l’amante. “Il spirito”, cioè
l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser rapito da quell’oggetto che dà
gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. “L’alma”, cioè la sustanza
passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova oppressa dal grave peso de
la gelosia che la tormenta. Appresso la considera- zion del stato suo,
soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di guerra”, e metterammi
in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et
apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core,
e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo pro-
posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via,
Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil
faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui
brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36 Giordano Bruno
- De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno,
lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o
forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio
core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro
principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una
contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia
sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo
essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu,
Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle
vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore,
e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui
per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le
mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi
sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio
et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo
ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma
de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella
sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque
dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? tansillo Or qua
comincia il furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che
sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce
cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir
cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il
ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo
e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli
occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al
basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e
quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar
quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel
che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde
diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non
è vero oro, il vino composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le
cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri
affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna
senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle
cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo
delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura italiana Einaudi 38
Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è causa che troviamo piacere
nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un
contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è
dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza
contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando
dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae
tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le
cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto
qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado
del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion
del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel
ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può
essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per
l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che
l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è
l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la
Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi
aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico
è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del
futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto
e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni:
«Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre
del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». Letteratura italiana Einaudi
39 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Volete dumque che
colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio?
tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre
peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo
è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi?
quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No:
ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il
bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto,
mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de
l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette,
né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle
voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente
il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi-
derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le
cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che
vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto
a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal
contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente
confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è
partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non
tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse
veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men
alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non
fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico,
intendi come due Letteratura italiana Einaudi 40 Giordano Bruno -
De gli eroici furori virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi-
nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li
contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii,
perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono
ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini.
cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno
vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude:
perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là dove
è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la minima o
nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in- differente:
come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel
mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo,
senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con- tento e minimamente
triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella casa della temperanza,
e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien
piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per venir al proposito)
come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente
da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è
in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più
ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e
modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben
posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo eroico
furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è nella
temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima
discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è
per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla Letteratura
italiana Einaudi 41 Giordano Bruno - De gli eroici furori dal core
per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui
risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama,
odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura
ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la
guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue passioni
per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in
Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius animam
dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis».
tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi, qual
condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi
lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene,
d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi
contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene
triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra
mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan
lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto
e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta
de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto
o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana
Einaudi 42 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Come con
questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in
stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si
tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli
estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser
virtude, che è dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede
dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove
convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco
dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte
morta vita vivo”. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è
morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo
di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la
considera- zion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della
potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran
lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha
modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli
dal contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente
pog- giar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si
possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la
raggion l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella
seguente sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso
risponde in nome di Pa- store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen-
sieri si travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è
l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno
Pastor. pastore Che vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43 fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché
non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è?
Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con
che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé.
Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal
follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir
tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. Giordano Bruno - De gli
eroici furori Letteratura italiana Einaudi 44 Giordano Bruno - De
gli eroici furori pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice
che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno
veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: men- tre
escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son
protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che
guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza
di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E
quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in
punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto
ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che
dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso,
mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual
suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che
possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dum- que la speranza esser fondata
sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace,
e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e
proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato:
perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un
caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per
sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la
quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo
esser vera- mente eroico: perché si propone per più principal fi- ne la grazia del
spirito e la inclinazion de l’affetto, che Letteratura italiana Einaudi
45 Giordano Bruno - De gli eroici furori la bellezza del corpo, in
cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto
platonico è di tre spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o
spe- culativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria:
cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale
s’inalza alla consi- derazione della spirituale e divina; l’altro solamente
persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a
precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti
altri, se- condo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna
col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e
tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che
tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o
equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in
questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del
gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza,
senz’il qual otten- to (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano
ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro
ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a
cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i
quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico
amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno
da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella
leggiadria del cor- po; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai
d’esser uniti a quello, della cui lontananza si la- gnano, e disunion
s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di
quell’affa- bilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più
Letteratura italiana Einaudi 46 Giordano Bruno - De gli eroici
furori principale: essendo e dal tentare non più può aver si- curezza di
successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto
gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna,
o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano
ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve
ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e
basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del
medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi
mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali.
tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro
splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la
razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me)
mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato
da qualche sta- tua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque
un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et ignobile
ingegno (quan- tunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) di- ca: “Temo
il suo sdegno più ch’il mio tormento”.
tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono
a doi geni: secondo che altri non mo- strano che cecità, stupidità et impeto
irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consistono in certa di- vina
abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E
questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti
divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri
intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser
stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio
spirito e senso, come in una stanza purga- ta, s’intrude il senso e spirto
divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de pro-
pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se
quei non parlano per pro- prio studio et esperienza come è manifesto, séguite
che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine
de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior admirazion e fede. Altri, per
essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido
et intellettuale, da uno interno sti- molo e fervor naturale suscitato da
l’amor della divi- nitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal
fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro
della cogitativa facultade accendo- no il lume razionale con cui veggono più
che ordina- riamente: e questi non vegnono al fine a parlar et ope- rar come
vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada Di
questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità,
potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri
Letteratura italiana Einaudi 48 Giordano Bruno - De gli eroici
furori essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son
degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra.
Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e quella s’admira,
adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della
propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi
raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son
oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del
bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et asso-
migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con
gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension
intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi
parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi,
et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno.
Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non
ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle
cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati;
niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa
pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio,
raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla
disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la
divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò
sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, rui- ne e
morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze
cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne
l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi-
cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure,
dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia,
concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte
le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in
questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come
un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai
ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar
l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a
dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come
nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto
l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e
consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e
perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo
sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che
non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta
dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove
non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va
spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido
si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra
contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci
di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la
padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere
qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice:
Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se
quand’il cervio per sete vien meno, Letteratura italiana Einaudi 50
Giordano Bruno - De gli eroici furori al rio va, non sa della freccia
amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara:
i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le
catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché
l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi
sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove
dimostra l’amor suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del
lioncorno, che fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de
gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un
sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che
altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra
libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto
al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento
nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne
l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a
quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa
saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci
son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso
io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà
m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda,
Letteratura italiana Einaudi 51 Giordano Bruno - De gli eroici furori
fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi
sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi
snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che
m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il
desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel
legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono
eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla
generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la
divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e
risplende in quel- le, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si
comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la
corporal bellezza, per quel che è in- dice della bellezza del spirito. Anzi
quello che n’inna- mora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in
esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni
maggiori o minori, non nelli deter- minati colori o forme, ma in certa armonia
e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra certa sensi- bile affinità
col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che tali più
facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco più facilmente si
disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione,
che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et
espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da
l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà
dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante
non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come
la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel
fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non
creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo
vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di
maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non
ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion
credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore
d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma
non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi
nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’
son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e
tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro
spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla
conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi
facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire
ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia
discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una
vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e
cortesie, un amor di persone al tutto Letteratura italiana Einaudi 53
Giordano Bruno - De gli eroici furori vili (de quali vizii questo ultimo
massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o
farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava
ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà,
es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue
disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella di-
stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti
vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo,
perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli
vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello
non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi
d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come
costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re d’appigliarmi al mio
male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto corporale in
similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti
martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì
nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver
ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol
ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta
impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si
dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da
l’ignobil numero mi sciolsi. Letteratura italiana Einaudi 54
Giordano Bruno - De gli eroici furori L’amor suo qua è a fatto eroico e
divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti
martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla
quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in
cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che
degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di
quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual
tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio
ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap-
parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli
non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli
gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie
intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa
priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste
ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra
specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e
vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia
possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli
adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero:
perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta
dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se
(come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto
finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder
Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in
qualche similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da
bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata
nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a
perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelli-
gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per
conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé essendo ella in
Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et
essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per
quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste
specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore,
sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della
di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio
eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello,
si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi che
vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente maggiore,
lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a considerar
quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove veggiamo la
divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti, opre,
magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove sia
le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi
d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e
muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è
luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma
come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri,
e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima,
l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi
56 Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino:
cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione
in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce
alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del
eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è
infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può
apprendere l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso,
com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che
s’amena a la consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove
non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso
che non sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in
essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero.
Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa
appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è
lassa l’alma a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei
suspicientes in excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua,
E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol
dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere
in co- tal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto
uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo.
cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender
questo quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione
per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in
questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener
maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante
qual- Letteratura italiana Einaudi 57 Giordano Bruno - De gli
eroici furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate,
come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici.
Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere
che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può
trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà
mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto
l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia
presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua.
cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar
uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo
possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar
degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che
riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una
degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito
feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il
piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo,
e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi,
anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita
pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti,
temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer
(respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì
illustre morte ne destina». Letteratura italiana Einaudi 58
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Io intendo quel che dice:
“basta ch’alto mi tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi
sciolsi”, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico,
rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che
quei che pro- fittano in questa contemplazione non possono esser molti e
numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può
intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi
chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due
sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi-
fico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità
vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo
movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è
il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma
secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo
de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora
esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or
come ri- svegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e
geno, si voltano alle cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come
al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione alle cose infe-
riori, si son trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi
doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente
articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo
aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di
Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza
de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun
delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo
un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella
natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e
soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria
eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però
vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non
solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature,
ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto
fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che
l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle
declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette
verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa
occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla
generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a
quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura
universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la
giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che
vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada
Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e
non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato,
natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate,
tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni
che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli
confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché
la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose
inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel
moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre
vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è
composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il
medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa
conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove
siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e
mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende
da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità
de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse
figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in
forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria
nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico
inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de
l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la
forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un
Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”.
tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende
al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si
studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel
primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine
della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i
mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il
dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui
il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et
alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio
ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran
cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento
alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui
slaccia “i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più
forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade;
ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto
umano è più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che
l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come
lanterna. “Alle selve”, luoghi inculti e Letteratura italiana Einaudi 62
Giordano Bruno - De gli eroici furori solitarii, visitati e perlustrati
da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il
giovane” poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et
instabile il furore, “nel dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et
affetto desi- gnato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso,
inculto e deserto il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri
e mastini appo la trac- cia di boscareccie fiere che sono le specie
intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi,
visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano: “Ecco
tra l’acqui”, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’ef-
ficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon significate per
il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e sopra il
firmamento; “ve- de il più bel busto e faccia”, cioè potenza et opera- zion
esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di
mente mortal o di- vina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia
comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana appren- sione
quanto al modo di comprendere, il quale è di- versissimo, ma quanto al suggetto
che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in ostro, alabastro et oro”, perché
quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo,
nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della
divi- na sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della
quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et altri al meglior modo che possono,
s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran cacciator”: com- prese quanto è
possibile, e “dovenne caccia”: andava per predare e rimase preda, questo
cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose ap- prese in
sé. (cicada Intendo, perché forma le
specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son
ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion
della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada
Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai
bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il
suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la
raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani
che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera
boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di
sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e
s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad
essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era
necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il
regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del
riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come
l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri,
corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più
leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi
più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era
un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e
fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua
finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e
comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et
ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive
la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar
solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto
t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte.
Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero
destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và,
più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede,
è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non
tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che
agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato
da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar
gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli
impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità
subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli-
candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate
quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli
com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco,
cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo
come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere-
grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che
non con indignità possa io dire con quell’altro: Letteratura italiana Einaudi
65 Giordano Bruno - De gli eroici furori Lasciato m’hai, cuor mio,
e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima,
che da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di
Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo
ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove
dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre
mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come
languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al
core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata
mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte
l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano,
onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il
cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi,
accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi,
refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con
affetto di certo amoroso martìre parla come Letteratura italiana Einaudi
66 Giordano Bruno - De gli eroici furori drizzando il suo sermone a
gli similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con-
gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può giongere,
e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano
s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso l’infinito.
cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo
tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che pos-
siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in- telletto divenuto
all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà
all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là:
perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni
geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con
l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi
aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da
questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e
maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera.
Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può
essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è
l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad
esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a
l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse-
guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente
bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa
prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo
cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi
finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che
l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo
di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto
metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per
gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non
è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al
centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel
considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come
colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel
che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non
voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il
core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una
similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non
si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in
possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna,
perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il
richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti
sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che
hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né
favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo
troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne
l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68 cicada tansillo cicada
sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser
chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non
san- no secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che
tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or
dimmi appres- so: quai sono le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo
Punte son quelle nuove che stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda;
vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli atten- de;
catene son le parti e circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de
l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli
“sguardi, accenti e modi”? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali
l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le rag- gioni con le
quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace
sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suave- mente
arde e constantemente nell’opra persevera; te- me che la sua ferita si salde,
ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita
quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma,
e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto:
in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il
tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore
Letteratura italiana Einaudi 69 Giordano Bruno - De gli eroici
furori di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non
vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto
diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta
circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce
gli armati pensieri che solle- citati e spinti dalla querela della natura
inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si
debbano portare perché invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente
vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque
che s’armi- no d’amore: di quello amore che accende con dome- stiche fiamme,
cioè quello che è amico della genera- zione alla quale son ubligati, e nella
cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che
reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o
bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che
se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per
donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che
procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima
quando dice a gli pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò.
Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere
intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha
due significazioni: perché o significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che
è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè
quell’applica- zione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o
intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere,
non s’intende del pri- Letteratura italiana Einaudi 70 Giordano
Bruno - De gli eroici furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre
della seguente affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada
Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è
causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi-
deramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che
notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la
bontà del vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose
belle s’of- freno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose
belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono,
anzi più tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il
bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può
esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la
vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio?
tansillo Se non per sé, certamente per altro è deside- rata, essendo che
l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se
quell’altro non è in notizia di sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser
desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso
quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio
se sia intelligibile o sensi- bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia
uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e
l’intelletto è un ap- petito et appulso al sensibile in generale; perché l’in-
telletto vuol intender tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è
bello o buono intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il
sensibile, per che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura
italiana Einaudi 71 Giordano Bruno - De gli eroici furori bile.
Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le
cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da
la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che
sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre
quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come
in tutta la potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella
intellet- tiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è
l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a
l’atto in universale, come a cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava
dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de
reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è
però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente
detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensi- bilmente o
intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta
mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da
quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più
visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di
cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo
è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri.
Qua la vi- sta suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede;
perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che
tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e
bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo
informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure
desideriamo di pascere la vista esteriore? Letteratura italiana Einaudi
72 Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Da quel, che
l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede.
Però vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad
attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere,
per- ché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso
illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere,
bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto
del intendere e considerare: perché come la vista si ri- ferisce alle cose
visibili, cossì l’intelletto alle cose in- telligibili. Credo dumque
ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: «repri-
met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel
ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra
gli det- ti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi
et affissigli al splendor de l’oggetto, erano ri- masi in compagnia del core.
Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi
lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi
n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e
guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo
scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e
fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa,
nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Letteratura italiana Einaudi
73 Giordano Bruno - De gli eroici furori Eccomi misera priva del
core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza, la qual tutta
avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia po- vertà,
infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo? perché non
mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze
na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di specie
intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è
composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care
membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le
qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et af- fetti,
intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su su, o miei fugaci
pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto
de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto
corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste
questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito
l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per
esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e membra?
Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi
cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo gli
proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono
mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e
vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere
vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse;
dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua
legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla
legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano,
non si conturbino. Basta che uno non Letteratura italiana Einaudi 74
Giordano Bruno - De gli eroici furori guaste o pregiudiche alla legge de
l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È
pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove
l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in
propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati
di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove.
Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e
principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de
l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è
nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi
de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non
in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che
non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et
animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la
condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare avaro
de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse sotto la
vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu- ra di
donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto
stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l
primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la
causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del
corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella
forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e
forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente:
Letteratura italiana Einaudi 75 Giordano Bruno - De gli eroici
furori Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva,
e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice
fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al
mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve
converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e
ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi
dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre
consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima:
atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì
qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme
col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar
quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una
suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il
raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et
oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco,
cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria
et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura
corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a
cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto
lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade.
Come quando il senso monta Letteratura italiana Einaudi 76 Giordano
Bruno - De gli eroici furori all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la
rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si
converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario
descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione,
ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi
l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo
mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi
d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima-
le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera
l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle quali l’uno
e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo
Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è
vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può deside- rar esser
uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più
d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scro-
fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la
raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che
altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi
hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza,
la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe
sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa dalla material
congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un
altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a
quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se una bestia avesse
senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e
l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, Letteratura italiana
Einaudi 77 Giordano Bruno - De gli eroici furori al quale non
stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse
quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es- sere
presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene
introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la
mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con
tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et
ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei
possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi
convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da
lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di
cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine
di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con-
templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde
con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora
vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva
nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et
absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo,
ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate.
cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo,
invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo
corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi
de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il
rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia
corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti”
al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse
Letteratura italiana Einaudi 78 Giordano Bruno - De gli eroici
furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché
rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che
questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna
(dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è
fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei
pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a
l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo
greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada
Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito
della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio-
ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et
intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina
che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi
progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per
quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la
providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de
l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se
tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa
l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura,
viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de
mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali
grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene
appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro,
come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che Letteratura
italiana Einaudi 79 Giordano Bruno - De gli eroici furori tal anima
non ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de
potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con
l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra
gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi,
servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza
sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva
nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal
proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari
diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto
a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et
ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura,
secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come
vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente
Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli
affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu-
ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo
ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto
o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad
essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o
secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede:
non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse
Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo
Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è
promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto
Letteratura italiana Einaudi 80 Giordano Bruno - De gli eroici furori
mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?”
Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io
monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze
conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte,
gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale
vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve
l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per
cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto
predice dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà
ch’io monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi
faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno
evidenti e come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”?
Quando sarà, che “for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio-
gliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui
che fe’ gionte” et unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè
l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un
contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali,
quali ne gli atti suoi son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa-
cendole alquanto respirando aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a
pieno, donando a queste li- bero et ispedito il volo, per cui possa la mia
sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende
mie; dove pervenendo il “mio spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è
oltrag- gio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che
l’assaglia? Oh se “tende” et arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e
perviene a quell’altezza, dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il
suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro
che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la
propria capacità; e quel “solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser
felice in quel modo che “dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza
nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che
“dice” o fa chi tutto “predice”, cioè chi è de tutte cose efficiente e
principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco
co- me per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de
l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili
o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran
parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circola-
zione che si vede ne la vertigine de la sua ruota. cicada Fate pure ch’io veda, perché da me
stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare
esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. Giordano Bruno - De
gli eroici furori tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o
fortune. Lasciamo di considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su
la significazion de l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella
che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per
il più de le volte a dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco
qua il primo che porta un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è
depinta la fiamma sotto la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a
gran forza un fumoso vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria.
tansillo Per dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per
quel che si vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo
umido ele- mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per
conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser
contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi-
to e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa
evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con
cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien
significato il cor del furioso, dove come in esca ben di- sposta essendo
attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in
fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per
l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt
tria». Dove quello “At” ha Letteratura italiana Einaudi 83 II. tansillo
Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro
colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la
terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique to- tum. Giordano Bruno - De
gli eroici furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contra- rietà:
quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have.
Il che è molto bene espli- cato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio
gemino lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che
dentr’il petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo
che dal cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime,
suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’,
aria, foco qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea,
che né mio pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al
mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia significata per la “terra” è
la sustanza del furioso; versa dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose
lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de
suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come piccio- la
favilla o debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra
in altro essere: ma come poten- te e vigoroso (più tosto acquistando de
l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben
compreso il tutto. A l’altro. Letteratura italiana Einaudi 84
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Vedo che non può esser
facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è
men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete
considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra, per
ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al
riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et in cadaun loco fa
tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a
far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la
terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una
parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tro- pico del
Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a
medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a
quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la di- sposizion vernale o
autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli
freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra par- te, e
non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla
da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che
volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a
la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del fu-
rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son
l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori,
che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o par- tono da l’acqui e
vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al
Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa
ritorno, Letteratura italiana Einaudi 85 Giordano Bruno - De gli
eroici furori ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più
prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti,
sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in
pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et
infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo,
equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il
senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la
conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è
latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la secon- da; come
l’uno e l’altro è molto propriamente signifi- cato nel tipo del sole e de la
terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un
fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul
braccio con gli occhi rivoltati verso il cie- lo a certi edificii de stanze,
torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la
materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol
dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fan- ciullo ignudo
come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna,
qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre
cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et
il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi
suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la Letteratura
italiana Einaudi 86 Giordano Bruno - De gli eroici furori speranza:
voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione et il pensiero con cui
vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e
conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e
tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso
cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la
natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici
per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi
con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che
questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando
tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo
a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin
ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o
felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli
uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né
prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio
dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il
spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire d’esplicarsi a far conoscere
la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il
fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin
rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli
venesse Letteratura italiana Einaudi 87 Giordano Bruno - De gli
eroici furori manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto
beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo
morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per
cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le
quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso
et il travagliato spirito de lui; a la vista del qua- le fia necessario che la
compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV.
cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi
quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo
Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla
vaghezza del splendore, in- nocente et amica va ad incorrere nelle mortifere
fiam- me: onde “hostis” sta scritto per l’effetto del fuoco, “non hostis” per
l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo- sca passivamente, “non hostis”
attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore, “non hostis” per il splendore.
cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de
l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che
per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o
fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può
disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al
spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e
sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, Letteratura italiana Einaudi
88 Giordano Bruno - De gli eroici furori ch’il stento, giogo e
morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la
similitudine che ha il furio- so con la farfalla affetta verso la sua luce; ne
gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che
comunmente si crede che se quella mo- sca prevedesse la sua ruina non tanto ora
séguita la lu- ce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di per- der
l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace
svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la
beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di natura, per
elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio,
più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al
core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma.
cicada Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno
d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la
luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica.
V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il
motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten-
dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia,
essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia
sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel
s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma
disdegnosa spenti, Letteratura italiana Einaudi 89 Giordano Bruno -
De gli eroici furori le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola
presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva
dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio
e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e
nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et
accomodato, insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la
intelli- genza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove
dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi
perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor
de la specie intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da
gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son
questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la
quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne
gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro
che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e
trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi
dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì
ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima
conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a
quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime
(come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta
dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la
legge di quello viene a do- Letteratura italiana Einaudi 90
Giordano Bruno - De gli eroici furori mar e correger questo), accade che
quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a
quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale,
viene a repigliar la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in
rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal
conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino
nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de
conformarsi d’una simi- litudine divina», divertendo la vista da cose che sono
infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori;
«secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori;
terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da qua avverrà
che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e
pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se
gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza
quella che in- vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né
constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la
bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come
l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto,
il quale sovente da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna si faccia
ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a
quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è
l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato. Appresso l’intelletto
s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la
bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si per- suade che sia bella da
per sé e primitivamente: atteso Letteratura italiana Einaudi 91
Giordano Bruno - De gli eroici furori che non accaderebbe quella
differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e
belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello
intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è
quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de
militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul
dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa
dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza.
cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar
quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte
d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più
stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de
gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza,
dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso
veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un
fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma
perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga
Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu
sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma
te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da
Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana
Einaudi 92 Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et
io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né
quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal
senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte
de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar
che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e
l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de
l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu,
essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice,
e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu,
perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo
innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel
che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi
ad investirsi de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al
cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore
muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco;
e questo il trova e mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di
lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili
caggioni de circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende
con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi
che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore,
che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il quale è
incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel
che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che immediatamente
influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto
agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha in-
fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie
che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole
che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e
numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi
oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu-
rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo
intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì
secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te
stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la natura
dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e
del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la
differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da
l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da
cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma,
s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol
significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori,
con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai
arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da
sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel
circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel
moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene
sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in
uno Letteratura italiana Einaudi 94 Giordano Bruno - De gli eroici
furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la
circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e
la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e
mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima
(come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et
inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il
proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come
comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e
col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de
l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del
Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una
possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la
primavera, l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché
è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che
dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in
tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l
comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui
compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non
è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che
lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di
toglier quella e mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin
che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel
motto, secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può
essere significato; Letteratura italiana Einaudi 95 Giordano Bruno
- De gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il
moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali
malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che
son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del
suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol
che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal
pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier
Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade,
autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio,
che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo
sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar
miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati
non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma
per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario:
per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota
appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete
leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi,
avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che
questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano
tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi
96 Giordano Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo
accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e
bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio,
l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette
sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que-
sta vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra
mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada
Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel
cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et
astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si
mostra qua piena e lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che
acciò che meglio forse in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella
tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene
svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli
fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le
spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre
piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre
tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia
nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la
sua intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”:
cioè Letteratura italiana Einaudi 97 Giordano Bruno - De gli eroici
furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché
alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene
oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo
speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et
affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come
questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì
l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in
ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili
Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è
in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto
emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume
d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per
ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a
l’“Austro”, or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or
più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché
questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso,
combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze
inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno
e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto
non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre
tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero;
“sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è
“tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”,
perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”,
percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza
al motto. Letteratura italiana Einaudi 98 Giordano Bruno - De gli
eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua
applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio
altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto
posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de
pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è
pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual
m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è
invariabile in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle
cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”,
perché al rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente
luminosa, essen- do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre
parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo
con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or
più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente
illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo
emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero
equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a
volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri
innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei:
atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra
più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la lu- na
che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la
luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che
hanno la luce materialmente, e secon- do participazione, ricevendola da altro;
dico non es- sendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo Letteratura
italiana Einaudi 99 Giordano Bruno - De gli eroici furori del sole
ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro
et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non
sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di
materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra
secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per
l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo
intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è occupata al
governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia
certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è
una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un vento che soffia,
et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola
che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra:
né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra,
né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra;
mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo
terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere
distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’,
il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il
furio- so d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura
italiana Einaudi 100 Giordano Bruno - De gli eroici furori
quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il
prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto
è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il
sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual
porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e
fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo
astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa
pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo
io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte
toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà
giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non
toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della
constanza, ma più tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli
volgari: perché lui non sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza
quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le
porta; non stima compìto amor di- vino et eroico quello che sente il sprone,
freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de
gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente
dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la
somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di
dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo
Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue
sentenze, al con- trario di color che leggono il corso de sua vita et il ter-
mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il X. tansillo Guarda
in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale
è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua
s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove
tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del
suo testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra
vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché
quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel
tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la con-
siderazion del fine». Et è cosa manifesta che non po- nea felicità più che
dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete,
né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de
la constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe;
ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il
spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti.
cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché
è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e
non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro
disse “non sentire”. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto
è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente
Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno,
Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi
d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili.
cicada Or passate oltre. Letteratura italiana Einaudi 102 Giordano
Bruno - De gli eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo
gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi
studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina,
incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la
fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran
martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si
mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il
quale non è al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori
de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in
sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di
noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un
proprio affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi
al meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante.
Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che
noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano:
come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio.
In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì
facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere
che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la
vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene
o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali
e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi
103 Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno
qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno
sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun
vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo-
re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che
ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in
pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi,
riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la
terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che
s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani
essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che
si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore
da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo,
summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato
il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì
è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri
distratto, martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato
da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad
essere men diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della
potenza ve- getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha
difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno
instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena-
no ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e
dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi
discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è
attaccato a cose basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104
Giordano Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose
imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava-
gliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine
di Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma
signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che
volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E
quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad
essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli,
conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli
mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri
stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di
Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder
che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te,
con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice
Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto-
posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più
specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente.
tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator
d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’
altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è
l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o
Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana Einaudi 105
Giordano Bruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per
l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante
appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco
qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le
circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri
che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi
suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le
condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or
qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la
maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le
altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come
accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e
viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal
differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per
participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le
perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella
simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e
però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che
fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora
medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non
solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e
larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo
puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi
106 Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la
sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e
latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no
infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra,
atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e
buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più
potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non
infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve
è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe
essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita
bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or
dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de
dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me,
voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la
perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il
grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far
tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio
ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo,
come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in
sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e
l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et
amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì
proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de
gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha
quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son
quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi
107 Giordano Bruno - De gli eroici furori stanno due stelle, et in
mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna
significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conse- guente di
quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata una infinita
bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, af-
fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli
suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo
Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste
dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie
spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi
siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii
turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare,
che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan
tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti,
quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da due stelle
nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi
che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza
e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio
intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente,
secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende
quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito, appagato, e fisso a
certa misura, Letteratura italiana Einaudi 108 tansillo cicada
tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori non sarà circa le specie della
divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspi-
rando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente
l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col deside-
rio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello su- spira, quello
medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per
quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e
spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro co- me medesimo
per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il
vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli
suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie,
ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente
uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo
d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono
tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione che di
nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che
l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo
quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad
appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può
seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana,
se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove
l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove
l’infinita potenza è positiva per- fezzione. Letteratura italiana Einaudi
109 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Se l’intelletto
umano è una natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita?
tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né
misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia infinito
nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità
della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello infinita- mente
infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”,
perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri voragi-
nosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che
procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade.
XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa
la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal
amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il
furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il
contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere
più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica
insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte
mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei
archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si
parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada
Questa tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo
Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non
merita altro che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son le rag-
gioni con le quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E son
“focosi”, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che
conseguentemente scaldeno l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie
di revelazione che gli scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»;
onde l’intelligenza illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce
quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in effica- cia che la
contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte
delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto
soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che
“bruggiando a tutte l’ore” s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che
possiamo raccòrre in questo sta- to non son sì dolci che non siano più gionti a
certa af- flizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena
fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la
condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta
epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter
simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in
somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui
stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque
sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec
satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere
membris Letteratura italiana Einaudi 111 Giordano Bruno - De gli
eroici furori possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris
conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo
est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde
abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente
giudica nel geno del gusto che qua possia- mo aver de cose divine: mentre a
quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio
che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi
aggionge scienza ag- gionge dolore, perché dalla maggior apprensione na- sce
maggior e più alto desio, e da questo séguita mag- gior dispetto e doglia per
la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più
tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet
simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec
servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit
alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu
sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit.
cicada Che intende per il “meridiano del core”? tansillo La parte o region più
alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e retta-
mente è riscaldata. Intende che tale affetto non è co- me in principio che si
muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV.
cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di
ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat
ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor
mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale
e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor instat”; ma quel che séguita, non
posso capirlo, cioè che l’amor come istante o in- sistente, inste: che ha
medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: «questa impresa costui la ha
finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la vale
come la vale, la stimo come un che la stima». tansillo Più facilmente determina
e condanna chi manco considera. Quello “instans” non significa adiettivamente
dal verbo instare, ma è nome sustanti- vo preso per l’instante del tempo.
cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che vuol dire
Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno instante,
e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo può essere
se non è tanto mini- mo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli forse che
in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo adesso?
Vorrei sapere come questo in- stante se divide in tanti secoli et anni; e se
per medesi- ma proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto.
tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi sug- getti temporali, cossì
l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo
che fui, so- no e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e
per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo?
tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in
essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi
(perché non Letteratura italiana Einaudi 113 Giordano Bruno - De
gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi
che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché
questo “instans” non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa
significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non vogliamo far che
sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe- ramente intendere
ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di
tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi interpreta- te)
sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il
motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno
instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma
bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra significazione. E per
uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un
edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete
voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si
ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi,
giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge,
sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto,
in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi
scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso il senso: e confesso
che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo di procedere a
l’altro. Letteratura italiana Einaudi 114 Giordano Bruno - De gli
eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve langui- sce dove
l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco,
con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non
idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido
d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar medesimo fato
molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente,
senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio,
mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e
distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo]
Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e
per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi;
s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi,
credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne
l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia
diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non
sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei
impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle
son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan,
odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor,
astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115 Giordano Bruno
- De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io
liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io
quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del
fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino
vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a
meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel
mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma
al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più
ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il
futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder
designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che
fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre
teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia
volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le
cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che
in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là
è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude.
cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra
il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni
che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella
tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di
chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si
die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al
presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel
soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i
frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che
vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun-
Letteratura italiana Einaudi 119 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né
possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che
furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il
possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli
frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il
morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne
ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e
prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo
aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio
Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni,
per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per
conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo
che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose
presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì
gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano
confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria.
Quando furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di-
spersione e cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano
suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte
l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a
fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male
vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza
alla bas- sezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi.
Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova
altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non
raggiono con altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120
Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il
teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è.
Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo
che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso
l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin
credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de
la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men
convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et
ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché
volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me
piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella
face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta-
de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso
quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto
son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde,
fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi
piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che
riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira,
ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap-
paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente
è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la
natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi
amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e
participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi
unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti
gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel-
lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso
vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che
il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi
che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il
mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi
può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal
maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di
eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della
cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta
convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez-
za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta
ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali
per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti-
Letteratura italiana Einaudi 122 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel
quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più
bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma,
o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar
l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o
si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre
verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al
desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura,
imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo
Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra
coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda
tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a
più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et
hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii
gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle
quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal
superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove disse un
divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio, la
divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare
errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle:
errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che
vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce
da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di
commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può
presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura italiana
Einaudi 123 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino Come
importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo
disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a
tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di
controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici
son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la perdita
d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci
danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru-
stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son
più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più
alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia:
intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro,
trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per
conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano
essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come
dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse:
Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis
manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis,
et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura
voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est,
rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter
amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est,
unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
Letteratura italiana Einaudi 124 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa
che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo
del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla
si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii
per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di
generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove
queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo
suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di
sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che
la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III.
cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che
arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal
cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par.
maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a
dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi,
contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende
tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e
quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore
accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero,
manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi
struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca
col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque
costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et
abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che
oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato
furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso
il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che
ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si
risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara-
zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che
la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un
oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe
Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de
tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero stati
messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta- re del
cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con questo
che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato
divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno
e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li
quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono sempre a
celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza
vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno gionta-
mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e
di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o
insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro
idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de
l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico
me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato,
nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel
tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de
l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò
che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a met- terlo
nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso de la terra.
Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e
non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e consegliero
d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi fatto degno
dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid
mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo
Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli
d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di gloria ti tocca il
petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre
cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare».
Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille
o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse
quel filo- sofo morale, «è più conosciuto Domenea per le lette- re d’Epicuro
che tutti gli megistani satrapi e regi, dal- li quali pendeva il titolo [di]
Domenea, e la memoria Letteratura italiana Einaudi 127 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de
l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma
per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel nu-
mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne
sopraviene al capo una profon- da altezza di tempo, sopra la quale non molti
ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al proposito di questo furioso il
quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi
che co- me quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido
fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai
possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non
vengamo a detraergli più tosto che aggion- gergli di gloria: di sorte che la
maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza
de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et
ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione.
Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove
l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal
altro nu- mero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né
da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là
onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli
nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente
che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata.
cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono ad imagine
e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più illustre che
tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser uditi.
Letteratura italiana Einaudi 128 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori IV. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto.
cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo
fuoco in forma di core con quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove
tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la
questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato
de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa
mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor,
che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il
spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli
occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto.
Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi?
Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E
tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi?
Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e
con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il
consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e
tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de
studii, opinio- ni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze
tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli
publici spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129
Giordano Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il
piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto,
riti- resi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso,
di sorte che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de
molti, perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al-
trimenti s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli
quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore:
per splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui.
Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver
acquistato poco quando è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli
quel che dice Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e
che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis;
satis enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira
alto, per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella
luce spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non
dove è ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la
prima, principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver-
bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino?
maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia
mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al
tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma
venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di
sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le
anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi
alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi,
Letteratura italiana Einaudi 130 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non
più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi.
Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se
stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica,
di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi
nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno
spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre
armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che
mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è
regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove
consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a
Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de
Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto
sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di-
ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori
simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché
si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più
che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de
cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si
desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle.
cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli
sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli
proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non
debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo
che con la meglior parte di sé sia da quello absente, Letteratura italiana
Einaudi 131 Giordano Bruno - De gl’eroici furori farsi come con
indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che
non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che
esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente
riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che
tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che
han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no
sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co:
perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso
che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e
materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra
la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e
persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso
veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa
il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella?
maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con
la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro-
prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over
quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in
circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente
altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso;
altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e
del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel
tanto che s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi 132
Giordano Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso
tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa
per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene,
speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor
ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de
l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate
ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in
altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or
ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come
il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera
che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti
posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente
nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de
l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene-
rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico
pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo
stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della generazione.
VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio una nave
inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat
in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri- soluto, esplicate.
Letteratura italiana Einaudi 133 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col precedente
motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma
leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che
non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de
piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i
miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli
diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e
mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti,
atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte
a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et
emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti
discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il sentimento di ciò,
massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et
annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente ad oggetto
più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne (come nota
lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti
inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere
altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro De’ trenta
sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa,
altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte, non Letteratura
italiana Einaudi 134 Giordano Bruno - De gl’eroici furori si
soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri: onde la
speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte
intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa
presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere
il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla
divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella
trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina
e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o
suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa
dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te,
dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice:
Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man
d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura
italiana Einaudi 135 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu
perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le
palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato
ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua,
per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà
(diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar
indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del
grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il
“volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta
alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti-
tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada
divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove:
«Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso,
l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio
tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la
quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi conoscere
mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre,
non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli
enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non
possa essere) priega la divina luce che “per la sua bellezza” la quale non deve
essere a tutti occol- ta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e “per il
suo amore che forse a tanta bellezza è uguale” (uguale Letteratura italiana
Einaudi 136 Giordano Bruno - De gl’eroici furori intende de la
beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che “si renda alla
pietà”, cioè che fac- cia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schi-
vi si fanno graziosi et affabili: e che “non prolonghe il male” che avviene da
quella privazione; e non per- metta che il suo “splendor” per cui è desiderata,
ap- paia maggiore che il suo amore con cui si communi- che: stante che tutte le
perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la
ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con
la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce
a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol
dire quella morte de amanti che proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti
mors oscu- ri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in
disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è.
VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a conside- rar il seguente dissegno
simile a questi prossimi avan- ti rapportati, con li quali ha certa
conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come
e quanto vien ritardata dal pondo d’una pie- tra che tien legata a un piede. Et
èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e
volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel
verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto
generalmente è diviso in due faz- zioni (quantumque subordinate a queste non
manca- no de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’in- Letteratura
italiana Einaudi 137 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
telligenza e splendore di giustizia; altre allettano, inci- tano e forzano in
certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de
voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso;
meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più
meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango
spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì
cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena,
impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi
mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor
m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi
darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite?
L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son
l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali essa naturalmente si
riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, co- me
all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa naturalmente ha impeto
verso il suo principio re- gressivamente, e progressivamente verso il suo fine
e perfezzione, come ben disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa
inferire quel che disse il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde
parte raggiri, e al suo principio i discorrenti lumi; Letteratura italiana
Einaudi 138 Giordano Bruno - De gl’eroici furori e ’l ch’è di
terra, a terra si retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han
spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva
ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva
mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre
procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che ségui- ta
l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza
non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte della sua
su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita al
favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et
a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la si- militudine che
ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica o infinitamente producendo,
idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in
quello; o finitamente, producendo so- lo questo universo suggetto alli nostri
occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se
ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che è ordinata et al proprio e
l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è
potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali potenze; e con un greve
sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti delle seconde e materiali
po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite,
diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare più al basso, che di
forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene
la regione lontana dal suo albergo più natu- rale, dove le sue forze son più
sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare? Letteratura
italiana Einaudi 139 Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo
Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più
fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior fa-
cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra,
vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien
fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de
divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia
divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso l’altre stelle.
cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e
maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il
Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento
porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e
detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior
impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non) bisogna che vi
pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi,
cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro- prii oggetti,
come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il
senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per gli carmi.
cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX.
cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti
sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra
continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità
che avea Letteratura italiana Einaudi 140 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori con la materia, era più dura et inetta ad esser penetra- ta da
gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade;
per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et
inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che
aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi
da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice:
«Vulnerasti cor meum, o dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non
son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de
Diana o di Febo: cioè o della dea de gli de- serti della contemplazione de la
Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri-
portano il splender ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son
privi de più aperta visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il
pro- prio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi,
da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali
son indica- trici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za,
secondo diversi ordini dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché
l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma
rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza
luminoso, tutto luce, con ciò che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto.
Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di fresco
esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione:
onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta-
zione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della
sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più
pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata
per le fumositadi di quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi 141
Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non
s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di-
sposizione il presente furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de
quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace
abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno
sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in
diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se
dice lucere e scaldare a quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco
profondo), per essersi “ac- campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato
per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di
verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto,
vennero superari gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come
trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché
quelle luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole
d’intelli- genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità
per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della
potenza appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto.
Questo fu “quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè
più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo-
strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato
et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è
detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura,
motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti
da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de
suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in
quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor
mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier
irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi
si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci
penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio
dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione
della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole tra tutte
quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia
e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può
presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte
d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese possessione de
l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte vi si tenne”, e
se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo:
percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una
volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa
far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada al- tro che bene o
specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene.
Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser “fugaci” concorrendo giù col
pondo della materia. Cossì da là “mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e
risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”, che son gli efficaci assalti del
grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto Letteratura italiana Einaudi
143 X. escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero
possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere
altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci
ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino
Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in proposito di questo.
Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che
sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito,
clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo
veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato
pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali,
ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da
l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli
antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di
Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n
ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli
assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia
d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli
animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni
de Letteratura italiana Einaudi 144 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìn- cipi
conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne
l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et imperio che gli
altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità.
Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un
ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciato- re
nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua
testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque
recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae
intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua
venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea perpendicolare in alto,
e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e
pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il
vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di specular da lungi
la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino
Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli
occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma
forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa presentar megliore o più
como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or
venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso
animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia
presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di
questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa
tempesta Letteratura italiana Einaudi 145 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi
animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di
sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e
più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per
similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità
quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito.
Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam
data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit
igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”,
“ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo
d’aura sottile”. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu-
zia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar
l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è
meglior domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non
si trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non
è dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e
fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui
si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto
bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è
spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi
margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della
visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da
conside- Letteratura italiana Einaudi 146 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori rare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti
gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il
camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia
e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il
suo letto è l’istesso core, e consiste nella me- desima composizione de nostra
sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu-
ralmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e
discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante
l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino
Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto
il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire.
maricondo Non bisogna far altro che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che
la bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti
commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta,
quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti)
accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta.
Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or
ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove
per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove.
Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre
tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura italiana Einaudi 147
Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto questo senso è metaforico come
gli altri, e può es- ser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine
de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili
individui e specie de cose, nelle quali ri- luce il splendor della divina
beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto
et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de po- tenzia et
atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con- solano, e donano senso di
dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a
Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene
exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad
sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la distrahano: ma è una sola
piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua me-
desima affezzione. Allora non è amore o appetito di co- sa particolare che
possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la voluntade, perché non è cosa
più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono
che la bontà, non si trova più grande che la gran- dezza, né cosa più lucida
che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti.
cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però
la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando fiagli presente quello ch’è
del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque pos- so la conclusione, dove
dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto” (si
di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti ammazzar colui ch’è morto”.
Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli
possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene ad essere espo- sto ad altre
specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità,
vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo
Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi 148 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro
un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose,
che languido e lasso ha aban- donati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti
nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe che lui dal se- reno aspetto
de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo
inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper
l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo
il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo
frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo
male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale;
né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi
gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non
la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai
certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei
fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran
traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodu- lento
l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e
motto, credo che abbia con- seguenza con il presente; però continuano
leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più
maturi, Letteratura italiana Einaudi 149 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati
duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più
sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi
furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più
tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso,
e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo
di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido
fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che
significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo
dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica,
vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de
l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al
negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o
di rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto
spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui
che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la
perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si
gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere
facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia
tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione,
timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla
putatis dona carere dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far
esperienza di sé, è cas- sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et
è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è
peggio ch’il male istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore
patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli
nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è
sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa
più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si
sente? Queste son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura.
Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de
l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si
trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et
imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né
tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non
altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito
che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso.
maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine
del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi mariconda Qua vedete un giogo
fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che
vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo,
cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica
sopra qual- sivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo,
perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo conside- rar il senso, se
pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor
la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la
bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la
foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per
cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o
dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha
nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante,
ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice
cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento
sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde
uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla
moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi
152 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da
pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con
la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio
sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere.
Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et
idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a
Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più
ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto
fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da
gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e
bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende
“ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e
vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge
essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre,
quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la
nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o
pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose
indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori,
servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et altri simili: perché
altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi,
pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano
eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato
della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori,
superio- ri et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor
di noi, ma et ancora dentro di noi, nella no- stra sustanza medesima, sin a
quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze al-
tre son suggette, altre preminenti, altre serveno et Letteratura italiana
Einaudi 153 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ubediscono, altre
comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per
essem- pio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali
a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al
fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe
deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute
le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi,
trattar cose naturali, intromettersi a determinar di co- se divine? Chi non
vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte “ad alti amori le
menti deste”? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele,
che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo
spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de
filosofi naturali, volendo con il suo racioci- nio logicale ponere
diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de
fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso più della
fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e guidata con
sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della
verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro?
Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore
di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel
tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e
di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo “sursum
corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto
più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è in-
comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da
quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle culine de
fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi 154 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori tomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a
far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai
studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della
ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì
bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu
carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere
questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese
vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat
poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non
dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti,
ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più
in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti
camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile,
quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno
esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla
divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su
l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver
ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane
spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente
precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il
futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo
a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana
Einaudi 155 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà
e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello
attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar
sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons
vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce
se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol
rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e
proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri;
l’altro sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et
altre simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che
intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la
pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo
bene. Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il
scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno
mon- tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono
che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può
bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato,
viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e
vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro
appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in
ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la
camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli
perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e
proposito di Letteratura italiana Einaudi 156 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar
forse la proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre
simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva)
de- vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per
fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che
voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte
sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e
sce- lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che
come è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato
et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee,
le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi,
modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della
gio- ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti
della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella
lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti
a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho
mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo
de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e
spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o
l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi
esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima
parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto
circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente
desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo
sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il
quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo,
percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e
sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e
conchiudere con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che
vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura
intellettuale non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non
altra che corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine
eccetto perché vada in sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non
si trasmuta in spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni
trasmutazione si fa quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad
essere sotto la forma de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno
materia commune, di sorte che quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad
essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si
portarebe meglio dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico),
di sorte che quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo
credere che sia vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O
anima grassa, o fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o men-
te illustre, o benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un
banchetto a i dogs». Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito
de forze, debba esser stimato de poco sale, discorso e raggio- ne. Ma
seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella sola che
sempre da lei è bramata, cercata, ab- bracciata, e volentieri più ch’altra cosa
gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità
alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in Letteratura italiana Einaudi
158 Giordano Bruno - De gl’eroici furori qualsivoglia stato che si
trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica,
tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché
la verità è cosa incorporea; per- ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica,
o sia mate- matica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza
umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica
(disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le
cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobi- le: perché come specie
incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e come si communica alla materia
et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo
modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e
corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Ve- dete appresso
che gli matematici hanno per concedu- to che le vere figure non si trovano ne
gli corpi natu- rali, né vi possono essere per forza di natura né di arte.
Sapete ancora che la verità de sustanze soprana- turali è sopra la materia. –
Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de
cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha
certa mente e memoria na- turale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più
necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più
altamente, quanto è più alto e glo- rioso chi ambisce, e quello che si cerca.
Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che
appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla
perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche
specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume,
l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione,
qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della Letteratura
italiana Einaudi 159 Giordano Bruno - De gl’eroici furori verità,
per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le
cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa,
densa e deserta solitudine la verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti;
fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove
con le raggioni più degne et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si
profonda con diligenza mag- giore, come noi sogliamo gli tesori più grandi
celare con maggior diligenza e cura, accioché dalla moltitu- dine e varietà de
cacciatori (de quali altri son più ex- quisiti et exercitati, altri meno) non
vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue
orme e vestigii impressi nelle cose naturali, che son gli numeri li quali
mostrano il suo progresso, raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in
numero de moltitudine, numero de misure, e nu- mero de momento o pende, la
verità e l’essere si tro- va in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedo-
cle che considerando che la omnipotente et omniparente divinità empie il tutto,
non trovavano cosa tanto minima che non volessero che sotto quella fusse
occolta secondo tutte le raggioni, benché pro- cedessero sempre vèr là dove era
predominante et espressa secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei
la cercavano per via di suttrazzione non sa- pendo che cosa di quella
affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamen-
te si forzaro di profondare rimovendo, zappando, isboscando per forza di
negazione de tutte specie e predicati comprensibili e secreti. Qua Platone
anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari: perché le specie
labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da le siepe de le
definizioni, con- siderando le cose superiori essere participativamen- te, e
secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura italiana Einaudi
160 Giordano Bruno - De gl’eroici furori inferiori, e queste in
quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne l’une e
l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala, nella quale sem- pre l’infimo
de l’ordine superiore conviene con il su- premo de l’ordine inferiore. E cossì
si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al bene,
dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi. Qua
Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire
alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché
egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a
questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere
de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la
verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali conside-
rano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpe- tuator della sempiterna
generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e
fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la
luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità,
verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come
oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare
possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce absoluta per specie
suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo,
l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è nell’opacità della
materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per
dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli
che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de cac- cia de
fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere
avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissi-
Letteratura italiana Einaudi 161 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser
contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla bella disposizione del
corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemi- no
splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra- sformati in cervio, per
quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di
questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda,
per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte
le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose particolari, il cac- ciatore
viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de
l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad
appren- dere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito:
onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio,
et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive
nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli
gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più
liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in
terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: «Ecce elongavi
fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì gli cani, pensieri de cose divine,
vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto
dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della mate- ria; onde
non più vegga come per forami e per fene- stre la sua Diana, ma avendo gittate
le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte
che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo
la diversità de sen- si, come de diverse rime fanno veder et apprendere in
confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti nu- meri, de tutte specie, de
tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura italiana Einaudi 162 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori nade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non
la ve- de in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli
è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade,
procede questa mo- nade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si
contempla e specchia come il sole nella luna, me- diante la quale ne illumina
trovandosi egli nell’emi- sfero delle sustanze intellettuali. Questa è la
Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero,
quello vero che è la natura comprensi- bile, in cui influisce il sole et il
splendor della natura superiore secondo che la unità è destinta nella gene-
rata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete
conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo più degno del cacciatore e de
la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese,
per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che
invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo
che ne have in tal specie quale è impos- sibile d’essere ottenuta da natura
inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può
cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più
che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di ritornar a casa. mariconda Bene.
fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi 163 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO interlocutori Liberio, Laodonio.
liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furio- so, e trovandosi l’alma
intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa mirabile), avvenne che (come
fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero
insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era
principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi
ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il
qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core
a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva
ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio,
ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato
loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di
scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi
son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non
so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente
l’intendere, il vedere, il conosce- re è quel che accende il desio, e per
conseguenza, per Letteratura italiana Einaudi 164 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto
a quelli fia presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più
vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente
ac- ceso il core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più
fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né
rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’ec-
cellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a
l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia, quantunque sia
cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi udire se gli
occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il contrario si
lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per cui ver-
sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo tenore: Prima
proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core, da quante
mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de
l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi
dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto inonda
scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo picciol
mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste in
sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento
dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli
occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi 165
Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo, quest’altro viene
a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui
dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole,
quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non
perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti,
che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette
canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella
potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione
de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de
gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core
a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che
fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio
il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario
in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia
sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio
varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal
volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea
persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di
con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il Letteratura
italiana Einaudi 166 Giordano Bruno - De gl’eroici furori modo
possibile, quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che
acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi,
inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude,
la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di
vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima
risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai
smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è
semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte
perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare
il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse,
e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come
splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio
filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro
De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone,
che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più
facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono
semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno
perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove
sono come in principio agente e materiale. Letteratura italiana Einaudi
167 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Però non metteno urgente
necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e
cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni:
prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali
oltrag- giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli
occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza
dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere
per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro,
cristallo, o altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa
sottoposta senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et
anco vero che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del
profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo
geno, si può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et
oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la
quale secondo medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del
so- le secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso
vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un
modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì,
perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante
fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda
proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il
cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al
mondo scarco Letteratura italiana Einaudi 168 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il
glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion
ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per
ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per
cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual
potenza è questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui, perché
Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son
gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla
onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli
occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se
la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale
a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor
senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni
peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si
scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto,
né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è
raggion, sens’, o pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169
Giordano Bruno - De gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno
efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se
vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta
del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et
oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito
incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito
l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a
tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far
possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e
l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è
molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se
stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna
che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può
resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar
questa. Se dumque è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che sono
ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando
l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino
torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca-
de che il bel nume per apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana
Einaudi 170 Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o
favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a
l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi:
Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso,
l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso,
acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur
tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il
coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi
con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì
’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale?
Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi
contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e
l’altro fosse fini- to, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose
naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma
certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o
al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et
etica che vi sta occolta, lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi
vuole e puote. Sol que- sto non voglio lasciare, che non senza raggione
l’affezzion del core è detta infinito mare dall’appren- sion de gli occhi:
perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo
definito oggetto Letteratura italiana Einaudi 171 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori proposto, non può essere la volontarie appagata de fi- nito
bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come
è detto commune) il sum- mo della specie inferiore è infimo e principio della
specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non
possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle,
nella qual ma- niera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo
che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però
non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe-
cie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio
Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per
l’oggetto, se infi- nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se
questo infinito fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine,
come è per più positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato.
laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può
essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine
del- le quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e
perfezzione, come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione
e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel-
lo, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del
nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase
proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove
può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è
infinitamente fe- condo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio]
Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella
potenza; ma che la potenza Letteratura italiana Einaudi 172 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente
assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza,
suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena,
perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si
trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre
s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del
corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che
guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo
termine e fi- ne, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa
similitudine qualmente il sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de
l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal-
volta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo,
viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo,
et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo
d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo
vuole per- ché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a
quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de
eminentissima eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et
exaltabitur Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in
questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con
il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette
in esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile,
l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza
receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è
come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e
l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi
173 Giordano Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice intelligenza
da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si dice il core
es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere a l’alma
animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è
convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina:
atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e
conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può
essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi
ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso
hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere
l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re
l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi
apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare
presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il
fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli,
perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et
appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti,
perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son
turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che
con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà
l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e
cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della
cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge
come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la
felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per
il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo
et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli.
Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e
comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in
certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas
esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran
verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti
inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama
tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de
l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino
per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico)
quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che
aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio
appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi
175 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO
interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove
ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità,
benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo
Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie-
co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può
persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che
quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della
dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma
egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello
che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino
Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina
nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in
fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua
guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre
orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco
Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che
dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana
Einaudi 176 Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve
mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse
torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce,
conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad
esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di
terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la
gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la
gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo
ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo
cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con
sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la
tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì
crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de
sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar
mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né
sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi
sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio
mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per
essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso
che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli
avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli
è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a
l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader
suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga
gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a
l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso.
Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a
un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde
lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar
ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti?
perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare
sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il
quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si
mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì
questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli
occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per
conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile
del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che
coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più
difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E
costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si
dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come
l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in
questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose.
Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e
se si scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo
e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto
lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il
lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et
udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare:
Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che
del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e
vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce
male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa
e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon
gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo
lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi
180 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco,
perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto
umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale
era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi;
fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il
spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a
l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso
speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto
andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto
m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi
il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso vampo
che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a
leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra che
tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi
181 Giordano Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la
cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in
polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi
se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan-
to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in
questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183
Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto
de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima,
allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per
quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto
che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo
certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo
corpo in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo
og- getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è
senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose:
per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo
umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa
apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re-
gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello
che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per
il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito
de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto,
nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura
italiana Einaudi 184 Giordano Bruno - De gl’eroici furori minutolo
Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo
medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra
raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità
e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono
adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no
trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle
pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari.
minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo
contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e ti-
mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte co-
se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo.
minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che
hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma
cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più
alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e questi son gli
inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si trova- no
coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti,
gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità
non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte
lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza,
figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione
sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mo-
Letteratura italiana Einaudi 185 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze
fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le quali discorrendo
da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra
cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione), ma subito e
repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un
divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non è
richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per
averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume
solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo
Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che
gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non
è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi
senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella
cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser
cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo
non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è
detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et
bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia
in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e
la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo,
discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e
la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre,
et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito.
Letteratura italiana Einaudi 186 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come
quella che proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo
il quale è mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio
de filosofie volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere,
quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de
grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come
exemplificò Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color
che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a
tale, che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il
contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma
è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la
qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa
cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il presente
furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente
a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe impetrar altro
che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per ordina- rio suole
patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La quinta,
significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi de nostra
cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di- vine,
bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre raggioni
che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de
l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli effetti alla
notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l’assecuzion
di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti, Letteratura
italiana Einaudi 187 Giordano Bruno - De gl’eroici furori se
credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose divine sia per
negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non
sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è
oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de
fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et
enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le
cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle,
come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da
l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è
veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. –
Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito
simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro,
onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua
luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede
dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza
visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella
cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella
cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in
ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto.
Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa
che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in
effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il
sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come
proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità Letteratura
italiana Einaudi 188 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro
(quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in
similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve
sustanzialmente la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono
intelligenze, ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de-
nominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata
sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è
mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io
dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da
noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile,
né quella che è la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e
densità del dia- fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a
colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e
nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse
concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come
esplicato dove si dice: “Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia-
mo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti
caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in
continuo moto, mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna
che seguiti- no la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla
condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la
sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et
al- tro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto
può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in
acqui, l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta
in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione
per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che
si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente
si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e
condizione del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti
mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella
bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità,
identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel
sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni
si fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto
precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in-
tendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore
della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di
contemplazio- ne deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si
vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri
(secon- do gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via
de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri
per via di com- posizione e divisione, altri per via di separazione e
congregazione, altri per via de inquisizion e dubita- zione, altri per via de
discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de
voci, vocabo- li e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri
metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diver- sità de
contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar
l’intenzione alle sen- Letteratura italiana Einaudi 190 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte: onde si doviene sin a questo che
medesi- ma luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli,
viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie.
severino Per questo è da dire che gli affetti molto so- no potenti per impedir
l’apprension del vero, quan- tumque gli pazienti non se ne possano accorrere:
qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma
il cibo amaro. – Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del
qua- le son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato
inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre
tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per
l’ottavo, cossì l’eccellente intelligi- bile oggetto have occecato
l’intelletto, come l’eccel- lente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il
sen- so. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita, e per
conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna
oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la passa
come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più penetrativo che
qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la formazione et
impressione del proprio vestigio, sopra il quale al- tro non è che possa essere
impresso o sigillato; là on- de essendo tal forma ivi confirmata, e non
possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda, conseguentemente
può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la riempie, o la
disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona caggione è notata per
il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad-
ministrata e caggionata pure da grande amore, perché Letteratura italiana
Einaudi 191 Giordano Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme
de offendere; onde disse la Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me
avolare fece- re». E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime
desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi
massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola
non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol
procedere da l’ap- prensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua
facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teo- logi dicono che più si
onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli
occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la
teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de
Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino.
severino Come ti piace. fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi
192 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO
interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai
quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove
bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del
vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e
temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal
terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la
tua beltade giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il
possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che
scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si
trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico
rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno
dopo la lor sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque
d’an- dar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove
essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose
rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle
cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione,
vennero tutti co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito
espresse queste paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse
presente, come fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le
piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno
alla natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi 193
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur
sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la-
menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta
contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste
paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have
ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura
d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra
volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche
propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato de la
lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il
morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però
vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli
domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima
sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato
ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap-
parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli
administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e
vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti
insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno,
esposero gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente
trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati
tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure,
per spa- cio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato
cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe
del padre Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade,
et accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi
194 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il
principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento
espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase
si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma
d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam
nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam
discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete
attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il
vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore;
e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far
giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto
attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto;
raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia
e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti
piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili
forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito
furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira
al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto:
«Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti
punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami
tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer
vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga
pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne
appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase
fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che
discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a
bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor
al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per
remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento
cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto
alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde
Letteratura italiana Einaudi 196 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per
quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui
cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un
gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete
spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il
terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera
sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai
siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a
bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il
manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo
al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai
fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza.
Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh,
per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra
bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in
queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana
Einaudi 197 Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì
rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel
ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare,
offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma
tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano
e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non
tanto per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il
soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come
spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse
e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere
l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro
aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e tro-
varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra
della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo
bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e
tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non
posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso
di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che
apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del
furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la
citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti,
o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché
mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il
secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva
Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie
divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con
la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han
prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar
il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi.
Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità
degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna
luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto
con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con
condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui
a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar
vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché
non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma
svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte
dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi,
mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne:
talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i
bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi,
chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine
dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono
con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o
confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari
Letteratura italiana Einaudi 200 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che
ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata
la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica
Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se
bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi
udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non
oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero,
«se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è
la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le
insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de
l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui
l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il
sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più
glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri
quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro
ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del
ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»;
Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo
permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue
ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei
vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta.
giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener
alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le
stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e
favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata
in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina.
Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose
fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia
quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere
incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero
possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli
animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla
sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per
mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino da Norcia used
to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK
– it rymes in Italian: ORA e LABORA --.
Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino
da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords:
implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani,
ortodossi italiani, dell’infinito,
universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come
fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colli: l’implicatura
conversazionale dell’espressione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo italiano. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is
much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only
trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which
got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli
was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre
amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della
marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto
Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica
classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare. Lo
stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si
caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa
dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli
recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che
fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione,
un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di
qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene
che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il
discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la
natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici
Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura.
Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali
quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre
opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi,
Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso,
Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La
sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene,
Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi,
Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano);
“Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama
nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e
Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di
Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano);
“Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano);
“Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza,
Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi,
Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi,
Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi,
Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)
Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La
filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth;
Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così
parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale;
Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra
Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità
e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle
nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia
vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di
fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di
Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il
servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo,
Bari); Dizionario biografico degli italiani,
Implicazioni estetiche in Colli; Misura e dismisura. Per una
rappresentazione di Colli, ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e
dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis.
Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci:
annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni,
Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma. Wikipedia
Ricerca Prosimno pastore della mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o
Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος) nella mitologia greca era un pastore che viveva
nei pressi del sacro lago di Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di
Argo), reputato essere senza fondo e pertanto assai pericoloso per tutti quelli
che vi si volevano avventurare in acqua. Quando il dio del vino Dioniso
andò nell'Ade per salvare sua madre Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso
- conducendolo nella sua barca a remi - posto al centro del lago. Il premio
richiesto da Prosimno per questo servizio sarebbe stato il diritto a giacere
con il giovane Dio. Tuttavia, quando Dioniso tornò sulla terra per una strada
diversa, trovò che Prosimno era nel frattempo morto. Dioniso volle
comunque mantenere la sua promessa; intagliò un pezzo di legno di ficus a forma
di falloutilizzandolo per adempiere ritualmente all'accordo che aveva in
precedenza stipulato con Prosimno: si posizionò sulla sua tomba e ci si sedette
sopra, auto-sodomizzandosi. Questo, si dice, è stato dato come spiegazione
della presenza di falli di legno di fico tra gli oggetti segreti che venivano
"rivelati" nel corso dei Misteri dionisiaci. Questa storia non
è raccontata in pieno da una delle consuete fonti di racconti mitologici greci,
anche se molti di loro accennano ad essa. Il fatto si è ricostruito sulla base
di dichiarazioni di autori cristiani; questi devono essere trattati quindi con
riserva in quanto il loro obiettivo era essenzialmente quello di screditare la
mitologia pagana[1]. Riti notturni annuali hanno avuto luogo presso il
lago sacro, sulle rive della palude alcionia, ancora in età classica; Pausania
il Periegeta si rifiuta però di descriverceli[2]. Il mito di Prosimno è
stato studiato da Bernard Sergentin "L'omosessualità nella mitologia
greca" (1984), ristampato nella sua "Omosessualità e iniziazione tra
i popoli indo-europei" (1996). Questo mito è comunque considerato essere
il risultato dell'importanza del simbolismo fallico all'interno del culto
dionisiaco[3][4][5]. NoteModifica ^ Igino, Astronomy 2.5; Clemente di
Alessandria, Protreptikos 2.34.2-5; Arnobio, Against the Gentiles 5.28; Dalby,
2005, pag.108–117. ^ Pausania, Guide to Greece 2.37; Plutarco, Iside e Osiride
35; Dalby, 2005, pag.135. ^ Dionisio-Baco, su geocities.com, 19 ottobre 2008
(archiviato dall' url originale il 19 gennaio 2005). ^ Mitos del cielo:
Dioniso, su mitosdelcielo.iespana.es, 19 ottobre 2008 (archiviato dall' url
originale il 28 settembre 2008). ^ Susana Quintanilla, Dioniso en México
o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.: Calasso,
Roberto (1999), "Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama(
PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex.mx, 19 ottobre 2008.
BibliografiaModifica Andrew Dalby, The Story of Bacchus, London, British Museum
Press, 2005, ISBN 0-7141-2255-6.(US ISBN 0-89236-742-3) Voci correlateModifica
Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio ,
Contro i pagani (V, 28). Clemente di Alessandria , Esortazione ai Greci
(Protrettico) (II, 34, 2-5). Igino , Astronomia (II, 5). Pausania , Descrizione
della Grecia (II, 37). Plutarco , Iside e Osiride (35). Portale
LGBT Portale Mitologia greca Ultima modifica 2 mesi fa di
87.19.205.60 PAGINE CORRELATE Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei
teatri, della fertilità e dell'ubriachezza Canopo (mitologia) Pederastia
tebana Wikipedia Il contenuto Che l'esclusione di queste potenze ben
presenti e Bi distinte dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus
É sistere della loro venerabilità, pur tacendo .la vastità É e
profondità loro e più ch’ogni altra cosa, l’orrendo fi mistero del loro
essere, provengano da una particola rissima valutazione e da una volontà
risoluta, si app* lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto
que sto ciclo: Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J. Bachhofen
in modo eccellente, trascina irresistibilmente seco. l’eterno femminino
di questa sfera e ne rimane assolutamente presa. Il suo spirito
s’arroventa nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue
della terra. Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co-
scienza nello sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi adoratori e
agli estasiati si schiudon i tesori del regno. terrestre. Anche intorno a
Dioniso accorrono i morti, che lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i
fiori. Amore e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si
ten- gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis- simi
tratti essenziali della divinità della Terra son in lui accresciuti a
dismisura," ma pure infinitamente ap- profonditi, Questa figura
divina che tutto trascina con sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio «
forsennato >, e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle
sue accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è che
similitudine, come quando paragona ad una Menade Andromaca, la quale
presa da oscuro presentimento si precipita fuor dalle sue stanze (Iliade,
22, 460; cfr. Inno Omer. a Dem. 386), come pure quando occasional-
mente narra memorabili storie (Iliade, 6, 130 ss.; Odis- sea, 11, 325).
Nel vivo mondo di Omero le Menadi non trovan posto e pure invano si cerca
Dioniso, che non vi ha parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia »
(Esio- do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo quanto l’uomo
doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli è proprio, non
s’accorda con la chiarezza che contraddi- stingue qui tutto ciò ch’è
realmente divino. Da questa chiarezza sono assai lontane anche le
al- tre figure del ciclo della Terra. Sian pure intessute. di dolcissimo
incanto, e portin sulla fronte la più sublime gravità. Il sapere e la
sacra legge stanno loro al fianco. Ma sono.legate alla materia terrestre
e partecipano della sua oscura pesantezza e necessità. La loro
benevolenza è quella dell’elemento materno, ed il loro diritto ha
la rigidità di tutti i legami del sangue. Tutte arrivano nella
notte della morte, o meglio: la morte ed il passato risalgono grazie a
loro nel presente e nell’esistenza dei viventi. Non v'è un ritrarsi dal
teatro del mondo, nè il trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera
inferiore nè una liberazione del campo di vita e d’azione da ciò
che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane per sempre, ed. eleva la sua
esigenza, sempre con la medesima ron. cretezza, dalla quale non c’è via
di scampo. Ed è solo una conferma di codesto carattere, il predominio
ch’'ha nel mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi.
nile. Nella cerchia celeste della religione omerica invece sì trae in
disparte in modo tale, che non può essere ca. suale. | I .
Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso maschile, sibbene
rappresentano decisamente lo spirito virile. Ed anche quando Atena si unisce
ad Apollo e-a Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare
esplicitamente il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m
JUN 121925 Dirisioti ^LT^b
!-'" 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp.
THE ELEUSINIAN AND BACCHIC
MYSTERIES. A DISSERTATION. THOMAS TAYLOR,
TXANSL4TOH OF ■'PLATO." " PLOTINTJS," "
POEPITIllY," " lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,' *■
ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED, WITH INTRODUCTION,
NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER. Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei';
rjyoyi'Tai (cai ncpip- pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi;
Spuiixeviav, (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.
Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet.
WITH 85 ILLUSTRATIONS RAWSON. by J. W. BulITDN. The DeVinne
Press. TO MY OLD FRIEND ^cniarti OSuatitcl) THE
GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT OR MODERN TIMES CbiB Dolttme
is reBpcctfuIl? Jeiiicateli BY THE PUBLISHER
Bacchic Ceremonies. Bacchus ami Nymphs.
Pluto, Prosevpiua, aud Furies. Eleusinian
Prieatesses. Bacchante and Faun.
Faun and Bacchus. Fable is Love's World, Poem by Schiller . .
9 Introduction 11 Section I., Eleusinian Mysteries
31 Section II., Bacchic Mysteries 187 Hymn to Minerva
224 Appendix 229 Orphic Hymns . . ^ 238
Hymn of Cleanthes 239 Glossary 241 List of
Illustrations 248 Klensiiiiiiii Mj'steriea.
'"Tis not merely The human breing's pride that peoples
space With life and mystical predominance, Since likewise for the
stricken heart of Love This visible nature, and this common world
Is all too narrow ; yea, a deeper import Lurks in the legend told my
infant years That lies upon that truth, we live to learn, For fable
is Love's world, his home, his birthplace ; Delightedly he dwells 'mong
fays and talismans, And spirits, and delightedly believes
Divinities, being himself divine. The intelligible forms of ancient
poets. The fair humanities of Old Religion, The Power, the Beauty,
and the Majesty, That had their haunts in dale or piny motmtain, Or
forests by slow stream, or pebbly spring. Or chasms or wat'ry depths ; —
all these have vanished. They live no longer in the faith of
Eeason, But still the heart doth need a language ; still Doth the
old instinct bring back the old names." Schiller : The
Piccolomini, Act. ii. Scene 4. 9 Apollo autl
Muaes. ITolM.'tll.MlS. INTKODrOTlOX TO
THE TJIIKM) EDrriON. IN offering- to the ])ublic a new
edition of Mr. Thomas Taylor's admii-able treatise upon the
Elensiidan and Bacchic Mysteries, it is proper to insert a few
words of explanation. These observances once repre- sented the spiritual
life of (Ireeee, and were considered for two thousand years and more the
appointed means for regeneration through an interior union with the
Divine Essence. However absurd, or even offensive they may seem to us, we
should therefore hesitate long- before we venture to lay desecrating
hands on what others have esteemed holy. We can learn a valuable
lesson in this regard from the (xrecian and Roman writers, who had
learned to treat the popular religious rites with mirth, but always considered
the Eleusinian Mysteries with the deepest reverence. It is
ignorance which leads to profanation. Men ridicule what they do not
properly understand. Alci- biades was drunk when he ventured to touch
what his countrymen deemed sacred. The undercurrent of this worhl is
set toward one goal; and inside of human credulity — call it human
weakness, if you please — is a power almost infinite, a holy faith
capa))le of apprehending the siipremest truths of all Existence.
The veriest dreams of life, pertaining as they do to " the minor
mystery of death," have in them more than external fact can reach or
explain ; and Myth, how- ever much she is proved to be a child of Earth,
is also received among men as the child of Heaven. The Cinder-
Wench of the ashes will become the Cinderella of the Palace, and be
wedded to the King's Son. The instant that we attempt to analyze,
the sensible, palpable facts upon which so many try to build dis-
appear beneath the surface, like a foundation laid upon quicksand. "
In the deepest reflections," says a dis- tinguished writer, '' all
that we call external is only the material basis upon which our dreams
are built ; and the sleep that surrounds life swallows up life, —
all but a dim wreck of matter, floating this way and that, and
forever evanishing from sight. Complete the anal- ysis, and we lose even
the shadow of the external Present, and only the Past and the Future are
left us as our sure inheritance. This is the first initia- tion, —
the vailing [mnesis] of the eyes to the external. But as epo])fm, by the
synthesis of this Past and Future in a living nature, we obtain a higher,
an ideal Present, comprehending within itself all that can be real
for us within us or without. This is the second initiation in which is uuvailed
to us the Present as a new birth from our own life. Thus the great
problem of Idealism is symbolically solved in the Eleusinia."
* These were the most celebrated of all the sacred orgies,
and were called, by way of eminence. The Mysteries. Although exhibiting
apparently the fea- tures of an Eastern origin, they were evidently
copied from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more or
less correct, may be found in The Mefamotyhoses of Apuleius and The
Epicurean by Thomas Moore. Every act, rite, and person engaged in them
was symbolical ; and the individual revealing them was put to death
without mercy. So also was any uninitiated person who happened to be
present. Persons of all ages and both sexes were initiated ; and neglect
in this respect, as in the case of Socrates, was regarded as impious
and atheistical. It was required of all candidates that they should
be first admitted at the MiJo'a or Lesser Mysteries of Agree, by a
process of fasting called ^j«f/'/- ficafion, after which they were styled
mysfce, or initi- ates. A year later, they might enter the higher
degree. In this they learned the aporrheta, or secret meaning of
the rites, and were thenceforth denominated ephori, or epoptm. To some of
the interior mysteries, however, only a very select number obtained
admission. From these were taken all the ministers of holy rites.
The Hierophant who presided was bound to celibacy, and requii'ed to
devote his entire life to his sacred office. * Atlantic Monthly, He
had three assistants, — the torch- bearer, the lierux or crier, and the
minister at the altar. There were also a hasileus or king, who was an
archon of Athens, four curators, elected by suffrage, and ten to offer
sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth
year ; and began on the 15th of the month Boedromiau or September. The
first day was styled the agurmos or assembly, because the worshipers then
convened. The second was the day of purification, called also alacU
mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated ones ! " The
third day was the day of sacrifices ; for which purpose were offered a
mullet and barley from a field in Eleusis. The officiating persons were
for- bidden to taste of either ; the offering was for Achtheia (the
sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth day was a solemn procession.
The JcalafJios or sacred basket was borne, followed by women, ciske or
chests in which were sesamum, carded wool, salt, pomegran- ates,
poppies, — also thyrsi, a serpent, boughs of ivy, cakes, etc. The fifth
day was denominated the day of torches. In the evening were torchlight
processions and much tumult. The sixth was a great occasion.
The statue of lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought
from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with myrtle. In the way was
heard only an uproar of sing- ing and the beating of brazen kettles, as
the votaries danced and ran along. The image was borne "
through the sacred Gate, along the sacred way, halting by the
P^ '^^^' Introduction. 17
sacred fig-tree (all sacred, mark you, from Eleiisinian
associations), where the procession rests, and then moves on to the
bridge over the Cephissns, where again it rests, and where the expression
of the wildest grief gives place to the trifling farce, — even as
Demeter, in the midst of her grief, smiled at the levity of lambe
in the palace of Celeus. Through the 'mystical en- trance ' we enter
Eleusis. On the seventh day games are celebrated; and to the victor is
given a measure of barley, — as it were a gift direct from the hand
of the goddess. The eighth is sacred to ^sculapius, the Divine
Physician, who heals all diseases; and in the evening is performed the
initiatory ritual. " Let us enter the m3\stic temple and be
initiated, — though it must be supposed that, a year ago, we were
initiated into the Lesser Mysteries at Agrae. We must have been mystm
(vailed), before we can become epoptce (seers) ; in plain English, we
must have shut our eyes to all else before we can behold the
mysteries. Crowned with myrtle, we enter with the other initiates
into the vestibule of the temple, — blind as yet, but the Hierophaut
within will soon open our eyes. '■' But first, — for here we must
do nothing rashly,— first we must wash in this holy water; for it is
with pure hands and a pure heart that we are bidden to enter the
most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios seJcos]. Then, led
into the presence of the Hierophaut,* * In the Oriental countries
the designation nns Peter (an in- terpreter), appears to have been the
title of this personage ; and 18 Introduction.
he reads to us, from a book of stone [■jreTpajfjia, petroma]^
tliiuii's which we must not divulge on pain of death. Let it suffice that
they fit the place and the occasion ; and though you might laugh at them,
if they were spokiMi outside, still you seem very far from that
mood now, as you hear the words of the old man (for old he he
always was), and look upon the revealed symbols. And very far, indeed,
are you from ridicule, when Demeter seals, by her own peculiar utterance
and sig- nals, by vivid coruscations of light, and cloud piled upon
cloud, all that we have seen and heard from her sacred priest; and then,
finally, the light of a serene wonder fills the temple, and we see the
pure fields of Elysium, and hear the chorus of the Blessed; — then,
not merely by external seeming or philosophic inter- pretation, but in
real fact, does the Hierophant become the Creator [(hi-^'ovpyo;,
demiourgos] and revealer of all things; the Sun is but his torch-bearer,
the Moon his attendant at the altar, and Hermes his mystic herald *
[>c7]pu|, kerux]. But the final word has been uttered ' Conx Om pax.'
The rite is consummated, and we are vpoptit forever ! " Those
who are curious to know the myth on which the petroma consisted,
notably enougli, of two tablets of stone. There is in these facts some
reminder of the peculiar circum- stances of the Mosaic Law which was so
preserved ; and also of the claim of the Pope to be the successor of
Peter, the hierophant or interpreter of the Christian religion. *
Porphyry. Introduction. 19 the " mystical
drama " of the Eleusinia is founded will find it in any Classical
Dictionary, as well as in these pages. It is only pertinent here to give
some idea of the meaning. That it was regarded as profound is
evident from the peculiar rites, and the obligations im- posed on every
initiated person. It was a reproach not to observe them. Socrates was
accused of atheism, or disrespect to the gods, for having never been
initiated.* Any person accidentally guilty of homicide, or of any
crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The secret doctrines,
it is supposed, were the same as are expressed in the celebrated Hymn of
Cleanthes. The philosopher Isocrates thus bears testimony : "
She [Demeter] gave us two gifts that are the most excel- lent ;
fruits, that we may not live like beasts ; and that initiation — those
who have part in which have sweeter hope, both as regards the close of
life and for all eternity." In like manner, Pindar also declares :
" Happy is he who has beheld them, and descends into the
Under- world: he knows the end, he knows the origin of life."
The Bacchic Orgies were said to have been instituted, * Ancient
Sijmhol-Worsliip, page 12, note. "Socrates was not initiated, yet
after drinking the hemlock, he addressed Crito : ' We owe a cock to
^sculapius.' This was the peculiar offering made by initiates (now called
kerJcnophori) on the eve of the last day, and he thus symbolically
asserted that he was about to re- ceive the great apocalypse."
See, also, " Progress of Religious Ideas," byLYDiA Maria
Child, vol. ii. p. 308 ; and " Discourses on the Worship of
Priapus," by EiCHARD Payne Knight. 20
Introduction. or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a
mythical personage, supposed to have flourished in Thrace.* The
Orphic associations dedicated themselves to the worship of Bacchus, in
which they hoped to find the gratification of an ardent longing after the
worthy and elevating influences of a religious life. The worshipers
did not indulge in unrestrained pleasure and frantic enthnsiasni, but
rather aimed at an ascetic purity of * Euripides : Ehaesns.
"Orpheus showed forth the rites of the hidden Mysteries."
Plato : ProUifforas. " The art of a sophist or sage is
ancient, but tlie men who proposed it in ancient times, fearing the
odium attached to it, sought to conceal it, and vailed it over, some
under the garb of poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others
under that of the Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus,
Musseus, and their followers." Herodotus takes a different
view — ii. 49. "Melampus, the son of Amytheon," he says,
"introduced into Greece the name of Dionysus (Bacchus), the
ceremonial of his worship, and the pro- cession of the phallus. He did
not, however, so completely ap- prehend the whole doctrine as to be able
to communicate it entirely : but various sages, since his time, have
carried out his teaching to greater perfection. Still it is certain that
Melampus introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him
the ceremonies which they now practice. I therefore maintain that
Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divina- tion,
having become acquainted with the worship of Dionysus tln-ough knowledge
derived from Eg>ijt, introduced it into Greece, with a few slight
changes, at the same time rhat he brought in various other practices. For
I can by no means allow that it is by mere coincidence that the Bacchic
ceremonies in Greece are so nearly the same as the Egyptian."
y r^isi Etruscan Kleusiniau
Ci-renionies. Introdiidion, 23 life and manners.
The worship of Dionysus \yas the center of their ideas, and the
starting-point of all their speculations upon the world and human nature.
They believed that human souls were confined in the body as in a
prison, a condition which was denominated genesis or generation; from
which Dionysus would liberate them. Their sufferings, the stages by which
they passed to a higher form of existence, their lafharsis or
purification, and their enlightenment constituted the themes of the
Orphic writers. All this was represented in the legend which constituted
the groundwork of the mystical rites. Dionysus-Zagreus was
the son of Zeus, whom he had begotten in the form of a dragon or serpent,
upon the person of Kore or Persephoneia, considered by some to have
been identical with Ceres or Demeter, and by others to have been her
daughter. The former idea is more probably the more correct. Ceres or
Demeter was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta in a
fragment by Psellus, and is also styled a Fury. The divine child, an
avatar or incarnation of Zeus, was denominated Zagreus, or Chakra
(Sanscrit) as being destined to universal dominion. But at the
instigation of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac-
* Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the
definite name of any goddess, but was used by ancient writers as a
designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be of
Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other
divinities. 24 Introduction. cordingly, one day
while he was contemplating a mir- ror,* they set upon him, disguised under
a coating of plaster, and tore him into seven parts. Athena, how-
ever, rescued from them his heart, which was swallowed by Zeus, and so
returned into the paternal substance, to be generated anew. He was thus
destined to be again born, to succeed to universal rule, establish
the reign of happiness, and release all souls from the dominion of
death. The hypothesis of Mi-. Taylor is the same as was
maintained by the philosopher Porphyry, that the Mysteries constitute an
illustration of the Platonic * The mirror was a part of the
symbolism of the Thesmophoria, and was iised in the search for Atmu, the
Hidden One, evidently the same as Tammuz, Adonis, and Atys. See Exodus
xxxviii. 8 ; 1 Samuel ii. 22 ; and Esekiel viii. 14. But despite the
assertion of Herodotus and others that the Bacchic Mysteries were in
reality Egyptian, there exists strong probability that they came
originally from India, and were Sivaic or Buddhistical.
Core-Persephoneia was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the
patroness of the Thugs, called also Goree ; and Zagi'eus is from Chakra,
a country extending from ocean to ocean. If this is a Turanian or
Tartar Story, we can easily recognize the "Horns" as the
crescent worn by lama-priests : and translating god-names as merely
sacerdotal designations, assume the whole legend to be based on a tale
of Lama Succession and transmigration. The Titans would then be the
Daityas of India, who were opposed to the faith of the north- ern tribes
; and the title Dionysus but signify the god or chief- priest of Nysa, or
Mount Meru. The whole story of Orpheus, the institutor or rather the
reformer of the Bacchic rites, has a Hindu ring all through.
Introduction. 25 philosophy. At first sight, this may l)e
hard to believe ; but we must know that no pageant could hold place
so long, without an under-meaning. Indeed, Herodotus asserts that
" the rites called Orphic and Bacchic are in reality Egyptian and
Pythagorean."* The influence of the doctrines of Pythagoras upon the
Platonic system is generally acknowledged. It is only important in
that case to understand the great philosopher correctly ; and we have a
key to the doctrines and symbolism of the Mysteries. The
first initiations of the Eleusinia were called Telefce or terminations,
as denoting that the imperfect and rudimentary period of generated life
was ended and purged off ; and the candidate was denominated a
mijsfa, a vailed or liberated person. The Greater- Mysteries completed
the work ; the candidate was more fully instructed and disciplined,
becoming an epopta or seer. He was now regarded as having received
the arcane principles of life. This was also the end sought by
philosophy. The soul was believed to be of com- posite nature, linked on
the one side to the eternal world, emanating from God, and so partaking
of Di- vinity. On the other hand, it was also allied to the
phenomenal or external world, and so liable to be subjected to passion,
lust, and the bondage of evils. This condition is denominated genemtion ;
and is sup- posed to be a kind of death to the higher form of life.
Evil is inherent in this condition ; and the soul dwells * Herodotus: ii.
81. 26 Introduction. . in the body as in a
prison or a grave. In this state, and previous to the discipline of
education and the mysti- cal initiation, the rational or intellectual
element, which Paul denominates the spiritual, is asleep. The
earth- life is a dream rather than a reality. Yet it has longings
for a higher and nobler form of life, and its affinities are on high.
"All men yearn after God," says Homer. The object of Plato is
to present to us the fact that there are in the soul certain ideas or
princi- ples, innate and connatural, which are not derived from
without, but are anterior to all experience, and are developed and
brought to view, but not produced by experience. These ideas are the most
vital of all truths, and the purpose of instruction and discipline
is to make the individual conscious of them and willing to be led and
inspired b}^ them. The soul is purified or separated from evils by
knowledge, truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life is
a discipline and preparation for another state of being; and resemblance
to God is the highest motive of action.* * Many of the early
Christian writers were deeply imbued with the Eclectic or Platonic
doctrines. The very forms of speech were almost identical. One of the
four Gospels, bearing the title " ac- cording to John,'''' was the
evident product of a Platonist, and hardly seems in a considerable degree
Jewish or historical. The epistles ascribed to Paul evince a great
familiarity with the Eclec- tic philosophy and the peculiar symbolism of
the Mysteries, as well as with the Mithraic notions that had penetrated
and permeated the religious ideas of the western countries.
Introduction. 27 Proclus does not hesitate to identify the
theological doctrines with the mystical dogmas of the Orphic
system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden allegories,
Pythagoras learned when he was initiated into the Orphic Mysteries.; and
Plato next received a perfect knowledge of them from the Orphean
and Pythagorean writings." Mr. Taylor's peculiar style
has been the subject of repeated criticism ; and his translations are not
accepted by classical scholars. Yet they have met with favor at the
hands of men capable of profound and recondite thinking ; and it must be
conceded that he was endowed with a superior qualification, — that of an
intuitive per- ception of the interior meaning of the subjects
which he considered. Others may have known more Greek, but he knew
more Plato. He devoted his time and means for the elucidation and
dissemination of the doc- trines of the divine philosopher ; and has
rendered into English not only his writings, but also the works of
other authors, who affected the teachings of the great master, that have
escaped destruction at the hand of Moslem and Christian bigots. For this
labor we can- not be too grateful. The present treatise has
all the peculiarities of style which characterize the translations. The
principal diffi- culties of these we have endeavored to obviate — a
labor whicli will, we trust, be not unacceptable to readers. The
book has been for some time out of print ; and no later writer has
endeavored to replace it. There are many who still cherish a regard,
almost amounting to veneration, for the author; and we hope that this
repro- duction of his admirable explanation of the nature and
object of the Mysteries will prove to them a welcome undertaking. There
is an increasing interest in philo- sophical, mystical, and other antique
literature, which will, we believe, render our labor of some value to a
class of readers whose sympathy, good-will, and fellow- ship we would
gladly possess and cherish. If we have added to their enjoyment, we shall
be doubly gratified. A. W. V'euus ami
Proserpina iu Hailes. Rape of Proserplua. As there is
nothing more celebrated than the Mys- ■^l\^ teries of the ancients, so
there is perhaps nothing- which has hitlierto been less solidly known. Of
the trnth of this observation, the liberal reader will, I per-
snade myself, be fully convinced, from au attentive perusal of the
following sheets; in which the secret meaning of the Eleusinian and
Bacchic Mysteries is un- folded, from authority the most respectable, and
from a philosophy of all others the most venerable and august. The
authority, indeed, is principally derived from manuscript writings, which
are, of course, in the possession of but a few; but its respectability is
no more lessened by its concealment, than the value of a diamond
when secluded from the light. And as to the philosophy, by whose
assistance these Mysteries are de- veloped, it is coeval with the
universe itself ; and, how- ever its continuity maybe broken by opposing
systems, it will make its appearance at different periods of time,
as long as the sun himself shall continue to illuminate the world. It
has, indeed, and may hereafter, be violently as- saulted l)y delusiv^e
opinions; but the opposition will be just as imbecile as that of the
waves of the sea against a temple built on a rock, which majestically
pours them back, Broken and A^anquish'd, foaming to the
main. Pallas, Venus, aud Diaua. THE
ELEUSINIAN AND BACCHIC. Dionysus as God of the Sun. a.
SECTION I. SJ DR. WARBURTON, in Ms Divine Legation of
Moses, has ingeniously proved, that the sixth book of Virgil's
^neid represents some of the dramatic exhibitions of the Eleusinian
Mysteries ; but, at the same time, has utterly failed in attempting
to unfold their latent mean- ing, and obscure though important end.
By the assistance, howevei", of the Pla- tonic philosophy, I have
been enabled to correct his errors, and to vindicate the wisdom *
of antiquity from his aspersions * The profounder esoteric
doctrines of the ancients were denominated wisdom, and attevwnrd
philosophy, and also the [piosis or knowledge. They related to the human
soul, its divine parent- 31 32 Eleiisinian
and by a genuine account of this sublime institution; of
which the foUowing obser- vations are designed as a comprehensive view.
In the fii'st place, then, I shall present the reader with two
superior authorities, who perfectly demonstrate that a part of the
shows (or dramas) consisted in a representation of the infernal regions;
au- thorities which, though of the last conse- quence, were unknown
to Dr. Warbiu'ton himself. The first of these is no less a person
than the immortal Pindar, in a fragment preserved by Clemens
Alexan- drinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsa- acvt
{Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart? ^. 6". "
But Pindar, speaking of the Eleusinian Mysteries, says : Blessed is he
who, having age, its supposed degradation from its high estate by
becoming connected with " generation " or the physical world,
its onward progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly
sup- posed to be transmigrations, etc. — A. W. " Stroma la,
book iii. Bacchic Mysteries. 33 seen those common concerns in
the underworld, knows both the end of hfe and its divine origin from
Jupiter." The other of these is from Prochis in his Commentary
on Plato's Politicus, who, speaking concern- ing the sacerdotal and
symbolical mythol- ogy, observes, that from this mythology Plato
himseK establishes many of his own peculiar doctrines, " since in
the Phcedo he venerates, mtli a becoming silence, the assertion
delivered in the arcane discourses, that men are placed in the body as in
a prison, secured by a guard, and testifies^ accordlny to the
mystic cerem^onies, the dif- ferent allotments of purified and unpuri-
fied souls in Hades, their severed conditions, and the three-forJicd path
from the pecidiar places where they tcere ; and this was shown
accordiny to traditionary institutions ; every part of which is full of a
symbolical repre- sentation, as in a dream, and of a descrip- tion
which treated of the ascending and descending ways, of the tragedies of
Dio- nysus (Bacchus or Zagreus), the crimes of the Titans, , the
three ways in Hades, and 34 Eleusinian and the
wandering of everything of a similar hind.^^ — "Ar/Aot 5s sv
<l>7.too)vt xov ts sv 6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj
Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.)
(JLCtp- -:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^
%£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX
ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa? xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov
(lege %ai %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a
5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara, 7,7.L t(OV
7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV rj.yo^my zs 7.7.t
7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov 3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov
TiTy-vizfov onxapiYjixa- -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'->
TpCOOCOV, 7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV
d'7L7.VXa)V." * Ha^dllg iDremised thus much, I now pro-
ceed to prove that the th'amatic spectacles .of the Lesser Mysteries f
were designed by the ancient theologists, their founders, to
signify occultly the condition of the unpurified soul *
Commentary on the Statesman of Plato, page 374. t The Lesser
Mysteries were celebrated at Agrse ; and the per- sons there initiated
were denominated Mi/sta: Only such could be received at the sacred rites
at Eleusis. Bacchic Mysteries. 35 invested with
an earthly body, and envel- oped in a material and physical nature ;
or, in other words, to signify that such a soul in the present life
might be said to die, as far as it is possible for a soul to die, and
that on the dissolution of the present body, while in this state of
impuiity, it would experience a death still more permanent and
profound. That the soul, indeed, till purified by phi- losophy,*
suffers death through its union with the body was obvious to the
philologist Macrobius, who, not penetrating the secret meaning of
the ancients, concluded from hence that they signified nothing more
than the present body, by their descriptions of the infernal
abodes. But this is manifestly absurd ; since it is universally agreed,
that all the ancient theological poets and philos- ophers
inculcated the doctrine of a future state of rewards and punishments in
the most full and decisive terms ; at the same time occultly
intimating that the death of the soul was nothing more than a
profound union with the ruinous bonds of the body. * Philosophy
here relates to discipline of the life. 36 Eleusinian
and Indeed, if these wise men believed in a future state of
retribution, and at the same time considered a connection with the
body- as death of the soul, it necessarily follows, that the soul's
punishment and existence hereafter are nothing more than a continu-
ation of its state at present, and a transmi- gration, as it were, from
sleep to sleep, and from dream to dream. But let us attend to the
assertions of these divine men con- cerning the soul's union with a
material nature. And to begin with the obscure and profound
Heracleitus, speaking of souls imembodied: "We live their death, and
we die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,
TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Em- pedocles, deprecating the
condition termed " generation," beautifully says of her :
The aspect changing with destruction dread, She makes the Uv'okj
pass into the dead. Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi
a|JLj'.j3ojv. And again, lamenting his connection with this
corporeal world, he pathetically exclaims: Bacchic
Mysteries. 37 For this I weep, for this indulge my woe,
That e'er my soul such novel realms should know. KXauaa te
v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. * Plato, too, it is
well known, considered the body as the sepulchre of the soul, and
in the Crcifijlus concurs with the doctrine of Orpheus, that the
soul is x>^niished through its union with body. This was likewise
the opinion of the celebrated Pythagorean, Phi- lolaus, as is
evident from the following re- markable passage in the Doric dialect,
pre- served by Clemens Alexandrinus in Strom at. book iii. "
Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx. tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C,
^la ziyac, xqj-copiac, £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^'' i. e.
" The ancient theologists and priests * also testify that the
soul is united with the body as if for the sake of punishment ; f and so
is buried in body as in a sepulchre." And, lastly, Py- *
Greek it-ayxsiq mantels — more properly proi)hets, those filled by the
prophetic mania or eutheasm. t More correctly — '* The soul is
yoked to the body as if by way of punishment," as culprits were
fastened to others or even to corpses. See PauVs Epistle to the liomans,
vii, 25. 38 Eleusinian and thagoras himself
confii'ms the above senti- ments, when he beautifully observes,
accord- ing to Clemens in the same book, " that wild fever tee
see when airali'e is death ; and when asleep,- a dreamt brj^rxio;^
sa-rcv, oxoaa But that the mysteries occultly signi- fied
this sublime truth, that the soul by being merged in matter resides among
the dead both here and hereafter, though it fol- lows by a
necessary sequence from the preced- ing observations, yet it is
indisputably con- firmed, by the testimony of the great and truly
divine Plotinus, in Ennead I., book viii. ''When the soul," says he,
'*has descended into generation (from its first divine condition)
she partakes of evil, and is carried a great way into a state the
opposite of her first purity and integrity, to he entirely merged
in ivhich, is nothing more than to fall into dark mire.^^ And again, soon
after : " The soul therefore dies as much as it is pos- sible
for the soul to die : and the death to her is^ while Mptized or immersed
in the present Bacchic Mysteries. 39 hocly^ to
descend into matter * and he wholly subjected hy it ; and after departing
thence to lie there till it shall arise and turn its face away from
the abhorrent filth. This is what is meant hy the falling asleep in
Ifades, of those who have come there.'''' j * Greek ^^>^'<],
matter supposed to contain all the principles the negative of life,
order, and goodness. tThis passage doubtless alludes to the ancient
and beautiful story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall
asleep in Hades ; and this through rashly attempting to behold
corporeal beauty : and the observation of Plotinus will enable the
profoimd and contemplative reader to unfold the greater part of the
mys- teries contained in this elegant fable. But, prior to
Plotinus, Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such
as are unable in the present life to apprehend the idea of the good,
will descend to Hades after death, and fall asleep in its dark abodes.
'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov Ttavxojv
a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa
Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax' ouatav
npofl'U^oofjLsvo? eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w
oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov
o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^ ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j
x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^ c'^aTiXja&ai ;
xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v jvO'ao'
E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;
ETTixaxaSapO-aviiv ; ». e. "He who is not able, by the exercise of
his reason, to define the idea of the good, separating it from all other
objects, and piercing, as in a battle, through every kind of argument ;
endeavoring to confute, not according to opinion, but according to
essence, and proceeding through all these dia- lectical energies with an
unshaken reason; — he who can not 40 Bacchic
Mysteries. TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac
yap '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc zotzco,
evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov SGzrji 'jisacov. — A'JToD-VTjay.cc
o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^ iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv
^(o GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac, 7C/.C
7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst %£iai)'7.L, £(oc
av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac
to'jto sb-'. to sv 4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the
aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the
good itself, nor anything which is pi'operly denominated good? And would
you not assert that such a one, when he apprehends any certain image of
reality, apprehends it rather through the medium of opinion than of
science ; that in the present life he is sunk in sleep, and conversant
with the delusion of dreams ; and that before he is roused to a vigilant
state he will descend to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly
profound." Henry Davis ti-anslates this passage more critically:
"Is not the ease the same with i"eference to the good ? Whoever
can not logically define it, abstracting the idea of the good from
all others, and taking, as in a fight, one opposing argument after
another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest his
ease, not on the ground of opinion, but of true being, — such a one knows
nothing of the r/ood itself, nor of any good whatever ; and should he
have attained to any knowledge of the (jood, we must say that he has
attained it by opinion, not by science {sKizzfiiirj) ; that he is
sleeping and dreaming away his present life ; and before he is roused
will descend to Hades, and there be profoundly and perfectly laid
asleep." vii. 14. Bacchic Mysteries. 43
reader may observe that the obsciu'e doc- trine of the Mysteries
mentioned by Plato in the Phcedo^ that the nnpurified soul in a
future state lies immerged in mire, is beauti- fully explained; at the
same time that our assertion concerning their secret meaning is not
less substantially confirmed.* In a similar manner the same divine
philosopher, in his book on the Beautiful, Ennead^ I., book vi.,
explains the fable of Narcissus as an em- blem of one who rushes to the
contempla- tion of sensible (phenomenal) forms as if they were
perfect realities, when at the same time they are nothing more than
Uke beautiful images appearing in water, falla- cious and vain.
" Hence," says he, " as Nar- cissus, by catching at the
shadow, plunged himself in the stream and disappeared, so he who is
captivated by beautiful bodies, and does not depart fi'om their
embrace, is precipitated, not with his body, but with *
Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us ap- pear to
have intimated that whoever shall arrive in Hades un- ptirified and not
initiated shall lie in mud ; but he who arrives there purified and
initiated' shall dwell with the gods. For there are many hearers* of the
wand or thyrsus, but few who are inspired." 44 Eleusiniari
and his soul, into a darkness profound and repug- nant to
intellect (the higher soul),* through which, remaining bhnd both here and
in Hades, he associates with shadows." Tov T(ov, Tcai
[j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri
-iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco
[5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll sv- taoi^a
%q:x£t a%iat? oovsaTL And what still farther confirms our exposition is
that mat- ter was considered by the Egyptians as a certain mire or
mud. " The Egyptians," says Simplicius, " called matter,
which they symbolically denominated water, the dregs or sediment of
the first life ; matter being, as it were, a certain mire or mud.f Aco
xat AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i-
|5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXs- yov, oiov ihjv ziya
ooaav. So that fi*om all * Intellect, Greek vouc, nous, is the
higher faculty of the mind. It is substantially the same as the pncH))ia,
or spirit, treated of in the New Testament; and hence the term '^
iiifcUectual," as used in Mr. Taylor's translation of the Platonic
writers, may be pretty safely read as spiritual, by those familiar with
the Chris- tian cultus. * A. W. t Physics of Aristotle.
Bacchic Mysteries. 45 tliat has been said we may
safely conclude with Ficinus, whose words are as express to our
purpose as possible. " Lastly," says he, "that I may
comprehend the opinion of the ancient theologists, on the state of the
soul after death, in a few words : tlieij considered^ as we have
elsewhere asserted, things divine as the only realities^ and that all
others were only the images and shadows of truth. Hence they
asserted that prudent men, who earnestly employed themselves in
divine concerns, were above all others in a vigilant state. But that
imprudent [/. e. without foresight] men, who pursued objects of a
different nature, being laid asleep, as it were, were only engaged in the
delusions of dreams ; and that if they happened to die in this
sleep, before they were roused, they would be afflicted with similar
and still more dazzling visions in a future state. And that as he
who in this life pursued realities, would, after death, enjoy the
high- est truth, so he who pursued deceptions would hereafter be
tormented with fallacies and delusions in the extreme : as the one
46 Eleusinian and would be delighted with true objects
of enjoyment, so the other would be tor- mented with delusive
semblances of reali- ty." — Denique ut priscormn theologorum
sententiam de statu animae post mortem paucis comprehendam : sola di\ina
(ut alias diximus) arbitrantur res veras existere, re- hqua esse
rerum verarum imagines atque umbras. Ideo prudentes homines, qui
divi- nis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impm- dentes autem, qui
sectantur alia, insomniis omnino quasi dormientes illudi, ac si in
hoc somno priusquam expergefacti fuerint moriantur similibus post
(hscessum et acri- oribus visionibus angi. Et sicut emn qui in vita
veris incubuit, post mortem summa veritate potiri, sic eum qui falsa
sectatus est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus veris oblectetur,
hie falsis vexetur simu- lachris." * But notwithstanding
this important truth was obscurely hinted by the Lesser Myster-
ies, we must not suppose that it was gen- *FiciNUs: De ImmortaL
Aniin. book xviii. Bacchic Mysteries. 47 erally
known even to the initiated persons themselves : for as individuals of
almost all descriptions were admitted to these rites, it would have
been a ridiculous prostitution to disclose to the multitude a theory so
ab- stracted and sublime.* It was sufficient to instruct these in
the doctrine of a future state of rewards and punishments, and in
themeans of returning to the principles from which they originally fell :
for this * We observe in the Netv Testament a like disposition on
the part of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and
ex- oteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,
and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom,"
says Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1
Cor- intliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to
know the Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not
given; therefore I speak to them in parables : because they seeing,
see not, and hearing, they hear not, neither do they
understand." — Matthew xiii., 11-13. He also justified the
withholding of the higher and interior knowledge from the untaught and ill-disposed,
in the memorable Sermon on the Mount. — Matthew vii. : •'Give ye
not that which is sacred to the dogs, Neither cast ye your pearls to the
swine ; For the swine will tread them under their feet And the dogs
will turn and rend you." This same division of the Christians
into neophytes and perfect, appears to have been kept up for centuries ;
and Godfrey Higgins asserts that it is maintained in the Roman Cliurch. —
A. W. 48 Eleusinian and last piece of
information was, according to Plato in the PJuedo, the ultimate design
of the Mysteries ; and the former is necessarily infeiTed from the
present discourse. Hence the reason why it was obvious to none hut
the Pythagorean and Platonic philosophers, who derived their theology
from Orpheus himseK,* the original founder of these sacred
institutions; and why we meet with no in- formation in this particular in
any writer prior to Plotinus ; as he was the first who, having
penetrated the profound interior wis- dom of antiquity, delivered it to
posterity without the concealments of mystic symbols and fabulous
narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence too, I
think, we may infer, with the greatest probabihty, that this
recondite meaning of the Mysteries was not known * Herodotus,
ii. 51, 81. "What Orpheus delivered in hidden allegories
Pythagoras learned when he was initiated into the Orphic Mysteries ;
and Plato next received a knowledge of them from the Orphic and
Pythagorean writings." Bacchic Mysteries. 49
even to Virgil himself, who has so elegantly described their
external form ; for notwith- standing the traces of Platonism which
are to be found in the ^neid, nothing of any great depth occurs
throughout the whole, except what a superficial reading of Plato
and the dramas of the Mysteries might easily afford. But this is not
perceived by modern readers, who, entirely luiskilled themselves in
Platonism, and fascinated by the charms of his poetry, imagine him to be
deeply knowing in a subject with which he was most hkely but
slightly acquainted. This opinion is still farther strengthened by
considering that the doctrine delivered in his Eclogues is
perfectly Epicurean, which was the fashionable phi- losophy of the
Augustan age ; and that there is no trace of Platonism in any other part
of his works but the present book, which, con- taining a representation
of the Mysteries, was necessarily obliged to display some of the
principal tenets of this philosophy, so far as they illustrated and made
a part of these mystic exhibitions. However, on the supposition
that this book presents us with 50 , Eleusinian and
a faithful view of some part of these sacred rites, and this
accompanied with the utmost elegance, harmony, and purity of
versifica- tion, it ought to be considered as an invalu- able rehc
of antiquity, and a precious mon- ument of venerable mysticism,
recondite wisdom, and theological information.* This will be
sufficiently e\ddent from what has been already delivered, by considering
some of the beautiful descriptions of this book in their natural
order; at the same time that the descriptions themselves will
corroborate the present elucidations. In the first place,
then, when he says, faeilis descensus Averno.
Noetes atque dies patet atra janua ditis : Sed revoeare
gradum, superasqiie evadere ad aiiras, Hoe opus, hie labor est.
Pauei quos sequus amavit Jupiter, aut ardens evexit ad sethera
virtus, Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,
Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1 * Ancient
Symhol-Worship, page 11, noie. t Davidson^s Translation. — "
Easy is the path that leads down to hell ; grim Pluto's gate stands open
night and day : but to retrace one's steps, and escape to the upper
regions, this is a work, this is a task. Some few, whom favoring Jove
loved, or illustrious virtue Bacchic Mysteries. 51
is it not obvious, from tlie preceding expla- nation, that by
Avernus, in this place, and the dark gates of Pluto, we mnst understand
a corporeal or external nature, the descent into which is, indeed, at all
times obvious and easy, but to recall our steps, and ascend' into
the upper regions, or, in other words, to separate the soul from the body
by the purifying discipline, is indeed a mighty work, and a
laborious task ? For a few only, the fa- vorites of heaven, that is, born
with the true philosophic genius,^ and whom ardent virtue has
elevated to a disposition and capacity for divine contemplation, have
been enabled to accomplish the arduous design. But when he says
that all the middle regions are covered with woods, this hkewise plainly
in- timates a material nature ; the word silva^ as is well known,
being used by ancient writers to signify matter, and implies nothing
more than that the passage leading to the barafh- advaneecl
to heaven, the sons of the gods, have effected it. Woods cover all the
intervening space, and Cocytus, gliding with his black, winding flood,
surrounds it." * /. e., a disposition to investigate for the
purpose of eliciting truth, and reducing it to practice. Meusinian
and rum [abyss] of body, /. e. into profound darkness and
oblivion, is throngh the me- dium of a material nature ; and this
medium is surrounded by the black bosom of Cocy- tus,* that is, by
bitter weeping and lamenta- tions, the necessary consequence of the
soul's union with a nature entirely foreign to her own. So that the
poet in this particular per- fectly corresponds with Empedocles in
the line we have cited above, where he exclaims, alluding to this
union. For this I weej), for this indulge my icoe, That
e'er my soul such novel realms should know. In the next place, he
thus describes the cave, through which ^neas descended to the
infernal regions : Spelunea alta fuit, vastoque immanis
hiatu, Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris : Quam super
hand ulla? poterant impune volantes Tendere iter pennis : talis sese
halitus atris Faueicus effundens supera ad eonvexa fevebat : Unde
locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1 * Coeytus, lamentation, a
river in the Underworld. \ Davidson^ s Trnnslation. — "There was a
cave profound and hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a
black lake, Bacchic Mysteries. 53 Does it not
afford a beautiful representation of a corporeal nature, of which a cave,
de- fended with a black lake, and dark woods, is an obvious emblem
*? For it occultly re- minds us of the ever-flowing and obscin*e
condition of such a nature, which may be said To roll
incessant with impetuous speed, Like some dai'k river, into Matter's
sea. Nor is it with less propriety denominated Aornus, i. e.
destitute of birds, or a winged nature ; for on account of its native
sluggish- ness and inactivity, and its merged condi- and the
gloom of woods ; over which none of the flying kind were able to wing
their way unliurt ; such exhalations issuing from its grim jaws ascended
to the vaulted skies ; for w^iich reason the Greeks called the place by
the name of Aornos" (without birds). Jacob Bryant says: "
All fountains were esteemed sacred, but especially those which had any
preternatural quality and abounded with exhalations. It was an universal
notion that a divine energy proceeded from these effluvia ; and that the
persons who resided in their vicinity were gifted with a prophetic
quality. . . . The Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or
fountains of the oracle ; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of
God.' These terms the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a
nymph." — Ancient Mythology, vol. i. p. 276. The Delphic
oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca infe- riore, of the earth,
and the pythoness inhaled the vapors. — A. W. Eleiisinian and
tion, being situated in the outmost extremity of tilings, it is
perfectly debile and languid, incapable of ascending into the regions
of reality, and exchanging its obscure and de- graded station for
one every way splendid and divine. The propriety too of
sacrificing, previous to his entrance, to Night and Earth, is
obvious, as both these are emblems of a corporeal nature. In
the verses which immediately follow, — Ecee autem, priini sub
limina solis et ortus, Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta
movere Silvarum, visaque canes ululare per umbram, Adventante dea
* we may perceive an evident allusion to the earthquakes,
etc., attending the descent of the soul into body, mentioned by Plato
in the tenth book of his Republic ;\ since the * " So,
now, at the fii-st beams and rising of tlie sun, the earth under the feet
begins to rumble, the wooded hills to quake, and dogs were seen howling
through the shade, as the goddess came hither " i
Republic, x, 16. "After they were laid asleep, and midnight was
approaching, there was thunder and earthquake ; and they were thence on a
sudden carried upward, some one way, and some another, approaching to the
region of generation like stars." Bacchic Mysteries.
55 lapse of the soul, as we shall see more fully hereafter,
was one of the important truths which these Mysteries were intended to
re- veal. And the howling dogs are symbols of material * demons,
who are thus denomi- nated by the Magian Oracles of Zoroaster, on
account of then" ferocious and malevolent dispositions, ever baneful
to the felicity of the human soul. And hence Matter herseK is
represented by Synesius in his first Hymn, with great propriety and
beauty, as barking at the soul with devoimng rage : for thus he
sings, addressing himself to the Deity : Maxap 6c x:c popov
oImc, npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc, AvaouCj a/.p.«tt
xoo'^po) lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi. Which may be thus paraphrased
: Blessed! thrice blessed! who, with winged speed, From
Hyle's t dread voracious bai'kiug flies, * Material demons are a
lower grade of spiritual essences that are capable of assuming forms
which make them perceptible by the physical senses. — A. W. t
Hijle or Matter. All evil incident to human life, as is here shown, was
supposed to originate from the connection of the soul to material
substance, the latter being regarded as the receptacle 56
EleMsinian and And, leaving Earth's obscnrity behind, By a
light leap, directs his steps to thee. And that material demons
actually ap- peared to the initiated previous to the lucid visions
of the gods themselves, is evident from the following passage of Proclus
in his manuscript Commentary on tlie first Alcibiades : sv zaic
rj.-(iozazaic tcov tsaskov Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov
/iS'Gvuov £%- poAat xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov
ayai^cov zic zr^v ohriy 7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. " In the most
interior sanctities of the Mys- teries, before the presence of the god,
the rushing forms of earthly demons appear, and call the attention
from the immaculate good to matter." And Pletho (on the
Oracles), expressly asserts, that these spectres ap- peared in the
shape of dogs. After this, ^neas is described as proceed- ing
to the infernal regions, through profound night and darkness :
Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram, Perque domos Ditis
vaciias, et inania regna. of everything evil. But why the soul is thus
immerged and pun- ished is nowhere explained. — A. W.
Bacchic Mysteries. 57 Quale per ineertam lunam sub luce
maligna Est iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra Jupiter, et
rebus nox abstulit atra colorem.* And this with the greatest
propriety; for the Mysteries, as is well known, were cele- brated
by night ; and in the Republic of Plato, as cited above, souls are
described as falling into the estate of generation at mid- night ;
this period being peculiarly accom- modated to the darkness and oblivion
of a corporeal nature ; and to tliis circumstance the nocturnal
celebration of the Mysteries doubtless alluded. In the next
place, the following vivid description presents itself to our view
: Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei Luctus,
et ultrices posuere eubilia Curte : Pallentesque habitant morbi,
tristisque senectus, Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis
egestas; *" They went along, amid the gloom under the solitary
night, through the shade, and through the desolate halls, and empty
realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods beneath
the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter has enveloped the
sky in shade, and the black Night has taken from all objects their
color." 58 Eleiisinian and Terribiles visu
forraje ; Lethumque Laborque ; Turn consanguineus Lethi Sopor et mala
mentis Gaudia, mortiferumqiie adverso in limine bellum Ferreique
Eumenidum thalami et Discordia demons, Vipereum crinem vittis inuexa
cruentis. In medio ramos annosaque braehia pandit Ulmus opaca
ingens : quam sedem somnia vulgo Vana tenere feruut, foliisqlie sub
omnibus ba?i'ent. Multaque prseterea variarum monstra f erarum :
Centauri in foribus stabiilant, Scyllseque biforines, Et centumgeminus
Briareus, ac bellua Lernse, Horrendum stridens, flammisque armata
Chimgera, Gorgones Hai'pyigeque, et foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^
And surely it is impossible to draw a more lively picture of the
maladies with wliich a * "Before the entrance itself, and in
the first jaws of Hell, Grief and vengeful Cares have placed their
couches; pale Diseases in- habit there, and sad Old Age, and Fear, and
Want, evil goddess of persuasion, and unsightly Poverty — forms terrible
to contem- plate ! and there, too, are Death and Toil ; then Sleep, akin
to Death, and evil Delights of mind ; and upon the opposite
threshold are seen death-bringing War, and the iron marriage-couches
of the Furies, and raving Discord, with her viper-hair bound with
gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge expands its boughs and
aged limbs ; making an abode which vain Dreams are said to haunt, and
under whose every leaf they dwell. Besides all these, are many monstrous
api^aritions of various wild beasts. The Centaurs harbor at the gates,
and double-formed Scyllas, the hun- dred-fold Briareus, the Snake of
Lerna, hissing dreadfully, and Chimasra armed with flames, the Gorgons
and the Harpies, and the shades of three-bodied form."
Bacchic Mysteries. 59 material natui'e is connected ; of the
sonl's dormant condition tlirougli its union with body ; and of the
various mental diseases to which, through such a conjunction, it
be- comes unavoidably subject ; for this descrip- tion contains a
threefold division ; represent- ing, in the first place, the external
evil with which this material region is replete ; in the second place,
intimating that the life of the soul when merged in the body is nothing
but a dream; and, in the third place, under the dis- guise of
multiform and terrific monsters, ex- hibiting the various vices of our
iiTational and sensuous part. Hence Empedocles, in perfect
conformity w^th the first part of this descrip- tion, calls this material
abode, or the realms of generation, — a-c£p:r£.oc /(opov,* a
'^joyless region^ "Where slaiighter, rage, ami countless
ills reside; EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa
llYjpWV and into which those who fall, * This and the
other citations from Empedocles are to be found in the book of Hieroeles
on The Golden Verses of Pythagoras. 60 Bacchic
Mysteries. "Through Ate's meads and dreadful darkness
stray." And hence lie justly says to sncli a
soul, that " She flies from deity and heav'nly
light, To serve mad Discord in the realms of night."
iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may
observe that the Discordla demens of Virgil is an exact translation
of the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles. In the
hues, too, which immediately suc- ceed, the sorrows and mournful
miseries attending the soul's union with a material nature, are
beautifully described. Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad
nndas; Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges ^stuat, atque
omuem Coeyto eructat arenam.* And when Charon calls out to ^neas
to * "Here is the way whieli leads to the surging billows of
Hell [Acheron] ; here an abyss turbid boils up with loathsome mud
and vast whirlpools; and vomits all its quicksand into
Cocytus." IJiaua auct Calisto.
Bacchic Mysteries. 63 desist from entering any farther, and
tells him, " Here to reside delusive shades
delight; ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy
night." Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque soporse
nothing can more aptly express the condi- tion of the dark regions
of body, into which the soul, when descending, meets with no- thing
but shadows and drowsy night : and by persisting in her course, is at
length lulled into profound sleep, and becomes a true in- habitant
of the phantom-abodes of the dead. ^neas having now passed over the
Sty- gian lake, meets with the three-headed mon- ster Cerberus,*
the guardian of these infernal abodes : Tandem trans fluvium
incolumis vatemque virumque Informi limo glaueaque exponit in ulva.
* The presence of Cerberus in Grecian and Roman descriptions of the
Underworld shows that the ideas of the poets and mythol- ogists were
derived, not only from Egypt, but from the Brahmans of the far East.
Yama, the lord of the Underworld, is attended by his dog Karharu, the
spotted, styled also Trikasa, the three- headed. 64
Meusinian and Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
Personat, adverse recubaus immanis in antro.* By Cerberus we must
understand the dis- criminative part of the soul, of which a dog,
on account of its sagacity, is an emblem ; and the three heads signify
the triple distinction of this part, into the intellective [or
intui- tional], cogitative [or rational], and opinion- ative
powers. — With respect f to the three kinds of persons described as
situated on the borders of the infernal realms, the poet doubtless
intended by this enumeration to represent to us the three most
remarkable * "At length across the river safe, the prophetess
and the man, he lands upon the slimy strand, upon the blue sedge. Huge
Cer- berus makes these realms [of death] resound with barking from
his threefold throat, as he lies stretched at prodigious length in
the opposite cave." tin the second edition these terms
are changed to dianoietic and doxastic, words which we cannot adopt, as
they are not accepted English terms. The nous, intellect or spirit,
pertains to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia
or understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or
opinion- forming power, to the faculty of investigation. — Plotinus,
accept- ing this theory of mind, says: "Knowledge has three degrees
— opinion, science, and illumination. The means or instrument of
the first is reception ; of the second, dialectic ; of the third, in-
tuition."— A. W. Bacchic Mysteries. 65
characters, wlio, though not apparently de- serving of punishment,
are yet each of them similarly im merged in matter, and conse-
quently require a similar degree of purifica- tion. The persons described
are, as is well known, first, the souls of infants snatched away by
untimely ends ; secondly, such as are condemned to death unjustly ; and,
third- ly, those who, weary of their lives, become guilty of
suicide. And with respect to the first of these, or infants, their
connection with a material nature is obvious. The sec- ond sort,
too, who are condemned to death unjustly, must be supposed to represent
the souls of men who, though innocent of one crime for which they
were wrongfully pun- ished, have, notwithstanding, been guilty of
many crimes, for which they are receiving proper chastisement in Hades,
i. e, through a profoiuid union with a material nature.* And the
third sort, or suicides, though ap- * Hades, the Underworld,
supposed by classical students to be the region or estate of departed
souls, it will have been noticed, is regarded by Mr. Taylor and other
Platonists, as the human body, which they consider to be the grave and
place of punishment of the soul. — A. W. 66 Eleusinian
and parently separated from the body, have only exchanged one
place for another of similar nature ; since conduct of this kind,
according to the arcana of divine philosophy, instead of separating
the soul from its body, only restores it to a condition perfectly
correspon- dent to its former inchnations and habits, lamentations
and woes. But if we examine this affair more profoundly, we shall
find that these three characters are justly placed in the same
situation, because the reason of punishment is in each equally obscure.
For is it not a just matter of doubt why the souls of infants
should be punished? And is it not equally dubious and wonderful why
those who have been unjustly condemned to death in one period of
existence should be punished in another? And as to suicides, Plato
in Ms PJicvdo says that the prohibition of this crime in the aTzorjfjrfa
{aporrheta) * is a profound doctrine, and not easy to be *
Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the candidate
undergoing initiation. In the Eleusinia, these were made by the
Hierophant, and enforced by him from the Book of
InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of
stone. This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a
rock, Bacchic Mysteries. 67 understood.* Indeed,
the true cause why the two first of these characters are in Hades,
can only be ascertained from the fact of a prior state of existence, in
surveying which, the latent justice of punishment will be mani-
festly revealed ; the apparent inconsistencies in the administration of
Providence fully reconciled; and the doubts concerning the wisdom
of its proceedings entirely dissolved. And as to the last of these, or
suicides, since the reason of their punishment, and why an action
of this kind is in general highly atrocious, is extremely mystical and
obscure, the following solution of this difficulty will, no doubt,
be gratefully received by the Pla- tonic reader, as the whole of it is no
where else to be found but in manuscript. Olym- or possibly
from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians, xii. 6-8.— A.
W. * PJuedo, 16. " The instruction in the doctrine given in
the Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and
that we ought not to free ourselves from it or seek to- escape, appears
to me difficult to be understood, and not easy to ap- prehend. The gods
take care of us, and we are theirs." Plotinus, it will be
remembered, perceived by the interior faculty that Porphyry contemplated
suicide, and admonished him accordingly. — A. W. 68
Eleusinian and piodorus, then, a most learned and excellent
commentator on Plato, in his commentary on that part of the PJuedo where
Plato speaks of the prohibition of suicide in the aporrhefa,
observes as follows: "The argu- ment which Plato employs in this
place against suicide is derived fi^om the Orphic mythology, in
which foui" kingdoms are celebrated; the first of Uranus
[Ouranos] (Heaven), whom Ki'onos or Satm^n as- saulted, cutting off
the genitals of his father.* But after Saturn, Zeus or Jupiter succeeded
to the government of the world, having hurled his father into Tartarus.
And after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to light, who,
according to report, was, through the insidious treachery of Hera or
Juno, torn in pieces by the Titans, by whom he was sur- rounded,
and who afterwards tasted his flesh : but Jupiter,enraged at the deed,
hurled his thunder at the guilty offenders and consumed them to
ashes. Hence a certain matter be- * In the Hindu mythology, from
which this symbolism is evidently derived, a deity deprived thus of the
lingam or phal- lus, parted with his diviue authority.
Bacchic Mysteries. 69 ing formed from the ashes or sooty
vapor of the smoke ascending from their burning bodies, out of this
mankind were produced. It is unlawful, therefore, to destroy
ourselves, not as the words of Plato seem to unport, because we are
in the body, as in prison, secured by a guard (for this is evident,
and Plato would not have called such an assertion arcane), but because
our body is Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus : for we are
a part of him, since we are composed from the ashes, or sooty vapor
of the Titans who tasted his flesh. Socrates, therefore, as if fearful
of disclosing the arcane part of this narra- tion, relates nothing
more of the fable than that we are placed as in a prison secured by
a guard : but the interpreters re- late the fable openly." Koci z^zi
zo {j.'ji>c7,ov s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst
xsaaaps^ paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j Oopctvoy,
Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov
Kpovov, 6 * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually
so translated. 70 Elensinian and Ze'jc
£p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.- zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7.
^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc
:r£pi a'jto'j TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj
£7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V
'(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^ YEVEGil-a^ lO'JC
7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj. Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl
0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^ Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3
a(0|X7.rr TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO
7.7:0p- P(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^
ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U OVrO:;' 'jX£pO^
Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov
a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~ V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0
{JL£V O'JV ]^(07,p7- XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J
{J-'Ji)-0'J 0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi
rppo'jpa £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£- 7a:v
£|(oi)-£v. After this he beautifully ob- serves, " That these four
governments signify the different gradations of virtues, accord-
ing to which oui^ soul contains the symbols of all the qualities, both
contemplative and purifying, social and ethical; for it either
Bacchic Mysteries. 71 operates acoording to the
theoretic or con- templative virtues, the model of which is the
government of Uranus or Heaven^ that we may begin from on high ; and on
this ac- count Uranus (Heaven) is so called irctpa TOO la avco
6pc/.v, from beholding the things above : Or it lives purely, the
exemplar of which is the Kronian or Satiu^nian kingdom ; and on
this account Kronos is named as Koro-nous, one who perceives through
him- self. Hence he is said to devour his own offspring, signifying
the conversion of him- self into his own substance : — or it
operates according to the social virtues, the sym- bol of which is
the government of Jupiter. Hence, Jupiter is styled the Demiurgus,
as operating about secondary things : — or it operates according to both
the ethical and physical virtues, the symbol of which is the
kingdom of Bacchus ; and on this account is fabled to be torn in pieces
by the Titans, because the virtues are not cut off by each
other." Aiyozzoyzai (lege aLVL-c- tovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc
'^jrj.^\i.o'jc, x(ov aps- xtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa
e'/oo:ja 72 Bacchic Mysteries. iraawv tcov apsKov,
icov tis O-scopYj'iL'jctov, otat yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca?
svspyst cbv Tza^jo.- ^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7.
avoiii-sv ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j T7.
av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC 'irapa- Sstyjxa Y; Kpovsia
jiaacXstc/., oio %at Kpovoc st- p'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo
s7.ytov 6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/)- {laxa Xsysta^
(o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatps- cpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov
arj{j.|3oAov, T) XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6
ZstJt;, (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l-
%aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou A'.ovfjaou
paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc
7.t 7.p£X7.i. And thus far Olympiodorus ; in which pas- sages it is
necessary to observe, that as the Titans are the artificers of things,
and stand next in order to their creations, men are said to be
composed from their fragments, because the human soul has a partial
life capable of proceeding to the most extreme division united with
its proper natiu'e. And while the soul is in a state of servitude
to Kleusinian Mysteries. Bacchic
Mysteries. 75 the body, she hves confined, as it were, in
bonds, througli the dominion of this Titan- ical life. We may observe
farther concerning these dramatic shows of the Lesser Mys- teries,
that as they were intended to rep- resent the condition of the soul
while subservient to the body, we shall find that a liberation from
this servitude, through the purifying disciplines, potencies that
separate from evil, was what the wisdom of the an- cients intended
to signify by the descent of Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and
their speedy return from its dark abodes. ' ' Hence," says
Proclus, " Hercules being purified by sacred initiations^ obtained
at length a per- fect estabhshment among the gods:"* that is,
well knowing the dreadful condition of his soul while in captivity to a
corporeal nature, and purifying himself by practice of the
cleansing virtues, of which certain puri- fications in the mystic
ceremonies were sym- bolical, he at length was freed from the
bondage of matter, and ascended beyond her Commentary on the
Statesman of Plato, p. 382. 76 Meusinian and
reach. On this account, it is said of him, that "
He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day ; " intimating
that by temperance, continence, and the other virtues, he drew upwards
the intuitional, rational, and opinionative part of the soul. And
as to Theseus, who is repre- sented as . suffering eternal punishment
in Hades, we must consider him too as an allegorical character, of
which Proclus, in the above-cited admirable work, gives the fol-
lowing beautiful explanation : " Theseus and Pirithous," says
he, " are fabled to have ab- ducted Helen, and descended to the
infernal regions, i. e. they were lovers both of mental and visible
beauty. Afterward one of these (Theseus), on account of his
magnanimity, was Hberated by Hercules from Hades ; but the other
(Pirithous) remained there, be- cause he could not attain the difficult
height of divine contemplation." This account, in- deed, of
Theseus can by no means be recon- ciled with Virgil's :
sedet, seternumque sedebit, Infelix Theseus.* * "
There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus."
Bacchic Mysteries. 11 Nor do I see how Virgil can be
reconciled with himself, who, a httle before this, rep- resents him
as hberated from Hades. The conjecture, therefore, of Hyginus is
most probable, that Virgil in this particular com- mitted an
oversight, which, had he lived, he would doubtless have detected, and
amended. This is at least much more probable than the opinion of
Dr. Warbm^ton, that Theseus was a living character, who once entered into
the Eleusinian Mysteries by force, for which he was imprisoned upon
earth, and afterward punished in the infernal realms. For if this
was the case, why is not Hercules also represented as in punishment? and
this with much greater reason, since he actually dragged Cerberus
from Hades ; whereas the fabulous descent of Theseus was attended
with no real, but only intentional, mischief. Not to mention that Virgil
appears to be the only writer of antiquity who condemns this hero
to an eternity of pain. Nor is the secret meaning of the
fables concernmg the punishment of impure souls 78
Eleusinian and less impressive and profound, as the follow-
ing extract fi'om the manuscript commentary of Olympiodorus on the
Gorgias of Plato will abundantly affirm: — "Ulysses," says
he, " descending into Hades, saw, among others, Sisyphus, and
Tityus, and Tantalus. Tityus he saw lying on the earth, and a vulture de-
vouring his liver; the liver signifying that he lived solely according to
the principle of cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was
indeed internally prudent ; but the earth signifies that his disposition
was sordid. But Sisyphus, living under the dominion of ambi- tion
and anger, was employed in continually rolling a stone up an eminence,
because it perpetually descended again ; its descent im- plying the
vicious government of himself ; and his rolling the stone, the hard,
refractory, and, as it were, rebounding condition of his hf e. And,
lastly, he saw Tantalus extended by the side of a lake, and that there
was a tree before him, with abundance of fruit on its branches,
which he desired to gather, but it vanished from his view ; and this
indeed indicates, that he lived under the dominion
Bacchic Mysteries. 79 of phantasy ; but his hanging over the
lake, and in vain attempting to drink, imphes the elusive, humid,
and rapidly-ghding condition of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv
sec cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc xov
TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc
xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt
ya-cct xo STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO
£C3(0 cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov a'jxoy
'-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^Xo- xqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi;
C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov, %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/.
xaxap- p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,
hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JC- Tov o£
T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj) %7.l OXt £V 5£v5pOtC
'^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£ xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo
ai o^copat. TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V
Cto'^v. Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,
%7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that accord- ing to the wisdom of
the ancients, and the most sublime philosophy, the misery which a
soul endures in the present life, when giv- ing itself up to the dominion
of the irrational 80 Elensinian and part, is
nothing more than the commence- ment, as it were, of that torment which
it win experience hereafter : a torment the same in kind though
different in degree, as it will be much more di'eadful, vehement,
and extended. And by the above specimen, the reader may perceive how
infinitely supe- rior the explanation which the Platonic phi-
losophy affords of these fables is to the frigid and trifling
interpretations of Bacon and other modern mythologists ; who are
able mdeed to point out their correspondence to something in the
natui'al or moral world, be- cause such is the wonderful connection
of things, that all things sympathize with all, but are at the same
time ignorant that these fables were composed by men divinely wise,
who framed them after the model of the highest originals, from the
contemplation of real and permanent heing, and not from re- garding
the delusive and fluctuating objects of sense. This, indeed, mil be
evident to every ingenuous mind, from reflecting that these wise
men universally considered Hell or death as commencing in the present
life Baccldc Mysteries. 81 (as we have already
abundantly proved), and that, consequently, sense is nothing more
than the energy of the dormant soul, and a perception, as it were, of the
delusions of di'eams. In consequence of tliis, it is ab- surd in
the highest degree to imagine that such men would compose fables from
the contemplation of shadows only, without re- garding the splendid
originals from which these dark phantoms were produced : — not to
mention that their harmonizing so much more perfectly with intellectual
explications is an indisputable proof that they were de- rived from
an intellectual [noetic] source. And thus much for the dramatic
shows of the Lesser Mysteries, or the first part of these sacred
institutions, which was properly denominated xsXst-r] [telete^ the
closing up] and [vrrpiz Muesis [the initiation], as con- taining
certain perfective rites, symbolical ex- hibitions and the imparting and
reception of sacred doctrines, previous to the beholding of the
most splendid visions, or ETuoTutsta \epop- teia, seership]. For thus the
gradation of 82 Bacchic Mysteries. the Mysteries
is disposed by Proclus in Theology of Plato, book iv. " The
perfective rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in
or- der the initiation [\xorpiQ, muesis], and initia- tion, the
final apocalypse, epopteiay npoY^yst- STzoiizziaQ.* At the same
time it is proper to observe that the whole business of initiation
was distributed into five parts, as we are informed by Theon of Smyrna,
in Matliema- tica, who thus elegantly compares philosophy to these
mystic rites : " Again," says he, " philosophy may be
called the initiation into true sacred ceremonies, and the
instruction in genuine Mysteries ; for there are five parts of
initiation : the first of which is the previous purification ; for
neither are the Mysteries communicated to all who are wilhng to
receive them ; but there are cer- tain persons who are prevented by the
voice of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those who possess
impure hands and an inartic- ulate voice ; since it is necessary that
such as are not expelled from the Mysteries * Theology of
Plato, book iv. p. 220. Bacchic Mysteries. 85
should first be refined by certain purifica- tions : but after
purification, the reception of the sacred rites succeeds. The third part
is denominated epopfeia, or reception.* And the fourth, which is
the end and design of the revelation, is [the investiture] the binding
of the head and fixing of the crowns. The ini- tiated person is, by
this means, authorized to communicate to others the sacred rites in
which he has been instructed ; whether after this he becomes a
torch-bearer, or an hierophant of the Mysteries, or sustains some
other part of the sacerdotal office. But the fifth, which is produced
from all these, is friendship and interior commtmion with God, and
the enjoyment of that felicity which arises from intimate converse with
divine beings. Similar to this is the com- munication of political
instruction ; for, in the first place, a certain purification
precedes, * Theon appears to regard the final apocalypse or
epopteia, like E. Poeocke to whose views allusion is made elsewhere.
This writer says : " The initiated were styled ebaptoi," and
adds in a foot-note — " Avaptoi, literaWj obtaining or
getting." According to this the epopteia would imply the final
reception of the interior doctrines. — A. W. 86
Eleusinian and or else an exercise in proper matliematical
discipline from early youth. For thus Em- pedocles asserts, that it is
necessary to be purified from sordid concerns, by drawing from five
fountains, with a vessel of indis- soluble brass : but Plato, that
purification is to be derived fi'om the five mathematical
disciplines, namely from arithmetic, geome- try, stereometry, music, and
astronomy ; but the philosophical instruction in theorems, logical,
pohtical, and physical, is similar to initiation. But he (that is, Plato)
denom- inates zTzoizzzirj, [or the reveahng], a contem- plation of
things which are apprehended in- tuitively, absolute truths, and ideas.
But he considers the binding of the head, and corona- tion, as
analogous to the authority w^hich any one receives from his instructors,
of leading others to the same contemplation. And the fifth
gradation is, the most perfect fehcity arising from hence, and, according
to Plato, an assimilation to divinity^ as far as is pos- sible to
mankind." But though s'jroTrTS'.a, or the rendition of the arcane
ideas, princi- pally characterized the Greater Mysteries, yet
Bacchic Mysteries. 87 this was likewise accompanied
with the [j.uyj- GLc, or initiation, as will be evident in the
conrse of this inquuy. But let US now proceed to the doctrine
of the Greater Mysteries : and here I shall en- deavor to prove
that as the dramatic shows of the Lesser Mysteries occultly signified
the miseries of the soul while in subjection to body, so those of
the Grreater obscurely inti- mated, by mystic and splendid visions,
the felicity of the soul both here and hereafter, when purified
from the defilements of a material nature, and constantly elevated
to the realities of intellectual [spiritual] vision. Hence, as the
ultimate design of the Mys- teries, according to Plato, was to lead us
back to the principles from which we descended, that is, to a
perfect enjoyment of intellectual [spiritual] good, the imparting of
these prin- ciples was doubtless one part of the doctrine contained
in the airoppTjia, aporrheta, or se- cret discourses ; * and the
different purifica- * The apostle Paul apparently alludes to the
disclosing of the Mystical doctrines to the epopts or seers, in his
Second Epistle to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man,
— whether in 88 Eleusinian and tions exhibited
in these rites, in conjunction with initiation and the epopteia were
symbols of the gradation of virtues requisite to this reascent of
the soul. And hence, too, if this be the case, a representation of the
descent of the soul [from its former heavenly estate] must
certainly form no inconsiderable part of these mystic shows ; all which
the f ollomng observations will, I do not doubt, abundantly
evince. In the first place, then, that the shows of the
Greater Mysteries occultly signified the felicity of the soul both here
and hereafter, when separated from the contact and influ- ence of
the body, is evident from what has been demonstrated in the former part
of this discourse : for if he who in the present life is in
subjection to Ms irrational part is truly in ITades, he who is superior
to its dominion is liheivise an inhahitayit of a place totally
different from Hades* If Hades therefore body or outside of body, I
know not: God knoweth, — who was rapt into paradise, and heard appv]xr/.
pYjfxata, tilings ineffable, which it is not lawful for a man to
repeat." *Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our
citizenship is in the heavens." Bacchic
Mysteries. 89 is the region or condition of punishment and
misery, the purified soul must reside in the regions of bhss ; in a hf e
and condition of purity and contemplation in the present life, and
entheastically,* animated by the divine * Medical and Surgical
Bejiorter, vol. xxxii. p. 195. "Those who have professed to teach
their fellow-mortals new truths eon- cerning immortality, have based
their authority on direct divine inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed,
Swedenborg, all claimed communication with higher spirits ; they were
what the Greeks called eniheast — 'immersed in God' — a sti'iking
word which Byron introduced into our tongue." Carpenter
describes the condition as an automatic action of the brain. The inspired
ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very vividly, at
some time when tliinhing of some other topic. Francis Galton defines
genius as " the automatic activity of the mind, as distin- guished
from the effort of the will, — the ideas coming by inspira- tion."
This action, says the editor of the Reporter, is largely favored by a
condition approaching mental disorder — at least by one remote from the
ordinary working day habits of thought. Fasting, prolonged intense mental
action, gi-eat and unusual com- motion of mind, will produce it ; and,
indeed, these extraordinary displays seem to have been so preceded.
Jesus, Buddha, Moham- med, all began their careers by fasting, and
visions of devils fol- lowed by angels. The candidates in the Eleusinian
Mysteries also saw visions and apparitions, while engaged in the
mystic orgies. "We do not, however, accept the materialistic view of
this subject. The cases are enftieasHe ; and although hysteria and
other disorders of the sympathetic system sometimes imitate the
phenomena, we believe with Plato and Plotimis, that the higher faculty,
intellect or intuition as we prefer to call it, the noetic part of our
nature, is the faculty actually at work. "By reflection,
90 Eleusinian and energy, in the next. This being
admitted, let us proceed to consider the description which Virgil
gives us of these fortunate abodes, and the latent signification
which it contains, ^neas and his guide, then, hav- ing passed
tlu^ough Hades, and seen at a dis- tance Tartarus, or the utmost
profundity of a material nature, they next advance to the Elysian
fields : Devenere locus Isetos, et amaena vireta
Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas. Largiov Me campos gether et
lumine vestit Purpureo ; solemque suum, sua sidera norunt. *
Now the secret meaning of these joyful places is thus beautifully
unfolded by Olym- piodorus in his manuscript Commentary on the
Gorgias of Plato. "It is necessary to know," says he, " that
the fortunate islands are said to be raised above the sea ; and
self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be raised
to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to the
vision of God." This is the epopteia. — A. W. * "They
came to the blissful regions, and delightful gi'eeu re- treats, and happy
abodes in the fortunate gi'oves. A freer and purer sky here clothes the
fields with a purjile light ; they recog- uize their own suu, their own
stars." Bacchic Mysteries. 91 hence a
condition of being, which transcends this corporeal hfe and generated
existence, is denominated the islands of the blessed ; but these
are the same with the Elysian fields. And on this account Hercules is
said to have accomphshed his last labor in the Hes- perian regions
; signifying bythis, that having vanquished a dark and earthly life he
after- ward hved in day, that is, in truth and light." Asc 5s
st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai.
Tt;v oov Tzokizsiay XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc,
ysvY^ascoc, {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi
■vcc/.t xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,- Xtj^
zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv s'jTorr^aaxo, 7.vxi
xax'^jYcovcaato xov axoxstvov ■jcai yO-oviov pwv, xai Xotirov sv
'^^t^spcf., oaxiv sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he who
in the present state vanquishes as much as possible a corporeal life,
through the practice of the piu'ifying virtues, passes in reahty
into the Fortunate Islands of the soul, and lives surrounded with the
bright splen- dors of truth and wisdom proceeding from the sun of
good. 92 Bacchic Mysteries. The poet, in
describing the employments of the blessed, says : Pars
in gramineis exereent membra paleestris : Coutendunt ludo, et f ulva
luctantur arena : Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.
Nee non Threicius longa cum veste saeerdos Obloquitur uumeris septem
discrimina vocum: lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.
Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles, Magnanimi heroes, nati
melioribus annis, Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus
auctor. Arma procul, currusque virum miratur inanis. Stant terra
defixse hastse, passimque soluti Per campum pascuntur equi. Quae gratia
curruum Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis Pascere equos,
eadem sequitur tellure repostos. Conspicit, ecee alios, dextra laevaque
per herbam Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis. Inter
odoratum lauri nemus : unde superne Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur
amnis.* * "Some exercise their limbs upon the grassy field,
contend in play and wrestle on the yellow sand ; some dance on the
ground and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his
long robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven
distinguished notes ; and now strikes them with his fingers, now with the
ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer, a most
illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears, — II, Assarac,
and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking from afar, admires the
arms and empty war-cars of the heroes. There stood spears fixed in the
ground, and scattered over the plain horses are feeding. The same taste
which when alive •'i%^^^^_^ ^^^!^mm^
Eleusiuiau Mj'steries. Bacchic Mysteries. 95
This must not be understood as if the soul in the regions of
fehcity retained any affec- tion for material concerns, or was engaged
in the trifling pursuits of the everyday cor- poreal life ; but
that when separated from generation, and the world's life, she is
con- stantly engaged in employments proper to the higher spiritual
nature ; either in divine con- tests of the most exalted wisdom ; in
forming the responsive dance of refined imagina- tions; in tuning
the sacred lyi'e of mystic piety to strains of divine fury and
ineffable dehght ; in giving free scope to the splendid and winged
powers of the soul; or in nourishing the higher intellect with the
sub- stantial banquets of intelligible [spiritual] food. Nor is it
without reason that the river Eridanus is represented as flowing
through these delightful abodes; and is at these men had for
chariots and arms, the same passion for rear- ing glossy steeds, follow
them reposing beneath the earth. Lo! also he views others, on the right
and left, feasting on the grass, and singing in chorus the joyful pteon,
amid a fragrant grove of laui'el; whence from above the greatest river
Eridanus rolls through the woods." A peeon was chanted to
Apollo at Delphi every seventh day. 96 Eleusinian and
the same time denominated plurimus (great- est), because a great
part of it was absorbed in the earth without emerging from thence :
for a river is the symbol of hfe, and conse- quently signifies in this
place the intellectual or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh,
that is, from divinity itself, and gliding with pro- lific energy
through the hidden and profound recesses of the soul. In the
following lines he says : Nulli eerta domus. Lucis habitamus
opacis, Riparumque toros, et prata recentia rivis Incolimus.*
By the blessed not being confined to a par- ticular habitation, is
implied that they are perfectly free in all things ; being entirely
free from all material restraint, and purified from all inclination
incident to the dark and cold tenement of the body. The shady
groves are symbols of the retiring of the » li
' No one of us has a fixed abode. We inhabit the dark groves, and
occupy couches on the river-banks, and meadows fresh with little
rivulets." Bacchic Mysteries. 97 soul to
the depth of her essence, and there, by energy solely divine,
establishing herself in the ineffable principle of things.* And the
meadows are syin])ols of that prolific power of the gods through which
all the variety of reasons, animals, and forms was produced, and
which is here the refresh- ing pastui'e and retreat of the hberated
soul. But that the communication of the knowl- edge of the
principles from which the soul descended formed a part of the sacred
Mys- teries is evident from Yirgil ; and that this was accompanied
with a vision of these prin- ciples or gods, is no less certain, from
the testimony of Plato, Apuleius, and Proclus. The first part of
this assertion is evinced by the following beautiful lines :
* Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true
knowledge is naturally carried in his aspirations to the real prin- ciple
of being ; and his love knows no repose till it shall have been united
with the essence of each object through that jiart of the soul, which is
akin to the Permanent and Essential ; and so, the divine conjunction
having evolved interior knowledge and truth, the knowledge of being is
won." 98 EleiiHinian and Prineipio cfelum
ac tei-ras, eamposque liquentes Lucentemque globum luuas,
Titauiaque astra Spiritus intus alit, totumque infusa per
artus Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.
Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum, Et qu£e
marmoreo fert monstra sub sequore pontus. Igneus est oUis vigor, et
cselestis origo Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,
Terrenique hebetant artus, moribundaque membra. Hinc metiiunt
cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras Despieiunt clausa
tenebris et carcere csecc* For the sources of the soul's existence
are also the principles from which it fell; and these, as we may
learn from the Thnams of Plato, are the Demiurgus, the mundane
soul, and the junior or mundane gods.f Now, of * "First
of all the interior spirit sustains the heaven and earth and watery
plains, the illuminated orb of the moon, and the Titan- ian stars ; and
the Mind, diffused through all the members, gives energy to the whole
frame, and mingles with the vast body [of the universe]. Thence proceed
the race of men and beasts, the vital souls of birds and the brutes which
the Ocean breeds beneath its smooth surface. In them all is a potency
like fire, and a celestial origin as to the rudimentary principles, so
far as they are not clogged by noxious bodies. They are deadened by
earthly forms and members subject to death ; hence they fear and
desire, grieve and rejoice ; nor do they, thus enclosed in darkness
and the gloomy prison, behold the heavenly air." \
Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the divine; and
then delivered over to his celestial offspring [the Bacchic
Mysteries. 99 these, the mundane intellect, which, accord-
ing to the ancient theology, is represented by Bacchus, is principally
celebrated by the poet, and this because the soul is particu- larly
distributed into generation, after the manner of Dionysus or Bacchus, as
is evident from the preceding extracts from Olympio- dorus : and is
still more abundantly confirmed by the following curious passage from
the same author, in his comment on the Plicedo of Plato. " The
soul," says he, " descends Cori- cally [or after the manner of
Proserpine] into generation,* but is distributed into gen- eration
Dionysiacally,t and she is bound in body PrometheiacallyJ and
Titanically: she fi'ees herself therefore from its bonds by ex-
ercising the strength of Hercules ; but she subordinate or generated
gods], the task of creating the mortal. These subordinate deities, copying
the example of their parent, and receiving from his hands the immortal
principles of the human soul, fashioned after this the mortal body, which
they consigned to the soul as a vehicle, and in which they placed also
another kind of a soul, which is mortal, and is the seat of violent and
fatal passions." * That is to say, as if dying. Kore was
a name of Proserpina. t /. e. as if divided into pieces.
X I. e. Chained fast. 100 We US in km and
is collected into one through the assistance of Apollo and the
savior Minerva, by phi- losophical discipline of mind and heart
purify- ing the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv
'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza-
AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L- '^(oc
-(0 oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however, intimates the other causes
of the soul's exis- tence, when he says, Igneiis est ollis
vigor, et coelestis origo Semiuibus * which evidently alludes
to the sowing of souls into generation, t mentioned in the Timmus.
And fi'om hence the reader will * "There is then a certain
fiery potency, and a celestial oi'igiu as to the rudimentary
principles." /. e. Restored to wholeness and divine life.
tl Corinthians, xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the
dead. It is sown in corruption [the material body] ; it is raised in
incorruption : it is sown in dishonor ; it is raised in gloi-y : it is
sown in weakness ; it is raised in power : it is sown a psychical body ;
it is raised a spiritual body." Bacchic Mysteries.
101 easily perceive the extreme ridiculousness of Dr.
Warburton's system, that the grand secret of the Mysteries consisted in
exposing the errors of Polytheism, and in teaching the doctrine of
the unity, or the existence of one deity alone. For he might as well have
said, that the great secret consisted in teaching a man how, by
writing notes on the works of a poet, he might become a bishop ! But
it is by no means wonderful that men who have not the smallest
conception of the true nature of the gods ; who have persuaded
themselves that they were only dead men deified ; and who measure the
understand- ings of the ancients by their own, should be led to
fabricate a system so improbable and absurd. But that this
instruction was accompanied with a vision of the source from which
the soul proceeded, is evident from the express testimony, in the
first place, of Apuleius, who thus describes his initiation into
the Mysteries. " Accessi confinium mortis ; et calcato
Proserpinse limine, per omnia vectus elementa remeavi. Nocte media vidi
solem. 102 Meusinicm and candido coniscantem
kimine, deos inferos, et deos superos. Access! coram, et adoravi de
proximo." * That is, "I approached the confines of death : and
having trodden on the threshold of Proserpina returned, having been
carried through all the elements. In the depths of midnight I saw the sun
glitter- ing with a splendid light, together with the infernal and
supernal gods : and to these divinities approaching near, I paid the
tribute of devout adoration." And this is no less evidently
implied by Plato, who thus de- scribes the fehcity of the holy soul prior
to its descent, in a beautiful allusion to the arcane visions of
the Mysteries. Ka/.Ao? 3s TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV
£UOaL|J,OVt )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot
jjis'La [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov t£
7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a- pKOXW.TYjV
YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^ OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC
%7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£
7,7.1 TLTiXa %7.C aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt
T£ 7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl * The
Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn). Bacchic Mysteries. 103
TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s
d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien law- ful to survey the
most splendid beauty, when we obtained, together with that blessed
choir, this happy vision and contemplation. And we indeed enjoyed
this blessed spectacle to- gether with Jupiter ; but others in
conjunc- tion with some other god ; at the same time being
initiated in those Mysteries^ which it is lawful to call the most blessed
of all Mysteries. And these divine Orgies* were celebrated by us,
while we possessed the proper integrity of our nature, we were
freed from the molestations of evil which otherwise await us in a future
period of time. Likewise, in consequence of this divine initiation,
we became spectators of entire, simple, immovable, and blessed visions,
res- ident in a pure hght ; and were ourselves pure and immaculate,
being hberated from this surrounding vestment, which we denom-
inate body, and to which we are now bound * The peculiar rites of
the Mysteries were indifferently termed Orgies or Labors, teletai or
finishings, and initiations. 10-i Bacchic Mysteries. like
an oyster to its shell."* Upon this beautiful passage Proclus observes,
"That the initiation and epopfeia [the vailing and the
reveahng] are symbols of ineffable silence, and of union with mystical
natures, through intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai
r^ * Phcedriis, 64. t Proclus : Theology of Plato, book
iv. The following reading is suggested : "The initiation and final
disclosing are a symbol of the Ineffable Silence, and of the enosis, or
being at one and en rapport with the mystical verities through
manifestations in- tuitively comprehended." The
ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as
relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal
happiness, the liberation of the soul from the body and its exemp- tion
from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there was a
certain welcome to the abodes of the blessed. The term cTTOTrcjioi,
epopteia, applied to the last scene of initiation, he de- rives from the
Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being regarded as having
secured for himself or herself divine bliss. It is more usual,
however, to treat these terms as pure Greek; and to render the mnesis as
initiation and to derive epopteia from STCOrtTopiat. According to this
etymology an epopt is a seer or clairvoyant, one who knows the interior
wisdom. The terms in- spector and superintendent do not, tome, at all
express the idea, and I am inclined, in fact, to suppose with Mr.
Pocoeke, that the Mysteries came from the East, and from that to deduce
that the technical words and expressions are other than Greek.
Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual
discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your
soul from all undue hope and fear about earthly things ; mortify
tl'^ £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.
Bacchic Mysteries. 107 TYjC iTpoc xa {jLoatixa
"^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjia- xtov svcoascoc;. Now, from all tliis,
it may be inferred, that the most sublime part of the zTzrj'Kisirx
\epoptei(i\ or final revealing, con- sisted in beholding the gods
themselves in- vested with a resplendent hght ; * and that this was
symbohcal of those transporting visions, which the virtuous soul will
con- stantly enjoy in a future state ; and of which it is able to
gain some ravishing glimpses, even while connected with the
cumbrous vestment of the body.f the body, deny self, —
affections as well as appetites, — and the inner eye will begin to
exercise its clear and solemn vision." " In the reduction of
yonr soul to its simplest principles, the divine germ, you attain this
oneness. We stand then in the immediate pres- ence of God, who shines out
from the profound depths of the soul."- A. W. *
Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate was instructed by the
hierophant, and permitted to look within the cistn or chest, which
contained the mystic serpent, the phallus, egg, and gi-ains sacred to
Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise, he now "knew
himself" by the sentiments aroused. Plato and Al- cibiades gazed
with emotions wide apart. — A. W. t Plotinus : Letter to Flaccus. "
It is only now and then that . we can enjoy the elevation made possible
for us, above the limits of the body and the world. I myself have
realized it but three times as yet, and Porphyry hitherto not
once." 108 Bacchic Mysteries. But that this
was actually the case, is evident fi'om the following unequivocal
tes- timony of Proclus : Ev airaac zaic, zsXszaic TzpozEiyoo(ji
[xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza s^- aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze
{j.£v azoizM- zov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v-
{J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc dXXotov
trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all the initiations and
Mysteries, the gods ex- hibit many forms of themselves, and appear
in a variety of shapes : and sometimes, in- deed, a formless light ^ of
themselves is held forth to the view ; sometimes this hght is
according to a human form, and sometimes it proceeds into a different
shape." f This assertion of divine visions in the Mysteries,
Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,
when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised
up to the First and Sovereign Good ; also that he himself was only
once so elevated to the enosis or union with God, so as to have glimpses
of the eternal world. This did not occur till he was sixty-eight years of
age. — A. W. * I. e. Si luminous appearance without any defined form
or shape of an object. \ Commentary upon the Republic of Plato,
page 380. Cupids, Satyr, aud statue of Priapua.
Bacchic Mysteries. Ill is clearly confirmed by
Plotinus.* And, in short, that magical evocation formed a part of
the sacerdotal office in the Mysteries, and that this was universally
believed by all antiquity, long before the era of the latter
Platonists,t is plain from the testimony of Hippocrates, or at least
Democritus, in his Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of those
who attempt to cure this disease by magic, he observes : st yap csayjvtjv
ts %aGac- Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo
zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac STc TEAET12N, scxs
xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj? {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01
zrjjjza btzizt^^so- oyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /.
e. " For if they profess themselves able to draw down the
moon, to obscure the sun, to pro- duce stormy and pleasant weather, as
like- wise showers of rain, and heats, and to render the sea and
earth barren, and to accomplish *Ennead, i. book 6; and ix. book
9. t Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and
their associates. X Epilepsy. 112 Eleusinian
and every thing else of this kind ; whether they derive this
knowledge from flie Mysteries^ or from some other mental effort or
meditation, they appear to me to be impious, from the study of such
concerns." From all which is easy to see, how egregiously Dr. Warburton
was mistaken, when, in page 231 of his Divine Legation^ he asserts,
" that the light beheld in the Mysteries, was nothing more than
an illuminated image which the priests had thoroughly
purified." But he is likewise no less mistaken, in
transferring the injunction given in one of the Magic Oracles of
Zoroaster, to the busi- ness of the Eleusinian Mysteries, and in
per- verting the meaning of the Oracle's admoni- tion. For thus the
Oracle speaks : Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,
That is, " Invoke not the self -revealing image of Nature, for
you must not behold these things before your body has received the
initiation." Upon which he observes, " that
Bacchic Mysteries. 113 the self-revealing image ivas only a
diffusive shining light, as the name partly declares^ * But this is
a piece of gross ignorance, from which he might have been freed by an
atten- tive perusal of Proehis on the Timceus of Plato : for in
these truly divine Commenta- ries we learn, " that the moonf is the
cause of nature to mortals, and the self -rev eating image of the
fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c,
^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a. o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac,
'f'jasco^. If the reader is desirous of knowing what we are to
under- stand by the fountain of nature of which the moon is the
image, let him attend to the fol- lowing information, derived from a long
and deep study of the ancient theology : for from hence I have
learned, that there are many divine fountains contained in the essence
of the demiurgus of the world ; and that among these there are
three of a very distinguished rank, namely, the fountain of souls, or
Juno, — the fountain of virtues, or Minerva — and * Divine
Legation, p. 231. t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter,
symbolized as Selene or the Moon, 114 Eleusinian
and the fountain of nature, or Diana. This last fountain too
immediately depends on the vilifying goddess Rhea; and was assumed
by the Demiurgus among the rest, as neces- sary to the prohfic
reproduction of liimself. And this information will enable us
besides to explain the meaning of the following i3as- sages in
Apuleius, which, from not being- understood, have induced the moderns
to believe that Apuleius acknowledged but one deity alone. The
first of these passages is in the beginning of the eleventh book of
his MetamorpJioses, in which the divinity of the moon is
represented as addressing him in this sublime manner : " En adsum
tuis com- mota, Luci, precibus, rerum Natura parens, elementorum
omnium domina, seculorum progenies initialis, summa numinum, regina
Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearum- que facies uniformis : quae cseh
luminosa culmina, maris salubria flamina, inferorum de plorata
silentia nutibus meis dispenso : cu jus numen unicum, multiformi specie,
ritu vario, nomine multijugo totus veneratur orbis. Me primigenii
Phryges Pessinunticam nominant Bacchic Mysteries. 115
Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici Cecropiam Minervam ; ilhiic
fluctuantes Cy- prii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri
Dictjninam Dianam ; Sicuh trihngues Sty- giam Proserpinam ; Eleusinii
vetustam Deam Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii Hecaten,
Rhamnusiam ahi. Et qui nascen- tis dei Sohs inchoantibus radiis
iUustrantur, ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pol- lentes
^gyptii cserimoniis me prorsus propriis percolentes appellant vero nomine
reginam Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved with
thy supphcations, I am present ; I, who am Nature, the parent of things,
mis- tress of all the elements, initial progeny of the ages, the
highest of the divinities, queen of departed spirits, the first of the
celes- tials, of gods and goddesses the sole hkeness of all : who
rule by my nod the luminous heights of the heavens, the salubrious
breezes of the sea, and the woful silences of the in- fernal
regions, and whose divinity, in itself but one, is venerated by all the
earth, in many characters, various rites, and different
appellations. Hence the primitive Phry- 116 Bacchic
Mysteries. gians call me Pessinuntica, the motlier of the
gods ; the Attic Autochthons, Cecropian Muierva; the wave-siUTOunded
Cyprians, Paphian Venus ; the arrow-bearing Cretans, Dictynnian
Diana; the three-tongued Sicil- ians, Stygian Proserpina ; and the
inhabit- ants of Eleusis, the ancient goddess Ceres. Some, again,
have invoked me as Juno, others as Bellona, others as Hecate, and others
as Rhamnusia ; and those who are enlightened by the emerging rays
of the rising sun, the Ethiopians, and Aryans, and likewise the
Egyptians powerful in ancient learning, who reverence my divinity with
cerenioaies per- fectly proper, call me by my true appellation
Queen Isis." And, again, in another place of the same book, he says
of the moon : " Te Superi colunt, observant Inferi : tu rotas
orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas Tartarum. Tibi respondent
sidera, gaudent numina, redeunt tempora, serviunt elementa,
etc." That is, " The supernal gods reverence thee, and those in
the realms beneath at- tentively do homage to thy divinity. Thou
dost make the universe revolve, illuminate Bacchic
Mysteries. 119 the sun, govern the world, and tread on Tar-
tarns. The stars answer thee, the gods re- joice, the houi's and seasons
retui*n by thy appointment, and the elements serve thee." For
all tliis easily follows, if we consider it as addressed to the
fountain-deity of nature, subsisting in the Demiurgus, and which is
the exemplar of that nature which flourishes in the lunar orb, and
throughout the mate- rial world, and from which the deity itself of
the moon originally proceeds. Hence, as this fountain innnediately
depends on the life-giving goddess Rhea, the reason is ob- vious,
why it was formerly worshiped as the mother of the gods : and as all the
mundane are contained in the super-mundane gods, the other
appellations are to be considered as names of the several mundane
divinities pro- duced by this fountain, and in whose essence they
are likewise contained. But to proceed with our inquiry, I
shall, in the next place, prove that the different purifications
exhibited in these rites, in con- junction with initiation and the
epopteia were symbols of the gradation of disciplines
120 Eleusinian and requisite to the reascent of the soul.*
And the fii'st part, indeed, of this proposition respecting the
purifications, immediately fol- lows from the testimony of Plato in the
pas- sage already adduced, in which he asserts that the ultimate
design of the Mysteries was to lead us back to the principles from
which we originally fell. For if the Mysteries were symbohcal, as
is universally acknowledged, this must likewise be true of the
purifica- tions as a part of the Mysteries ; and as in- ward
puiity, of which the external is sym- bolical, can only be obtained by
the exercise of the virtues, it evidently follows that the
purifications were symbols of the pimfying moral virtues. And the latter
part of the proposition may be easily inferred, from the passage
ah'eady cited from the Phmdrus of Plato, in which he compares initiation
and the epopteia to the blessed vision of the higher intelligible
natures ; an employment which can alone belong to the exercise of
contemplation. But the whole of this is rendered indisputable by the
following re- */. e. to its former divine condition.
Bacchic Mysteries. 121 markable testimony of Olympiodorus, in
his excellent manuscript Commentary on the PJuedo of Plato.*
"In the sacred rites," says he, "popular pui4fications are
in the first place brought forth, and after these such as are more
arcane. But, in the third place, collections of various things into one
are re- ceived ; after which follows inspection. The ethical and
political virtues therefore are analogous to the apparent purifications ;
the cathartic virtues which banish all external impressions,
correspond to the more arcane purifications. The theoretical energies
about intelligibles, are analogous to the collections ; and the
contraction of these energies into an * We have taken the liberty
to present the following version of this passage, as more correctly
expressing the sense of the orig- inal: "At the holy places are
first the public purifications. With these the more arcane exercises
follow ; and after those the obliga- tions [-jozzaizz'.z) are taken, and
the initiations follow, ending with the epopiic disclosures. So, as will
be seen, the moral and social (political) virtues are analogous to the
public purifications ; the purifying virtues in their turn, which take
the place of all external matters, correspond to the moi'e arcane
disciplines ; the contemplative exei'cises concerning things to be known
intui- tively to the taking of the obligations ; the including of them
as an undivided whole, to the initiations ; and the simple ocular
view of simple objects to the epoptic revelations."
122 Eleusinian and indivisible nature, corresponds to
initiation. And the simple self-inspection of simple forms, is
analogous to epoptic vision." 'On QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ
aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s za'jzac, QOGzaaeic,
Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s
siroirrscc/i. xVvc/Ao- yooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^
7:o/dziY.'y,i aps- xa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s
%7.i)"7pii- 7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC,
ZOIQ aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt- %7c
TS svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv G'jya.irjSJsiQ sec "co
ajispiarov X7cc \vyqGZGiy. Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V
70X0'V.7C t71C s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from
noticing, with indignation mingled with pity, the ignorance and arrogance
of modern crit- ics, who pretend that this distribution of the
virtues is entirely the invention of the latter Platonists, and without
any foundation in the writings of Plato.* And among the sup-
porters of such ignorance, I am sovry to find * The writings of
Augustin handed Neo-Platonism down to pos- terity as the original and
esoteric doctrine of the first followers of Plato. He enumerates the
causes which led, in his opinion, to the negative position assumed by the
Academics, and to the con- Bacchic Mysteries. 123
Fabricius, in his prolegomena to the hfe of Proclus. For nothing
can be more obvious to every reader of Plato than that in his Laws
he treats of the social and political virtues ; in his Phcedo, and
seventh book of the RepiibUc^ of the purifying; and in his
Thceafetus, of the contemplative and sub- limer virtues. This observation
is, indeed, so obvious, in the Phcedo, with respect to the
purifying virtues, that no one but a verbal critic could read this
dialogue and be insen- sible to its truth : for Socrates in the
very beginning expressly asserts that it is the business of
philosophers to study to die, and to be themselves dead,* and yet at the
same time reprobates suicide. What then can such eealment of
their real opinions. He describes Plotinus as a re- suscitated Plato. —
Against the Academics, iii. 17-20. * Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P
o'^o- TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'. (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la?
aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y Y) aTCofl-VYjoxstv zt
xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply themselves to
philosophy seem to have left others ignorant, that they themselves aim at
nothing else than to die and to be dead. Elsewhere (31) Socrates
says : " While we live, we shall ap- proach nearest to intuitive
knowledge, if we hold no communion with the body, except, what absolute
necessity requires, nor suffer ourselves to be pervaded by its nature,
but purify ourselves from it until God himself shall release
us." 124 Eleusinian and a death mean but
symbolical or philosophical death ? And what is this but the true
ex- ercise of the virtues which purify '? But these poor men read
only superficially, or for the sake of displaying some critical
acumen in verbal emendations ; and yet with such despicable preparations
for philosoph- ical discussion, they have the impudence to oppose
their puerile conceptions to the de- cisions of men of elevated genius
and pro- found investigation, who, happily freed from the danger
and drudgery of learning any foreign language,* directed all their attention
without restraint to the acquisition of the most exalted truth.
It only now remains that we prove, in the last place, that a
representation of the descent of the soul formed no inconsiderable part
of these mystic shows. This, indeed, is doubt- * It is to be
regretted, nevertheless, that our author had not risked the " danger
and drudgery " of learning Greek, so as to have rendered fuller
justice to his subject, and been of greater service to his readers. We
are conscious that those who are too learned in verbal criticism are
prone to overlook the real purport of the text.— A. W.
Bacchic Mysteries. 125 less occultly intimated by Yirgil,
when speak- ing of the souls of the blessed ui Elysium, he
adds, Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos, Lethaeum
ad fluviiim deus evocat agmine magno : Scilicet immemores supera ut
convexa revisant, Eursus et incipiant iu eorpore velle reverti.*
But openly by Apuleius in the following prayer which Psyche
addresses to Ceres : Per ego te frugiferam tuam dextram istam
deprecor, per Isetificas messium cserimonias, per tacita sacra cistarum,
et per famulorum tuorum draconum pinnata cuiTicula, et glebae.
Siculae fulcamina, et currum rapacem, et ter- ram tenacem, et illuminarum
Proserpinse nuptiarum demeacula, et caetera quae silentio tegit
Eleusis, Atticae sacrarium ; miserandse Psyches animse, supplicis fuse,
subsiste.f That is, "I beseech thee, by thy fruit-bearing
right * " All these, after they have passed away a thousand
years, are summoned by the divine one in great array, to the Lethfean
river. In this way they become forgetful of their former earth-life,
and revisit the vatilted realms of the world, willing again to
return into bodies." t Apuleius : The Golden Ass. (Story
of Cupid and Psyche), book vi. 126 Bacchic
Mysteries. hand, by the joyful ceremonies of harvest, by the
occult sacred rites of thy cistae,* and by the winged car of thy
attending dragons, and the furrows of the Sicilian soil, and the
ra- pacious chariot (or car of the ravisher), and the dark
descending ceremonies attending the marriage of Proserpina^ and the
ascending rites which accompanied the lighted return of thy
daughter^ and l)ij other arcana which Eleusis the Attic sanctuary
conceals in profound silence^ reheve the sorrows of thy wretched
suppliant Psyche." For the abduction of Proserpina signifies the
descent of the soul, as is e^ddent from the passage previously
adduced from Olympiodorus, in which he says the soul descends Corically ;
f and this is confirmed by the authority of the philosopher
Sallust, who observes, " That the abduction of Proserpina is fabled
to have taken place about the opposite equinoctial ; and by this
the descent of souls [into earth- * Chests or baskets, made of
osiers, in which were enclosed the mystical images and utensils which the
uninitiated were not per- mitted to behold. t /• €. as to
death ; analogously to the descent of Kore-Per- sephone to the
Underworld. Ceres lends lier ear to Triptolemus.
Proserpina and Pluto. Jupiter augry. Bacchic
Mysteries. 129 life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav
lo^q- {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as the
abduction of Proserpina was exhibited in the dramatic representations of
the Myste- ries, as is clear from Apuleius, it indisputa- bly
follows, that this represented the descent of the soul, and its union
with the dark tene- ment of the body. Indeed, if the ascent and
descent of the soul, and its condition while connected with a material
nature, were rep- resented in the dramatic shows of the Mys-
teries, it is evident that this was implied by the rape of Proserpina.
And the former part of this assertion is manifest from Apu- leius,
when describing his initiation, he says, in the passage already adduced :
"I ap- proached the confines of death, and having trodden on
the threshold of Proserpina, / returned^ having been carried through
all the elements.^'' And as to the latter part, it has been amply
proved, fi'om the highest authority, in the first division of this
dis- course. * De Diis et Mundo, p. 251.
130 Meusinian and Nor must the reader be distiu^bed on
find- ing that, according to Porphyry, as cited by Eusebius,* the
fable of Proserpina alludes to seed placed in the ground ; for this is
like- wise true of the fable, considered according- to its material
explanation. But it will be proper on this occasion to rise a httle
higher, and consider the various species of fables, according to
their philosophical arrange- ment ; since by this means the present
sub- ject will receive an additional elucidation, and the wisdom of
the ancient authors of fables will be vindicated from the unjust
aspersions of ignorant declaimers. I shall present the reader, therefore,
with the fol- lowing interesting division of fables, fi'om the
elegant book of the Platonic philoso- pher Sallust, on the gods and the
universe. " Of fables," says he, " some are
theological, others physical, others animastic (or relating to
soul), others material, and lastly, others mixed from these. Fables are
theological which relate to nothing corporeal, but contem- plate
the very essences of the gods ; such as * Evang. Prcepui: book iii.
chap. 2. Bacchic Mysteries. 131 the fable which
asserts that Saturn devoured his children : for it insinuates nothing
more than the nature of an intellectual (or intu- itional) god ;
since every such intellect returns into itself. We regard fables
physically when we speak concerning the operations of the gods
about the world ; as when considering Saturn the same as Time, and calhng
the parts of time the children of the universe, we assert that the
children are devoiu'ed by their parent. But we utter fables in a
spiritual mode, when we contemplate the operations of the soul ;
because the intellections of our souls, though by a discursive energy
they go forth into other things, yet abide in their parents.
Lastly, fables are material, such as the Egyptians ignorantly employ,
consider- ing and calling corporeal natures divinities : such as
Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon, heat • or, again, denominating
Saturn water, Adonis, fruits, and Bacchus, wine. And, in- deed, to
assert that these are dedicated to the gods, in the same manner as herbs,
stones, and animals, is the part of wise men ; but to call them
gods is alone the province of fools and 132 Eleusinian
and madmen ; unless we speak in the same man- ner as when,
from estabhshed custom, we call the orb of the sun and its rays the sun
itself. But we may perceive the mixed kind of fables, as well in
many other particulars, as when they relate that Discord, at a
banquet of the gods, tlu'ew a golden apple, and that a dispute
about it arising among the god- desses, they were sent by Jupiter to take
the judgment of Paris, who, charmed with the beauty of Venus, gave
her the apple in pref- erence to the rest. For in this fable the
banquet denotes the super-mundane powers of the gods ; and on this
account they sub- sist in conjunction with each other : but the
golden apple denotes the world, which, on account of its composition from
contrary natures, is not improperly said to be thrown by Discord,
or strife. But again, since dif- ferent gifts are imparted to the world
by dif- ferent gods, they appear to contest with each other for the
apple. And a soul living ac- cording to sense (for this is Paris), not
per- ceiving other powers in the universe, asserts that the apple
is alone the beauty of Venus. Bacchic Mysteries. 133
But of these species of fables, such as are theological belong to
philosophers ; the phys- ical and spiritual to poets ; l)ut the mixed
to the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;) ; since the
intention of all mystic ceremonies is to conjoin us with the world and
the gods.^'' Thus far the excellent Sallust : from
whence it is evident, that "the fable of Pro- serpina, as belonging
to the Mysteries, is properly of a mixed nature, or composed from
all the four species of fables, the theo- logical [spiritual or
psychical], and material. But in order to understand this divine
fable, it is requisite to know, that according to the arcana of the
ancient theology, the Coric * order (or the order belonging to
Proserpina) is twofold, one part of which is super-mundane, subsisting
with Jupiter, or the Demiurgus, and thus associated with him
establishing one artificer of divisible natures ; but the other is
mundane, in which Proser- * Coric from KopY], Kore, a name of
Proserpina. The name is derived by E. Pococke from the Sanscrit
Goure. 134 EJeiisinian and pina is said to be
ravished by Pluto, and to animate the extremities of the universe.
*' Hence," says Prockis, "according to the statement of
theologists, who dehvered to us the most holy Mysteries, she
[Proserpina] abides on high in those dwellings of her mother which
she prepared for her in inac- cessible places, exempt from the
sensible world. But she likewise dwells beneath with Pluto,
administering terrestrial con- cerns, governing the recesses of the
earth, supplying life to the extremities of the uni- verse, and
imparting soul to beings which are rendered by her inanimate and
dead." Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac
aytco- xata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,G- xtov,
avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj
(J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq.
Katco §£ {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i zooQ
ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v £xop£Y£tv ZOIC
eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^ {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y
aj^oyoic, 7.ai V£- xpot?.* Hence we may easily perceive that *
Proclus: TJieology of Plato, p. 371. Bacchic Mysteries.
135 this fable is of the mixed kind, one part of which
relates to the super-mundane estabhsh- ment of the secondarj^ cause of
life,* and the other to the procession or outgoing of life and soul
to the farthest extremity of things. Let us therefore more attentively
consider the fable, in that part of it which is sym- bolical of the
descent of souls ; in order to which, it will be requisite to premise
an abridgment of the arcane discourse, respecting the wanderings of
Ceres, as preserved by Minutius Felix. " Proserpina," says he,
" the daughter of Ceres by Jupiter, as she was gathering
tender flowers, in the new spring, was ravished from her dehghtful abodes
by Pluto ; and being carried from thence through thick woods, and
over a length of sea, was brought by Pluto into a cavern, the
residence of departed spirits, over whom she afterward ruled with
absolute sway. But * Plotiuus taught the existence of three
hypostases in the Divine Nature. There was the Demiurge, the God of Creation
and Providence ; the Second, the Intelligible, self-contained and
im- mutable Source of life ; and above all, the One, who like the
Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure will, an
Absolute Love — " Intellect." — A. W. 136 Bacchic
Mysteries. Ceres, upon discovering the loss of her daugh-
ter, with hghted torches, and begirt with a serpent, wandered over the
whole earth for the purpose of finding her till she came to Eleusis
; there she found her daughter, and also taught to the Eleusinians the
cultivation of corn." Now in this fable Ceres represents the
evolution of that intuitional part of our nature which we properly
denominate intel- lect'^ (or the unfolding of the intuitional
faculty of the mind from its quiet and col- lected condition in the world
of thought) ; and Proserpina that living, self -moving, and
animating part which we call sonl. But lest this comparing of unfolded
intellect to Ceres should seem ridiculous to the reader, unac-
quainted with the Orphic theology, it is neces- sary to inform him that
this goddess, from her intimate union with Rhea, in conjunc- tion
with whom she produced Jupiter, is * Also denominated by Kant, Pure
reason, and by Prof, Cocker, Intuitive reason. It was considered by
Plato, as " not amenable to the conditions of time and space, but in
a particular sense, as dwelling in eternity : and therefore capable of
beholding eternal realities, and coming into communion with absolute
beauty, and goodness, and truth — that is, with God, the Absolute
Being." Proserpina.— Greek.
Bacclius.— India. Ceres.— Roman.
Demeter.— Ktruscan. Bacchic Mysteries. 139
evidently of a Saturnian and zoogonic, or in- tellectual and
vivific rank ; and hence, as we are informed by the philosopher
Sallust, among the mundane divinities she is the deity of the
planet Saturn.* So that in con- sequence of this, our intellect (or
intuitive faculty) in a descending state must aptly symbohze with
the divinity of Ceres. But Pluto signifies the whole of a material
natui'e ; since the empire of this god, accord- ing to Pythagoras,
commences downward from the Gralaxy or milky way. And the cavern
signifies the entrance, as it were, into the profundities of such a
nature, which is accomplished by the soul's union with this
terrestrial body. But in order to under- derstand perfectly the secret
meaning of the other parts of this fable, it will be necessary to
give a more exphcit detail of the particu- lars attending the abduction,
from the beau- tiful poem of Claudian on this subject. From *
Hence we may perceive the reason why Ceres as well as Sat- urn was
denominated a legislative deity; and why illuminations were used in the
celebration of the Saturnalia, as well as in the Eleusinian
Mysteries. 140 Bacchic Mysteries. this elegant
production we learn that Ceres, who was a&aid lest some violence
should be offered to Proserpina, on account of her in- imitable
beauty, conveyed her privately to Sicily, and concealed her in a house
built on purpose by the Cyclopes, while she herself directs her
course to the temple of Cybele, the mother of the gods. Hej:'e, then, we
see the first cause of the soul's descent, namely, the abandoning
of a life wholly according to the higher intellect, which is occultly
signi- fied by, the separation of Proserpina fi*om Ceres.
Afterward, we are told that Jupiter instructs Venus to go to this abode,
and be- tray Proserpina from her retirement, that Pluto may be enabled
to carry her away; and to prevent any suspicion in the virgin's
mind, he commands Diana and Pallas to go in company. The three goddesses
arriving, find Proserpina at work on a scarf for her mother ; in
which she had embroidered the primitive chaos, and the formation of
the world. Now by Venus in this part of the narration we must
understand desire^ which even in the celestial regions (for such is
the Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina*
Bacchic Mysteries. 143 residence of Proserpina till slie is
ravished by Pluto), begins silently and stealthily to creep into
the recesses of the soul. By Minerva we must conceive the rational power
of the soul, and by Diana, nature^ or the merely natural and vegetable
part of our composi- tion ; both which are now ensnared through the
allurements of desire. And lastly, the web in which Proserpina had
displayed all the fair variety of the material world, beau- tifully
represents the commencement of the illusive operations through which the
soul becomes ensnared with the beauty of imagi- native forms. But
let us for a while attend to the poet's elegant description of her
em- ployment and abode : Devenere locum, Cereris quo tecta
nitebant Cyclopum firmata manu. Stant ardua f erro Msenia ; ferrati
postes : immensaqiie nectit Claustra elialybs. Nullum tanto sudore
Pyracmon, Nee Steropes, eonstruxit opus : nee talibus unquam
Spiravere uotis animge : nee flumine tanto Incoctum maduit lassa fornaee
metallum. Atria vestit ebur : trabibus solidatur aenis Culmen, et
in eelsas surgunt eleetra eolumnas. Ipsa domum tenero mulcens Proserpina
eantu Irrita texebat rediturje munera matri. Hie elementorum seriem
sedesque pateruas 144 Eleusinian and Insignibat
aeu : veterem qua lege tutmiltum Diserevit natiira parens, et semiua
jiistis Diseessere locis : quidquid leve fertiu" iu altum :
111 medium graviora caduut : incaiiduit tether : Egit flamma polum : fluxit
mare •. terra pependit Nee color uuus inest. Stellas accendit in
auro. Ostro fundit aquos, attollit litora gemmis, Filaque mentitos
jam jam cfelantia liuctus Arte tumeiit. Credas illidi cautibus
algam, Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis. Addit quinqiie
plagas : mediam subtemine rubro Obsessam fervore notat : squalebat
adustus Limes, et assiduo sitiebant stamina sole. Vitales utrimque
duas ; quas mitis oberrat Temperies habitanda viris. Tum fine
supremo Torpentes traxit geminas, brumaque perenni Fgedat, et a3terno
coiitristat frigore telas. Nee non et patrui piugit sacraria Ditis,
Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen. Prasscia nam subitis maduerimt
fletibus ora. After this, Proserpina, forgetful of her
par- ent's commands, is represented as venturing from her retreat,
through the treacherous persuasions of Venus : Impulit
Joiiios pra?misso lumine fluetus Nondum pura dies : tremulis vibravit in
iindis Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe. Jamque audax
animi, fidseque oblita parentis, Fraude Dioiifea riguos Proserpina
saltus (Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries.
145 And this with the greatest propriety: for obhvion
necessarily follows a remission of intellectnal action, and is as
necessarily at- tended with the allurements of desire.* Nor is her
dress less symbolical of the acting of * When the person turns the
back upon his higher faculties, and disregards the communications which
he receives through them from the world of unseen realities, an oblivion
ensues of their existence, and the person is next brought within the
province and operation of lower and worldly ambitions, such as a love of
power, passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent,
fall, or apostasy of the soul, — a separation from the sources of
divine life and ravishment into the region of moral death. In
the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged Steeds, Plato
represents the lower or inferior part of man's nature as dragging the
soul down to the earth, and subjecting it to the slavery of corporeal
conditions. Out of these conditions there arise numerous evils, that
disorder the mind and becloud the rea- son, for evil is inherent to the
condition of finite and multiform being into which we have "fallen
by our own fault." The pres- ent earthly life is a fall and a
punishment. The soul is now dwelling in ''the gi-ave which we call the
body." In its incorpo- rate state, and previous to the discipline of
education, the rational- element is " asleep." " Life is
more of a dream than a reality." Men are utterly the slaves of
sense, the sport of phantoms and illusions. We now resemble those "
captives chained in a subter- raneous cave," so poetically described
in the seventh book of The Republic ; their backs are turned to the
light, and consequently they see but the shadows of the objects which
pass behind them, and " they attribute to these shadows a perfect
reality." Their sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in
the body, a dreamy exile from their proper home." — CucJcer's Greek
Philosophy, 146 Eleiisinian and the soul in such
a state, principally according to the energies and promptings of
imagina- tion and nature. For thus her garments are beautifully
described by the poet : Qiias inter Cereris proles, nunc
gloria luatris, Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu, Nee
membris nee honore minor ; potuitque Pallas, si clipeum, si ferret
spieula, Phoebe. CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes. Peetinis
ingenio nunquam felicior arti Coutigit eventus. Nullse sic consona
telae Fila, nee in tantum veri duxere figuram. Hie Hyperionis Solem
de semine nasei Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam,
Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys Praebet, et infantes gremio
solatur anhelos, Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis.
Invalidum dextro portat Titana laeerto Nondum luce gravem, nee
pubescentibus alte Cristatum radiis : prime clementior sevo
Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem. Lseva parte soror vitrei
libaraina potat Uberis, et parvo signatur tempora cornu. In
which description the sun represents the phantasy, and the moon, nature,
as is well known to every tyro in the Platonic philos- ophy. They
are likewise, with great pro- priety, described in their infantine state
: for Bacchic Mysteries. 147 these energies do
not arrive to perfection previous to the sinking of the soul into
the dark receptacle of matter. After this we be- hold her issuing
on the plain with Minerva and Diana, and attended by a beauteous
train of nymphs, who are evident symbols of world of generation,* and
are, therefore, the proper companions of the soul about to fall
into its fluctuating realms. But the design of Proserpina, in
venturing from her retreat, is beautifully significant of her
approaching descent: for she rambles from home for the purpose of
gathering flowers ; and this in a lawn replete with the most
enchanting variety, and exhahng the most dehcious odors. This is a
manifest image of the soul operatmg principally ac- cording to the
natural and external life, and so becoming effeminated and ensnared
through the delusive attractions of sensible form. Minerva (the rational
faculty in this case), likewise gives herself wholly to the *
Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj sigaified
a bride. 148 EJeusinian and dangerous
employment, and abandons the proper characteristics of her nature for
the destructive revels of desire. All which is thus described
with the ut- most elegance by the poet : Forma loci siiperat
flores : eurvata tumore Pai'vo planities, et moUibus edita clivis
Creverat in eoUem. Vivo de pumice fontes Roscida mobilibus lambebant
gramina rivis. Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles
Temperat, et medio brumam sibi viudicat sestu. Apta fretis abies, bellis
aecomoda eomus, Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus, Hex
plena favis, venturi pra?seia lanrus. Fluctuat hie denso crispata
cacumine buxus, Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos. Hand
proeul inde laciis (Pergum dixere Sioani) Panditur, et nemorum frondoso
margine cinetus Vicinis pallescit aquis : admittit in altum
Cernentes oculos, et late perviiis humor Ducit inoflfensus liquido sub
gurgite visus, Imaque perspicui prodit secreta profundi. Hue
elapsa eohors gaudent per florea rura Hortarur Cytherea, legant. Nunc
ite, sorores, Dum matutinis prsesudat solibus aer : Dum meus
humectat flaventes Lucifer agros, Rotanti praevectus equo. Sic fata,
doloris Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus Invasere
eohors. Credas examina fundi Hyblagum raptura thymum, cum cerea
reges Baccliic Mysteries. 149 Castra movent,
fagique cava demissus ab alvo Mellifer electis exereitus obstrepit
lierbis. Pratorum spoliatur honos. Hac lilia fuseis Iiitexit violis
: banc mollis amaraeus ornat : Heec graditur stellata rosis ; haec alba
ligiistris. Te quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris,
Narcissumque metunt, nunc inclita germina veris, Proestantes dim pueros.
Tu natus Amyclis : Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error :
Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa Deluis, hiinc fracta Cephissus
arundiue luget. j3^]staat ante alias avido fervore legeudi
Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto Eidentes ealatbos spoliis
agrestibus implet : Nunc sociat flores, seseque ignara corouat.
Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum Armorumque potens, dextram qua
fortia turbat Agmina ; qua stabiles portas et msenia vellit, Jam
levibus laxat studiis, hastamque reponit, Insolitisque docet galeam
mitescere sertis. Ferratus lascivit apex, horrorque recessit
Martins, et cristse pacato fulgure vernant. Nee quae Parthenium canibus
scrutatur odorem, Aspernata clioros, libertatemque comarum Injecta
tantum voluit freuare corona. But there is a circumstance relative
to the narcissus which must not be passed over in silence : I mean
its being, according to Ovid, the metamorphosis of a youth who fell
a victim to the love of his own corporeal form ; the secret meaning
of which most 150 Bacchic Mysteries. admirably
accords with the rape of Proser- pina, which, according to Homer, was
the immediate consequence of gathering this wonderful flower.* For
by Narcissus falling in love with his shadow in the limpid stream
we may behold an exquisitely apt represen- tation of a soul vehemently
gazing on the flowing condition of a material body, and in
consequence of this, becoming enamored with a corporeal life, which is
nothing more than the delusive image of the true man, or the
rational and immortal soul. Hence, by an immoderate attachment to this
unsubstau- tial mockery and gliding semblance of the real soul,
such an one becomes, at length, wholly changed, as far as is possible to
his nature, into a vegetive condition of being, into a beautiful
but transient flower, that is, into a corporeal life, or a life totally
consist- * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the
pleasant flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and
the narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I
was plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out
leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me, grieving
much, beneath the earth in his golden chariot, and I cried
aloud." "v..
Pioseipiua gathering Flowers. Pluto carrj'iiig off
Pioserplna. Bacchic Mysteries, 153 ing in the
mere operations of nature. Pro- serpina, therefore, or the soul, at the
very instant of her descent into matter, is, with the utmost
propriety, represented as eagerly engaged in pkicking this fatal flower ;
for her faculties at this period are entirely oc- cupied with a hf
e divided about the fluctuat- ing condition of body. After
this, Pluto, forcing his passage through the earth, seizes on
Proserpina, and carries her away with him, notwith- standing the
resistance of Minerva and Diana. They, indeed, are forbid by
Jupiter, who in this place signifies Fate, to attempt her
deUverance. By this resistance of Mi- nerva and Diana no more is
signified than that the lapse of the soul into a material nature is
contrary to the genuine wish and proper condition, as well of the
corporeal hfe depending on her essence, as of her true and rational
nature. Well, therefore, may the soul, in such a situation, pathetically
exclaim with Proserpina : 154 Bacchic Mysteries.
O male dileeti flores, despeetaque matris Consilia : O Veneris
deprensse serius artes ! * But, according to Minutius Felix,
Proserpina was carried by Pluto tlu-ough thick woods, and over a length
of sea, and brought into a cavern, the residence of the dead : where
by 'woods a material nature is plainly implied, as we have already
observed in the first part of this discourse ; and where the reader
may likewise observe the agreement of the de- scription in this
particular with that of Yvn- gil in the descent of his hero :
Tenent media omnia silvce Coeytusque sinuque labens, cireumvenit
atro.t In these words the woods are expressly mentioned; and
the ocean has an evident agreement with Cocytus, signifying the
out- flowing condition of a material nature, and the sorrows and
sufferings attending its con- nection with the soul. * Oh
flowers fatally dear, and the mother's cautions despised : Oh cruel arts
of cunning Venus ! t " Woods cover all the middle space and
Cocytus gliding on, surrounds it with his dusky bosom."
Bacchic Mysteries. 157 Pluto hurries Proserpina into the
infernal regions : in other words, the soul is sunk into the
profound depth and darkness of a material nature. A description of her
mar- riage next succeeds, her union with the dark tenement of the
body : Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi Ducitur in
thalamum virgo. Stat pronuba juxta Stellautes Nox pieta sinus, tangensque
cubile Omina perpetuo genitalia federe sancit. Night is with
great beauty and propriety in- troduced as standing by the nuptial
couch, and confirming the oblivious league. For the soul through
her union with a material body becomes an inhabitant of darkness, and
subject to the empire of night ; in conse- quence of which she dwells
wholly with de- lusive phantoms, and till she breaks her fetters is
deprived of the intuitive percep- tion of that which is real and
true. In the next place, we are presented with the following
beautiful and pathetic descrip- tion of Proserpina appearing in a dream
to 158 Eleusinian and Ceres, and bewailing her
captive and miser- able condition : Sed tunc ipsa, sui jam
non ambagibus ullis Nuutia, materna faeies ingesta sopori. Namque
videbatur tenebroso obtecta reeessu Carceris, et ssevis Proserpina vineta
catenis, Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae Suspexere Dete.
Squalebat pulchrior auro Csesaries, et nox oculorum infeeerat ignes.
Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi Flamineus oris honos, et non
cessura pruinis Membra eolorantur pieei caligine regni. Ergo hanc
ut dubio vix tandem agnoseere visu Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ?
inquit. Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas In me
ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri Vix aptanda f eris molles meruere
lacerti ? Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra ? Such,
indeed, is the wretched situation of the soul when profoundly merged in a
cor- poreal nature. She not only becomes captive and fettered, but
loses all her original splen- dor ; she is defiled with the impurity of
mat- ter ; and the sharpness of her rational sight is blunted and
dunmed through the thick darkness of a material night. The reader
may observe how Proserpina, being repre- sented as confined in the dark
recess of a Bacchic Mysteries. 159 prison, and
bound with fetters, confirms the explanation of the fable here given as
sym- bolical of the descent of the soul ; for such, as we have
ah*eady largely proved, is the condition of the soul from its union with
the body, according to the uniform testimony of the most ancient
philosophers and priests.* After this, the wanderings of Ceres for
the discovery of Proserpina commence. She is described, by Minutius
Fehx, as begirt ^dth a serpent, and bearing two hghted torches in
her hands ; but by Claudian, instead of being gu^t with a serpent, she
commences her search by night in a car drawn by dragons. But the
meaning of the allegory is the same in each ; for both a serpent and a
di'agon are emblems of a divisible hfe subject to transi- tions and
changes, with which, in this case, our intellectual (and diviner) part
becomes connected : since as these animals put off their skins, and
become young again, so * Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term
is more commonly trans- lated prophets, and actually signifies persons
gifted with divine insight, through being in an entheastic condition,
called also mania or divine fury. 160 Bacchic
Mysteries. tlie divisible life of the soul, falling into
generation, is rejuvenized in its subsequent career. But what emblem can
more beau- tifully represent the evolutions and out- goings of an
intellectual nature into the regions of sense than the wanderings
of Ceres by the hght of torches through the darkness of night, and
continuing the pursuit until she proceeds into the depths of Hades
itself ? For the intellectual part of the soul,* when it verges towards
body, enkindles, in- deed, a light in its dark receptacle, but be-
comes itself situated in obscurity : and, as Proclus somewhere divinely
observes, the mortal nature by this means participates of the divme
intellect, but the intellectual part is drawn down to death. The tears
and lam- entations too, of Ceres, in her coiu'se, are sym- bolical
both of the providential operations of * " The soul is a
composite nature, is on one side linked to the eternal world, its essence
being generated of that ineffable ele- ment which constitutes the real,
the immutable, and the perma- nent. It is a beam of the eternal Sun, a
spark of the Divinity, an emanation from God. On the other hand, it is
linked to the phe- nomenal or sensible world, its emotive part being
formed of that which is relative and phenomenal." — Cocker.
Bacchic Mysteries. 163 intellect about a mortal
nature, and the mis- eries with which such operations are (with
respect to imperfect souls like oui's) attended. Nor is it without reason
that lacchus, or Bacchus, is celebrated by Orpheus as the companion
of her search : for Bacchus is the evident symbol of the imperfect
energies of intellect, and its scattering into the obscure and
lamentable dominions of sense. But our explanation will receive
additional strength from considering that these sacred rites
occupied the space of nine days in their celebration; and this,
doubtless, because, according to Homer,* this goddess did not
discover the residence of her daughter till the expu-ation of that
period. For the soul, in falling from her original and divine abode
in the heavens, passed through eight spheres, * Hymn to Ceres.
"For nine days did holy Demeter perambulate the earth . . and when
the ninth shining morn had come, Hecate met her, bringing news."
Apuleius also explains that at the initiation into the Mysteries of
Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious food for ten
days, from the flesh of animals, and from wine. — Golden Ass, book xi. p.
239 (BoJin). 164 Eleusinian and namely, the
fixed or inerratic sphere, and the seven planets, assuming a different
body, and employing different faculties in each; and becomes
connected with the sublunary world and a terrene body, as the ninth,
and most abject gradation of her descent. Hence the first day of
initiation into these mystic rites was called agurmos^ L e. according
to Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov, an assembly^ and
all collecting fogefher : and this with the greatest propriety;
for, according to Pythagoras, "the people of dreams are souls
collected together in the Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za
noO-ayopav Jcav.f And from this part of the heavens souls
first begin to descend. After this, the soul falls from the tropic of
Cancer into the planet Satm'n; and to this the second day of
initiation was consecrated, which they called AXol5s (j-uarai, [" to
the sea, ye initi- ated ones ! "] because, says Meui'sius, on
that * Only persons taking a view solely external will suppose
the galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky. t
Cave of the Xymphs. Bacchic Mysteries. 165 day
the crier was accustomed to admonisli the mystte to betake themselves to
the sea. Now the meaning of this will be easily understood, by
considering that, according to the arcana of the ancient theology, as may
be learned from Proclus, * the whole planetary system is under the
dominion of Neptune; and this too is confirmed by Martianus
Capella, who describes the several planets as so many streams. Hence when
the soul falls into the planet Saturn, which Capella compares to a
river voluminous, sluggish, and cold, she then first merges herself
into fluctuating matter, though purer than that of a sublunary
natiu'e, and of which water is an ancient and significant symbol.
Besides, the sea is an emblem of purity, as is evident from the
Orphic hymn to Ocean, in which that deity is called {^swv ayvtajxa
{xsy^^'^^v, tlieon agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of
the gods : and Saturn, as we have already observed, is pure [intuitive]
intellect. And what still more confirms this observation is, that
Pythagoras, as we are informed by Por- * Theology of Plato, book
vi. 166 Bacchic Mysteries. pliyry, in his life
of that philosopher, symbol- ically called the sea a tear of Saturn. But
the eighth day of initiation, which is symbohcal of the falhng of
the soul into the lunar orb,* was celebrated by the candidates by a
repeated initiation and second sacred rites ; because the soul in this
situation is about to bid adieu to every thing of a celestial natui'e
; to sink into a perfect obhvion of her divine origin and pristine
felicity ; and to rush pro- foundly into the region of
dissimilitude,! ignorance, and error. And lastly, on the ninth day,
when the soul falls into the sub- lunary world and becomes united with a
ter- restrial body, a hbation was performed, such as is usual in
sacred rites. Here the initiates, filling two earthen vessels of broad
and spa- cious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,
plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the former of these words
denoting vessels of a conical shape, and the latter small bowls or
* The Moon typified the mother of gods and men. The soul descending
into the lunar orb thus came near the scenes of earthly existence, where
the life which is transmitted by generation has opportunity to involve it
about. t The condition most unlike the former divine estate.
Goddess Night. Three Graces.
Bacchic Mysteries. 169 cups sacred to Bacchus, they placed
one towards the east, and the other towards the west. And the first
of these was doubtless, according to the interpretation of Proclus,
sacred to the earth, and symbolical of the soul proceeding from an
orbicular figure, or divine form, into a conical defluxion and ter-
rene situation : * but the other was sacred to the soul, and symbolical
of its celestial origin ; since our intellect is the legitimate
progeny of Bacchus. And this too was occultly sig- nified by the
position of the earthen ves- sels ; for, according to a mundane
distribu- tion of the divinities, the eastern center of the
universe, which is analogous to fire, belongs to Jupiter, who likewise
governs the fixed and inerratic sphere ; and the western to Pluto,
who governs the earth, because the west is allied to earth on account
of its dark and nocturnal nature. f Again, according to
Clemens Alexandri- nus, the following confession was made by
* An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the
masculine divine Energy. t Proclus: Theology of Plato, book vi. c.
10. 170 Eleusinian and tlie new initiate in
these sacred rites, in an- swer to the interrogations of the Hierophant
: "I have fasted; I have drank the Cyceon;* I have taken out
of the Cista, and placed what I have taken ont into the Calathns;
and alternately I have taken out of the Ca- lathus and put into the
Cista." Kcj^a-cc xo a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov.
EvYja-cwaa* xtatY^v. But as this pertains to a circum- stance
attending the wanderings of Ceres, which formed the most mystic and
emblem- atical part of the ceremonies, it is necessary to adduce
the following arcane narration, summarily collected from the writings
of Arnobius : " The goddess Ceres, when search- ing through
the earth for her daughter, in the course of her wanderings arrived at
the boundaries of Eleusis, in the Attic region, a place which was
then inhabited by a people called Autochthones, or descended fi'om
the * Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup
of sweet wine, but slie refused it ; but bade her to mix wheat and
water with pounded pennyroyal. Having made the mixture, she gave it to
the goddess." Bacchic Mysteries. 171 earth,
whose names were as follows : Baubo and Triptolemus ; Dysaules, a
goatherd ; Eu- bulus, a keeper of swme ; and Eumolpus, a shepherd,
from whom the race of the Eumol- pidse descended, and the illustrious
name of Cecropidse was derived ; and who afterward flourished as
bearers of the caduceus, hiero- phants, and criers belonging to the
sacred rites. Baubo, therefore, who was of the female sex, received
Ceres, wearied with complicated evils, as her guest, and endea-
vored to soothe her sorrows by obsequious and flattering attendance. For
this purpose she entreated her to pay attention to the re-
freshment of her body, and placed before her a mixed potion to assuage
the vehemence of her thirst. But the sorrowful goddess was averse
from her solicitations, and rejected the friendly officiousness of the
hospitable dame. The matron, however, who was not easily re-
pulsed, still continued her entreaties, which were as obstinately
resisted by Ceres, who persevered in her refusal with unshaken per-
sistency and invincible firmness. But when Baubo had thus often exerted
her endeavors Bacchic Mysteries. to appease the sorrows of
Ceres, but without any effect, she, at length, changed her arts,
and determined to try if she could not exhil- arate, by prodigies (or
out-of-the-way expe- dients), a mind which she was not able to
allure by earnest endeavors. For this pur- pose she uncovered that part
of her body by which the female sex produces children and derives
the appellation of woman.* This she caused to assume a purer appearance,
and a smoothness such as is found in the private parts of a
stripling child. She then returns to the afflicted goddess, and, in the
midst of those attempts which are usually employed to alleviate
distress, she uncovers herself, and exhibits her secret parts ; upon
which the goddess fixed her eyes, and was diverted with the novel
method of mitigating the an- guish of soiTow; and afterward,
becoming more cheerful through laughter, she assuages her thirst
with the mingled potion which she had before despised." Thus far
Arnobius ; and the same narration is epitomized by Clemens
Alexandrinus, who is very indignant * FuvT), (June, woman, from
y^juvo;, gounos, Latin ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr
and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs. Bacchic Mysteries.
175 at the indecency as he conceives, in the stoiy, and
because it composed the arcana of the Eleusinian rites. Indeed as the
simple father, with the usual ignorance * of a Christian priest,
considered the fable literally, and as designed to promote indecency and
lust, we can not wonder at his ill-timed abuse. But the fact is,
this narration belonged to the aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane
discourses, on account of its mystical meaning, and to pre- vent it
from becoming the object of ignorant declamation, licentious perversion,
and im- pious contempt. For the purity and excel- lence of these
institutions is perpetually acknowledged even by Dr. Warburton him-
seK, who, in this instance, has dispersed, for a moment, the mists of
delusion and intolerant zeaLf Besides, as lamblichus beautifully
ob- serves, t "exhibitions of this kind in the Mysteries were
designed to free us from hcen- * Uneandidness was more probably the
fault of which Clement was guilty. t Divine Legation of
Moses, book ii. I "The wisest and best men in the Pagan world
are unanimous in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed
the noblest ends by the worthiest means. Bacchic Mysteries.
tioiis passions, by gratifying the sight, and at the same time
vanquisliing desire, through the awful sanctity with which these
rites were accompanied : for," says he, " the proper way
of freeing ourselves from the passions is, first, to indulge them mth
moderation, by which means they become satisfied ; hsten, as it
were, to persuasion, and may thus be en- tirely removed."* This
doctrine is indeed so rational, that it can never be objected to by
any but quacks in philosophy and rehgion. For as he is nothing more than
a quack in medicine who endeavors to remove a latent bodily disease
before he has called it forth externally, and by this means diminished
its fuiy ; so he is nothing more than a pretender in philosophy who
attempts to remove the passions by violent repression, instead of
moderate comphance and gentle persuasion. But to return from this
disgression, the fol- lowing appears to be the secret meaning of
this mystic discourse : The matron Baubo may be considered as a symbol of
that pas- * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and
Assyrians. Bacchic Mysteries. 177 sive,
womanish, and corporeal life tlirongh whicli the soul becomes united with
this earthly body, and through which, being at first ensnared, it
descended, and, as it were, was born into the world of generation,
pass- ing, by this means, from mature perfection, splendor and
reality, into infancy, darkness, and error. Ceres, therefore, or the
intel- lectual soul, in the course of her wanderings, that is, of her
evolutions and goings-f orth into matter, is at length captivated with
the arts of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her sorrows,
that is, imbibes oblivion of her wretched state in the mingled potion
which she prepares : the mingled hquor being an obvious symbol of
such a life, mixed and im- pure, and, on this account, liable to
cor- ruption and death ; since every thing pure and unmixed is
incorruptible and divine. And here it is necessary to caution the
reader from imagining, that because, accord- ing to the fable, the
wanderings of Ceres commence after the rape of Proserpina, hence
the intuitive intellect descends sub- sequently to the soul, and separate
from it. Eleusinimi and Notliing more is meant by this
circumstance than that the diviner intellect, from the su- perior
excellence of its nature, has in cause, though not in time, a priority to
soul, and that on this account a defection and revolt (and descent earthward
from the heavenly condition) commences, from the soul, and
afterward takes place in the intellect, yet so that the former descends
with the latter in inseparable attendance. From this
explanation, then, of the fable, we may easily perceive the meaning of
the mystic confession, / have fasted; I have drank a mingled
potion, etc.; for by the former part of the assertion, no more is
meant than that the higher intellect, previous to imbibing of oblivion
through the decep- tive arts of a corporeal life, abstains from all
material concerns, and does not mingle itself (as far as its nature is
capable of such abasement) with even the necessary delights of the
body. And as to the latter part, it doubtless alludes to the descent of
Proser- pina to Hades, and her re-ascent to the
Bacchic Mysteries. 179 abodes of her mother Ceres : that is,
to the outgoing and return of the soul, alternately falhng into
generation, and ascending thence into the intelhgible world, and becoming
per- fectly restored to her divine and intellec- tual nature. For
the Cista contained the most arcane symbols of the Mysteries, into
which it was unlawful for the profane to look : and whatever were its
contents,* we learn from the hymn of Callimachus to Ceres, that
they were formed from gold, which, from its incorruptibihty, is an
evi- dent symbol of an immaterial nature. And as to the Calathus,
or basket, this, as we are told by Claudian, was filled with spoliis
agres- tibus^ the spoils or fruits of the field, which are manifest
symbols of a life corporeal and earthly. So that the candidate, by
confess- ing that he had taken from the Cista, and placed what he
had taken into the Calathus, *A golden serpent, an egg, and the
phallus. The epopt look- ing upon these, was rapt with awe as
contemplating in the»sym- bols the deeper mysteries of all life, or being
of a grosser temper, took a lascivious impression. Thus as a seer, he
beheld with the eyes of sense or sentiment ; and the real apocalypse was
therefore that made to himself of his own moral life and character. — A.
W. 180 Eleusinian and and tlie contrary,
occultly acknowledged the descent of his soul from a condition of
being super-material and immortal, into one mate- rial and mortal ;
and that, on the contrary, by hving according to the purity which
the Mysteries inculcated, he should re-ascend to that perfection of
his nature, from which he had unhappily fallen.* *
"Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the body,
disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has yet longings
after that state of perfect knowledge, and purity, and bliss, in which it
was first created. Its affinities are still on high. It yearns for a
higher and nobler form of life. It essays to rise, but its eye is darkened
by sense, its wings are besmeared by pas- sion and lust ; it is ' borne
downward until it falls upon and attaches itself to that which is
material and sensual,' and it floun- ders and grovels still amid the
objects of sense. And now, Plato asks: How may the soul be delivered from
the illusions of sense, the distempering influence of the body, and the
disturbances of passion, which becloud its vision of the real, the good,
and the true?" " Plato believed and hoped that this
could be accomplished by philosophy. This he regarded as a grand
intellectual discipline for the purification of the soul. By this it was
to be disenthralled from the bondage of sense, and raised into the
empyrean of pure thought, 'where truth and reality shine forth.' All
souls have the faculty of knowing, but it is only by reflection and
self-knowledge, and intellectual discipline, that the soul can be raised
to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to
the vision of God." — Cocker: Christianity and Greek Philosophy,
x. pp. 351-2. Bacchic Mysteries. 181 It
only now remains that we consider the last part of this fabulous
narration, or arcane discourse. It is said, that after the goddess
Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered her daughter, she instructed
the Eleusinians in the planting of corn : or, according to
Claudian, the search of Ceres for her daugh- ter, through the goddess,
instructing in the art of tillage as she went, proved the occasion
of a universal benefit to mankind. Now the secret meaning of this will be
obvious, by considering that the descent of the superior intellect
into the realms of generated exis- tence becomes, indeed, the greatest
benefit and ornament which a material nature is capable of
receiving : for without this parti- cipation of intellect in the lowest
department of corporeal life, nothing but the irrational soul* and
a brutal life would subsist in its dark and fluctuating abode, the body.
As the art of tillage, therefore, and particularly the growing of
corn, becomes the greatest possi- * " It is linked to the
phenomenal or sensible world, its emotive part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being
formed of what is relative and phe- nomenal." 182
Elensinian and ble benefit to our sensible life, no symbol
can more aptly represent the unparalleled ad- vantages arising from
the evolution and pro- cession of intellect with its divine natui^e
into a corporeal life, than the good resulting from agriculture and
corn : for whatever of horrid and dismal can be conceived in night,
sup- posing it to be perpetually destitute of the friendly
illuminations of the moon and stars, such, and infinitely more dreadful,
would be the condition of an earthly nature, if de- prived of the
beneficent irradiations [irfio- o5o J and supervening benefits of the
diviner hfe. And this much for an explanation of the
Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres and Proserpina ; in which
it must be remem- bered that as this fable, according to the
excellent observation of Sallust already ad- duced, is of the mixed kind,
though the descent of the soul was doubtless principally alluded to
by these sacred rites, yet they hkewise occultly signified, agreeable to
the nature of the fable, the descending of divinity
Bacchic Mysteries. 183 into the sublunary world. But when
we view the fable in this part of its meaning, we must 'be careful
not to confound the nature of a partial inteUect like ours with the one
uni- versal and divine. As everything subsisting about the gods is
divine, therefore intellect in the highest degree, and next to this
soul, and hence wanderings and abductions, lam- entations and
tears, can here only signify the participations and providential
opera- tions of these in inferior natures ; and this in such a
manner as not to derogate from the dignity, or impair the perfection, of
the divine principle thus imparted. I only add, that the preceding
exposition will enable us to perceive the meaning and beauty of the
following representation of the rape of Proserpina, from the Heliacan
tables of Hi- eronymus Aleander.* Here, first of all, we behold
Ceres in a car drawn by two drag- ons, and afterwards, Diana and
Minerva, with an inverted calathus at their feet, and pointing out
to Ceres her daughter Proser- pina, who is hurried away by Pluto in
his * KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius, page 227.
184 Meusinian and car, and is in the attitude of one
struggling to be free. Hercules is likewise represented with his
club, in the attitude of opposing the violence of Pluto : and last of
all, Jupiter is represented extending his hand, as if wilhng to
assist Proserpina in escaping from the embraces of Pluto. I shall therefore
con- clude this section with the following remark- able passage from
Plutarch, which will not only confirm, but be itself corroborated
by the preceding exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ Tza- Xata
^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai Bappa- Tcporpoc, %r/x
ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts Xrj- Xo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov
Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoX- Xoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov
AaXoy|jLSV(ov UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc Opcpt-
Y.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ XojoiQ. MaXcara
5s of 'Jispt try.c xsXszac opyt- aa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7
a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat
$ia- voirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both *
Plutarch : Euseh. i I. e. Exposition of the laws and oi^erations of
Nature. Bacchic Mysteries. 185 of the Greeks and
the Barbarians^ was noth- ing else than a discoiu'se on natiu^al
subjects, involved or veiled in fables, conceahng many things
through enigmas and under -meanings, and also a theology taught, in
which, after the manner of the Mysteries,* the things spoken were
clearer to the multitude than those dehvered in silence, and the
things delivered in silence were more subject to investigation than
what was spoken. This is manifest from the Orphic verses^ and the
Egyptian and Phrygian discourses. But the orgies of initiations^ and the
sumbolical cere- monies of sacred rites especiallij, exhibit the
understanding had of them by the ancients,'''' * MuaxYjp:tuoTj?,
mystery-like. A.IB^ Psyche Asleep in
Hades. River Gortrtesses. O. SECTION 11.
4:::? THE Dionysiacal sacred rites instituted by Orpheus,*
depended on the follow- ing arcane narration, part of which has
been already related in the preceding section, and the rest may be
found in a variety of authors. "Dionysus, or Bacchus
[Zagreus], while he was yet a boy, w^s engaged by the Titans,
through the stratagems of Juno, in a variety of sports, with which that
period of * Whethei' Orpheus was an actual living person has been
ques- tioned by Aristotle ; but Herodotus, Pindar, and other
writers, mention him. Although the Orphic system is asserted to
have come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that
it was derived from India, and that its basis is the Buddhistic
phi- losophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, con-
trasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the
popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs. The name Kox-e
is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of Hindu story. His visit to the
chamber of Kore-Persephoneia (Parasu-pani) in the form of a dragon or
na(ja, and the horns or crescent on the head of the child, are Tartar or
Buddhistic. The 187 188 Eleusinian and
life is so vehemently allured ; and among the rest, he was
particularly captivated with beholding his image in a mirror ; during
his admiration of which, he was miserably torn in pieces by the
Titans; who, not content with this cruelty, first boiled his members
in water, and afterwards roasted them by the fire. But while they
were tasting his flesh thus dressed, Jupiter, roused by the odor,
and perceiving the cruelty of the deed, hurled his thunder at the Titans
; but com- mitted the members of Bacchus to Apollo, his brother,
that they might be properly in- terred. And this being performed,
Diony- sus (whose heart during his laceration was snatched away by
Pallas and preserved), by a new regeneration again emerged, and
being restored to his pristine life and integ- name Zagreus is
evidently Chahra, or ruler of the earth. The Hera who compassed his death
is Aira, the wife of Buddha ; and the Titans are the Daityas, or apostate
tribes of India. The doc- trine of metempsychosis is expressed by the
swallowing of the heart of the murdered child, so as to reabsorb his
soul, and bring him anew into existence as the son of Semele. Indeed, all
the stories of Bacchus liave Hindu characteristics ; and his cultus is a
part of the serpent worship of the ancients. The evidence appears
to us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries. 189
rity, he afterwards filled up the number of the gods. But m the
mean time, from the exhalations arising from the ashes of the
burning bodies of the Titans, mankind were produced." Now, in order
to understand properly the secret of this naiTation, it is
necessary to repeat the observation already made in the preceding
chapter, "that all fables belonging to mystic ceremonies are
of the mixed kind " : and consequently the present fable, as well as
that of Proserpina, must in one part have reference to the gods,
and in the other to the human soul, as the following exposition will
abundantly evince : In the first place, then, by Dionysus, or
Bacchus, according to the highest concep- tion of this deity, we
understand the spiritual part of the mundane soul ; for there are
Various processions or avatars of this god, or Bacchuses, derived from
his essence. But by the Titans we must understand the mun- dane
gods, of whom Bacchus is the highest ; by Jupiter, the Demiurgus,* or
artificer of * Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the
god of providence, thought, essence, and power. Above him was the
190 Eleusinian and the universe ; by Apollo, the deity
of the Sun, who has both a mundane and super- mundane
establishment, and by whom the universe is bound in symmetry and
consent, through splendid reasons and harmonizing power ; and,
lastly, by Minerva we must un- derstand that original, intellectual,
ruhng, and providential deity, who guards and pre- serves all
middle lives* in an immutable condition, through intelhgence and a
self- supporting life, and by this means sustains them from the
depredations and inroads of matter. Again, by the infancy of Bac-
chus at the period of his laceration, the condition of the intellectual
natui^e is im- phed; since, according to the Orphic theol- ogy,
souls, under the government of Saturn, or Kronos, who is pure intellect
or spiritual- ity, instead of proceeding, as now, from youth to
age, advance in a retrograde progression from age to youth.t The arts
employed by deity of " pure intellect," aud still higher
The One. These three were the hypostases. * Lives which are
not conjoined with material bodies, nor yet elevated to the lofty state
which is the true divine condition. t Emanuel Swedenborg says:
"They who are in heaven are Bacchic Mysteries.
191 the Titans, in order to ensnare Dionysus, are symbolical
of those apparent and divisible operations of the mundane gods,
through which the participated intellect of Bacchus becomes, as it
were, torn in pieces ; and by the mirror we must understand, in the
lan- guage of Proclus, the inaptitude of the uni- verse to receive
the plenitude of intellectual or spiritual perfection ; but the
symbolical meaning of his laceration, through the strat- agems of
Juno, and the consequent punish- ment of the Titans, is thus
beautifully unfolded by Olympiodorus, in his manuscript Commentary
on the PJi(edo of Plato : " The form," says he, " of that
which is universal is plucked off, torn in pieces, and scattered
into generation ; and Dionysus is the monad of the Titans. But his
laceration is said to take place through the stratagems of Juno,
continually advancing to the spring of life, and the more thou-
sands of years they live, so much the more delightful and happy is the
spring to which they attain, and this to eternity with increments
according to the progresses and degrees of love, of charity, and of
faith. Women who have died old and worn out with age, yet have lived in
faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in happy
conjugal love with a husband, after a succession of years, come more and
more into the flower of youth and adolescence." 192
Eleusinian and because this goddess is the supervising
guardian of motion and progression ; * and on this account, in the Iliad,
she perpetually rouses and excites Jupiter to providential action
about secondary concerns ; and, in another respect, Dionysus is the
epJiof^us or supervising guardian of generation, because he
presides over life and death ; for he is the guardian or epliorus of life
because of genera- tion, and also of death because wine produces an
enthusiastic condition. We become more enthusiastic at the period of
dying, as Proc- lus indicates in the example of Homer who became
prophetic [[xavxcxoc] at the time of his death.f They likewise assert,
that tragedy and comedy are assigned to Dionysus : com- edy being
the play or ludicrous representation of life ; and tragedy having
relation to the 'By progression [7rpoo5oc] is here signified the
raying-out, or issuing forth of the soul ; having left the divine or pre
-existent life, and come forth toward the human. t See also
Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to cross the river, the
divine and wonted signal was given me — it always deters me from what I
am about to do — and I seemed to hear a voice from this very spot, which
would not suffer me to depart before I had purified myself, as if I had
committed some Bacchic Mysteries. 193 passions
and death. The comic writers, therefore, do not rightly call in question
the tragedians as not rightly representing Bac- chus, saying that
such things did not happen to Bacchus. But Jupiter is said to have
hurled his thunder at the Titans ; the thun- der signifying a conversion
or changing : for fire naturally ascends ; and hence Jupiter, by
this means, converts the Titans to his own essence." ^TzapazzEzai §£
to xa^oXoo si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo-
aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i- vrpetoc,
et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi
si^avcaTTjatv aozrj, %ai OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV
SsOXSpCOV. Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,
5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap srpopG?, STTsid'^ .7,at
z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s 5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt
xyjv TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;
offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very
good one : for the soul is in some measure prophetic." See also
Shakspere : Henry IV. part 1. " Oh I could prophesy, But
that the earthy and cold hand of death Lies on my tongue."
194 Eleiisinian and StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco
UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys- T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav
to'j [3tov TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'j-
I'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi? syxaXoaacv, (o:;
\rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov.
Kspau- VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05
X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol' S'lriatpsrpsL
O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by the members of Dionysus being first
boiled in water by the Titans, and afterward roasted by the fire,
the outgoing or distribution of intellect into matter, and its subsequent
re- turning from thence, is evidently implied: for water was
considered by the Egyptians, as we have ah*eady observed, as the
symbol of matter ; and fire is the natural symbol of ascending. The
heart of Dionysus too, is, with the greatest propriety, said to be
pre- served by Minerva ; for this goddess is the guardian of hfe,
of which the heart is a sym- bol. So that this part of the fable
plainly signifies, that while intellectual or spiritual
Bacchic Mysteries. 195 life is distributed into the universe,
its prin- ciple is preserved entire by the guardian power and
providence of the Divine intel- ligence. And as Apollo is the source of
all union and harmony, and as he is called by Proclus, " the
key-keeper of the fountain of life," * the reason is obvious why the
mem- bers of Dionysus, which were buried by this deity, again
emerged by a new generation, and were restored to their pristine
integrity and life. But let it here be carefidly ob- served, that
renovation, when apphed to the gods, is to be considered as secretly
implying the rising of their proper hght, and its con- sequent
appearance to subordinate natures. And that punishment, when considered
as taking place about beings of a nature superior to mankind,
signifies nothing more than a secondary providence over such beings
which is of a punishing character, and which sub- sists about souls
that deteriorate. Hence, then, from what has been said, we may
easily collect the ultimate design of the first part of this mystic fable
; for it appears to be * Hymn to the Sun. 196
Bacchic Mysteries. no other than to represent the manner in
which the form of the mundane intellect is divided through the universe ;
— that such an intellect (and every one which is total) re- mains
entire during its division into parts, and that the divided parts themselves
are continually turned again to their source, with which they
become finally united. So that illumination from the liigher
reason, while it proceeds into the dark and rebound- ing receptacle
of matter, and invests its ob- scurity with the supervening ornaments
of divine light, returns at the same time with- out interruption to
the source or principle of its descent. Let us now consider
the latter part of the fable, in which it is said that our souls
were formed from the vapors emanating from the ashes of the burning
bodies of the Titans; at the same time connecting it with the
former part of the fable, which is also appli- cable in a certain degree
to the condition of a partial intellect * hke ours. In the first
* Partial, as being parted from the Supreme Mind.
Etruscan Kleusiuiaus. Bacchic Mysteries. 199
place, then, we are made up from frag- ments (says Olympiodorus),
because, through faUing into generation, our hf e has proceeded
into the most distant and extreme division ; and from Titanic fragments^
because the Titans are the ultimate artificers of things,* and
stand immediately next to whatever is constituted from them. But further,
our irrational life is Titanic, by which the rational and higher
life is torn in pieces. Hence, when we disperse the Dionysus, or
intuitive intellect contained in the secret recesses of our nature,
breaking in pieces the kindred and divine form of our essence, and
which communicates, as it were, both with things subordinate and
supreme, then we become Titans (or apostates) ; but when we
establish ourselves in union with this Dionysiacal or kindred form,
then we become Bacchuses, or perfect guardians and keepers of our
irra- tional life : for Dionysus, whom in this re- spect we
resemble, is himself an epJiorus or * The Demiurge or Creator being
superior to matter in which is concupiscence and all evil, the Titans who
are not thus superior are made the actual artificers.
200 Meusinian and guardian deity, dissolving at his pleasure
the bonds by which the soul is united to the body, since he is the
cause of a parted hfe. But it is necessary that the passive or
femi- nine nature of our UTational part, through which we are bound
in body, and which is nothing more than the resounding echo, as it
were, of soul, should suffer the punishment incurred by descent ; for
when the soul casts aside the [divine] peculiarity of her nature,
she requires her own, but at the same time a multiform body, that she may
again become in need of a common form, which she has lost through
Titanic dispersion into matter. But in order to see the perfect
resem- blance between the manner in which our souls descend and the
dividing of the intui- tive intellect by mundane natures, let the
reader attend to the following admirable citation from the manuscript
Commentary of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : "It is
necessary, first of all, for the soul to place a hkeness of herself in
the body. This is to ensoul the body. Secondly, it is neces-
Baccliic Mysteries. 201 sary for her to sympathize with the
image, as being of hke idea. For every external form or substance
is wrought into an identity with its interior substance, through an
ingenerated tendency thereto. In the third place, being situated in
a divided nature, it is necessary that she should be torn in pieces, and
fall into a last separation, till, through the action of a life of
puiification, she shall raise herself from the dispersion, loose the bond
of sym- pathy, and act as of herself without the external image,
having become established according to the first-created life. The
like things are fabled in the example. For Dio- nysus or Bacchus
because his image was formed in a mirror, pursued it, and thus
became distributed into everything. But Apollo collected him and brought
him up ; being a deity of puiification, and the true savior of
Dionysus ; and on this account he is styled in the sacred hymns,
Dionusites." sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait
f^yyco- oai TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(o- Xcj),
xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav yap stSoc sTust- 202
Eleusinian and xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov.
'Eco? av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv
eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssa- jj-ov XYji;
a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso xou £co(oAou, xctx)-'
Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai,
'>c7.i sv xcp Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scoco-
Xov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac ouxd)? eiQ zo Tifjy
sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aov- aystpst t£ aozoy 7,ac
avaysi, xavJ-apiwoc (ov ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?.
Kat 5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence, as the same author
beautifully observes, the soul revolves according to a mystic and
mundane revolution : for flying from an in- divisible and Dionysiacal
hfe, and operating according to a Titanic and revolting energy, she
becomes bound in the body as in a prison. Hence, too, she abides in
punishment and takes care of her partial and secondary concerns;
and being purified from Titanic defilements, and collected into one, she
be- Bacchic Mysteries. 203 comes a Bacchus ;
that is, she passes into the proper integrity of her nature according
to the divine principle ruhng on high. From all which it evidently
fohows, that he who hves Dionysiacally rests from labors and is
freed from his bonds ; * that he leaves his prison, or rather his
apostatizing life ; and that he who does this is a philosopher purifying
him- seK from the contaminations of his earthly life. But farther
fi'om this account of Dio- nysus, we may perceive the truth of
Plato's observation, " that the design of the Myste- ries is
to lead us back to the perfection from which, as our beginning, we first
made our de- scent." For in this perfection Dionysus him- self
subsists, establishing perfect souls in the throne of his father ; that
is, in the in- tegrity of a life according to Jupiter. So that he
who is perfect necessarily resides with the gods, according to the design
of those deities, who are the sources of con- summate perfection to
the soul. And lastly, *"We strive toward virtue by a strenuous
use of the gifts which God communicates ; but when God communicates
himself, then we can be only passive — we repose, we enjoy, but all
opera- tion ceases." 204 Bacchic Mysteries.
the Thyrsus itself, which was used in the Bacchic procession, as it
was a reed full of knots, is an apt symbol of the diffusion of the
higher nature into the sensible world. And agreeable to this,
Olympiodorus on the Pluedo observes, " that the Thyrsus * is a symbol
of a forming anew of the material and parted substance from its
scattered condition ; and that on this account it is a Titanic
plant. This it was customary to extend before Bac- chus instead of
his paternal scepter; and through this they called him down into
our partial nature. Indeed, the Titans are Thyr- sus-bearers ; and
Prometheus concealed fire in a Thyi'sus or reed ; after which he is
con- sidered as bringing celestial light into genera- tion, or
leading the soul into the body, or calling forth the divine illumination,
the whole being ungenerated, into generated ex- istence. Hence
Socrates calls the multitude Thyrsus-bearers Orphically, as hving
accord- ing to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov ZQZi
zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta * The word thyrsus,
it will be seen, is here translated from vapd'Yj^, a rod or ferula.
Bacchic Mysteries. 207 TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv
aovs/scav, o^sv %at Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp
Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj. Kai xauTTj
irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov. Kat {isvcoi, 'jcc/.i
vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g ITpGIJLTjiJ'SaC, £V
VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO oupaviov cp(oc see x'A^v
ysvsatv xaxaaTucov, stxs xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv
o^scav £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvs- atv
TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -co- y-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc
"JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Op- cpt7,(oc, co^ C^'^vxac
Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning of the
fable, which formed a principal part of these mystic rites. Let us now
proceed to consider the signification of the symbols, which,
according to Clemens Alexandrinus, belonged to the Bacchic ceremonies ;
and which are comprehended in the following- Orphic verses :
M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov. That
is, A wheel, a pine-nut, and the wanton plays, Which move and
bend the limbs in various ways : 208 Eleusinian and
With these th' Hesperian golden-fruit combine, Which beauteous
nymphs defend of voice divine. To all which Clemens adds saoTU'pov,
esop- troii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool, and
aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone. In the first place, then, wdth
respect to the wheel, since Dionysus, as we have already explained,
is the mimdane intellect, and in- tellect is of an elevating and
convertive na- ture, nothing can be a more apt symbol of
intellectual action than a w^heel or sphere : besides, as the laceration
and dismemberment of Dionysus signifies the going-forth of in-
tellectual illumination into matter, and its returning at the same time
to its source, this too will be aptly symbolized by a wheel. In the
second place, a pine-nut, from its conical shape, is a perspicuous symbol
of the manner in which intellectual or spiritual illmnination
proceeds from its source and beginning into a material nature. " For
the soul," says Ma- crobius,* "proceeding from a round
figure, which is the only divine form, is extended into the form of
a cone in going forth." * In Somnid Scijnonis, xii.
Bacchic Mysteries. 209 And the same is true
sjrmbolically of the higher intellect. And as to the wanton sports
which bend the limbs, this evidently alludes to the Titanic arts, by
which Dionysus was allured, and occultly signifies the facul- ties
of the mundane intellect, considered as subsisting according to an
apparent and divisible condition. But the Hesperian golden-apples signify
the pure and incorrupt- ible nature of that intellect or Dionysus,
which is possessed by the world ; for a golden-apple, according to
Sallust, is a symbol of the world ; and this doubtless, both on account
of its ex- ternal figui'e, and the incorruptible intellect which it
contains, and with the illuminations of which it is externally adorned ;
since gold, on account of never being subject to rust, aptly
denotes an incorruptible and immaterial na- ture. The mirror, which is
the next symbol, we have already explained. And as to the fleece of
wool, this is a symbol of laceration, or distri])ution of intellect, or
Dionysus, into matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy diJanio,
which is used in the relation of the Bacchic discerption, signifies to
tear in pieces 210 Bacchic Mysteries. like wool
: and hence Isidoinis derives the Latin word laua, wool, from Janiando,
as velliis from vellendo. Nor must it pass un- observed, that
Xq^jz^ in Greek, signifies wool, and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed,
the pressing of grapes is as evident a symbol of dispersion as the
tearing of wool; and this circumstance was doubtless one principal
reason why grapes were consecrated to Bac- chus : for a grape, previous
to its pressure, aptly represents that which is collected into one
; and when it is pressed into juice, it no less aptly represents the
diffusion of that which was before collected and entu'e. And
lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJe- hone, as it is
principally subser\dent to the progressive motion of animals, so it
belongs, with great propriety, to the mystic symbols of Bacchus;
since it doubtless signifies the going forth of that deity into the
department of physical existence : for nature, or that divisible
life which subsists about the body, * The practice of punning, so
common in all the old rites, is here forcibly exhibited. It aided to
conceal the symbolism and mislead uninitiated persons who might seek to
ascertain the genuine meaning. i\v>'-
.../Mm Hercules Reclining. Bacchic
Mysteries. 213 and whicli is productive of seeds, imme-
diately depends on Bacchus. And hence we are informed by Proclus, that
the sexual parts of this god are denominated by theologists, Diana,
who, says he, presides over the whole of the generation into natural
existence, leads forth into light all natural reasons, and extends
a prolific power from on high even to the subterranean reahns.* And hence
we may perceive the reason why, in the Orphic Hjjmn to Nature, that
goddess is described as " turning round silent traces with the
ankle- bones of her feet. ^^ And it is highly worthy our
observation that in this verse of the hymn Nature is cele- brated
as Fortune, according to that descrip- tion of the goddess in which she
is repre- sented as standing with her feet on a wheel which she
continually turns round ; as the following verse from the same hymn
abun- dantly confirms : Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa
o'.vsooooa.. * Commentary upon the Timceus. 214
Meusinian and The sense of which is, "moving with rapid
motion on an eternal wheel." Nor ought it to seem wonderful that
Nature should he celebrated as Fortune; for Fortune in the Orphic
h}Tnn to that deity is invoked as Diana : and the moon, as we have
observed in the preceding section, is the aoro'iriov ayaXjia
rpyasto?, fJie self-revealing emblem of Nature ; and indeed the apparent
incon- stancy of Fortune has an evident agreement with the
fluctuating condition in which the dominions of nature are perpetually
involved. It only now remains that we explain the secret meaning of
the sacred dress with which the initiated in the Dionysiacal Myste-
ries were invested, in order to the GpovLajxo^ (fhromsmoSy enthroning)
taking place ; or sitting in a solemn manner on a throne, about
which it was customary for the other initiates to dance. But the
particulars of this habit are thus described in the Orphic verses
preserved by Macrobius : * Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v
s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q. * Satunialia, i. 18. Bacchic
Mysteries. 215 flpwxct ;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov
«xTtvsaa:v IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov
a^cp-paAEO^oc-. ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu
xa*«-|a'. ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,
Aatpoiv o«-5aXftov ;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o. Eka r
6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at n«;A'favoaiVTa
irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv
Tac-r]? (paja-wv avopouaiov Xpoasiai? axxcat ,3(x>.-/j poov
Oxsavow, Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj a;jLcpt;xtYE:aa
Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj. xoxXov,
Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v
<I>aovjx' ap' ily.zrj.wo ■Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.
That is, He who desires in pomp of sacred dress
The sun's resplendent body to express, Should first a vail
assume of purple bright, Like fair white beams combin'd with fiery
light : On his right shoulder, next, a mule's broad hide
Widely diversified with spotted pride Should hang, an image
of the pole divine, And dfBdal stars, whose orbs eternal
shine. A golden splendid zone, then, o'er the vest He
next should throw, and bind it round his breast; In mighty token,
how with golden light. The rising sun, from earth's last bounds and
night Sudden emerges, and, with matchless force, Darts
through old Ocean's billows in his course. A boundless splendor
hence, enshrin'd in dew, Plays on his whirlpools, glorious to the
view ; While his circumfluent waters spread abroad,
Full in the presence of the radiant god : 216
Eleusinian and But Ocean's circle, like a zone of light,
The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring sight.
lu the first place, then, let us consider why this mystic dress
belonging to Bacchus is to represent the sun. Now the reason of
this will be evident from the following ob- servations : according to the
Orphic theol- ogy, the divine intellect of every planet is
denominated a Bacchus, who is characterized in each by a different
appellation; so that the intellect of the solar deity is called
Trie- tericus Bacchus. And in the second place, since the divinity
of the sun, according to the arcana of the ancient theology, has a
super-mundane as well as mundane establish- ment, and is wholly of an
exalting or intel- lectual nature ; hence considered as super-
mundane he must both produce and contain the mundane intellect, or
Dionysus, in his essence ; for all the mimdane are contained in the
super-mundane deities, by whom also they are produced. Hence Proclus, in
his elegant Hijmn to the Sun, says : Bacchic
Mysteries. 217 That is, " they celebrate thee in hymns as
the illustrious parent of Dionysus." And thirdly, it is
through the subsistence of Dionysus in the sun that that luminary derives
its circular motion, as is evident from the following Or- phic
verse, in which, speaking of the sun, it is said of him, that
" He is called Dionysus, because he is carried with a
circular motion through the immense- ly-extended heavens." And this
with the greatest propriety, since intellect, as we have already
observed, is entirely of a transforming and elevating nature : so that
from all this, it is sufficiently evident why the dress of Diony-
sus is represented as belonging to the sun. In the second place, the
vail, resembling a mixture of fiery light, is an obvious image of
the solar fire. And as to the spotted mule- skin,* which is to represent
the starry heav- ens, this is nothing more than an image of *
Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one at the great
festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible. In India
the robe of Indra is spotted. 218 Bacchic Mysteries.
tlie moon ; tMs luminary, according to Proc- lus on Hesiod,
resembling the mixed nature of a mule ; " becoming dark through her
par- ticipation of earth, and deriving her proper light from the
sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o- So that the spotted hide signifies
the moon attended with a multitude of stars : and hence, in the
Oi'phic Hymn to the Moon, that deity is celebrated "as shining
surrounded with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppy-
ooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, as- trarche, or " queen of
the starsy In the next place, the golden zone is the circle
of the Ocean, as the last verses plainly evince. But, you will ask, what
has the rising of the sun through the ocean, from the boundaries of
earth and night, to do with the adventures of Bacchus ? I answer, that it
is inpossible to devise a symbol more beauti- fully accommodated to
the purpose : for, in the first place, is not the ocean a proper
emblem of an earthly nature, whirling and Bacchic Mysteries.
221 stormy, and perpetually rolling without ad- mitting any
periods of repose ? And is not the sun emerging from its boisterous deeps
a perspicuous symbol of the higher spiritual nature, apparently
rising from the dark and fluctuating material receptacle, and
confer- ring form and beauty on the sensible uni- verse through its
light ? I say apparently rising, for though the spiritual nature
always diffuses its splendor with invariable energy, yet it is not
always perceived by the subjects of its illuminations : besides, as
psychical na- tures can only receive partially and at inter- vals
the benefits of the divine irradiation ; hence fables regarding this
temporal partici- pation transfer, for the purpose of conceal- ment
and in conformity to the phenomena, the imperfection of subordinate
natures to such as are supreme. This description, there- fore, of
the rising sun, is a most beautiful symbol of the new birth of Bacchus,
which, as we have already observed, implies nothing more than the
rising of intellectual light, and its consequent manifestation to subordinate
orders of existence. 222 Eleusinian and And thus
much for the mysteries of Bac- chus, which, as well as those of Ceres,
relate in one part to the descent of a partial in- tellect into
matter, and its condition while united with the dark tenement of the body
: but there appears to be this difference be- tween the two, that
in the fable of Ceres and Proserpine the descent of the whole
rational soul is considered ; and in that of Bacchus the scattering
and going forth of tliat su- preme part alone of our nature which
we properly characterize hy the appellation of. intellect* In the
composition of each we may discern the same traces of exalted wis-
dom and recondite theology; of a theology the most venerable for its
antiquity, and the most admirable for its excellence and reahtyo
I shall conclude this treatise by presenting the reader with a
valuable and most elegant hymn of Proclusf to Minerva, which I have
* Greek, wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the
mind that apprehends the Ineffable Truth. t That the following hymn
was composed by Proclus, can not be doubted by any one who is conversant
with those already ex- tant of this incomparable man, since the spirit
and manner in both is perfectly the same. Bacchic
Mysteries. 223 discovered in the British Museum ; and the
existence of which appears to have been hitherto utterly unknown. This
hymn is to be found among the Harleian Manuscripts, in a volume
containing several of the OrpJiic liymns^ with which, through the
ignorance of transcriber, it is indiscriminately ranked, as well as
the other four hymns of Proclus, already printed in the Bihliotlieca
Grmca of Fabricius. Unfortunately too, it is tran- scribed in a
character so obscure, and with such great inaccuracy, that,
notwithstanding the pains I have taken to restore the text to its
original purity, I have been obUged to omit two hues, and part of a
third, as beyond my abilities to read or amend ; however, the
greatest, and doubtless the most important part, is fortunately
intelhgible, which I now present to the reader's inspection,
accompa- nied with some corrections, and an Enghsh paraphrased
translation. The original is highly elegant and pious, and contains
one mythological particular, which is no where else to be found. It
has likewise an evident connection with the preceding fable of Bac-
224 EJeusinian and chus, as will be obvious from the
perusal; and on tins account principally it was in- serted in the
present discoui'se. Ek aohnan. KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0
OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(; IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'.
wxpoxaxY,? ano asipa? Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5*
o,3p:|i,07tarrjp,* KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia
i)'U^uj 'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,]
TTuXjUlVa;;. Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya
(p'j)>a •j-'-Y^"^'^'^^* '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J
rjyrj.v.xo^ Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou
l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa Ocppa VEOi;
^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?, Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov
avY]^f]av] Alovuooo?. 'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va
%apv]va Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv 'H
v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov H jjioxov
v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c, Azix:oof'^:xry ojprjv ||
'{^'j'/at-t ^aXXouaa* 'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.
So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?' *
Lege oPptjULOTraxpT), t Lege f)joaj,3Eia?. t Lege a|j.oax'.
Xuxoo. § Lege tceXexu?. II Lege Op;jL-r]v.
BaccJiic Mysteries. 225 'H x8-ova ,3coT:ccvE.pa tpt^aa?
fxvjtjpa? p-^Xoiv. K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa
Trpoatouou- Ao? OS ;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav. Ao?
-]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv Ka: ao-^iY]v -/.at
jpcoxoc- ,j.svoc S's/J-Tivsoaov jpwTi, Toaaattov, xac towv, oaov
/&ov:ojv ajio xoXttojv A'^spv-r] ,rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^
£o:o, Ei5j Ttc «/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;.
IXa9.- /x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f
Trcjoavat? TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot, KstfAsvov Ev
8aTT:s5otatv, 61: TcO? so/o/jiac swxr KsxXofl-: xjxXoO-- xa: ;xol
iitCu^yiv 00a? 6tox£C. TO MINEEVA. Daughter of aegis-bearing
Jove, divine, Propitious to thy votaries' prayer incline ;
From thy great father's fount supremely bright, Like fire
resounding, leaping into light. Shield-bearing goddess, hear, to
whom belong A manly mind, and power to tame the strong!
Oh, sprung from matchless might, with joyful mind Accept this
hymn ; benevolent and kind ! The holy gates of wisdom, by thy
hand Are wide unfolded ; and the daring band Of
earth-born giants, that in impious fight Strove with thy fire, were
vanquished by thy might. Once by thy care, as sacred poets
sing. The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, *
Lege a|xirXaxY]|ULa. t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^. 226
Eleusinian and Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,
Tlie Titans fell against his life conspired ; And with
relentless rage and thirst for gore, Their hands his members into
fragments tore : But ever watchful of thy father's will,
Thy power preserv'd him from succeeding ill. Till from the
secret counsels of his fire, And born from Semele through heavenly
sire, Great Dionysus to the world at length Again
appeared with renovated strength. Once, too, thy warlike ax, with
matchless sway, Lopped from their savage necks the heads away
Of furious beasts, and thus the pests destroyed Which long
all-seeing Hecate annoyed. By thee benevolent great Juno's
might Was roused, to furnish mortals with delight. And
thro' life's wide and various range, 't is thine Each part to
beautify with art divine : Invigorated hence by thee, we find
A demiurgic impulse in the mind. Towers proudly raised, and
for protection strong. To thee, dread guardian deity, belong.
As proper symbols of th' exalted height Thy series claims
amidst the courts of light. Lands are beloved by thee, to learning
prone. And Athens, Oh Athena, is thy own ! Great
goddess, hear! and on my dark'ned mind Pour thy pure light in
measure unconfined ; — That sacred light, Oh all-protecting
queen. Which beams eternal from thy face serene. My
soul, while wand'ring on the earth, inspire With thy own blessed
and impulsive fire : And from thy fables, mystic and divine.
Give all her powers with holy light to shine. Bacchic
Mysteries. 227 Give love, give wisdom, and a power to love,
Incessant tending to the realms above ; Such as unconscious of base
earth's control Gently attracts the vice-subduing soul : From
night's dark region aids her to retire, And once moi'e gain the palace of
her sire. O all-propitious to my prayer incline ! Nor let those
horrid punishments be mine Which guilty souls in Tartarus confine,
With fetters fast'ned to its brazen floors. And lock'd by hell's
tremendous iron doors. Hear me, and save (for power is all thine own)
A soul desirous to be thine alone.* It is very remarkable in this
hymn, that the exploits of Minerva relative to cutting off the
heads of wild beasts with an ax, etc., is mentioned by no writer
whatever; nor can I find the least trace of a circumstance either
in the history of Minerva or Hecate to which it alludes.f And from hence,
I * If I should ever be able to publish a second edition of
my translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a
translation of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant ;
but which are nothing more than the wreck of a great multitude
which he composed. t If Mr. Taylor had been conversant with
Hindu literature, he would have perceived that these exploits of
Minerva-Athene were taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani.
The whole Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and
Buddhistic legends into a Grecian dress. — ^A. W.
228 Bacchic Mysteries. think, we
may reasonably conclude that it belonged to the arcane Orphic
narrations concerning these goddesses, which were con- sequently
but rarely mentioned, and this but by a few, whose works, which might
afford us some clearer information, are unfortu- nately lost.
Musical Couference. Venus Kisiiig troni the
Sea. APPENDIX. SINCE writing the above
Dissertation, I have met with a curious Greek manu- script
entitled: "Of Psellus, Concerning DcBmons^* according to the opinion
of the GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov So^aCooacv
'EXXtjvs? : In the course of which he describes the machinery of the
Eleusinian Mysteries as follows : — 'A oe ys [lo^jzr^iAa xoo- T(ov,
oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov
xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/j- x£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]?
Ospas^axxTj xt] xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot
sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat iro)? Y] ArppoScx'rj
airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs- * Daemons, divinities,
spirits ; a term formerly applied to all rational beings, good or bad,
other than mortals. 229 230 Appendix,
(ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj 6[JL£vaio?. Kat
s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jl- Tuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov
sttiov, sxtpvo'fo- p'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov
siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?. Ttat xapocaXytaL
Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt- {x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi?
^l^'jjxo^c' otc xsp TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov,
to) x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou. Etc^
xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc, y,ai T7. iroXyoix'-paXa
TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa- CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^
{XC{J-aA(OV£C, %at zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M
A(o5(ovctcov yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£-
poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc (lege Y^ Baupfo
xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat 6 yovaixo? %x£ic> oozio yap
ovo{xaCoDaL xy^v ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v
x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries of these demons, such
as the Eleusinia, con- sisted in representing the mythical narra-
tion of Jupiter mingling mth Ceres and her daughter Proserpina
(Phersephatte). But as Appendix. 231 venereal
connections are in the initiation,* a Venus is represented rising from
the sea, from certain moving sexual parts : afterwards the
celebrated marriage of Proserpina (with Pluto) takes place ; and those
who are initiated sing : " 'Out of the drum I have
eaten, Out of the cymbal I have drank, The mystic vase I have
sustained, The bed I have entered.' The pregnant throes
likewise of Ceres [Deo] are represented : hence the supphcations of
Deo are exhibited; the drinking of bile, and the heart-aches. After this,
an effigy with the thighs of a goat makes its appear- ance, which
is represented as suffering vehe- mently about the testicles : because
Jupiter, as if to expiate the violence which he had offered to
Ceres, is represented as cutting off the testicles of a goat, and placing
them on her bosom, as if they were his own. But after all this, the
rites of Bacchus suc- ceed; the Cista, and the cakes with many
bosses, Uke those of a shield. Likewise the * /. e. a
representation of them. 232 Appendix. mysteries
of Sabazius, divinations, and the mimalons or Bacchants ; a certain sound
of the Thesprotian bason ; the Dodonsean brass ; another Corybas,
and another Proserpina, — representations of Demons. After these suc-
ceed the uncovering of the thighs of Baubo, and a woman's comb (lie is),
for thus, through a sense of shame, they denominate the sexual
parts of a woman. And thus, with scanda- lous exhibitions, they finish
the initiation." From this curious passage, it appears
that the Eleusinian Mysteries comprehended those of almost all the
gods ; and this account will not only throw hght on the relation of
the Mysteries given by Clemens Alexandidnus, but likewise be
elucidated by it in several particulars. I would willingly unfold to
the reader the mystic meaning of the whole of this machinery, but
this can not be accom- phshed by any one, without at least the pos-
session of all the Platonic manuscripts which are extant. This acquisition,
which I would infinitely prize above the wealth of the In- dies,
will, I hope, speedily and fortunately k'^■
Jupiter disguised as Diana, and Calisto. ~-_ ;^ ^ C\r
I ■■■■ mt^
Hercules, Deianeira and Nessus. Appendix. 235
be mine, and then I shall be no less anxious to communicate this
arcane infoiTQation, than the liberal reader will be to receive it.
I shall only therefore observe, that the mu- tual communication of
energies among the gods was called by ancient theologists c'spo^
yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage ; concerning which Proclus, in
the second book of his manuscript Commentary on the Parmenides,
admirably remarks as follows: TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV,
TTOrS {1£V £V ZOIQ GO- Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at
vcaXooat Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpo- voo
v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ xa xpsLtto), %ai
v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac Atjjxtj- Tpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov
xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj? Ya{xov. Etcsl^'A]
tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1
5s at 'jrpoi; xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa.
Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C {j.£- XaY£tV
7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V dta'jiXoxYjV. /. ^.
" Theologists at one time considered this communion of the gods
in divinities co-ordinate with each other ; and 236
Appendix. then tliey called it the mamage of Jupiter and
Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and Gre], of Saturn and Rhea : but at
another time, they considered it as svibsisting be- tween
subordinate and superior divinities; and then they called it the marriage
of Jupi- ter and Ceres ; but at another time, on the contrary, they
beheld it as subsisting be- tween superior and subordinate
divinities; and then they called it the marriage of Jupi- ter and
Kore. For in the gods there is one kind of communion between such as are
of a co-ordinate nature ; another between the subordinate and
supreme ; and another again between the supreme and subordinate.
And it is necessary to understand the peculiarity of each, and to
transfer a conjunction of this kind froin the gods to the communion
of ideas with each other." And in Tim (mis ^ book i., he
observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple /. e. '' And that the same
goddess is conjoined with other gods, or the same god with many
goddesses, may be collected fi'om the mystic Appendix.
237 discourses, and those marriages which are
called in the Mysteries Sacred Marriages.''^ Thus far the divine Proclus
; from the first of which passages the reader may perceive how
adultery and rapes, as represented in the machinery of the Mysteries, are
to be under- stood when apphed to the gods; and that they mean
nothing more than a communica- tion of divine energies, either between a
su- perior and subordinate, or subordinate and superior, divinity.
I only add that the ap- parent indecency of these exhibitions was, as
I have already observed, exclusive of its mystic meaning, designed
as a remedy for the passions of the soul : and hence mystic
ceremonies were very properly called a%£7., akea, medicines, by the
obscure and noble Heracleitus.'^ * Iamblichus : De
Mijsteriis. Saciifice of a Pig.
Hercules Drunk. ORPHIC HYMNS. I shall
utter to whom it is lawful ; but let the doors be closed, Nevertheless,
against all the profane. But do thou hear, Oh Musseus, for I will declare
what is true. . . . He is the One, self -proceeding ; and from him
all things proceed, And in them he himself exerts his activity ; no
mortal Beholds Him, but he beholds all. There is one royal
body in which all things are enwombed, Fire and Water, Earth, ^ther,
Night and Day, And Counsel [Metis'], the first producer, and delightful
Love, — For all these are contained in the great body of Zeus.
Zeus, the mighty thunderer, is first ; Zeus is last ; Zeus
is the head, Zeus the middle of all things ; From Zeus were all things
produced. He is male, he is female ; Zeus is the depth of the earth, the
height of the starry heavens ; 238 Appendix.
239 He is the breath of all things, the force of untamed fire
; The bottom of the sea ; Sun, Moon, and Stars ; Origin of all ;
King of all ; One Power, one God, one Great Ruler. HYMN OF
CLEANTHES. Greatest of the gods, God with many names,
God ever-ruling, and ruling all things ! Zeus, origin of Nature,
governing the universe by law, All hail ! For it is right for mortals to
address thee ; For we are thy offspring, and we alone of all <
That live and creep on earth have the power of imitative speech.
Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power. Thee the wide
heaven, which surrounds the earth, obeys : Following where thou wilt,
willingly obeying thy law. Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty
hands, The two-edged, flaming, immortal thunderbolt. Before whose
flash all nature trembles. Thou rulest in the common reason, which goes
through all. And appears mingled in all things, great or small,
Which filling all nature, is king of all existences. Nor without thee. Oh
Deity,* does anything happen in the world. From the divine ethereal pole
to the great ocean, Except only the evil preferred by the senseless
wicked. But thou also art able to bring to order that which is
chaotic. Giving form to what is formless, and making the discordant
friendly ; So reducing all variety to imity, and even making good
out of evil. Thus throughout nature is one great law Which only the
wicked seek to disobey. Poor fools ! who long for happiness. But
will not see nor hear the divine commands. * Greek, Aaifxov,
Demon, 240 Appendix.
[In frenzy blind they stray a\v;iy from good, By thii'st of
glory tempted, or sordid avarice, Or pleasures sensual and joys
that fall.] But do thou, Oh Zeus, all-bestower,
cloud-compeller! Ruler of thunder ! guard men from sad error.
Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow The
laws of thy great and just reign ! That we may be honored, let us
honor thee again, Chanting thy great deeds, as is proper for
mortals, For nothing can be better for gods or men Than
to adore with hymns the Universal King.* * Rev. J. Freeman Clarke,
whose version is here copied, renders this phrase "the law common to
all." The Greek text reads: " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q
u/ivstv," — the term vojj.oc:, nomos, or Law, being used for King,
as Love is for God. — A. W. Proserpina Enthroned in
Hades. Nymphs and Centaurs. AporrJieta, Greek
aiioppTjTa — The instructions given by the hierophant or interpreter in
the Eleusinian Mysteries, not to be disclosed on pain of death. There was
said to be a syn- opsis of them in the i^etroma or two stone tablets,
which, it is said, were bound together in the form of a book.
Apostatise — To fall or descend, as the spiritual part of the soul
is said to descend from its divine home to the world of nature. Cathartic
— Purifying. The term was used by the Platonists and others in connection
with the ceremonies of purification be- fore initiation, also to the
corresponding performance of rites and duties which renewed the moral
life. The cathartic virtues were the duties and mode of living, which
conduced to that end. The phrase is used but once or twice in this
edition. Cause — The agent by which things are generated or
produced. Circulation — The peculiar spiral motion or progress by
which the spiritual nature or "intellect" descended from the
divine region of the universe into the world of sense.
Cogitative — Relating to the understanding: dianoetic.
Conjecture, or Opinion — A mental conception that can be changed by
argument. Core — A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic
and later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She was
supposed to typify the spiritual nature which was ab- 241
242 Glossary, Core — con tinned. ducted by Hades
or Pluto into the Underworld, the figure signifying the apostasy or
descent of the soul from the higher life to the material body.
CoricaUy — After the manner of Proserpina, i. e., as if descending
into death from the supernal world. D(emoii — A designation of a
certain class of divinities. Different authors employ the term
differently. Hesiod regards them as the souls of the men who lived in the
Golden Age, now act- ing as guardian or tutelary spirits. Socrates, in
the CratyJus, says " that daemon is a term denoting wisdom, and that
every good man is dsemonian, both while living and when dead, and
is rightly called a daemon." His own attendant spirit that checked
him whenever he endeavored to do what he might not, was styled his
Daemon. lamblichus places Daemons in the second order of spiritual existence.
— Cleanthes, in his celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).
Demiurgiis — The creator. It was the title of the; chief-magistrate
in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus or
Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Pla- tdnists, and more
especially the Gnostics, who regarded matter as constituting or
containing the principle of Evil, sometimes applied this term to the Evil
Potency, who, some of them affirmed, was the Hebrew God.
Distrihuted — 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered.
The spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded
as a whole, but in descending to worldly conditions became divided into
parts or perhaps characteristics. Divisible — Made into parts or
attributes, as the mind, intellect, or spiritual, first a whole, became
thus distinguished in its de- scent. This division was regarded as a fall
into a lower plane of life. Energise, Greek z^z^^-^zw — Ho
operate or work, especially to undergo discipline of the heart and
character. Glossary. 243 Energy — Operation,
activity. Eternal — Existing through all past time, and still
continuing. Faith — The correct conception of a thing as it seems,
— fidelity. Freedom — The ruling power of one's life ; a power over
what per- tains to one's self in life. Friendship — Union of
sentiment; a communion in doing well. Fury — The peculiar mania,
ardor, or enthusiasm which inspired and actuated prophets, poets,
intei'preters of oracles, and others ; also a title of the goddesses
Demeter and Persephone as the chastisers of the wicked, — also of the
Eumenides. Generation, Greek Y^^'^t? — Generated existence, the
mode of life peculiar to this world, but which is equivalent to death,
so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned ; the
process by which the soul is separated from the higher form of existence,
and brought into the conditions of life upon the earth. It was regarded
as a punishment, and ac- cording to Mr. Taylor, was prefigured by the
abduction of Proserpina. The soul is supposed to have pre-existed
with God as a pure intellect like him, but not actually identical —
at one but not absolutely the same. Good — That which is desired on
its own account. Hades — A name of Pluto; the Underworld, the state
or region of departed souls, as understood by classic writers ; the
physical nature, the corporeal existence, the condition of the soul
while in the bodily life. Herald, Greek y.7]po4 — The crier at the
Mysteries. Hierophant — The interpreter who explained the purport
of the mystic doctrines and dramas to the candidates.
Holiness, Greek ooioty]? — Attention to the honor due to God.
Idea — A principle in all minds underlying our cognitions of the
sensible world. Imprudent — Without foresight ; deprived of
sagacity. Infernal regions — Hades, the Underworld.
Instruction — A power to cure the soul. 244
Glossary. Intellect, Greek voo? — Also rendered j)?^re reason, and
by Professor Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the
spiritual nature. " The organ of self-evident, necessary, and
universal truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it
takes hold on truth with absolute certainty. The reason, through
the medium of ideas, holds communion with the world of real Being. These
ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of unseen realities, as
the sun reveals the world of sensible forms. ' The Idea of the good is
the Sun of the Intelligible World ; it sheds on objects the light of truth,
and gives to the soul that knows the power of knowing.' Under this light
the eye of reason apprehends the eternal world of being as truly,
yet more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of
phenomena. This power the rational soul possesses by virtue of its having
a nature kindred, or even homogeneous with the Divinity. It was '
generated by the Divine Father,' and like him, it is in a certain sense '
eternal.' Not that we are to understand Plato as teaching that the
rational soul had an independent and underived existence ; it was created
or 'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,
is not amenable to the condition of time and space, but, in a peculiar
sense, dwells in eternity : and therefore is capable of beholding eternal
realities, and coming into communion with absolute beauty, and goodness,
and truth — that is, with God, the Absolute Being." — Christianity
and Greek Philosophy, x. pp. 349, 350, Intellective —
Intuitive ; perceivable by spiritual insight. Ititelligihle —
Eelating to the higher reason. Interpreter — The hierophant or
sacerdotal teacher who, on the last day of the Eleusinia, explained the
petroma or stone book to the candidates, and unfolded the final meaning
of the repre- sentations and symbols. In the Phoenician language he
was called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two tablets
of stone, was a pun on the designation, to imply the
Glossary. 245 Interpreter — continued. wisdom to be
uiit'olcled. It has been suggested by the Rev, Mr. Hyslop, that the Pope
derived his claim, as the successor of Peter, from his succession to the
rank and function of the Hierophant of the Mysteries, and not from the
celebrated Apostle, who probably was never in Rome. Just —
Productive of Justice. Justice — The harmony or perfect
proportional action of all the powers of the soul, and comprising equity,
veracity, fidelity, usefulness, benevolence, and purity of mind, or
holiness. Judgment — A. peremptory decision covering a disputed
matter; also o'.avoLa, dianoia, or understanding. Knowledge —
A comprehension by the mind of fact not to be over- thrown or modified by
argument. o Legislative — Regulating. Lesser Mysteries
— The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purifica- tion, which were
celebrated at Agrae, prior to full initiation at Eleusis. Those initiated
on this occasion were styled fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail ;
and their initiation was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as
expressive of being vailed from the former life. Magic —
Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating to the order of the Magi of
Persia and Assyria. Material do'mons — Spirits of a nature so gross
as to be able to assume visible bodies like individuals still living on
the Earth. Matter — The elements of the world, and especially of
the human body, in which the idea of evil is contained and the soul
incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle. Muesis, Greek iinrioiq,
from ixotn, to vail — The last act in the Lesser Mysteries, or rsXtza:,
teletai, denoting the separating of the initiate from the former exotic
life. Mysteries — Sacred dramas performed at stated periods.
The most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and
Eleusis. 246 Glossary. Mystic — Relating to the
Mysteries: a person initiated in the Lesser Mysteries — Greek
jj.u3Totu Occult — Arcane; hidden; pertaining to the mystical
sense. Orgies, Greek opY-'^' — The peculiar rites of the Bacchic
Mysteries. Opinion — A hypothesis or conjecture.
Partial — Divided, in parts, and not a whole. Philologist —
One pursuing literature. Philosopher — One skilled in philosophy;
one disciplined in a right life. Philosophise — To
investigate final causes; to undergo discipline of the life.
Philosophy — The aspiration of the soul after wisdom and truth,
" Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned
being, and asserted that this was known to the soul by its intuitive
reason (intellect or spiritual instinct) which is the organ of all
philosophic insight. The reason perceives sub- stance ; the
understanding, only phenomena. Being (xo ov), which is the reality in all
actuality, is in the ideas or thoughts of God; and nothing exists (or
appears outwardly), except by the force of this indwelling idea. The word
is the true expression of the nature of every object : for each has its
divine and natural name, besides its accidental human appellation.
Philosophy is the recollection of what the soul has seen of things and
their names." (J. Freeman Clarke.) Plotinus — A philosopher
who lived in the Third Century, and re- vived the doctrines of
Plato. Prudent — Having foresight. Purgation,
purification — The introduction into the Teletce or Lesser Mysteries ; a
separation of the external principles from the soul. Punishment —
The curing of the soul of its errors. Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, —
One possessing the prophetic mania, or inspiration. Priest —
Greek \xrjyz'.c, — A prophet or inspired person, ispjuc — a sacerdotal
person. Glossary. 247
Revolt — A rolling away, the career of the soul in its descent from
the pristine divine condition. Science — The knowledge of
universal, necessary, unchangeable, and eternal ideas. Shows
— The peculiar dramatic representations of the Mysteries. Telete,
Greek tjXext] — The finishing or consummation ; the Lesser
Mysteries. Theologist — A teacher of the literatiu-e relating to
the gods. Theoretical — Perceptive. Torch bearer — A
priest who bore a torch at the Mysteries. Titans — The beings who
made war against Kronos or Saturn. E. Poeoeke identifies them with the
Daittjas of India, who resisted the Brahmans. In the Orphic legend, they
are described as slaying the child Bacchus-Zagreus. Titanic —
Eelating to the nature of Titans. Transmigration — The passage of
the soul from one condition of being to another. This has not any
necessary reference to any rehabilitation in a corporeal nature, or body
of flesh and blood. See I Corinthians, XV. Virtue — A good
mental condition; a stable disposition. Virtues — Agencies, rites,
inflluences. Cathartic Virtues — Purify- ing rites or influences.
Wisdom — The knowledge of things as they exist ; " the
approach to God as the substance of goodness in truth."
World — The cosmos, the universe, as distinguished from the earth
and human existence upon it. /■ ('§
Eleusinian Priest and Assistants. Fortune and the
Three Fates. LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm
from the antique. A. L. RAWSON. A DESCRIPTION of tlie
illustrations to this volume properly includes the two or three theories
of human life held by the ancient Greeks, and the beautiful myth of
Demeter and Pro- serpina, the most charming of all mythological fancies,
and the Orgies of Bacchus, which together supplied the motives to
the artists of the originals from which these drawings were made.
From them* we learn that it was believed»that the soul is a part
of, or a spark from, the Great Soul of the Kosmos, the Cen- tral Sun of
the intellectual universe, and therefore immortal ; has lived before, and
will continue to hve after this '' body prison " is dissolved ; that
the river Styx is between us and the unseen world, and hence we have no
recollection of any former state of existence ; and that the body is
Hades, in which the soul is made to suffer for past misdeeds done in
the unseen world. Poets and philosophers, tragedians and
comedians, embel- lished the myth with a thousand fine fancies which were
248 List of Illustrations. 249 woven into
the ritual of Eleusis, or were presented in the theaters during the
Bacchic festivals. The pictures include, beside the costumes of
priests, jiriest- esses, and their attendants, and of the fauns and
satjrrs, many of the sacred vessels and implements used in celebrating
the Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which
were drawn by the ancient artists from the objects represented, and
their work has been carefully followed here. Page. 1.
Frontispiece. Sacrifice to Ceres. — Denhndler, sculptur. The
goddess stands near a serpent-guarded altar, on which a sheaf of grain is
aflame. Worshipers attend, and Jupiter approves. (See page 17.)
2. Decoratinq a Statue of Bacchus 4 — Bom. Campana. The
priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural vine with grape
clusters, and there are fruit and wine bearers. 3. Bacchantes with
Thyrsus and Flute 4 Two fragments. —Bom. Camp. 4.
Symbolical Ceremony. — Bom. Camp 4 Torch and thyrsus bearers and
faun. See cut No. 40, and page 208 for reference to pine nut.
5. Bacchus and Nymphs 5 6. Pluto, Proserpina, and Furies
5 — Galerie des Peintres. The Furies were said to be children
of Pluto and Proserpina ; other accounts say of Nox and Acheron, and
Acheron was a son of Ceres Avithout a father. (See page 65.)
7. Priestess with Amphora and Sacred Cake 6 8. Priestess with
Musical Instruments 6 9. Faun Kissing Bacchante. — Bourbon Mus
6 10. Faun and Bacchus. — Bourbon Mus 6 250 List
of Ilhistrations. Page. 11. Etruscan Y A^Y^.—MilUngen
7 See drawings on page lOG. 12. Mercury Presenting a
Soul to Pluto 8 — Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. I, 8.
13. Mystic Rites. — Arhniranda, tav. 17 8 14. Eleusinian
Ceremony. — Oes^. Benk. Alt. Kimst, II., 8 8 15. Bacchic Festival.—
JSarto?*, Admiranda, 43 9 Probably a stage scene. The cliaracters
are the king, who was an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician,
wine and fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy
re- moves the king's sandal. (See page 35.) 16. Apollo and
the Muses. — Florentine Museum 10 The muses were the daughters of
Jupiter and Mnemosyne ; that is, of the god of the present instant, and
of memory. Their office was, in part, to give information to any
inquiring soul, and to preside over the various arts and sciences.
They were called by various names derived from the places where
they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides, HeUconiades,
Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was called Musagetes, as their
leader and conductor. The palm tree, laurel, fountains on Helicon,
Parnassus, Pindus, and other sacred mountains, were sacred to the
muses. 17. Prometheus Forms a Woman 11 — Visconti, Mus.
Fio. Clem., IV., 34. Mercury, the messenger of the gods, brings a soul
from Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates
attend. The Athenians built an altar for the worship of Pro- metheus in
the grove of the Academy. 18. Procession of Iacchus and Phallus
16 — Montfaucon. From Athens to Eleusis, on the sixth day of
the Eleusinia. The statue is made to play its part in a mystic ceremony,
typi- fying the union of the sexes in generation. Attendant priest-
esses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit, vases
of wine, with clematis, and musical and sacrificial instni- ments. None
but women and children were permitted to take part in this ceremony. The
wooden emblem of fecundity was an object of supreme veneration, and the
ceremony of placing and hooding it. was assigned to the most highly
respected woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch
List of Illustrations. 251 Pagk. say the
phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the top of long
poles, and their bodies were stained with wine lees, and partly covered
with a lamb-skin, their heads crowned with a wreath of ivy. (See page
14.) 19, 20, 21. From Etruscan Vases — Florentine Museum. 22
Human sacrifice may be indicated in the lower group. 22.
Venus and Proserpina in Hades 28 — Galerie des Peintres. The
myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate to eat in Hades,
and so made her subject to the law which re- quired her to remain four
months of each year with Pluto in the Underworld, for Venus is the
goddess who presides over birth and growth in all cases. Cerberus (see
page 65) keeps guard, and one of the heads holds her garment, signifying
that his master is entitled to one-third of her time. 23.
Rape of Proserpina. Carried Down to Hades (Invisibility) — Flor.
Mus 29 See note, p. 152. 24. Pallas, Venus, and Diana
Consulting 30 — Gal. des Peint. Jupiter ordered these
divinities to excite desire in the heart of Proserpina as a means of
leading her into the power of the richest of all monarchs, the one who
most abounds in treasures. (See page 140.) 25. Dionysus as
God op the Sun 31 — Pit. Ant. Ercolmio. Dionysus — Bacchus —
symbolizes the sun as god of the sea- sons ; rides on a panther, pours
wine into a drinking-horn held by a satyr, who also carries a wine skin
bottle. The winged genii of the seasons attend. Winter carries two geese
and a cornu- copia ; Spring holds in one hand the mystical cist, and in
the other the mystic zone ; Summer bears a sickle and a sheaf of
grain ; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of fruits. Fauns,
satyrs, boy-fauns, the usual attendants of Bacchus, play with goats and
panthers between the legs of the larger figures. 26. Herse
and Mercury 42 — Pit. Ant. Ercolano. A fabled love match
between the god and a daughter of Cecrops, the Egyptian who founded
Athens, supplied the ritual for the festivals Hersephoria, in which young
girls of seven to eleven years, from the most noted families, dressed in
252 List of Illustrations. Page. white,
carried the sacred vessels and implements used in the Mysteries in
procession. Cakes of a peculiar form were made for the occasion.
27. Narcissus Sees His Image in Water 42 — P. Ovid.
Naso. The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to be
very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of the fountain
where he saw his face reflected, and failing, he drowned himself in
chagrin. The gods, unwilling to lose so much beauty, changed him into the
flower now known by his name. (See page 150.) 28. Jupiter as
Diana, and Calisto. — P. Ovid. Naso . . 62 The supreme deity of the
ancients, beside numerous marriages, was credited with many amours with
both divinities and mor- tals. In some of those adventures he succeeded
by using a disguise, as here in the form of the Queen of the Starry
Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of Lycaon, king
of Arcadia, an attendant on Diana. The com- panions of that goddess were
pledged to celibacy. Jupiter, in the form of a swan, surprised Leda, who
became mother of the Dioscuri (twins). 29. Diana and Calisto.
— Ovid. Naso, Neder 62 The fable says that when Diana and her
nymphs were bathing the swelling form of Calisto attracted
attention. It was re- ported to the goddess, when she punished the maid
by chang- ing her into the form of a bear. She would have been torn
in pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and trans-
lated her to the heavens, where she forms the constellation The Great
Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested Thetis to refuse the
Great Bear permission to descend at night beneath the waves of ocean, and
she, being also jealous of Poseidon, complied, and therefore the dipper
does not dip, but revolves close around the pole star. 30.
Bacchantes and Fauns Dancing 74 A stage ballet. — Bom. Campana,
37. 31. Hercules, Bull, and Priestess. — Bom. Camp 74
Bacchic orgies. 32. Fruit and Thyrsus Bearers. — Boiir. Mm
84 33. Torch-Bearer as Apollo. — Bourbon Mits 84 34.
Eleusinian Mysteries. — Florence 3Ius 94 List of
Illustrations. 253 r>- T-, Page, 60. Etruscan
Mystic Ceremony.— i?oH«. Camp 94 36. Etruscan Altar Group.— JPtor.
Mus 106 The mystic cist with serpent coiled around, the sacred
oaks, baskets, drinking-horns, zones, f estoou of branches and
flowers, make very pretty and impressive accessories to two
handsome priestesses. 37. Etruscan Bacchantes.— JfiZZm^en
106 These two groups were drawn from a vase (page 7) which is
a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols, accessories,
and all the details of implements used in the cele- bration of the
Mysteries are very carefully drawn on the vase, which is well preserved.
This vase is a strong proof of the antiquity of the orgies, for the
Etruscans, Tyrrheni, and Tusci were ancient before the Romans began to
build on the Tiber. 38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m
106 39. Satyr, Cupid and Venus.— ilfo>i?/a«cow; SculpUre .
110 Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real
animal, but science has dissipated that belief, and the monster has
been classed among the artificial attractions of the theater where it
belongs, and where it did a large share of duty in the Mysteries. They
were invented by the poets as an impersona- tion of the life that
animates the branches of trees when the wind sweeps through them,
meaning, whistling, or shrieking in the gale. They were said to be the
chief attendants on Bacchus, and to delight in revel and wine.
40. Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.—Montfaucon 110 The
many suggestive emblems in this picture form an instruc- tive group,
symbolic of Nature's life-renewing power. The ancients adored this power under
the emblems of the organs of generation. Many passages in the Bible
denounce that wor- ship, which is called " the grove," and
usually was an iipright stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as
in Rome, where it became a statue to the waist, as seen in the engrav-
ing. The Palladium at Athens was a Greek form. The Druzes of Mount
Lebanon in Syria now dispense with em- blems of wood and stone, and use
the natural objects in their mystic rites and ceremonies. 41.
Apollo and Daphne,— Galerie des Peint 118 The rising sun shines on
the dew-drops, and warming them as they hang on the leaves of the laurel
tree, they disappear, 254 List of lUiisfrations.
Page. leaving the tree ; and it is said by the poet that
Apollo loves and seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies
and is transformed into a laurel tree at the instant she is embraced
by the sun-god. 42. Diana and Endymion. — Bourbon 3Ius
118 Diana as the queen of the night loves Endymion, the
setting sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as
ever prevents them from enjoying each other's society. The fair
huntress sometimes is permitted, as when she is the new moon, or in the
first quarter, to approach near the place where her beloved one lingers
near the Hesperian gardens, and to follow him even to the Pillars of
Hercules, but never to embrace him. The new moon, as soon as visible,
sets near but not with the sun. Endymion reluctantly sinks behind the
western horizon, and would linger until the loved one can be folded in
his arms, but his duty calls and he must turn his steps toward the
Elysian Fields to cheer the noble and good souls who await his presence,
ever cheerful and benign. Diana follows closely after and is welcomed by
the brave and beautiful inhabitants of the Peaceful Islands, but while
receiving their homage her lover hastens on toward the eastern gates,
where the golden fleece makes the morning sky resplendent.
43. Ceres and the Car op Treptolemus 127 P. Ovid. Naso, Neder.
Triptolemus (the word means three plowings) was the founder of the
Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres with her car drawn by
winged dragons, in which he distributed seed grain all over the
world. 44. Pluto Marries Proserpina 127 — P. Ovid.
Naso, Neder. Jupiter is said to have consented to request of Pluto that
Proser- pina might revisit her mother's dwelling, and the picture
repre- sents him as very earnest in his appeal to his brother.
Since then the seed of grain has remained in the ground no longer
than four months ; the other eight it is above, in the regions of light.
In the engraving a curtain is held up by bronze figures. This seems
conclusive that it was a representation of a dra- matic scene. (See pp.
159, 186.) 45. Proserpina, according to the Greeks. — Heck...
138 46. Bacchus after the Visit to India. — Heck 138 A
Roman Figure of Geres.— Heck 138 Demeter, from Etruscan
Vase.— IfecZ; 138 49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the
Needlework of Proserpina.— Galerie des Peini . 142 50.
Proserpina Exposed to Pluto 152 — Ovid. Naso, Neder. There
may have been a mild sarcasm in this artist's mind when he drew the maid
as dallying with Cupid, and the richest mon- arch in all the earth in the
distance, hastening toward her. He succeeded, as is shown in the next
engraving. 51. Pluto Carrying Off Proserpina 152 — P.
Ovid. Naso, Neder. Eternal change is the universal law. Proserpina must
go down into the Underworld that she may rise again into light and
life. The seed must be planted under or into the soil that it may
have a new birth and growth. 52. Proserpina in Pluto's Court. —
Montfaucon 156 As a personation she was the "Apparent
Brilliance" of all fruits and flowers. 53. Ceres in
Hades. — Montfaucon 162 54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. —
Montfaucon .... 168 55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168
56. A Group of Deities. — Heck 168 Pan and Dionysus, Hygeia,
Hermes, Dionysus and Faunus, and Silenus. 57. Night with Her
Starry Canopy. — Heck 168 58. The Three Graces. — Heck 168
59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174 — Galerie des
Peint. 60. Prize Dance between a Satyr and a Goat 174 —
Anticld. 61. Baubo and Ceres at Eleusis. — Galerie des Peint.
174 See page 232. 256 List of Illustrations.
Page. 62. Psyche Asleep in Hades 186 — From the
ruins of the Bath of Titus, Rome. See page 45. 63. Nymphs of
the Four Rivers in Hades 187 — Tomb of the Nasons. "It
was easy for poets and mythographers, when they had once started the idea
of a gloomy land watered with the rivers of woe, to place Styx, the
stream which mates men shudder, as the boundary which separates it from
the world of Uving men, and to lead through it the channels of Lethe, in
which all things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with
shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."
Acheron, in the early myths, was the only river of Hades. 64.
Etruscan Vase Group. — MilUngen 198 65. Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?,
1 pJ. 27 198 66. Greek Convivial Scene. — Millin, 1 ^9^ 38
198 67. Faun and Bacchante. — Bour. Mus 206 68.
Thyrsus-Bearer. — Bourbon Museum 206 69. Bacchante and Faun.— 5o«r.
Mus 206 These three verj' graceful pictures were drawn from
paintings on walls in Herculaneum. 70. KiN<T, Torch,
Fruit, and Thyrsus Bearer 212 71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«,
Bassirilievi, 70 212 Here is an actual ceremony in which many
actors took parts ; with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux
(crier), bac- chantes, fauns, and other attendants on the celebration of
the Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings.
72. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220 —
Montfaucon. See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at
the Bacchic theaters, those dramas must have been very popular, and
justly so. To those theaters, which were supported by the government in
Athens and in many other cities througliout Greece, we owe the immortal
works of ^schylus and Soph- ocles. Page. 73,
Musical Conference (Epithalamium) 228 S. Bartoli, Admiranda, pi.
62, Written music was evidently used, for one of the company is
writing as if correcting the score, and writing with the left hand.
74. Venus Rising from the QEA.—Ovid. Naso, Verburg. 229 This
goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said she rose from the
sea — the morning sunlight on the foam of the sea on the shore of the
island Cythera, or Cyprus, or wherever the poet may choose as the favored
place for the manifestation of the generative power of nature, and
wherever flowers show her footprints. The loves bear aloft her
magic girdle, which Juno borrowed as a means of winning back
Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to her. Her
worship was the motive for building temples in Cy- thera and in Cyprus at
Amathus, Idalium. Golgoi, and in many other places. (See engravings 22,
39, and 49, and page 230.) 75, Jupiter Disguised as Diana, and
Calisto 234 — Ovid. Naso, Neder. The gods were said to have
the power, and to practice as- suming the form of any other of their
train, or of any animal. In these disguises they are supposed to play
tricks on each other as here. Diana is the queen of the night sky,
Calisto is one of her attendants, and many white clouds float over
the blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).
76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234 — Ovid. Naso,
Neder. The sun nears the end of the day's journey; he is aged and
weary ; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but stUl
Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the fair daughter of the
king of ^tolia, retires with him into exile. At a ford the hero entrusts
his bride to Nessiis the Centaur, to carry across the river. The ferryman
made love to the lady, and Hercules resented the indiscretion, and
wounded him by an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood
as a love charm in case her husband should love another woman.
Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped his shirt in
the blood of Nessus — the crimson' and scarlet clouds of a splendid
sunset are made glorious by the blood of Nessus, and Hercules is burnt on
the funeral pyre of scarlet and crimson sunset clouds.
258 List of Illustrations. Page. 77. The
Sacrifice. — Herculaneum, IV., 13 237 78. Hercules Drunk. — Zoegciy
BassirilievU tav. 67 238 79. Proserpina Enthroned in Hades- —
Archdol. Zeit. 240 The principle of growth rules the
Underworld. 80. Bacchante and Centaur. — Bourbon Mus .Bacchante and
Cbntauress.^ — Bourbon Mus 241 82. Eleusinian Priest and Assistants
247 83. The Fates. — Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248
84. Supper Scene 258 85. Bacchic Bull. — Antichi Ou
cover. Suppei- Scene. The Eleusinian and Bacchic mysteries.
Princeton Theological Semmary-Speer Library PHALLIC
WORSHIP PHALLIC WORSHIP A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES
OF THE SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS WITH THE
HISTORY OF THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF
PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM, BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES,
AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS LONDON
PRIVATELY PRINTED. The present somewhat slight sketch of a most
interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet
embraces the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some
of which being issued for private circulation only, are almost
unobtainable. During the past few years several philophical have been written upon ancient Roman Phallicism
in conjunction with other kindred matters f but not devoting themselves
entirely to one ancient mystery y the writers have only partially
ventilated the subject. The present work seeks to obviate this failing by
confining its attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of
the ancient world. Many of the topics have received only
slight treatmenty being little more than indicated ; but the work will
enable the reader to understand and possess the truth concerning
the Phallic Worship of the Ancients . Those who desire to know
more, or to authenticate the statements and facts given in this book ,
should consult the large and important works of Payne Knight , Higgins ,
Dulaure, Rolky Inman , and other writers . It was intended to
give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written on
the subject , but the length of the list prevented its being added. Sex
Worship has prevailed among all peoples of ancient times, sometimes
contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The
powers of nature were sexualised and endowed with the same feelings,
passions, and performing the same functions as human beings. Among
the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the Phallic Emblem was
worshipped, the idea was the same — the veneration of the generative
principle. Thus we find a close relationship between the various
mythologies of the ancient nations, and by a comparison of the creeds,
ideas, and symbols, can see that they spring from the same source,
namely, the worship of the forces and operations of nature, the original
of which was doubt- less Sun worship. It is not necessary to prove that
in primitive times the Sun must have been worshipped under various
names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life, and the Giver
of Food. In the earliest times the worship of the generative
power was of the most simple and pure character, rude in manner,
primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme power,
the Author of life. Afterwards the worship became more depraved,
a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were
not slow to take advantage of this state of affairs, and inculcated with
it profligate and mysterious ceremonies, union of gods with women,
religious prosti- tution and other degrading rites. Thus it was not
long before the emblems lost their pure and simple meaning and became
licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved
ceremonies at the worship of BACCO, who became, not only the
representative of the creative power, but the god of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing
to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical bliss, as
was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme
and governing deity, enthroned as the ruling God over all ; dissent
therefrom was impious and punished. The priests of the worship compelled
obedience. Monarchs complied to the prevailing faith and became willing
devotees to the shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO and
PRIAPO on the other, by appealing to the most animating passion of
nature. This is the worship of the reproductive powers, the sexual
appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male,
the active creative power ; the other the female or passive power ; ideas
which were represented by various emblems in different countries.These
emblems were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and primitive
people ; although doubtless by the common people the emblems were
worshipped themselves, even as at the present day in Roman Catholic
countries the more ignorant, in many cases, actually worship the images
and pictures themselves, while to the higher and more intelligent minds
they are only symbols of a hidden object of worship. In the same
manner, the concealed meaning or hidden truth was to the ignorant and
rude people of early times entirely unknown, while the priests and the
more learned kept studiously concealed the meaning of the ceremonies
and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with profligate,
debased ceremonies, and lascivious rites, which in time caused the more
pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism is not to be
judged from these sacred orgies, any more than Christianity from
the religious excitement and wild excesses of a few Christian sects
during the Middle Ages. In a work on the “ Worship of the
Generative Powers during the Middle Ages,” the writer traces the
superstition westward, and gives an account of its prevalence
through- out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain
have been found numerous relics and remains ; and many of our
ancient customs are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to
Britain,” says the writer, “ we find this worship established no less
firmly and extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic
bronzes. io Phallic Worship pottery covered with
obscene pictures, are found wherever there are any extensive remains of
Roman occupation, as our antiquaries know well. The numerous
Phallic figures in bronze found in England are perfectly identical
in character with those that occur in France and Italy.” All
antiquaries of any experience know the great number of obscene subjects
which are met with among the fine red pottery which is termed Samian
ware, found so abundantly in all Roman sites in our island. “ They
represent erotic scenes, in every sense of the word, with figures of
Priapus and Phallic emblems.” PHALLUS The Phallus, or
Lingam, which stood for the image of the male organ, or emblem of
creation, has been worshipped from time immemorial. Payne Knight
describes it as of the greatest antiquity, and as having prevailed in
Egypt and all over Asia. The women of the former country carried in
their re- ligious processions, a movable Phallus of
disproportionate magnitude, which Deodorus Siculus informs us
signified the generative attribute. It has also been observed among
the idols of the native Americans and ancient Scandinavians, while the
Greeks represented the Phallus alone, and changed the personified
attribute into a distinct deity, called Priapus. Phallus, or
privy member ( membrum virile ), signifies, “ he breaks through, or
passes into.” This word survives in German pfabl, and pole in English.
Phallus is supposed Phallic Worship ii
to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or phallo , “
to brandish preparatory to throwing a missile,” is so near in assonance
and meaning to Phallus, that one is quite likely to be parent of the
other. In Sanskrit it can be traced to phal> “ to burst,” “ to
produce,” “ to be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,”
and is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu deities.
Phallus, then, was the ancient emblem of creation : a divinity who was
companion to Bacchus. The Indian designation of this idol was
Lingam, and those who dedicated themselves to its service were to
observe inviolable chastity. “ If it were discovered,” says Crawford, “
that they had in any way departed from them, the punishment is death.
They go naked, and being considered as sanctified persons, the
women approach without scruple, nor is it thought that their
modesty should be offended by it.” SYMBOLS OR EMBLEMS
The Phallus and its emblems were representative of the gods
Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and Asher, who were all
Phallic deities. The symbols were used as signs of the great creative
energy or operating power of God from no sense of mere animal
appetite, but in the highest reverence. Payne Knight, describing
the emblems, says : — “ Forms and ceremonials of a religion are not
always to be understood in their direct and obvious sense, but are
to be considered as symbolical representations of some hidden meaning
extremely wise and just, though the symbols themselves, to those who know
not their true signification, may appear in the highest degree
absurd and extravagant. It has often happened that avarice and
superstition have continued these symbolical repre- sentations for ages
after their original meaning has been lost and forgotten; they must, of
course, appear nonsensical and ridiculous, if not impious and
extravagant. Such is the case with the rite now under
consideration, than which nothing can be more monstrous and
indecent, if considered in its plain and obvious meaning, or as
part of the Christian worship ; but which will be found to be a
very natural symbol of a very natural and philosophical system of
religion, if considered according to its original use and
intention.” The natural emblems were those which from their
character were most suitable representatives ; such as poles, pillars,
stones, which were sacred to Hindu, Egyptian, and Jewish
divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone,
to be found at Narmada and other places, which is sacred to the
Hindu deity Siva ; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are “ identical in shape, meaning, and purpose with the
‘ pillars ’ set up by the several patriarchs to mark their adoration of
the Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even
now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew
derivation being suspected.” Phallic Worship
*5 THE POLE The Pole was an emblem of the Phallus, and
with the serpent upon it, was a representative of its divine wisdom
and symbol of life. The serpent upon the tree is the same in character,
both are representative of the tree of life. The story of Moses will well
illustrate this, when he erected in the wilderness this effigy, which
stood as a sign of hope and life, as the cross is used by the
Catholics of the present day ; the cross then, as now, being simply
an emblem of the Creator, used as a token of resurrection or
regeneration. iEsculapius, as the restorer of health, has a rod or
Phallus with a serpent entwined. The Rev. M. Morris has shown that
the raising of the May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom
of India or Egypt, and is typical of the fructifying powers of
spring. The May festival was carried on with great
licentious- ness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic of
Paganism, and in their writings may be gleaned much of the licentious
character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan writer in the
reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England : “ Every
parishe, towne, and village assemble themselves together, bothe men,
women, and children, olde and younge even indiffer- ently ; and either
goyng all together, or devidyng themselves into companies, they go some
to the woods and groves, some to one place, some to another, where
thei spend all the night in pleasant pastymes ; and in the
14 Phallic Worship mornyng they returne, bryngyng with them
birch bowes and branches of trees, to deck their assemblies
withall. . . . But their cheerest jewell thei bryng from thence is
their Maie pole, whiche thei bryng home with great veneration, as thus :
thei have twentie or fortie yoke of oxen, every oxe havyng a sweet
nosegaie of flowers placed on the tippe of his homes, and these oxen
drawe home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which is
covered all over with flowers and hearbes, bound rounde aboute with
strynges from the top to the bottome, and sometyme painted with variable
colours, with two or three hundred men, women, and children, folio
wyng it with great devotion. And thus beyng reared up, with
handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei strawe the grounde
aboute, binde greene boughes aboute it, sett up sommer haules, bowers,
and arbours hard by it. And then fall thei to banquet and feast, to leape
and daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication
of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather the thyng
itself.” The ceremony was almost identical with the Roman
festival, where the Phallus was introduced with garlands. Both were
attended with the same licentiousness, for Stubbes gives a further
account of the depravity attending the festivities.
PILLARS Another type of emblem was the stone pillar, remains
of which still exist in the British Isles. These pillars or so
called crosses generally consist of a shaft of granite with
Phallic Worship iJ a carved head. In the West
of England crosses are very common, standing in the market and receiving
the name of “ The Cross.” These stone pillars were first erected
in honour of the Phallic deity, and on the introduction of
Christianity were not destroyed, but consecrated to the new faith,
doubtless to honour the prejudices of the people. These monolisks abound
in the Highlands, they are stones set up on end, some twenty-four or
thirty feet high, others higher or lower and this sometimes where no such
stones are to be quarried. We learn that the Bacchus of the
Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,
consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an account of this
practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as a custom for a
superstitious man, when he passed by these anointed stones in the streets
to take out a phial of oil and pour it upon them and having fallen
on his knees to make his adorations, and so depart. In various
parts of the Bible the Pillar is referred to as of a sacred character, as
in Isaiah xix. 19, 20, “ In that day shall there be an altar to Jehovah
in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the border thereof to
Jehovah, and it should be for a sign and a witness to the Lord.”
The Orphic Temples were doubtless emblems of the same principle of
the mystic faiths of the ancients, the same as the Round Towers of Ireland,
a history of which was collected by O’Brien, who describes the Towers
as “ Temples constructed by the early Indian colonists of the
country in honour of the Fructifying principle of nature, emanating as
was supposed from the Sun, or the deity of desire instrumental in that principle
of universal generativeness diffused throughout all nature.”
16 Phallic Worship According to the same author these towers
were very ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have
been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says O’Brien, “
designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower of Baal. Baal was the
name of the Phallic deity, and the priest who attended them ‘ Aoi
Bail-toir ’ or superin- tendent of Baal tower.” This Baal was
worshipped wherever the Phoenicians went, and was represented by a
pillar or stone or similar objects. The stone that Jacob set up, and
anointed as a rallying place for worship, became afterwards an object of
worship to the Phoenicians. The earliest navigators of the world
were the Phoenicians, they founded colonies and extended their
commerce first to the isles of the Mediterranean, from thence to
Spain, and then to the British Isles. Historians have accorded to them
the settlements of the most remote localities. They formed settlements in
Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the principal
settle- ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony
is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed themselves of
the best part of Spain. Where the Phoenicians settled, there they
introduced their religion, and it is in these countries we find the
remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES,
ETC. Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic
emblems. “ Their remains,” he says, “ are still extant, and appear to
have been composed of a crone set into the ground, and another placed
upon the point of it and so nicely balanced that the wind could move
it, though so ponderous that no human force, unaided by machinery,
can displace it; whence they are called * logging rocks * and * pendre
stones/ as they were anciently * living stones * and 4 stones of God/
titles which differ very little in meaning from that on the Tyrian
coins. Damascius saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis
or Baalbeck, in Syria, particularly one which was then moved by the wind
; and they are equally found in the Western extremities of Europe
and the Eastern extremities of Asia, in Britain, and in China.” Bryant
mentions it as very usual among the Egyptians to place with much labour
one vast stone upon another for a religious memorial. Such
immense masses, being moved by causes seeming so inadequate, must
naturally have conveyed the idea of spontaneous motion to ignorant observers,
and persuaded them that they were animated by an emanation of the
vital spirit, whence they were consulted as oracles, the responses of
which could always be easily obtained by interpreting the different
oscillatory movements into nods of approbation or dissent.
Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and many other
places, even in modern times. A physician, writing to Dr. Inman, says : “
I was in Egypt last winter (1865-66), and there certainly are numerous figures
of gods and kings, on the walls of the temple at Thebes, depicted
with the male genital erect. The great temple at Karnak is, in
particular, full of such figures, and the temple of Danclesa likewise,
though that is of much later date, and built merely in imitation of old
Egyptian art. The same inspiring bas-reliefs arc pointed out by
Ezek. B 1 8 Phallic Worship xxiii.
14. I remember one scene of a king (Rameses II) returning in triumph with
captives, many of whom were undergoing the process of castration.”
Obelisks were also representative of the same emblem. Payne Knight
mentions several terminating in a cross, which had exactly the appearance
of one of those crosses erected in churchyards and at cross roads for the
adoration of devout persons, when devotions were more prevalent
than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright
stones have all the same signification, and are means by which the male
element was symbolised. TRIADS The Triune idea is to be
found in the system of almost every nation. All have their Trinity in
Unity, three in one, which can be distinctly recognised in the
cross. The Triad is the male or triple, the constitution of the
three persons of most sacred Trinity forming the Triune system. In the
analysis of the subject by Rawlinson, we find the Trinity consisted of
Asshur or Asher, associated with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme
god of the Assyrians, represents the Phallus or central organ or
the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu was given to the right
testis, while that of Hea designated the left. It was only
natural that Asshur being deified, his appendages should be deified also.
“ Beltus,” says Inman, “ was the goddess associated with them, the
four together made up Arba or Arba-il, the four great gods,” the
Trinity in Unity. The idea thus broached receives Phallic
Worship *9 great confirmation when we examine the
particular stress laid in ancient times respecting the right and left side
of the body in connection with the Triad names given to offspring
mentioned in the scriptures with the titles given to Anu and Hea. The
male or active principle was typified by the idea of “solidity ” and “
firmness,” and the females or passive by the principles of “ water,” “
soft- ness,” and other feminine principles. Thus the goddess Hea
was associated with water, and according to Forlong, the Serpent, the
ruler ot the Abyss, was sometimes repre- sented to be the great Hea,
without whom there was no creation or life, and whose godhead embraced
also the female element water. Rawlinson also gives a similar
conclusion, and states as far as he could determine the third divinity or
left side was named Hea, and he considered this deity to correspond
to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the
abyss, and king of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach,
mankind, in common with all animal life, originally sprung from the sea ;
so physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring ; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the
supreme god of the Assyrians, 20 Phallic
Worship the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India ; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It is
remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which
properly should be called the symbol of symbols. One of the most
remarkable of these is a cross, in the form of the letter (T), which thus
served as the emblem of creation and generation before the Church adopted
it as a sign of salvation.” Another writer says, “ Reverse
the position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the
figure of the ancient ‘ tau * of the Christians, Greeks, and
ancient Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of the
cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian, Etruscan, original
Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and Pelasgian forms. The Ethiopic form of
the * tau ’ is the exact prototype and image of the cross, or rather, to
state the fact in order of merit and time, the cross is made in the
exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf, having three lobes to
it, became a symbol of the triad. As the male genital organs were held in
early times to exemplify the actual male creative power, various
natural objects were seized upon to express the theistic idea, and at the
same time point to those parts of the human form. Hence, a similitude was
recognised in a pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a
club between two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with
two ribbons with the two ends pendant, a thumb and two fingers, the
caduceus. Again, the conspicuous part of the sacred triad Asshur is
symbolised by a single stone placed upright — the stump of a tree, a
block, a tower, spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree,
while eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like
represented the remaining two portions, altogether called Phallic
emblems. Baal-Shalisha is a name which seems designed to perpetuate the
triad, since it signifies c my Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’
” We must not omit to mention other Phallic emblems, such as
the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed
stick, the crozier ; and still further per- sonified, as Bacchus,
Priapus, Dionysius, Hercules, Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter,
Moloch, Baal, Asher, and others. If Ezekiel is to be
credited, the triad, T, as Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and
silver, and was in his day not symbolically used, but actually
employed; 22 Phallic Worship for
he bluntly says “ whoredom was committed with the images of men/’ or, as
the marginal note has it, images of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was
with this god-mark — a cross in the form of the letter T — that Ezekiel
was directed to stamp the foreheads of the men of Judaea who feared
the Lord (Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual
origin we determine by a similar rule of research to that by which
comparative anatomists determine the place and habits of an animal by a
single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique
religious body physical, and that essentially human. A study of some of
the earliest forms of faith will lift the veil and explain the
mystery. India, China, and Egypt have furnished the world
with a genus of religion. Time and culture have divided and
modified it into many species and countless varieties. However much the
imagination was allowed to play upon it, the animus of that religion was
sexuality — worship of the generative principle of man and nature, male
and female. The cross became the emblem of the male feature, under
the term of the triad — three in one. The female was the unit ; and,
joined to the male triad, con- stituted a sacred four. Rites and
adoration were sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to
the two in one. So great was the veneration of the cross
among the ancients that it was carried as a Phallic symbol in the
religious processions of the Egyptians and Persians. Higgins also
describes the cross as used from the earliest times of Paganism by the Egyptians
as a banner, above which was carried the device of the Egyptian
cities. The cross was also used by the ancient Druids, who
held Phallic Worship 2 3 it as a
sacred emblem. In Egypt it stood for the significa- tion of eternal life.
Schedeus describes it as customary for the Druids “ to seek studiously
for an oak tree, large and handsome, growing up with two principal arms
in the form of a cross , besides the main stem upright. If the two
horizontal arms are not sufficiently adapted to the figure, they fasten a
cross-beam to it. This tree they consecrate in this manner : Upon the
right branch they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’
; upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9 ; upon
the left branch * Belenus * ; over this, above the going off of the arms,
they cut the name of the god Thau ; under all, the same repeated, Thau
” YONI There is in Hindostan an emblem of great
sanctity, which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of a
simple pillar in the centre of a figure resembling the outline of a
conical ear-ring. It is expressive of the female genital organ both in
shape and idea. The Greek letter “ Delta ” is also expressive of it,
signifying the door of a house. Yoni is of Sanskrit origin.
Yanna, or Yoni, means (i) the vulva, (2) the womb, (3) the place of
birth, (4) origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur
and Jupiter were the representatives of the male potency, so Juno and
Venus were representatives of the female attribute. Moore, in his “
Oriental Fragments,” says : “ Oriental writers have generally spelled the
word, * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam
24 Phallic Worship was the vocalised cognomen of the male
organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : “
The female organs of generation were revered as symbols of the
generative powers of nature or of matter, as those of the male were of
the generative powers of God. They are usually represented emblematically
by the shell Concha Veneris , which was therefore worn by devout
persons of antiquity, as it still continues to be by the pilgrims of many
of the common people of Italy ” (“ On the worship of Priapus,” p.
28). If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,
is supplied with types and representative figures of himself, so the
female feature is furnished with substitutes and typical imagery of
herself. One of these is technically known as the sistrum of
Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the fenestrum> or
opening, are bent so that they cannot be taken out, and indicate that the
door is closed. It signifies that the mother is still virgo intacta — a
truly immaculate female — if the truth can be strained to so
denominate a mother . The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now
adored was born. We might infer that Solomon was acquainted with the
figure of the sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my
spouse, a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv.
12). The sistrum , we are told, was only used in the worship of
Isis, to drive away Typhon (evil). The Argha is a contrite form, or
boat-shaped dish or plate used as a sacrificial cup in the worship of
Astarte, Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.
The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian monuments, and yet
more frequently on bas-reliefs. Phallic Worship
*3 Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the Father,
the Trinity ; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol,
Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma,
Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden ;
the cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others
; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus,
Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ;
the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark,
the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial
Virgin, and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian,
and visited the temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are
two Phalli standing in the porch with this inscription on them, “ These
Phalli I, Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The
Papal religion is essentially the feminine, and built on the ancient
Chaldean basis. It clings to the female element in the person of the
Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a descendant of such
worshippers, if there be any meaning in a concrete name. Bear in
mind, names and pictures perpetuate the faith of many peoples.
Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A1 or El being God, one of the
unavoidable renderings of Naphtali is “the Yoni is my God,” or “I worship
the Celestial Virgin.” The Philistine towns generally had names
strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or esby means “ fire,
heat,” and dod means “ love, to love,” “ boiled up,” “ be agitated,” the
whole signifying “ the heat of love,” or “ the fire which impels to
union.” Could not those people exclaim, Our " God is love ” ?
(i John iv. 8). The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.
26 Phallic Worship though the language is dressed in
the habiliments of seem- ing decency. The burden of thought of most of it
bears direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman say, “
He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S. i. 1 3). Again, of
the Phallus, or Linga, she says, “ I will go up the palm-tree, I will
take hold of the boughs thereof ” (vii. 8). Palm-tree and boughs are
euphemisms of the male genitals. The nations surrounding the Jews
practising the Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is
not to be supposed that the Jews escaped their influence. It is
indeed certain that the worship of the Phallics was a great and important
part of the Hebrew worship. This will be the more plainly seen when
we bear in mind the importance given to circumcision as a covenant
between God and man. Another equally suggestive custom among the
Patriarchs was the act of taking the oath, or making a sacred promise,
which is commented upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says
: “ Another primitive custom which obtained in the patriarchal age
was, that the one who took the oath put his hand under the thigh of the
adjurer (Gen. xxiv. 2, and xlvii. 29). This practice evidendy arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphe-
mistic expression thigh , was regarded as the most sacred part of the
body, being the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial
life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much
coveted by the ancients. Compare Gen. xlvi. 26 ; Exod. i. 5 ;
Judges vii. 30. Hence the creative organ became the symbol of the
Creator , and the object of worship among all nations of antiquity. It is
for this reason that God claimed it as a sign of the covenant between
himself and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing
therefore could render the oath more solemn in those days than touching
the symbol of creation, the sign of the covenant, and the source of that
issue who may at any future period avenge the breaking a compact made
with their progenitor.” From this we learn that Abraham, himself a
Chaldee, had reverence for the Phallus as an emblem of the Creator. We
also learn that the rite of circumcision touches Phallic or Lingasic worship.
From Herodotus we are informed that the Syrians learned
circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews. Says Dr. Inman : “I
do not know anything which illustrates the difference between ancient and
modern times more than the frequency with which circumcision is
spoken of in the sacred books, and the carefulness with which the subject
is avoided now.” The mutilation of male captives, as practised by
Saul and David, was another custom among the worshippers of Baal,
Asshur, and other Phallic deities. The practice was to debase the victims
and render them unfit to take part in the worship ?nd mysteries. * Some
idea can be formed of the esteem in which people in former times
cherished the male or Phallic emblems of creative power when we note the
sway that power exercised over them. If these organs were lost or
disabled, the unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of
the Lord, and disqualified to minister in the holy temples.
Excessive 28 Phallic Worship punishment
was inflicted upon the person who had the temerity to injure the sacred
structure. If a woman were guilty of inflicting injury, her hand was cut
off without pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration in
the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the
preservation of the germ of life. In the historical and
prophetic books of the Old Testament we have repeated evidence that the
Hebrew worship was a mixture of Paganism and Judaism, and that
Jehovah was worshipped in connection with other deities. Hezekiah is
recorded in 2 Kings xviii. 3, to have “ removed the high places, and
broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in
pieces the brazen serpent that Moses had made, for unto those days
the children of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred
groves here alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr.
Smith describes as the proper name of the goddess ; while Ashera is
the name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great
Monarchies of the Ancient World, describes Ashera to imply something that
stood straight up, and probably its essential element was the stem of a
tree, an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of
Life of the Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life,
was probably a pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus,
sometimes erected in a grove or sacred hollow, signifying the Yoni and
Lingi. We read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven
image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older reading is in
2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar. During the reigns
of the Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus of the Romans,
was extensively practised by the Jews. Pillars and groves were reared in
his name. In front of the Temple of Baal, in Samaria, was
erected an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived
the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple of Baal, he
allowed the Ashera to remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in
an important work on the origin of the legends of Abraham, Isaac, and
Jacob, undoubtedly proves that during the monarchial period of
Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between the two
kingdoms of Judah and Israel were between the Elohistic and Jehovahic
faiths, kept alive by the priesthood at the chief places of worship,
concerning the true patriarch, and each party manufacturing and
inserting legends to give a more ancient and important part to its
own faith. It is not at all improbable that the conflict was
between the two portions of the Phallic faith, the Lingam and Yoni
parties. The cause of this conflict was the erection of the consecrated
stones or pillars which were put up by the Hebrews as objects of Divine
worship. The altar erected by Jacob at Bethel was a pillar, for
according to Bernstein the word altar can only be used for the
erection of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar
of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the tomb of
Rachel. A great portion of the facts have been suppressed by
the translators, who have given to the world histories which have glossed
over the ancient rites and practices of the Jews. An instance
is given by Forlong on the important word “ Rock or Stone,” a Phallic
emblem to which the Jews addressed their devotions. He says, “It
should 30 Phallic Worship not be,
but I fear it is, necessary to explain to mere English readers of the Old
Testament that the Stone or Rock Tsur was the real old god of all Arabs ,
Jews, and Phoenicians, that this would be clear to Christians were the
Jewish writings translated according to the first ideas of the
people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God/ * Theos/ ‘
Lord,’ etc., being written where Tsur occurs . Numerous instances of this
are given in Dr. Ort’s worship of Baal in Israel, where praises,
addresses, and adorations are addressed to the Rock , instance, Deut.
xxxii. 4, 18. Stone pillars were also used by the Hebrews as a
memorial of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a
pillar as a witness, that he would not pass over it. Connected with
this pillar worship is the ceremony of anointing by pouring oil upon the
pillar, as practised by Jacob at Bethel. According to Sir W. Forbes, in
his Oriental Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is
practised at this day upon many a shapeless stone throughout
Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as
practising the same rite, and describes many of the stones found in
England as having a cavity at the top made to receive the offering. The
worship of Baal like the worship of Priapus was attended with
prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work : “ The women of every rank and condition held it to be an
indispensable duty of religion to prostitute themselves once in their
lives in her temple to any stranger who came and offered money, which,
whether little or much, was accepted, and applied to a sacred
purpose. Women sat in the temple of Venus awaiting the selection of
the stranger, who had the liberty of choosing whom Phallic
Worship 51 he liked. A woman once seated must remain until
she has been selected by a piece of silver being cast into her lap,
and the rite performed outside the temple.” Similar customs existed
in Armenia, Phrygia, and even in Palestine, and were a feature of the worship
of Baal Peor. The Hebrew prophets described and denounced these
excesses which had the same characteristics as the rites of the
Babylonian priesthood. The identical custom is referred to in 1 Sam. ii.
22, where “ the sons of Eli lay with the women that assembled at the door
of the tabernacle of the congregation.” Words and history
corroborate each other, or are apt to do so if contemporaneous. Thus
kadesh , or kaesb , designate in Hebrew “ a consecrated one,” and
history tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will
be shown in the sequel. That the religion was dominating and
imperative is determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous
refusal to listen to the priest was death to the offender. To us it is
inconceivable that the indulgence of passion could be associated with
religion, but so it was. Much as it is covered over by altered words and
substituted expressions in the Bible — an example of which see men
for male organ, Ezek. xvi. 17 — it yet stands out offensively bold. The
words expressive of “ sanctuary,” “ conse- crated,” and “ Sodomite,” are
in the Hebrew essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times ; and we find that “ holy women ” is a title given
to those who devote their bodies to be used for hire, the price of which
hire goes to the service of the temple. As a general rule, we
may assume that priests who make Phallic Worship
3 * or expound the laws, which they declare to be from
God, are men, and, consequently, through all time, have thought,
and do think, of the gratification of the masculine half of humanity. The
ancient and modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore ; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Ido/, selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh per- forming a wild and enticing dance ; likewise we
have the leaping of the prophets of Baal. It is again
significant that a great proportion of Bible names relate to “ divine,”
sexual, generative, or creative power ; such as Alah, “ the strong one ”
; Ariel, “ the strong Jas is El”; Amasai, “Jah is firm”; Asher,
<c the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is Jah ” ;
Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, iC El is upright ” ; Ara, “ the
strong one,” “ the hero ” ; Aram, " high,” or, “ to be uncovered ” ;
Baal Shalisha, “ my Lord the trinity,” or “ my God is three ” ;
Ben-zohett, M son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ;
Cainan, Phallic Worship 33 “ he
stands upright ” ; these are only a few of the many names of a similar
signification. It will be seen, from what has been given, that the
Jews, like the Phoenicians (if they were not the same), had the
same ceremonies, rites, and gods as the surrounding nations, but enough
has been said to show that Phallic worship was much practised by the
Jews. It was very doubtful whether the Jehovah-worship was not of a
monotheistic character, but those who desire to have a further insight
into the mysteries of the wars between the tribes should consult
Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following
interesting chapter is taken from a valuable book issued a few years ago
anonymously : “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of
the most general type. Religious genius gave the female quality to the
earth with a special meaning. When once the idea obtained that our world
was feminine , it was easy to induce the faithful to believe that natural
chasms were typical of that part which characterises woman. As at
birth the new being emerges from the mother, so it was supposed that
emergence from a terrestrial cleft was equivalent to a new birth. In
direct proportion to the resemblance between the sign and the thing
signified was the sacredness of the chink, and the amount of virtue
which was imparted by passing through it. From natural caverns being
considered holy, the veneration for apertures in stones, as being equally
symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are
still to be seen in those structures which are called Druidical, both
in the British Isles and in India. It is impossible to say when
these first arose ; it is certain that they survive in India to this day.
We recognise the existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i,
in the charge to look “ to the hole of the pit whence ye are digged.”
We have also an indication that chasms were symbolical among the
same people in Isaiah lvii. 5 , where the wicked among the Jews were
described as “ inflaming themselves with idols under every green tree,
and slaying the children in the valleys under the clefts of the rocks.”
It is possible that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a
similar signification. In modern Rome, in the vestibule of the
church close to the Temple of Vesta, I have seen a large perforated stone
, in the hole of which the ancient Romans are said to have placed their
hands when they swore a solemn oath, in imitation, or, rather, a
counterpart, of Abraham swearing his servant upon his thigh — that
is the male organ. Higgins dwells upon these holes, and says : “
These stones are so placed as to have a hole under them, through which
devotees passed for religious purposes. There is one of the same kind in
Ireland, called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham
Crags there is a place made for the devotees to pass through. We read in
the accounts of Hindostan that there is a very celebrated place in Upper
India, to which immense numbers of pilgrims go, to pass through a
place in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the Island of
Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there
is a natural crevice, which communicates with a cavity opening below.
This place is used by the Gentoos as a purification of their sins.
Phallic Worship 35 which they say is effected by their
going in at the opening below, and emerging at the cavity above — “ born
again.” The ceremony is in such high repute in the neighbouring
countries that the famous Conajee Angria ventured by stealth, one night,
upon the Island, on purpose to perform the ceremony, and got off
undiscovered. The early Christians gave them a bad name, as if from envy
; they called these holes “ Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis, p.
346) BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS The Romans
called the feasts of Bacchus, Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus
and Liber were the names for the same god, although the festivals were
celebrated at different times and in a somewhat different manner.
The latter, according to Payne Knight, was celebrated on the 17th of
March, with the most licentious gaiety, when an image of the Phallus was
carried openly in triumph. These festivities were more particularly
cele- brated among the rural or agricultural population, who, when
the preparatory labour of the agriculturist was over, celebrated with
joyful activity Nature’s reproductive powers, which in due time was to
bring forth the fruits. During the festival a car containing a huge
Phallus was drawn along accompanied by its worshippers, who in-
dulged in obscene songs and dances of wild and extrava- gant character.
The gravest and proudest matrons suddenly laid aside their decency and
ran screaming among the woods and hills half-naked, with
dishevelled hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.
}6 Phallic Worship The Bacchanalian
feasts were celebrated in the latter part of October when the harvest was
completed. Wine and figs were carried in the procession of the Bacchants,
and lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called
canephora , who carried baskets of fruit. These were followed by a
company of men who carried poles, at the end of which were figures representing
the organ of generation. The men sung the Phallica and were crowned
with violets and ivy, and had their faces covered with other kinds of
herbs. These were followed by some dressed in women’s apparel, striped with
white, reaching to their ancles, with garlands on their heads, and
wreaths of flowers in their hands, imitating by their gestures the
state of inebriety. The priestesses ran in every direction shouting and
screaming, each with a thyrsus in their hands. Men and women all intermingled,
dancing and frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus
says the festivals were carried into the night, and it was then
frenzy reached its height. He says, “ In performing the solemnity virgins
carry the thyrsus, and run about frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of
the god ; then the women in a body offer the sacrifices, and roar out
the praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation
of the ancient Maenades, who accompanied him.” These festivities were
carried into the night, and as the celebrators became heated with wine,
they degenerated into extreme licentiousness. Similar
enthusiastic frenzy was exhibited at the Luper- calian Feasts instituted
in honour of the god Pan (under the shape of a Goat) whose priests,
according to Owen in his Worship of Serpents , on the morning of the
Feast ran naked through the streets, striking the married women
they met on the hands and belly, which was held as an omen promising
fruitfulness. The nymphs performing the same ostentatious display as the
Bacchants at the festival of Bacchanalia. The festival of
Venus was celebrated towards the begin- ning of April, and the Phallus
was again drawn in a car, followed by a procession of Roman women to the
temple of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town and
its neighbourhood, called together by the sounding of horns, mixed with
the multitude in perfect nakedness, and excited their passions with
obscene motions and language until the festival ended in a scene of mad
revelry, in which all restraint was laid aside.” It is said
that these festivals took their rise from Egypt, from whence they were
brought into Greece by Metampus, where the triumph of Osiris was
celebrated with secret rites, and from thence the Bacchanals drew their
original ; and from the feasts instituted by Isis came the orgies
of Bacchus. DRUID AND HEBREW FAITHS It seems not
at all improbable that the deities wor- shipped by the ancient Britons
and the Irish, were no other then the Phallic deities of the ancient
Syrians and Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius
Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar, states that the
rites of Bacchus were celebrated in the British Isles ; while Strabo, who
lived in the time of Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier
writer described the worship of the Cabiri to have come
originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,
says, the supreme god above the rest was called Seodhoc and Baal. The name
of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and is the same as the
Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien, was the chief
deity of the Irish, in whose honour the round towers were erected,
which structures the ancient Irish themselves designated Bail-toir, or
the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be found a mention of a
similar pillar consecrated to Baal. Many of the same customs and
superstitions that existed among the Druids and ancient Irish, will
likewise be found among the Israelites. On the first day of May, the
Irish made great fires in honour of Baal, likewise offering him
sacrifices. A similar account is given of a custom of the Druids by
Toland, in an account of the festival of the fires ; he says : — “ on
May-day eve the Druids made prodigious fires on these earns, which
being everyone in sight of some other, could not but afford a glorious
show over a whole nation.” These fires are said to be lit even to the
present day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called by
them Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as given
them in the Highlands of Scotland. A similar practice to this will
be noticed as mentioned in the II Book of Kings, where the Canaanites in
their worship of Baal, are said to have passed their children through
the fire of Baal, which seems to have been a common practice, as
Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the same thing. Higgins
in his Anacalypsis y says this super- stitious custom still continues,
and that on “ particular days great fires are lighted, and the fathers
taking the children in their arms, jump or run through them, and
thus pass their children through them ; they also light two fires at a
little distance from each other, and drive their cattle between them.” It
will be found on reference to Deuteronomy, that this very practice is
specially for- bidden. In the rites of Numa, we have also the
sacred fire of the Irish ; of St. Bridget, of Moses, of Mithra, and
of India, accompanied with an establishment of nuns or vestal virgins. A
sacred fire is said to have been kept burning by the nuns of Kildare,
which was established by St. Bridget. This fire was never blown with
the mouth, that it might not be polluted, but only with bellows ;
this fire was similar to that of the Jews, kept burning only with peeled
wood, and never blown with the mouth. Hyde describes a similar fire which
was kept burning in the same way by the ancient Persians, who kept
their sacred fire fed with a certain tree called Hawm Mogorum ; and
Colonel Vallancey says the sacred fire of the Irish was fed with the wood
of the tree called Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at
Kildare, the glorious Bridget was rendered illustrious by many
miracles, amongst which was the sacred fire, which had been kept burning
by nuns ever since the time of the Virgin. The earliest
sacred places of the Jews were evidently sacred stones, or stone circles,
succeeded in time by temples. These early rude stones, emblems of
the Creator, were erected by the Israelites, which in no way
differed from the erections of the Gentiles. It will be found that the
Jews to commemorate a great victory, or to bear witness of the Lord, were
all signified by stones : thus, Joshua erected a stone to bear witness ;
Jacob put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the same
for a place of worship ; Samuel erected a stone as a boundary, which was
to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in
his travels names several that he saw in Palestine. It is curious
that where a pillar was erected there, sometime after, a temple was
put up in the same manner that the Round Towers of Ireland were, — always
near a church, but never formed part of it. We find many instances in the
Scriptures of the erection of a number of stones among the early
Israelites, which would lead us to conclude that it was not at all
unlikely that the early places of worship among them, were similar to the
temples found in various parts of Great Britain and Ireland. It is
written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up early in the morning, and
builded an altar under the hill, and twelve pillars, according to
the twelve tribes of Israel, were erected. It is also given out that when
the children of Israel should pass over the Jordan, unto the land which
the Lord giveth them, they should set up great stones, and plaster
them with plaster, and also the words of the law were to be written
thereon. In many other places stones were ordered to be set up in the
name of the Lord, and repeated instances are given that the stones should
be twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have
been erected in all countries of the world, and even in America, where,
among the early American races are to be found customs,
superstitions, and religious objects of veneration, similar to the
Phoenicians. An American writer says : — “ There is sufficient evidence
that the religious customs of the Mexicans, Peruvians and other American
races, are nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . .
. We moreover discover that many of their religious terms have,
etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his Worship of
Priapus, devotes much of his work to Phallic Worship
4i show that the temples erected at Stonehenge and
other places, were of a Phoenician origin, which was simply a
temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS
Of all the nations of antiquity the Persians were the most simple
and direct in the worship of the Creator. They were the puritans of the
heathen world, and not only rejected all images of God and his agents,
but also temples and altars, according to Herodotus, whose
authority we prefer to any other, because he had an opportunity of
conversing with them before they had adopted any foreign superstitions.
As they worshipped the ethereal fire without any medium of
personification or allegory, they thought it unworthy of the dignity
of the god to be represented by any definite form, or cir-
cumscribed to any particular place. The universe was his temple, and the
all-pervading element of fire his only symbol. The Greeks appear
originally to have held similar opinions, for they were long without
statues and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by
Adrastus — who lived in an age before the Trojan war — which consisted of
columns only, without wall or roof, like the Celtic temples of our
northern ancestors, or the Phyrcetheia of the Persians, which were
circles of stones in the centre of which was kindled the sacred fire,
the symbol of the god. Homer frequently speaks of places of worship
consisting of an area and altar only, which were probably enclosures like
those of the Persians, with an altar in the centre. The temples dedicated
to the creator Bacchus, which the Greek architects called hypathral
, seem to have been anciently of this kind, whence probably came
the title (“ surround with columns ”) attributed to that god in the
Orphic litanies. The remains of one of these are still extant at
Puzznoli, near Naples, which the inhabitants call the temple of Serapis ;
but the ornaments of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove
it to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same deity
worshipped under another form, being usually a personification of the
sun. The architecture is of the Roman times ; but the ground plan is
probably that of a very ancient one, which this was made to replace —
for it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,
published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which
enclose it are not properly parts of the temple, but apartments of the
priests, places for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to
the sub- ordinate deities, introduced by a more complicated and
corrupt worship and probably unknown to the founder of the original
edifice. The portico, which runs parallel with these buildings, encloses
the temenss , or area of sacred ground, which in the pyratheia of the
Persians was circular, but is here quadrangular, as in the Celtic
temple in Zeeland, and the Indian pagoda before described. In the
centre was the holy of holies, the seat of the god, consisting of a circle
of columns raised upon a basement, without roof or walls, in the middle
of which was probably the sacred fire or some other symbol of the deity.
The square area in which it stood was sunk below the natural level
of the ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been
occasionally floated with water; the drains and conduits being still to
be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents,
and various aquatic animals, which once adorned the basement. The Bacchus
here worshipped, was, as we learn from the Orphic hymn above cited, the
sun in his character of extinguisher of the fires which once pervaded the
earth. He is supposed to have done this by exhaling the waters of
the ocean and scattering them over the land, which was thus supposed to
have acquired its proper temperature and fertility. For this reason the
sacred fire, the essential image of the god, was surrounded by the
element which was principally employed in giving effect to the beneficial
exertion* of the great attribute. From a passage of Hecatasus,
preserved by Diodorus Siculus, it seems evident that Stonehenge and all
the monu- ments of the same kind found in the north, belong to the
same religion which appears at some remote period to have prevailed over
the whole northern hemisphere. According to that ancient historian, the
Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in
which Apollo was worshipped in a circular temple considerable for
its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of the Greeks of
that age, can mean no other than the sun, which according to Caesar was
worshipped by the Germans, when they knew of no other deities except fire
and the moon. The island can evidently be no other than Britain,
which at that time was only known to the Greeks by the vague reports of
the Phoenician mariners ; and so uncertain and obscure that Herodotus,
the most inquisitive and credulous of historians, doubts of its
existence. The circular temple of the sun being noticed in such slight
and imperfect accounts, proves that it must have been some- thing
singular and important ; for if it had been an inconsiderable structure,
it would not have been mentioned 44 Phallic
Worship at all ; and if there had been many such in the
country, the historian would not have employed the singular
number. Stonehenge has certainly been a circular temple,
nearly the same as that already described of the Bacchus at
Puzznoli, except that in the latter the nice execution and beautiful
symmetry of the parts are in every respect the reverse of the rude but
majestic simplicity of the former. In the original design they differ but
in the form of the area. It may therefore be reasonably supposed that
we have still the ruins of the identical temple described by
Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have received his
information from Phoenician merchants, who had visited the interior parts
of Britain when trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of
the same kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated
to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of
stone found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and
near Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion ; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name . — Payne Knight* s Worship of
Priapus. BUNS AND RELIGIOUS CAKES Says Hyslop : — “
The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter
Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The buns
known, too, by that identical name, were used in the worship of the
Phallic Worship 45 Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods,
was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes mentioned * they were
made of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was
familiar with this lecherous worship. He says : — “ The children
gather wood, the fathers kindle the fire, and the women knead the
dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does
not add that the “ buns ” offered to the Queen of Heaven, and in
sacrifices to other deities, were framed in the shape of the sexual
organs, but that they were so in ancient times we have abundance of
evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated ; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)
says : — “ When the people of Syracuse were sacrificing to goddesses,
they offered cakes called mullot , shaped like the female organ, and in
some temples where the priestesses were probably ventriloquists, they so
far imposed on the credulous multitude who came to adore the Vulva as
to make them believe that it spoke and gave oracles.” We can
understand how such things were allowed in licentious Rome, but we can
scarcely comprehend how they were tolerated in Christian Europe, as, to
all innocent surprise we find they were, from the second part of
the “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge, in
the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in
46 Phallic Worship the form of the Phallus are
made as offerings at Easter, carried and presented from house to house.
Dulare states that in his time the festival of Palm Sunday, in the
town of Saintes, was called le fete des pinnes — feast of the privy
members — and that during its continuance the women and children carried
in the procession a Phallus made of bread, which they called a pinne, at
the end of their palm branches ; these pinnes were subsequently
blessed by priests, and carefully preserved by the women during the
year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered, is a euphemism of the
male organ, and it is curious to see it united with the Phallus in
Christendom. Dulare also says that, in some of the earlier inedited
French books on cookery, receipts are given for making cakes of the
salacious form in question, which are broadly named. He further tells us
those cakes symbolized the male, in Lower Limousin, and especially at B
rives ; while the female emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and
other places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The ark of
the covenant was a most sacred symbol in the worship of the Jews, and
like the sacred boat, or ark of Osiris, contained the symbol of the
principle of life, or creative power. The symbol was preserved with
great veneration in a miniature tabernacle, which was considered the
special and sanctified abode of the god. In size and manner of
construction the ark of the Jews and the sacred chest of Osiris of the
Egyptians were Phallic Worship 47
exactly alike, and were carried in processions in a similar
manner The ark or chest of Osiris was attended by the
priests, and was borne on the shoulders of men by means of staves.
The ark when taken from the temple was placed upon a table, or stand,
made expressly for the purpose, and was attended by a procession similar
to that which followed the Jewish ark. According to Faber, the ark
was a symbol of the earth or female principle, containing the germ of all
animated nature, and regarded as the great mother whence all things
sprung. Thus the ark, earth, and goddess, were represented by common
symbols, and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”
The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians were the
Phallus, the Egg, and the Serpent ; the first representing the sun, fire,
and male or generative principle — the Creator ; the second, the passive
or female, the germ of all animated things — the Preserver ; and
the last the Destroyer : the Three of the sacred Trinity. The Hindu
women, according to Payne Knight, still carry the lingam, or consecrated
symbol of the generative attribute of the deity, in solemn procession
between two serpents ; and in a sacred casket, which held the Egg
and the Phallus in the mystic processions of the Greeks, was also a
Serpent. “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the
ancient religions.” It was often represented in the form of a boat, or
ship, as well as an oblong chest. The rites of the Druids, with those of
Phoenicia and Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or cavern,
held an important place in their mysteries. In the story of Osiris, like
that of the Siva, will be found the reason for the emblem being
carried in the sacred chest, and the explanation of one of 4
« Phallic Worship the mysteries of the Egyptian
priests. It is said that Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon,
who after cutting up the body, distributed the parts over the
earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought them back to Egypt
; but, being unable to find the part which distinguished his sex, she had
an image made of wood, which was enshrined in an ark, and ordered
to be solemnly carried about in the festivals she had instituted in
his honour, and celebrated with certain secret rites. The Egg,
which accompanied the Phallus in the ark was a very common symbol of the
ancient faiths, which was considered as containing the generation of
life. The image of that which generated all things in itself. Jacob
Bryant says : — “ The Egg, as it contained the principles of life was
thought no improper emblem of the ark, in which were preserved the future
world. Hence in the Dionysian and in other mysteries, one part of the
nocturnal ceremony consisted in the consecration of an egg.” This egg
was called the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of
salvation, the place of safety, the secret receptacle of the divine
wisdom. Hence we find the ark of the Jews containing the tables of
the law ; we find too that the Jews were ordered to place in the ark
Aaron’s rod, which budded, conveying the idea of symbolised fertility :
showing that the ark was considered as the receptacle of the life
principle — as an emblem of the Creator. With the Egyptians
Osiris was supposed to be buried in the ark, which represented the
disappearance of the deity. His loss, or death, constituted the first
part of the mysteries, which consisted of lamentations for his decease.
After the third day from his death, a procession went down to the
seaside in the night, carrying the ark with them. During
Phallic Worship 49 the passage they poured
drink offerings from the river, and when the ceremony had been duly
performed, they raised a shout that Osiris had again risen — that the
dead had been restored to life. After this followed the second or
joyful part of the mysteries. The similarity of this custom with
the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on
account of his resurrection on Easter Sunday, will be at once observed.
It is further said that the missing part of Osiris was eaten by a fish,
which made the fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and
Good Friday brought together, also the Egg, for the origin of the
Easter eggs is very ancient. A bull is represented as breaking an egg
with his horn, which signified the liberating of imprisoned life at the
opening or spring of the year, 'which had been destroyed by Typhon.
The opening of the year at that time commenced in the spring, pot
according to our present reckoning ; thus, the Egg was a symbol of the
resurrection of life at the spring, or our Easter time. The author of the
“ Worship of the Generative Powers,” describes the origin of the hot
cross- bun at Easter, which is a further parallelism of the
Christian and Pagan festivals. The author also draws a further
conclusion — that the cakes or buns have in reality a Phallic origin, for
in France and other parts, the Easter cakes were called after the membrun
virile. The writer says : — “ In the primitive Teutonic mythology,
there was a female deity named in old German, Ostara, and in
Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her is the simple
statement of our father of history, Bede, that her festival was
celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eoster- mona, and that the name of the goddess had been frequently
50 Phallic Worship given to the Paschal
time, with which it was identical. The name of this goddess was given to
the same month by the old Germans and by the Franks, so that she must
have been one of the most highly honoured of the Teutonic deities,
and her festival must have been a very important one and deeply implanted
in the popular feelings, or the Church would not have sought to identify
it with one of the greatest Christian festivals of the year. It is
under- stood that the Romans considered this month as dedicated to
Venus, no doubt because it was that in which the productive powers of
nature began to be visibly developed. When the Pagan festival was adopted
by the Church, it became a moveable feast, instead of being fixed to
the month of April. Among other objects offered to the goddess at this
time were cakes, made no doubt of fine flour, but of their form we are
ignorant. The Christians when they seized upon the Easter festival, gave
them the form of a bun, which indeed was at that time the ordinary
form of bread ; and to protect themselves and those who ate them from any
enchantment — or other evil influences which might arise from their
former heathen character — they marked them with the Christian symbol —
the cross. Hence we derived the cakes we still eat at Easter under
the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings attached to
them ; for multitudes of people still believe that if they failed to eat
a hot cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all the rest of the
year.” ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE
LOTUS The earliest capital seems to have been the bell or
seed vessel, simply copied without alteration, except a little expansion
at the bottom to give it stability. The leaves of some other plant were
then added to it, and varied in different capitals according to the
different meanings intended to be signified by the accessory
symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with the
foliage of various plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the
aquatic kind, which are, however, generally so transformed by excessive
attention to elegance, that it is difficult to distinguish them. The most
usual seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted
as a mystic symbol for the same reasons as the olive, it being equally
remarkable for its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large
wood of it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so
that we reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in
the same symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it
about the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any
of their buildings of a much earlier date ; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital from
observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit, being
fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo ; its capital being the same •eed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and Phallic Worship 5
Z dry — the only state probably in which it had been seen in
Europe. The flutes in the shaft were made to hold spears and staves,
whence a spear-holder is spoken of in the “ Odyssey ” as part of a
column. The triglyphs and blocks of the cornice were also derived from
utility, they having been intended to represent the projecting ends
of the beams and rafters which formed the roof. The Ionic capital
has no bell, but volutes formed in imitation of sea-shells, which have
the same symbolical meaning. To them is frequently added the ornament
which architects call a honeysuckle, but which seems to be meant
for the young petals of the same flower viewed horizontally, before they
are opened or expanded. Another ornament is also introduced in this
capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact,
composed of eggs and spear-heads, the symbols of female generation
and male destructive power, or in the language of mythology, of Venus and
Mars . — Payne Knight . BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP
Stripped, however, of all this splendour and magnifi- cence it was
probably nothing more than a symbolical instrument, signifying originally
the motion of the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of
Cybele, the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have
overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her
sistrum, and the ringing of the bells and clatter of metals were almost
universally employed as a means of consecration, and a charm against
the Phallic Worship 53 destroying
and inert powers. Even the Jews welcomed the new moon with such noises,
which the simplicity of the early ages employed almost everywhere to
relieve her during eclipses, supposed then to be morbid affections
brought on by the influence of an adverse power. The title Priapus y by
which the generative attribute is dis- tinguished, seems to be merely a
corruption of Briapuos (clamorous) ; the beta and pi being commutable
letters, and epithets of similar meaning, being continually applied
both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic figures, too,
still extant, have bells attached to them, as the symbolical statues and
temples of the Hindus are ; and to wear them was a part of the worship
of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find them of
extremely small size, evidently meant to be worn as amulets with the
phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians and also the
high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to their sacerdotal
garments ; and the Brahmins still continue to ring a small bell at
the interval of their prayers, ablutions, and other acts of
devotion ; which custom is still preserved in the Roman Catholic Church
at the elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel
or pan, on the death of their kings, and we still retain the custom
of tolling a bell on such occasions, though the reason of it is not
generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing . 1 It will be observed that the bells used by
the Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight's "Symbolical Language of ancient
Art and Mythology." Phallic Worship
54 monks for over 2,000 years. Tinkling bells were suspended
before the shrine of Jupiter Ammon, and during the service the gods were
invited to descend upon the altars by the ringing of bells ; they were
likewise sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,
and were worn on the garments of the Bacchantes, much in the same manner
as they are used at our carnivals and masquerades. HINDU
PHALLICISM The following curious fable is given by Sir
William Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin
of Phallic devotion : — “ Certain devotees in a remote time had
acquired great renown and respect, but the purity of the art was wanting,
nor did their motives and secret thoughts correspond with their
professions and exterior conduct. They affected poverty, but were
attached to the things of this world, and the princes and nobles were
constantly sending their offerings. They seemed to sequester them-
selves from this world ; they lived retired from the towns ; but their
dwellings were commodious, and their women numerous and handsome. But
nothing can be hid from their gods, and Sheevah resolved to put them to
shame. He desired Prakeety (nature) to accompany him ; and assumed
the appearance of a Pandaram of a graceful form. Prakeety was herself a
damsel of matchless worth. She went before the devotees who were
assembled with their disciples, awaiting the rising of the sun, to
perform their ablutions and religious ceremonies. As she advanced
Phallic Worship 55 the refreshing breeze
moved her flowing robe, showed the exquisite shape which it seemed
intended to conceal. With eyes cast down, though sometimes opening with
a timid but tender look, she approached them, and with a low
enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice. The devotees
gazed on her with astonishment. The sun appeared, but the purifications
were forgotten ; the things of the Poo j ah (worship) lay neglected ;
nor was any worship thought of but that of her. Quitting the
gravity of their manners, they gathered round her as flies round the lamp
at night — attracted by its splendour, but consumed by its flame. They
asked from whence she came ; whither she was going. ‘ Be not offended
with us for approaching thee, forgive us our importunities. But thou art
incapable of anger, thou who art made to convey bliss ; to thee, who
mayest kill by indifference, indignation and resentment are unknown. But
whoever thou mayest be, whatever motive or accident might have
brought thee amongst us, admit us into the number of thy slaves ; let us
at least have the comfort to behold thee.’ Here the words faltered on the
lip, and the soul seemed ready to take its flight ; the vow was
forgotten, and the policy of years destroyed. “ Whilst the
devotees were lost in their passions, and absent from their homes,
Sheevah entered their village with a musical instrument in his hand,
playing and singing like some of those who solicit charity. At the sound
of his voice, the women immediately quitted their occupation ; they
ran to see from whom it came. He was as beautiful as Krishen on the
plains of Matra. Some dropped their jewels without turning to look for
them ; others let fall their garments without perceiving that they
discovered those abodes of pleasure which jealousy as well as
decency had ordered to be concealed. All pressed forward
with their offerings, all wished to speak, all wished to be taken
notice of, and bringing flowers and scattering them before him, said — ‘
Askest thou alms ! thou who are made to govern hearts. Thou whose
countenance is as fresh as the morning, whose voice is the voice of
pleasure, and they breath like that of Vassant (Spring) in the opening
of the rose I Stay with us and we will serve thee ; nor will we
trouble thy repose, but only be zealous how to please thee/ The Pandaram
continued to play, and sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen
and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. . . .
“ But the desire of repose succeeds the waste of pleasure. Sleep
closed the eyes and lulled the senses. In the morning the Pandaram was
gone. When they awoke they looked round with astonishment, and again
cast their eyes on the ground. Some directed to those who had
formerly been remarked for their scrupulous manners, but their faces were
covered with their veils. After sitting awhile in silence they arose and
went back to their houses, with slow and troubled steps. The
devotees returned about the same time from their wanderings after
Prakeety. The days that followed were days of embarrass- ment and shame.
If the women had failed in their modesty, the devotees had broken their
vows. They were vexed at their weakness, they were sorry for what
they had done ; yet the tender sigh sometimes broke forth, and the eyes
often turned to where the men first saw the maid — the women, the
Pandaram. “But the women began to perceive that what the
devotees foretold came not to pass. Their disciples, in consequence,
neglected to attend them, and the offerings from the princes and nobles
became less frequent than Phallic Worship
57 before. They then performed various penances ; they
sought for secret places among the woods unfrequented by man ; and having
at last shut their eyes from the things of this world, retired within
themselves in deep meditation, that Sheevah was the author of their
misfortunes. Their understanding being imperfect, instead of bowing the
head with humility, they were inflamed with anger ; instead of contrition
for their hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new
sacrifices and incantations, which were only allowed to have effect in
the end, to show the extreme folly of man in not submitting to the will
of heaven. “ Their incantations produced a tiger, whose mouth
was like a cavern and his voice like thunder among the mountains. They
sent him against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the
vale. He smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow
with his club, he covered himself with his skin. Seeing them-
selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another,
and sent serpents against him of the most deadly kind ; but on
approaching him they became harmless, and he twisted them round his neck.
They then sent their curses and imprecations against him, but they
all recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices ; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire with indignation against the human race ; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties
JS Phallic Worship Sheevah relented ; but it
was ordained that in his temples those parts should be worshipped \ which
the false doctrines had impiously attempted to destroy.” THE
CROSS AND ROSARY The key which is still worn with the Priapic hand,
as an amulet, by the women of Italy appears to have been an emblem
of the equivocal use of the name, as the language of that country
implies. Of the same kind, too, appears to have been the cross in the
form of the letter tau> attached to a circle, which many of the
figures of Egyptian deities, both male and female, carry in their left
hand ; and by the Syrians, Phoenicians and other inhabitants of
Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as the
emblem or image of that goddess. The cross in this form is sometimes
observable on coins, and several of them were found in a temple of
Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by the
Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries of
that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims ; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the early
coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. BEADS Beads were anciently
used to reckon time, and a circle, being a line without termination, was
the natural emblem of its perpetual continuity ; whence we often find
circles of beads upon the heads of deities, and enclosing the
sacred symbols upon coins and other monuments. Perforated beads are also
frequently found in tombs, both in the northern and southern parts of
Europe and Asia, whence are fragments of the chaplets of
consecration buried with the deceased. The simple diadem, or
fillet, worn round the head as a mark of sovereignty, had a similar
meaning, and was originally confined to the statues of deities and
deified personages, as we find it upon the most ancient coins. Chryses,
the priest of Apollo, in the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred
fillet, of the god upon his sceptre, as the most imposing and
invocable emblem of sanctity ; but no mention is made of its being
worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any other ensign of
temporal power and command, except the royal staff or sceptre.
THE LOTUS The double sex typified by the Argha and its
contents is by the Hindus represented by the “ Mymphcea ” or Lotus,
floating like a boat on the boundless ocean, where the whole plant
signifies both the earth and the two principles of its fecundation. The
germ is both Meru and the Linga ; the petals and filaments are the
mountains 6o Phallic Worship which
encircle Meru, and are also a type of the Yoni; the leaves of the calyx
are the four vast regions to the cardinal points of Meru ; and the leaves
of the plant are the Dwipas or isles round the land of Jambu. As
this plant or lily was probably the most celebrated of all the
vegetable creation among the mystics of the ancient world, and is to be
found in thousands of the most beautiful and sacred paintings of the Christians
of this day — I detain my reader with a few observations respecting it.
This is the more necessary as it appears that the priests have now
lost the meaning of it ; at least this is the case with everyone of whom
I have made enquiry ; but it is like many other very odd things, probably
understood in the Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that
among the different plants which ornament our globe, there is not
one which has received so much honour from man as the Lotus or Lily, in
whose consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float.
This is the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in
oriental mythology, and in truth not without reason, for it is itself a
lovely prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere
held in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins’s Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : — “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This
plant grows in the water, among its broad leaves puts forth a
flower, in the centre of which is formed the seed vessel.
Phallic Worship 6x shaped like a bell or
inverted cone, and perforated on the top with little cavities or cells,
in which the seeds grow. The orifices of these cells being too small to
let the seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants
in the places where they are formed : the bulb of the vessel
serving as a matrix to nourish them, until they acquire such a degree of
magnitude as to burst it open and release themselves, after which, like
other aquatic weeds, they take root wherever the current deposits them.
This plant, therefore, being thus productive of itself, and
vegetating from its own matrix, without being fostered in the earth, was
naturally adopted as the symbol of the productive power of the waters,
upon which the active spirit of the Creator operated in giving life and
vegetation, to matter. We accordingly find it employed in every
part of the northern hemisphere, where the symbolical religion,
improperly called idolatry , does or ever did prevail. The sacred images
of ihe Tartars, Japanese, and Indians are almost placed upon it, of which
numerous instances occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat,
etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his Lotus
throne, and the figure upon the Isaaic table holds the stem of this plant
surmounted by the seed vessel in one hand, and the Cross representing the
male organs of generation in the other ; thus signifying the
universal power, both active and passive, attributed to that
goddess.” Nimrod says : — “ The Lotus is a well-known
allegory, of which the expansive calyx represents the ship of the
gods floating on the surface of the water ; and the erect flower arising
out of it, the mast thereof. The one was the galley or cockboat, and the
other the mast of cockayne ; but as the ship was Isis or Magna Mater, the
female principle, and the mast in it the male deity, these parts of
62 Phallic Worship the flower came to
have certain other significations, which seem to have been as well known
at Samosata as at Benares. This plant was also used in the sacred offices
of the Jewish religion. In the ornaments of the temple of Solomon,
the Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis is frequently
represented holding the stem of the plant in one hand, and the cross and
circle in the other. Columns and capitals resembling the plant are
still existing among the ruins of Thebes, in Egypt, and the island of
Philce. The Chinese goddess, Pussa, is represented sitting upon the
Lotus, called in that country Lin, with many arms, having symbols signifying
the various operations of nature, while similar attributes are expressed
in the Scandinavian goddess Isa or Disa. The Lotus is also a
prominent symbol in Hindu and Egyptian cosmogony. This plant appears to
have the same tendency with the Sphinx, of marking the connection
between that which produces and that which is produced. The Egyptian
Ceres (Virgo) bears in her hand the blue Lotus, which plant is
acknowledged to be the emblem of celestial love so frequently seen
mounted on the back of Leo in the ancient remains. The following is a
translation of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,
and will be found interesting as showing the importance attached to the
Lotus in the worship of the ancients : — “ We find Brahma emerging from
the Lotus. The whole universe was dark and covered with water. On
this primeval water did Bhagavat (God), in a masculine form, repose
for the space of one Calpho (a thousand years) ; after which period the
intention of creating other beings for his own wise purposes became
pre- dominant in the mind of the Great Creator . In the first
Phallic Worship 65 place, by his
sovereign will was produced the flower of the Lotus, afterwards, by the
same will, was brought to light the form of Brahma from the said flower ;
Brahma, emerging from the cup of the Lotus, looked round on all the
four sides, and beheld from the eyes of his four heads an immeasurable
expanse of water. Observing the whole world thus involved in darkness and
submerged in water, he was stricken with prodigious amazement, and began
to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? * * whence came
I ? 9 ' and where ami?’ “ Brahma, thus kept two hundred years in
contem- plation, prayers, and devotions, and having pondered in his
mind that without connection of male and female an abundant generation
could not be effected — again entered into profound meditation on the
power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man of
perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus : — ■* O Bhagavat 1 since thou broughtest
me from nonentity into existence for a particular purpose,
accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small
white boar appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now
felt God in all, and that all is from Him, and all in Him. At length
the power of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began
to use the instinct of that animal. Having divided the water, he saw the
earth a mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous
globe (freed from the water) and spread the earth like a carpet on
the face of the water ; Brahma, contemplating the whole earth, performed
due reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling 6 4 Phallic Worship the
renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the first land said to have
appeared, but with the Brahmins it is a disputed point, for many affirm
that Cast or Benares was the sacred ground. MERU
The learned Higgins, an English judge, who for some years spent ten
hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of Isaiah and
Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the Greeks.
Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which
because mounts of Venus, mons veneris — Meru and Mount Calvary — each a
slightly skull-shaped mount, that might be represented by a bare head.
The Bible translators perpetuate the same idea in the word “ calvaria.”
Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name from its
being the place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere and in
earlier times for the bare calvaria, we find among Oriental women, the
Mount of Venus, mons veneris > through motives of neatness or
religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see
Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a priest. The
priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave the head. To
make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of Thibet,
it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni, or
Arba. Phallic Worship 65 LINGAM IN THE TEMPLE OF
ELORA This marvellous work of excavation by the slow process of
the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards published a
volume describing the temple and its vast statues. The beauty of its
architectural ornaments, the innumerable statues or emblems, all hewn out
of solid rock, dispute with the Pyramids for the first place among
the works undertaken to display power and embody feeling. The stupendous
temple is detached from the neighbouring mountain by a spacious area all
round, and is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to
the height of 100 feet and in length about 145 feet. It has
well-formed doorways, windows, staircases, upper floors, containing fine
large rooms of a smooth and polished surface, regularly divided by rows
of pillars ; the whole bulk of this immense block of isolated excavation
being upwards of 500 feet in circumference, and having beyond its
areas three handsome figure galleries or verandas supported by regular
pillars. Outside the temple are two large obelisks or phalli standing, “
of quadrangular form, eleven feet square, prettily and variously carved,
and are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the
pedestal is seven feet two inches, being larger at the base than
Cleopatra’s Needle.” In one of the smaller temples was an image of
Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily
strewed on its circular top. This Lingam is larger than usual, occupying
with the altar, a great part of the room. In most Ling rooms a sufficient
space is left for the votaries to walk round whilst making the usual
invocations to the deity (Maha Deo). This deity is much frequented
by female votaries, who take especial care to keep it clean
E 66 Phallic Worship washed,
and often perfume it with oderiferous oils and flowers, whilst the
attendant Brahmins sweep the apartment and attend the five oil lights and
bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni (circular frame), into
which the light itself was placed. No symbol was more venerated or
more frequently met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “
Barren women constantly resort to it to supplicate for children,” says
Seeley. The mysteries attended upon them is not described, but doubtless
they were of a very similar character to those described by the
author of the “ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,”
showing again the similarity of the custom with those practised by the
Catholics in France. The writer says : — “ Women sought a remedy for barren-
ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they appear to have
placed a part of their body, naked, against the image of the saint, or to
have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold an adoption of
the indecencies of Pagan worship to last long, or to be practised openly
; but it appears to have been innocently represented by lying upon
the body of the saint, or sitting upon a stone, understood to represent
him without the presence of the energetic member. In a corner in the
church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is
a stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity
upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing should intervene
between their bare skin and the stone. In the church of Orcival in
Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the same
purpose and which had perhaps replaced some less equivocal object.”
The principal object of worship at Elora is the stone, so
frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he apologises for
using the word so often, but asks to be Phallic
Worship 67 excused, “ is an emblem not generally
known, but as frequently met with as the Cross in Catholic
worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative character,
the base of which is usually inserted in the Yoni. The stone is of a
conical shape, often black stone, covered with flowers (the Bella and
Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the Ling stone
to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same as
the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in the worship at
the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is often seen on the
top of the Ling. VENUS-URANIA. — THE MOTHER GODDESS The
characteristic attribute of the passive generative power was expressed in
symbolical writing, by different enigmatical representations of the most
distinguished characteristic of the female sex : such as the shell
or Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter
Delta, all of which occur very frequently upon coins and other ancient
monuments in this sense. The same attribute personified as the goddess of
Love, or desire, is usually represented under the voluptuous form of
a beautiful woman, frequently distinguished by one of these
symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names of rather
uncertain mythology. She is said to be the daughter of Jupiter and Dione,
that is of the male and female personifications of the all-pervading Spirit
of the Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and there-
fore associated with him in the most ancient oracular
68 Phallic Worship temple of Greece at Dodona.
No other genealogy appears to have been known in the Homeric times ;
though a different one is employed to account for the name of
Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod. The
Genelullides or Genoidai were the original and appropriate ministers or
companions of Venus, who was however, afterwards attended by the Graces,
the proper and original attendants of Juno ; but as both these
goddesses were occasionally united and represented in one image, the
personifications of their respective sub- ordinate attributes were on
other occasions added : whence the symbolical statue of Venus at Paphos
had a beard, and other appearances of virility, which seems to have
been the most ancient mode of representing the celestial as distinguished
from the popular goddess of that name — the one being a personification
of a general procreative power, and the other only of animal desire
or concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when
advanced to maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them
; and, in a celebrated work of Phidias, we find the former represented
with her foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of
Scopas, the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an
androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ;
and the goat was equally appropriate to what was meant to be expressed in
the other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the
Phallic Worship 69 Phallus in the ancient
processions in honour of Bacchus, and still continuing among the common
people of Italy to be an emblem of what it anciently meant : whence
we often see portraits of persons of that country painted with it in one
hand, to signify their orthodox elevation to the fair sex. Hence, also
arose the Italian expression far la fica , which was done by putting the
thumb between the middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic
orna- ments extant ; or by putting the finger or thumb into the
corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF
THE WORLD-RELIGIONS The same liberal and humane spirit still
prevails among those nations whose religion is founded on the same
principles. “ The Siamese,” says a traveller of the seventeenth century,
“ shun disputes and believe that almost all religions are good ” (“
Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked
their king, in his master’s name, to embrace Christianity, he
replied, “ that it was strange that the king of France should interest
himself so much in an affair which concerns only God, whilst He, whom it
did concern, seemed to leave it wholly to our discretion. Had it been
agreeable to the Creator that all nations should have had the same
form of worship, would it not have been as easy to His omnipotence to
have created all men with the same send- 7 °
Phallic Worship merits and dispositions, and to have inspired them
with the same notions of the True Religion, as to endow them with
such different tempers and inclinations ? Ought they not rather to
believe that the true God has as much pleasure in being honoured by a
variety of forms and ceremonies, as in being praised and glorified by a
number of different creatures ? Or why should that beauty and
variety, so admirable in the natural order of things, be less
admirable or less worthy of the wisdom of God in the supernatural ?
” The Hindus profess exactly the same opinion. “ They would
readily admit the truth of the Gospel,” says a very learned writer long
resident among them, “ but they contend that it is perfectly consistent
with their Shastras. The Deity, they say, has appeared innumerable times
in many parts of this world and in all worlds, for the salvation of
his creatures ; and we adore, they say, the same God, to whom our several
worships, though different in form, are equally acceptable if they be
sincere in substance.” The Chinese sacrifice to the spirits of the
air the mountains and the rivers ; while the Emperor himself
sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all these spirits are
subordinate, and from whom they are derived. The sectaries of Fohi have,
indeed, surcharged this primitive elementary worship with some of
the allegorical fables of their neighbours ; but still as their
creed — like that of the Greeks and Romans — remains undefined, it admits
of no dogmatical theology, and of course no persecution for opinion.
Obscure and sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed
on many occasions ; but still as actions and not as opinions.
Atheism is said to have been punished with death at Athens ; but
nevertheless it may be reasonably doubted Phallic
Worship 7i whether the atheism, against which the
citizens of that republic expressed such fury, consisted in a denial of
the existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged to fly
for this crime, was accused of revealing and calum- niating the doctrines
taught in the Mysteries ; and from the opinions ascribed to Socrates,
there is reason to believe that his offence was of the same kind, though
he had not been initiated. These were the only two martyrs to
religion among the ancient Greeks, such as were punished for actively
violating or insulting the Mysteries, the only part of their
worship which seems to have possessed any vitality ; for as to the
popular deities, they were publicly ridiculed and censured with impunity
by those who dared not utter a word against the populace that worshipped
them ; and as to the forms and ceremonies of devotion, they were
held to be no otherwise important, then as they were constituted a part
of civil government of the state ; the Phythian priestess having
pronounced from the tripod, that whoever performed the rites of his
religion according to the laws of his country , performed them in a
manner pleasing to the Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in
the religious institutions of any of the conquered countries ; but
allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant as they pleased,
and to enforce their absurdities and extravagances wherever they had any
pre-existing laws in their favour. An Egyptian magistrate would put
one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora monkey ; and
though the religious fanaticism of the Jews was too sanguinary and too
violent to be left entirely free from restraint, a chief of the synagogue
could order anyone of his congregation to be whipped for neglecting
or violating any part of the Mosaic Ritual. 7* Phallic
Worship The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of
one plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist ot
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all
rites of worship and forms of devotion were directed to the same end,
though in different modes and through different channels. <c Even they
who worship other gods , says Krishna, the incarnate Deity, in an ancient
Indian poem ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they know it
not. Knight. Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione, L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La
mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche,
Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno,
l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli:
l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig
tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even
with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus
eromenon , the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the
role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of
the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.
Grice e Collini: l’implicatura
conversazionale del naturismo -- naturalismo e naturismo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “If you love
birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice
drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile
famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come
scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus,
un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante
le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the
conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of
the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends
(Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no
choice!”. Altro Italiano non ricordato dal
Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo
Alessandro Collini, nato a Firenze. Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa,
aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della
marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene (2). Dopo essersi
fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non
ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della
Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza,
attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta
a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova
Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare
un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte
ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una
celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso
Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il
Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon
secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable,
tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca.
Fu compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe
regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper
una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che
tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle
raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo
fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi
sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di
mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands,
pubblicato anonimo a Mannheim nel 1784, cui un altro doveva seguirne sulla
letteratura tedesca.E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole
residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche
altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun
gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del (2) Il
COLLINI stesso nel suo libro Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites
que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag. 5) la
fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile
vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare
tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei
primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il
primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo
Alessandro Collini, nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla
luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della
"Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie"
(l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di
Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato
affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim,
probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare
litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e
l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato
in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato
acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò
potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu
descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto
come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un
fossile di crostaceo.[19] Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno
stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione
del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In
realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma
lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più
avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un
animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su
una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano
ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri
fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui
lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato
"Anfibi", un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini
con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse
fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici
(come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e
mammiferi.[21] Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad
opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che
per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus
venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800,
Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del
fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di
Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra;
in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e
gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a
Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui
non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi
di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita
l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo.
Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine
del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il
fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel
suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella
presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e
su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del
1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in
dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi
all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22]
Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un
rettile. In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi.
Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a
Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto
un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese
a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non
fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in
cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi
di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è
mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che
tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di
gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il
fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per
informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von
Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui
l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con
caratteristiche da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo
stesso anno fornì una lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era
in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di
Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da
un giovane fu descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus
brevirostris, per via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di
un esemplare più giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro
genere di pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì
anche uno schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato
e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le
ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio
superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring
rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre
immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di
alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia
l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura
quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana
alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di
questi elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono
ancora oggi in discussione. Paleobiologia Classi d'età Esemplare
giovane di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il
Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda
dell'età e in base al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa
degli arti, le dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei
denti possono stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato
queste differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di
specie distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più
dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita
degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di
Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6] Il più giovane e
immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di
una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi
che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari
di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6] Tutti i
campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di
età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza
complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe,
invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che
va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due
primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e
adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che
anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari
immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe
è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di
grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono
P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe
mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente
maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero
essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]
Crescita e riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito
alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P.
antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus
muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi
crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il
conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e
probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita
i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per
la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni
coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]
Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli
di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile
di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo
vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la
competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli
sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il
Rhamphorhynchus.[28] Paleoecologia Durante la fine del Giurassico,
l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il
calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è
stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie
aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano
lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee
Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono
l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati
pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus,
Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp.,
l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli
stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus
hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci,
crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di
questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di
Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando
ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29] Note ^ Fischer von
Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum
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natürlicher Grösse im Jahre 1784 beschrieb, und welches Gerippe sich
gegenwärtig in der Naturalien-Sammlung der königlichen Akademie der
Wissenschaften zu München befindet", Denkschriften der königlichen
bayerischen Akademie der Wissenschaften, München: mathematisch-physikalische
Classe 3: 89–158 ^ Cuvier, G. (1812). Recherches sur les ossemens fossiles. I
ed. p. 24, tab. 31 ^ Sömmering, T. v., Über einen Ornithocephalus brevirostris
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PMID 21493820. ^ Weishampel, D.B., Dodson, P., Oslmolska, H. (2004). The
Dinosauria (Second ed.). University of California Press. Biografia Steve
Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature preistoriche. Altri progetti
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(EN) sh94002837 Biologia Portale Biologia Paleontologia Portale Paleontologia
Rettili Portale Rettili Categoria: Pterosauri. Syncretism and Style
Hypnerotomachia Poliphili and the Italian Renaissance Garden. Most of the
history of Western philosophy and theology from Parmenides through H^el has
attempted to resolve the inherent contradictions between sensation and
cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'. However, the paradoxes, antinomies, and
incon- gruities that arise in this quest f)erennially inform numerous paradigms
that underUe the history of art and ideas. This study— promenade through the
landscapes and gardens, paintings and poems that have inspired me—proposes a
sketch of the implications of such poh'semic and equivocal conventions as the\-
relate to the histor)' of landscape architectiu-e. The origin of modem European
landscape architecture vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the
beaut)' of nature in the early Renaissance. In The Civilization of the
Renaissance in Italy, Burckhardt describes this paradigm shift in the
perception of the external world, the moment in which the distant Wew, the
"land- scape" proper, was first valorized: But the unmistakable proob
of a deepening effect of nature on tbe human spirit began with Dante. Not only
does he awaken in us by a few \-igorous lines the sense of the morning airs and
the trembling light on the distant ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten
torest, but he makes tbe ascent of k)fty peaks, with the only possible obfect
of en^vying the view—the first man, peihaps, since the days of antiquity who
did so.' This appreciation of natural beauty, couched in the poetry of the
sublime, was further instantiated in the work of Francesco Petrarch (1304-74),
often cited as the first humanist, indeed the first "mod- ern" man.
His relation to the landscape was intense and manifold, poetic and practical,
as he was a gardener whose favorite site of med- itation was his own gardens at
Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in one of his letters: I made two
gardens for myself: one in the shade, appropriate for my studies, which I
called my transalpine Parnassus; it slopes down to the river Sorgue, ending on
inaccessible rocks which can only be reached by birds. The other is closer to
the house, less wild, and situated in the middle of a rapid river. I enter it
by a litde bridge leading from a vaulted grotto, where the sun never
penetrates; I believe that it resembles that small room where Cicero some-
times went to recite; it is an invitation to study, to which I go at noon.^ Two
gardens, one for each side of his temperament, inspired either reverie or
melancholy; two gardens, one for each extreme of nature, extensive and
picturesque or protective and chthonic; two gardens, one leading towards the
empirical, the other towards the spiritual. For Petrarch, as for Cicero, his
predecessor in literature and garden- ing, the landscape was a major source of
inspiration, both literary and empirical; for while these gardens evoked the
great sites of clas- sic culture, they also constituted a rudimentary botanical
laboratory and collection, where Petrarch experimented with different varieties
of plants according to meteorological and astrological conditions, geographic
placement, seasonal growTih, and so forth. He also used these gardens to amass
collections of rare plants. As Gaetane Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins
secrets de la Renaissance, such secret gardens, "appertain to the double
register of the fictive and the real, the physical and the mystic; they echo
with the adam- ic garden, the paradigmatic place and origin from which gardens
draw their spiritual energy."^ It is precisely for this reason that the
study of gardens necessitates formal, cultural, and psychological analyses: the
symbolic significance of any garden is derived from, yet surpasses, its formal
characteristics, and can only be grasped in relation to the artistic works that
both inspired and were inspired by the site. Petrarch's most celebrated
consideration of the landscape is the description of his ascent of Mont
Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da Borgo San Sepolcro, written in
1336. In this text, he explains the reason for this difficult ascent: "My
only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer."4
Though inspired by literary motives—specifically, the tale in Livy's History of
Rome^zx recounts Philip of Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with
its attendant views—the experience shifted from the literary to the sensory,
where revelation becomes visual. Indeed, the subsequent history of landscape
architecture often reveals mythical tales, literary inspirations, and pictorial
models behind the creation of gardens; here, Petrarch's visionis already
predisposed to concep- tual density by being couched in myth and history.
"At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of
the great sweep ofviewspread out before me, I stood like one dazed. I beheld
the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less
incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less
fame."^ The force of the poet's vision surpasses all previous literary
descriptions. Is it the poet's unique, hyperbolic sensibility, or the inherent
magnificence of nature, that is at work here? Or is there a third term that
mediates the poetic imagination and the natural world? The letter continues
with a detailed appreciation of the mul- tiplicity and uniqueness of the
natural world Petrarch witnessed, until the moment he realizes, in a flash of
intuition, that the ascent of the body must be accompanied by a concomitant
ascent of the soul. Thus, opening a copy of Augustine's Confessions he had with
him, he felicitously chanced upon the following passage: "And men go about
to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the sea, and
the wide sweep of the rivers, and the circuit of the ocean, and the revolution
of the stars, but themselves they consider not."^ This is the ironic
moment of revelation, where experience becomes allegory and visibility becomes
a metaphor for spirituality: I dosed the book, angry with myself that I should
still be admiring earthly things who might long ago have learned from even the
pagan philosophers that nothing is wonderftil but the soul, which, when great
itself, finds noth- ing great outside itself. Then, in truth, I was satisfied
that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon myself, and
from that time not a syllable fell from my lips until we reached the bottom
again. The three major realms that informed early humanist sensibility were
thus interwoven in an allegory of spiritual revelation: inspira- tion from
antiquity, sensitivity to nature, and salvation within Christianity. Certain
technical, mathematical, and financial consider- ations would be added to these
preconditions to localize and system- atize such apperceptions in the creation
of the Italian Renaissance garden. The consequent transmigration and
intercommunication of symbols and allegories would henceforth enrich all the
arts, radical- ly impelling some of them towards their modern forms.^ Within
these rubrics, the major influences on the Renaissance transformation of man's
relation to nature could be schematized as follows. The theological revolution
of Francis of Assisi redeemed nature's state of grace. His "Canticle of
Creatures"—indeed, every act of his life—expressed a mystical rela- tion
to a cosmos in which all nature was a reflection of God; thus nature itself was
the foundation of spiritual values. As Ernst Cassirer explains in The
Individual and the Cosmos in Renaissance Phibsophy, a book that will serve as a
metaphysical guide to the current study: With his new. Christian ideal of love,
Francis of Assisi broke through and rose above that dogmatic and rigid barrier
between "nature" and "spirit." Mystical sentiment tries to
permeate the entirety of existence; before it, barriers of par- ticularity and
individualization dissolve. Love no longer turns only to God, the source and
the transcendent origin of being; nor does it remain confined to the
relationship between man and man, as an immanent ethical relation- ship. It
overflows to all creatures, to the animals and plants, to the sun and the moon,
to the elements and the natural forces. In this unscholastic "nature
mysticism" we find one of the origins of Western ecological and
environmental thought. (Indeed, in 1979 Pope John Paul 11 proclaimed Francis
the patron saint of ecologists.) Yet, more immediately, he not only redeemed
the state of nature in a postlapsarian world, but praised nature—specifically
the picturesque and fertile central Italian landscape of Umbria—with a glorious
and beatific lyricism that has inspired those who would transform nature
according to human desire and volition into a new form that would become the
"humanist" garden. Yet the major paradigm at work in establishing new
ways of experiencing and re-creating the landscape did not stem from theo-
logical transformations; rather, they arose from the rediscovery of antiquity
and the consequent valorization and appropriation of pagan mythology. This
is especially the case insofar as such myths express a profound connection to
the natural world, as evidenced most notably in Ovid's Metamorphosis,
Apuleius's The Golden Ass, Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of
Pliny, Cicero, and Horace, with the latter's crucial notion of ut pictura
poesis. The rise of a new literary scenarization accounted for the expression
of a spe- cific sense of place within nature such that the genius A?a would
once again have a voice, as in Dante's Inferno, Boccaccio's Decameron
(describing the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum,
and especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood
does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels everywhere
in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch, landscape becomes
the living mirror of the Ego."^° If one were to formulate this sensibility
in relation to the his- tory of landscape architecture, it might be said that
the new form of garden is no longer delimited by either cloister walls or
restricted cosmological symbolism (the latter allegorically corresponding to
the medieval hortus conclusus, or closed garden), but rather by the limits of
the imagination responding to the very act of human per- ception. Rather than
serving as a static allegorical form, the garden reveals the dynamic, creative
relation between humanity and nature. The view shifts from the interior (the
cloister, the soul) to the exte- rior, encompassing not only the ambient scene,
but also distant views; space is no longer treated as metaphoric, but is
revealed in its localized and particularized reality. Nature incarnate, in its
vast mul- tiplicity, offers sites of pleasure and wonder, terror and
awe—prefig- uring the fiiture aesthetic distinctions of the picturesque, the
beau- tifiil, and the sublime. Coincident with this new sensibility was the
development of a system of pictorial representation—the quattrocento
rediscovery and refinement of linear perspective—that both drew upon and
informed the multifarious Renaissance modes of appreciating the
landscape." The intersection of mathematics, technology, and aes- thetics
in perspectival representations constitutes a major structure that articulates
the reciprocal influences between landscape, garden, literature, and painting,
one that marlcs the subsequent history of landscape architecture. Here, the
varied and often incompatible beauties (ancient and modern) of nature and
painting interacted and enriched each other's iconographies. Specifically,
three works of Leon Battista Alberti (1404-72) codified the intricate interrelations
between perspective and vision, pictorial representation and landscape
architecture: Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on family life
that celebrated the advan- tages of country living, thus instilling a taste for
gardens and the landscape; Delia pittura (1436), which codified the system of
linear perspective; and De re aedificatoria (1452), which, in establishing
"rational" architectural rules based on ancient models (notably
Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites, with a
particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For
Alberti, the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping
terrain with open perspectives from which the countryside could be seen. Though
the view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain
established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was
conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of
the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the
cultivated garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic
continuity between the natural and the human realms. Such strategies, both
structural and narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the
constructed, geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric,
organic realms of the natural world. Alberti's text proffers many of the
characteristics of the humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use
of perspective in the deployment of objects and space, grottos and the
"secret garden," symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted
plants (topiary and espalier), architectural details, and statues of mytho-
logical figures as invocations of ancient culture, surprise effects caused by
both perspectival and technical means, and especially the myriad uses of
water—fountains, pools, canals, panerres, troughs, water staircases and
theaters, hydraulic organs and automata, even artificial rain and water jokes
{giochi d'acqua). It was through the use of water that both illusion and motion
were introduced into land- scaf)e architecture, creating the sort of
instability, surprise, and evanescence that would become central to the baroque
sensibility, with its taste for motion, dematerialization, dissimulation, and
contradiction.'** This irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was
well expressed in that epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK)
Bonfadio, influenced by Petrarch: "I have done much that nature, combined
with an, has turned into artifice. From the two has emerged a 'third nature,'
to which I can give no name."'' Such a "third nature" might well
be a synonym of the garden itself, for how- ever "natural" a garden
may be (as in the ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the
desire to dissimulate all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature),
its forms always evince aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the
notion of "vir- gin" nanire in the North American landscape, as will
be explored in a subsequent chapter). Yet this "third nature" is
never a purely for- mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical and
narra- tive systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land-
scape. Henceforth, the history of landscape architecture will entail the
intertwining and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy,
painting, sculpnire, architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order
to grasp the conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities,
as well as the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a
synopsis of the philosophical trajectory of the Platonic ACCADEMIA of Florence,
found- ed by FICINO under the auspices of the Medici, is in order. The principal
foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were expressed
by Nicholas Cusanus in De docta ignorantia, the initial systematic
philosophical study that began to modify the relatively rigid and often
dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to
medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great
chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and
religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology
was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's
writings never called the theological foundation of this system into question,
they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation
between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as
dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations.
This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical
implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key
princi- ple—expanding on certain nominalist analyses—is that there exists no
possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the
bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous
system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative
from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and
metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and
mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal
systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian
mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component
of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that
inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical
theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the- ological
domain—the ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the hidden
god—the ftiture development of the worldly sciences would not be impeded.
Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet
complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the
docta ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical
con- templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable
nature of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and
antithesis. This results from the unfathomable nature of God, such that the
maximal ontological conditions of existence are constituted by a qualitative,
not a quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result
from all intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human
thought oper- ates according to finite determinations, generating predicable
and measurable differences; yet beyond any given determination, an absolute
term can always be postulated, even if it is not deter- minable. However,
between the finite and the infinite there is no common term, thus no possible
predication. This is a metaphysics of maximal contradiction, of complicatio,
not explicatio. The infini- ty of the godhead is unpredicable and
inexpressible. Whence the necessity of differentiating between the infinite and
the indefinite, wherein the mutually exclusive relation between the ideal,
uncondi- tioned, indeterminable realm of the divine and the empirical, con-
ditioned, determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of
mathematics fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of
negative theology begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of
thought towards its incomprehensible limits, in the attempt to understand the
fundamental ontological contradictions of existence. Whence the notion of the
coincidentia oppositorum, the coincidence of oppo- sites—the very form of such
ignorance—which is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing
the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and
transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable
yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno-
rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human
cognition. As Karl Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the
thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The
fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia
establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological
speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical
infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an
active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble
universal to the sensible particular, with its attendant concrete
symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern science
and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for a new,
"rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta
ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as
measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the
concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the
possibility of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio
proportionis uteris. But proportion is not just a logical-mathematical concept:
it is also a basic concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical,
the technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge
in the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form
one of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most
apparent in the relation between theory and practice in Leonardo da Vinci and
Leon Battista Alberti, the latter of whom had direct links with Cusanus,
utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was
mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers
of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of
beauty as a spiritual value and so extended his studies into other realms.
Following Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure,
proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but
it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before
his death, Cosimo de Medici wrote, in a letter to Ficino. "Yesterday I
arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul.
"'9 This sentiment—where inner and outer nature exist in reciprocal
symbolic resonance—was fully in accord with Ficinos philosophical temperament,
as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino founded his
famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration,
meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of
the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would
suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a
major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his
philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and
develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an
expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino
demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the
soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible
world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the
universe through the process of knowing and self-determination. The soul is the
means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as
opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new
status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite
schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the
higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and
the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this
hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of
Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from
Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and
somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore
interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm
of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and
the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I
fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not
penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not
contained, because I myself am the faculty of containing." But all these
predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human
soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through the
^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts, objects,
and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not merely
reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in Plato's
Symposium and Phaedrus, Ficino places mystical love (in a manner very differ-
ent from that of Saint Francis's more immediately sensual and intu- itive
mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and not a
psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive power
which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His essence
into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek reunion
with Him. According to Ficino, amor is only another name for that
self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from
the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical
circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love,
"Platonic love," that "divine madness" which is the source
of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus,
Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino.
Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate
goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and
oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and
natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial,
intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in
the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible:
amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love,
ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love,
which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher
and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception.
Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This
contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the
Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni-
verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply
opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for
the idea.^' Love is both psychological and theological, human and divine, con-
templative and active, intellectual and passional; it achieves a central
epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is
ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical
nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the
subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas
Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context,
the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature
is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm
of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine
influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of
sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and
distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial
world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not
quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and
oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a
fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky
terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and
cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and
perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a
supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of
"perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous
symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and
objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of
vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for
landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now
theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later
be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of
contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance
found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably
that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed
through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the
spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in
all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer
delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the
artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant
reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through
this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the
world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the
true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros,
is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the
"invisible" in the "visible," the "intelligible"
in the "sensible." Although his intuition and his art are determined
by his vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he
succeeds in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar
opposition of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new
metaphysics of art was in great part based upon the notion of the representable
order of nature. The subsequent imaging of the world became a function of the
profound affinities between mathe- matical research and aesthetic production,
insofar as they both share a sense of form, based on the newly representable
order of the cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a
priori' of pro- portion and of harmony, constitutes the common principle of
empirical reality and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists,
regarding the primacy of form in the Renaissance poetry of writers such as
Dante and Petrarch, such lyricism does not express a preex- istent reality with
a standard form, but creates a new inner reality by giving it a new form:
"stylistics becomes the model and guide for the theory of
categories."^'' This claim may be generalized for the textu- al arts (philosophy,
rhetoric, and dialectics) and extrapolated for the visual arts. It was, indeed,
a model for the new nature of thought, where style is not a formal effect
bounded by the limitations of sheer representation, but rather where
representation itself is a creative act. Within this context, the garden would
no longer be conceived as merely a microcosmic or Edenic symbol, nor as a
theological alle- gory of the body of the Virgin. In a sense, every theory of
the micro- cosm is a theory of mimesis, of levels of representation.
Henceforth, there would be a reciprocal relationship between the mimetic activ-
ity of art and the perception of nature, such that, concurrently, art would
attempt to represent nature, and nature would be seen according to the work of
art. Consequently, mimesis would play a decreasing metaphysical role in the
light of the new theories of human creativity and productivity. Mediating this
reciprocity, the garden would be a "third nature," simultaneously
patterned upon the idealizations of art and reinventing the way that the
landscape was experienced. This aes- thetic was summed up by Giordano Bruno in
Eroicifuroi: "Rules are not the source of poetry, but poetry is the source
of rules, and there are as many rules as there are real poets. "^^
"Nature" had always been, and would always be, invented. But now, the
verity of this perpetual reinvention, its cultural inexorability, was
recognized and thematized as a function of artistic creativity. The ultimate
extrapolation of this mode of philosophical specula- tion was achieved by
Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a disciple of Ficino who joined the
Florentine Academy a quarter of a century after its inception. ^9 Xhe radical
aspect of Pico's thought was the reversal of the relation between being and
becoming or acting in the cosmic hierarchy, aproblem predicated on the role of
freedom. In the scholastic universe, every being, including the human being,
had a fixed place in the cosmic hierarchy; the sphere of human voli- tion and
cognition was strictly delimited and conditioned. For Ficino, to the contrary,
though man's role in the universe was to rec- ognize and celebrate the entirety
of creation, human difference and dignity consisted in man's role as a
metaphysical mediator between the higher and lower realms. Pico radicalized and
potentialized this mediative role by positing the entirety of the cosmic
hierarchy as man's proper place. Thus man, endowed with no essential particu-
larities, no longer had a fixed place in the cosmic hierarchy: the placement of
each person within the cosmos was a function of indi- vidual activity, so that
man could degenerate towards the beasts or ascend towards God, according to the
value of his acts. Human nature consisted precisely in not having a predefined
nature or form. In this proto-existentialist philosophy, man's being is defined
as becoming; man's essence is constituted by the unique trajectory of each
individual existence. In this system, where existence precedes essence,
coincide the roots of both Pascalian anguish and existential optimism; the
origins of both a theological anxiety at the eclipse of God and the joys of a
radical liberation of the human soul. Though the system still operated within a
Christian ethos, it established the preconditions for a secular realm of
thought. This openness towards the world implied that human volition and knowledge
must traverse the entire cosmos in order to achieve individual spiritual
fiilfillment. As Pico wrote, concerning the creation of man, in his Oration on
the Dignity ofMan, At last the best of artisans ordained that that creature to
whom He had been able to give nothing proper to himself should have joint
possession of what- ever had been peculiar to each of the different kinds of
being. He therefore took man as a creature of indeterminate nature and,
assigning him a place in the middle of the world, addressed him thus:
"Neither a fixed abode nor a form that is thine alone nor any function
peculiar to thyself have we given thee, Adam, to the end that according to thy
longing and according to thy judgment thou mayest have and possess what abode,
what form, and what functions thou thyself shalt desire. The nature of all
other beings is limited and constrained within the bounds of the laws
prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in accordance with thine
own free will, in whose hand We have placed thee, shall ordain for thyself the
limits of thy nature. We have set thee at the worlds center that thou mayest
from thence more easily observe whatever is in the world. We have made thee
neither of heaven nor of earth, neither mortal nor immortal, so that with
freedom of choice and with honor, as though the maker and molder of thyself,
thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt prefer. Thou shalt
have the power to degenerate into the lower forms of life, which are brutish.
Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be reborn into the
higher forms, which "'° This self-transforming, metamorphosing nature is
ever-changing, establishing no fixed form. In the aesthetic realm, Pico's
theory of total potentiality and mutability justified a renaissance of artistic
cre- ativity, with a newfound juxtaposition and inmixing of forms, styles, and
symbols. This metaphysics of action and creativity is at the ori- gin of an
aesthetic lineage leading to the baroque and culminating in romanticism. It is
interesting to note that Pico's philosophy was dramatized by the Spanish
humanist Juan Luis Vives (1492-540) in Fabula de homine (c. 1518), where the
full mimetic powers of protean man are acted out on the stage of the Roman
gods. After imitating the gamut of natural forms, man achieves a
quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to see him in more shapes
when, behold, he was made into one of their own race, surpassing the nature of
man and relying entirely upon a very wise mind Man, just as he had watched the
plays with the highest gods, now reclined with them at the banquet."^' But
this theatricality did not end with the allegori- cal staging of theology in a
mythical setting; Vives also considered the implications of this apotheosis,
entailing newfound powers of human creativity in relation to the observation of
the natural world, claiming, all that is wanted is a certain power of
observation. So he will observe the nature of things in the heavens in cloudy
and clear weather, in the plains, in the mountains, in the woods. Hence he will
seek out and get to know many things about those who inhabit such spots. Let
him have recourse to garden- ers, husbandmen, shepherds and hunters ... for no
man can possibly make all observations without help in such a multitude and
variety of directions.'^ This protean ontology was not lost on the natural
sciences. The specificity of landscape would be determined with increasing
preci- sion following the development of the new sciences of geography,
astronomy, meteorology, botany, zoology, etcetera; furthermore, the physical
sciences would increasingly serve the arts, with all their the- ological and
metaphysical symbolism, however archaic or obscure. Already in this epoch, the
hortus conclusus, the enclosed clois- ter gardens of the medieval monasteries,
gave way to the secret gar- dens of the Renaissance, and later to the more
systematically orga- nized botanic gardens, initiated in Venice in the
fifteenth and sixteenth centuries, with their increasingly open collections of
in- digenous and exotic plants. When the first public botanic garden was
created in Padua in 1545, the secret garden gave way to the pub- lic garden. As
explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret garden henceforth became a
laboratory of minutious observations of all the states of plants' growth, of
their reactions to the seasons, climates, and adoptive soils. Petrarch already
gave himself over to such scrupulous experimentations and annotations in his
gardens at Vaucluse, The attempts at transplanting pursued a century later
accelerated and changed in scale: the '' exchanges were no longer local but
intercontinental. Unknown roots from the New World arrived to be planted in the
ancient earth of the Old World; new names of plants abounded; exotic herbs,
spices, and produce transformed cuisine; old maladies found cures; the eye
received novel pleasures. What arrived to incite mystery and wonder slowly gave
way to knowledge and order: the notion of the world as a closed microcosm was
replaced by the con- cept of an infinite universe, open to sensory observation
and increas- ingly rational classification. Each new botanical discovery
demand- ed a place on the cosmic great chain of being; as the examples became
more and more numerous, and less and less coherent with the previously
contrived system of botanic knowledge, the old cate- gories became insufficient
to the task, forcing both a new system of classification and ultimately an
entirely new conception of the cos- mos (coherent with analogous discoveries in
the other sciences, notably those of the great Copernican and Galilean
astronomical revolutions). Under the stress of an increasingly heterogeneous
empirical field of objects collected, beginning in the fifteenth centu- ry,
from the corners of the earth—including all the orders: animal, vegetable,
mineral—the old system of classes was subverted and transformed. These objects
decorated both cabinets of curiosity and gardens (living, outdoor cabinets of
curiosity), radically transform- ing the order of nature—including the
aestheticized reordering of nature that is the garden—in a scenario of
hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid species gave
rise to hybrid thoughts. However, as this process of demythification was a slow
one (evolving over the centuries), each epoch bore a particular ratio of the
inmixing of myth and science—a ratio that would remain crucial to all aesthetic
representations and transformations of the landscape. Ficino's notion that all
of creation is divine and beautiful opened the way for the historicizing of
knowledge, which is one of the key tenets of humanist thought, no longer
restricted to the Christian limitations of scholastic scholarship. For if all
cosmologi- cal levels of the universe participate in divine goodness and
beauty, then by extension all historical moments of thought participate, albeit
partially, in universal truth. The result was a new syncretism, most
immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic and Aristotelian
systems, but also extending to the positive recon- sideration of such thinkers
as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus, Pythagoras, Virgil,
and Plotinus. Further- more, the implications of this intellectual openness and
mobility were vast for both philosophical historicism and a theory of natural
religion: the fact that consciousness must survey the entirety of the universe
implied the necessity of discerning the truth value of every system of thought.
Christian or otherwise, insofar as they all partake of a vaster universal
truth. Pico's syncretism was even greater than that of Ficino, including not
only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and Arabic commentators of
Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore, and crucial for modern
hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of interpreting scripture
at four different levels—literal, allegorical, moral, and anagogical according
to a hermeneutic centered on the master narrative of the Bible. Rather, he
argued for a multiplicity of meanings to scripture, as heterogeneous and
polyvalent as the complexity of the universe to which they pertained. In Pagan
Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the implications of Pico's
conceptual revolution for art and aesthetics. The notion of the deus
absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization of God can be
adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness Cusanus's
discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan gods: All
these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in so far as
the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable such names
derived from particular perfections. Hence the unfolding of the divine name is
multiple, and always capable of increase, and each single name is related to
the true and ineffable name as the finite is related to the infinite.^'* As
Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary corollary to the radical
mysticism of the One."^^ This polytheistic, or at least poly- morphic,
vision of the deity achieved the reconciliation of theologi- cal opposites in
the hidden God, necessitating an application of the intellectual syncretisms of
Ficino and Pico. Yet those irreconcilable opposites, w^hich previously could
only have been united within God, could now be provisionally reconciled in
human conscious- ness. But insofar as this central theological doctrine could
only be stated in the form of a paradox, its manifold expressions, whether
conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental, needed to share the conceptual
and ontologicaJ equivocation of its foundation. This would be the source of a
new iconographic richness in the arts. Pico was intimately familiar with the
ancient pagan mystery religions being rediscovered during his time, as well as
with the role of initiation in the acquisition of knowledge; indeed, he had
planned to write a book on the subject entitled Poetica theobgia. He discerned
the various formal levels of these mysteries—ritualistic, figurative, and
magical—all of which were continuously intermin- gled during the Renaissance.
Within these systems, truth was always hidden, to be revealed only to the
initiated through hieroglyphs, fables, and myths. The dissimulation of truth
was a protection against profanation; revelation was thus a function of
disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and ambiguity. Wind's
analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina lente (make haste
slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticae (Attic Nights), is a
concrete case in point. This oxy- moron simultaneously sums up, at a poetic
level of understanding, the metaphysical principle of divine totalization, the
epistemological principle of the limits of human comprehension, and a certain
eth- ical principle for regulating one's earthly existence. Here, the meta-
physical is reduced to representable (and thus apparently compre- hensible)
oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin around an anchor, a
butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless others—all intended,
"to signify the rule of life that ripeness is achieved by a grovi^ih of
strength in which quickness and "^*^ steadiness are equally developed.
Metaphysics is thus expressed in the realm of popular imagery by reducing
philosophy to the emblematic. The result of this reduction of the cognitive to
imagery is that while aesthetics always implies a metaphysics, metaphysics is
no longer the prime guarantor of aesthetics. This is apparent, for example, in
a seminal^'' book in the his- tory of Western gardens, Francesco Colonna's
Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a Dream). Here numerous
versions oifestina lente are illustrated; each one provides a unique nuance to
the idea, specifically attuned to the demands of the narrative. As Wind
explains, these emblems in fact serve as part of the initiatory mechanism of
the allegory. The plan of the novel, so often quoted and so little read, is to
"initiate" the soul into its own secret destiny—the final union of
Love and Death, for which Hypneros (the sleeping i,rosfuneraire) served as a
poetic image. The way leads through a series of bitter-sweet progressions where
the very first steps already foreshadow the ultimate mystery oi Adonia, which
is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The coincidence of opposites
is revealed through sundry conjunc- tions, such that not only the marvels and
miracles of the world, but also its most commonplace objects, reveal human
destiny. Needless to say, if basic imagery is thus manipulated, the most
complex forms of expression—the arts, including landscape architecture—^will
bear witness to similar metaphysical formations and deformations. These
techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds us, Goethe referred to
as an "exact sensible fantasy,"^^ where science, nature, and art
coalesce in an empirical realm that utilizes its own standards, paradigms, and
forms; where abstraction and vision merge; and where fantasy and theory,
literature and metaphysics, share a com- mon ground of expression. If poetry
and images were but a veil upon the truth, they nev- ertheless offered an
alternate entry into the theological system, a means of circumventing the
obvious social restrictions of a more the- ological approach. This syncretism
was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted to classical
myths, and an element of poetry to canonical doctrines. "'^° Thus there
obtained a hybridization of elements within imagery; theological connotations
were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes evinced secular
and contemporary truths. What Wind termed a "transference of
types''"^' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance art;
it estab- lished an epistemological overture that indicated the metaphysical
foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics. This
syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were evident
in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk proper, in
the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the end of the
sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in Florence
in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi utilized
all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion between old
and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus on every
page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of writing
and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics, and
chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the rhythmics of
declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his knowledge of
gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to create a moving
and animated work with great lyrical inspiration."*^ Beginning with Orfeo,
Monteverdi established a musical synthesis of court airs, madrigals,
recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding scenographic
synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis universalis sought the
synthesis of the sciences in a unified theory, so would the opera syncretize
the arts on the spatially homogeneous, but stylistically heterogeneous, stage
of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might be argued that the
humanist garden of the Italian Renaissance is the major precursor of the
totalizing artwork, insofar as it already served as the ground, synthesis, and
scenarization of all the other arts. “Hypnerotomachia Poliphili” of Colonna was
published in Venice in 1499."^^ The tale consists of the phantas- mic
quest of Poliphilus, presented as an initiatory erotic drama couched in the
form of a dream, recounting the protagonist's expe- riences and tribulations as
he searches for his beloved Polia. Beginning in the anguishing soHtude of a
wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by invoking divine
guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute perfection. Here he
discovers a world filled with gardens and palaces, containing enigmatic and
emblematic monumental sculptures and ruins representing the arts of the ancient
cultures of Egypt, Greece, and Rome, such as pyra- mids, obelisks, and temples,
all evincing a perfection lost in the con- temporary epoch. The archaic is
brought into the service of the arcane. The allegory then thickens as
Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards love and truth, encountering
five girls representing the five senses, a queen symbolizing free will, and
final- ly two young women symbolizing reason and volition. After visiting the
palace, guided by the latter two women, he is taken to the three palace
gardens, which are ultimate expressions of human artifice: gardens of glass,
silk, and gold. This passage is worth quoting at length, as the descriptions of
gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of inestimable importance in the
subsequent history, imaginary and practical, of landscape architecture. When we
arrived at the enclosure of orange trees, Logistic said to me:
"Poliphilus, you have already seen many singular things, but there are
four more no less singular that you must see." Then she led me to the left
of the palace, to a beautiful orchard as large in circumference as the entire
dwelling where the queen made her residence. Around it, all along the walls,
there were parterres planted in cases, intermixing box-trees and cypresses,
that is to say a cypress between two box-trees, with trunks and branches of
pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated that they could have been
taken for nat- ural. The box-trees were topped with spheres one foot high, and
the cypress- es with points twice as high. There were also plants and flowers
imitated in glass, in many colors, forms and types, all resembling natural
ones. The planks of the cases were, as an enclosure, surrounded with slides of
glass, gild- ed and painted with beautifiil scenes. The borders were two inches
wide, trimmed with gold molding on top and bottom, and the corners were cov-
ered with small bevels of golden leaves. The garden was enclosed with pro-
truding columns made of glass imitating jasper, encircled by plants called
bindweed or morning glory with white flowers similar to small bells, all in
relief and of the same colored glass modeled after nature. These columns rested
against squared and ribbed pillars of gold, sup- porting the arcs of the
vaulting made of the same material. Underneath, it was trimmed with glass
rhombuses or lozenges, placed between two moldings. Upon the capitals of the
protruding columns were placed the architrave, the frieze, and the cornice in
glass, figures in jasper, as well as the moldings around it, golden rhombuses
with polished and hammered foliage, such that the rhombuses were a third as
wide as the thickness of the vaulting. The ground plan and the parterre of the
garden were made of compartments composed of knotwork and other graceftil
figures, mottled with plants and flowers of glass with the luster of precious
stones. For there was nothing nat- ural, yet there existed, nevertheless, an
odor that was pleasant, fresh and fit- ting the nature of the plants that were
represented, thanks to some compound with which they were rubbed. I long gazed
upon this new sort of gardening, and found it to be very strange.^^ The
brilliance and genius of this pure artifice invokes Poliphilus's admiration and
wonder; the inherent artificiality of mimesis is revealed. While this garden
was never imitated in its totality, it established a certain sensibility, and
many of its elements have served as models for both details and major elements
throughout the his- tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary
art of pastry making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of
these artificial wonders continued: "Let us go to the other garden, which
is no less delectable than the one which we just showed him." This garden
was on the other side of the palace, of the same style and size as the one made
of glass, and similar in the disposition of its beds, except that the flowers,
trees, and plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature.
The box-trees and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with
trunks and branches of gold, and underneath were several simple plants of all
types, so truly crafted that nature would have taken them for her own. For the
worker had artificially given them their odors, with I know not what suitable
compounds, just as in the glass garden. The walls of this garden were made with
singular skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of
equal size and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk,
branches and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of
its fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared
pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal,
resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of
silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so
surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre
was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of
the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a
golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned
towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures,
square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient
Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion,
signifying: 'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The
square figure is dedicated to the divinity, because it is produced from unity,
and is unique and similar in all its parts. The round figure is without end or
beginning, as is God. Around its circumference are contained these three
hieroglyphs, whose property is attributed to the divine nature. The sun which,
by its beautifiil light, creates, conserves, and illuminates all things. The
helm or rudder which signifies the wise government of the universal through
infi- nite sapience. The third, which is a vase full of fire, gives us to
understand a "4° participation of love and charity communicated to us by
divine goodness. The Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his
quest, Poliphilus is confronted with three doors, representing the major paths
of life, leading towards either the glory of God, the plea- sures and wonders
of the world, or love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's
extreme voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera,
residence of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of
Aphrodite): "That region was dedicated to merciful nature, intended for
the habitation and dwelling of beatified gods and spirits."47 The
description of the gar- dens of Cythera is so complex as to escape precise
visualization and defy synopsis, yet it has inspired much of the Western
imagination of landscape architecture. Here, the new Renaissance sense of
nature combines with the contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism
is reflected in architectural detail, the fecund sensuality of nature is
circumscribed by the most rigorously geometricized geography, and the beauty of
the landscape is accentuated, or even simulated, by the most refined artifice
of the artisan's craft. Each aspect of this site inaugurates a type of
perfection later to become stereotypical. The island is circular, with
crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its circumference is
defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes trimmed to
perfection every day. The island's river has a shore adorned with sand mixed
with gold and precious stones, and banks planted with flowers and citrus trees.
The island's major divisions are mathemat- ically organized and separated by
porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations interspersed
with marble pilasters; each of these divisions delimits a different sort of
planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing the powers of
Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry
and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran- ate,
chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube,
sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what
appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese
encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters
empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to
maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow
leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does,
gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those
that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry
orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall
become the standard features of Western landscape architecture: trellises,
bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural
features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of
medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including
absinthe, birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony,
calamint, lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and
edible plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes,
chervil, peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds,
cucumbers. chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose
description evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as
the unicorn cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with
extremely complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants,
have become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the
veritable "source" and destination of the quest, the mystical
fountain ofVenus (which, most tellingly, remains unillustrated, but for a
schematic ground plan), with columns made of precious stones, detailed
carvings, and zodiacal and mythological symbols. The source of the water could
itself be seen as an allegory for the "third nature" that
characterizes the art of gardens: The cover of this marvelous fountain was made
of a rounded vault like an overturned coupe without a foot, all of a single
piece of crystal, whole and massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any
macula whatsoever, purer than the water spouting from the solid, artless, raw,
unpolished rock, just as nature made it."** The Italian Renaissance
produced copies, however flawed, of certain aspects of these gardens.
Henceforth, mathematics and mythology would join within the art of landscape
architecture. Yet, however imperfect the imitation, an entire worldview was
evident in these gardens. As Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed
by the reveries are not always images of paradise lost; they also sometimes
prefigure models of a perfection yet to come. The island where Poliphilus ends
his journey is one of those: Venus, in concert with mathe- matical reason,
conceived the plans for this garden. Fecundity is allied with order, measure,
and proportion."*? The metaphysical allegory is always upheld by the most
extreme sen- suality and preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the
foun- tain may serve as an epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia
Poliphili: "Delectation is like a sparkling dart."^° No synopsis of
the Hypnerotomachia Poliphili can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity
of its quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and
evocations of each object, and the symbolic interrelations between these objects—that
the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing sym- bolic
system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects of mimesis,
giving rise to art as an activity of the autonomous imagination. Such a
pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a conceptual
expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic
schemes retrospectively to recreate their classic origins; proleptically, they
create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of
botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek,
Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil,
Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith
the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent
with the Neoplatonic metaphysical speculation of the epoch; for all classicism
is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to
contemporary motives. It is precisely here that we can appreciate the
allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of an ideal and
ide- alized past now disappeared, symbols of a creative consciousness that
recuperates and transforms, indices of an aestheticization that combines and
refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific details and
general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for the subsequent
history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic of complexity,
contradiction, and paradox that will inspire, both consciously and
unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and
characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and
Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both
sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational-
ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and
geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven.
Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent,
revealing the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space
parallel to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes
the dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such
is the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its
subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the
experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy "^^ that makes
it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact
that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in
establishing the structure and significance of gardens in general. For not only
is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is
based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative,
dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and
mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions.
Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions,
the "third nature" realized from combining artifice and nature, are
instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who
created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter
them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real
gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated
plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical
system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic
relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory
manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art
include not only the material and spiritual traditions of the period, but also
all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the
paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are
foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are
fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern
landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too
often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence,
heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The
organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric,
static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the
Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative,
fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change,
growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic,
syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1
Jakob Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans.
S. G. C. Middlemore (i860; New York: Harper & Row, 1975), 294. 2 Francesco
Petrarch, Lettres familihes et secrkes (Paris: Bechet, 1816), 99; cited in
Gaetane Lamarche-Vadel, Jardins secrets de la Renaissance : Des astres, des
simples, et desprodiges (Paris: L'Harmattan, 1997), 48. This book is an
excellent study of the secret garden, from the medieval hortiis conclusus
through the Italian Renaissance giardino segreto to the jardin hermetique. 3
Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4 Francesco Petrarch, "The Ascent of
Mount Ventoux," n.t., in Introduction to Con- temporary Civilization in
the U^if (New York: Columbia University Press, 1965), 557. 5 Ibid., 560. 6
Cited in ibid., 562. 7 Petrarch, "Ascent," 562. 8 Twoclassictextsonthetrading,inmixing,andsyncretismofsymbolsare:Jurgis
Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art
gothique (1955; Paris: Flammarion, 1981); and Rudolf Wittkower, Allegory and
the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson, 1977). 9 Ernst Cassirer,
The Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi
(1927; Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1972), 52. 10 Ibid.,
143. 11 Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences
would here be both inadequate and superfluous. As an introductory note,
consider several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial
Space (London: Faber & Faber, 1957); Pierre Francastel, La figure et le
lieu: L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard, 1967); Samuel Y.
Edgerton, The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper
& Row, 1975); and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus:
Flammarion, 1987). 12 The most recent translation is Leon Battista AJberti, On
the Art ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert
Tavernow (Cambridge, MA: MIT Press, 1996). 13
Forexample,theVillaLante(Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli Gardens of
the Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome, Castello,
Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most typical and
famous. 14 The literature on the Italian Renaissance garden is vast. For a fine
introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des jardins (Paris:
Olivier Orban, 1990), 323—32; Terry Comito, "The Humanist Garden," in
Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture ofWestern Gardens
(Cambridge, MA: MIT Press, 1991), 37-45; and John Dixon Hunt, Garden and Grove
(Princeton: Princeton University Press, 1986), especially 42-58 ("Ovid in
the Garden") and 59-72 ("Garden and Theatre"). Among the many
fine illustrated books and guides, very usefiil is Judith Chatfield, A Tour
ofItalian Gardens (New York: Rizzoli, 1988). 15 Cited in Lionello Puppi,"Nature
and Artifice in the Sixteenth-Century Italian Garden," in Mosser and
Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16 This section on Cusanus is
based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the great chain of being, see
Arthur O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing {\9i6; New York: Harper & Row,
i960). 17 KarlJaspers, Anselm and Nicholas of Cusa, trans. RalphMannheim(NewYork:
Harcourt, Brace, Jovanovich, 1966), 35. Needless to say, the present essay
presents only the broadest schematization of these complex philosophical
issues—^just enough, it is hoped, to situate their interest in relation to the
development of the Italian Renaissance garden, and thus to inspire the reader
to further investigations. 18 Cassirer, Individual and Cosmos, 51. On the
extension of these issues as they relate to aesthetics in the
seventeenth-century debates between the Cartesians and the Pascalians, see
Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century
Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press, 1995), 53-77- 19 Cited in
Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres, 1958), 273. 20
Cassirer, Individual and Cosmos, 190-1; see also 69-141. On Ficino, see also
Paul Oskar Kristeller, Renaissance Thought and the Arts (Princeton: Princeton
University Press, 1980), 89-110, 163-227. 21
ErwinPanofsky,"TheNeoplatonicMovementinFlorenceandNorthItaly,"Studies
in Iconology (1939; New York: Harper & Row, 1972), 141. 22 See Panofsky,
Studies in Iconology, 129-69. 23 Cassirer,IndividualandCosmos,132. 24 Panofsky,
Studies in Iconology, 134. 25 Cassirer, Individual and Cosmos, 135. Panofsky
rightly notes that the vast influence of the notion of Neoplatonic love was
effected in both direct and indirect manners, much in the manner that
psychoanalysis was influential for the history of mod- ernism in the arts, even
when inadequately understood. This idea is useful in con- sidering the
relations between theoretical systems and artistic production, where partial
readings and misreadings in no way obviate the efficacy of
"influence" or "affinities." Harold Bloom's The Anxiety
ofInfluence {Oxford: Oxford University Press, 1973) remains the most subtle
analysis of the role of misprision in artistic cre- ation. In relation to the
experience of the Italian garden, John Dixon Hunt, in Garden and Grove {242,
n.3), astutely makes a parallel claim, referring to a study by Claudia
Lazzaro-Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante:
"Iconographical studies usually consider, as does this, only meanings
inscribed in artworks, rarely how such meanings were read by later
visitors." The great value of Hunt's book is that it accomplishes both
feats. 26 Cassirer, Individual and Cosmos, i65n. 27 Ibid., 160. 28 Cited in
Arnold Hauser, The Social History ofArt, vol. 2, trans. Stanley Goodman (1951;
New York: Vintage Books, n.d.), 129. 29 See Cassirer, Individual and Cosmos,
83-7, 115-9 and Paul Oskar Kristeller, Eight Philosophers ofthe Italian
Renaissance (Stanford, CA: Stanford University Press, 1964), 54-71. 30 Giovanni
Pico della Mirandola, Oration on the Dignity ofMan (1486), trans. Elizabeth
Livermore Forbes, in Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller, and John Herman
Randall, Jr., eds.. The Renaissance Philosophy ofMan (Chicago: University of
Chicago Press, 1948), 224-5. Juan Luis Vives, Tabula de homine (c. 1518),
trans. Nancy Lenkeith, in Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance
Phibsophy, 389. Juan Luis Vives, cited in John Hale, The Civilization ofEurope
in the Renaissance (New York: Athenaeum, 1994), 510. Lamarche-Vadel, Jardins
secrets, 94. On the transformations of epistemology, natural classes, and
botanic knowledge, see 79—121 of this work. The locus classicus of the subject
remains Michel Foucault, The Order of Things, n.t. (1966; New York: Vintage,
1973). Cited in Edgar Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958; New York:
Norton, 1968), 2l8. Wind, Pagan Mysteries, 218. Ibid., 99. Perhaps the most
familiar contemporary example of this dictum is Mohammed Alls "float like a
butterfly, sting like a bee." The erotic poetics of the Hypnerotomachia
Poliphili speddcaWy justifies the use of this adjective. Wind, Pagan Mysteries,
104. Cited in Cassirer, Individual and Cosmos, 158. Wind, Pagan Mysteries, 21.
Ibid., 25. Maurice Le Roux, cited in Maurice Roche, Monteverdi (Paris: Le
Seuil/Solftges, i960), 70-1. Although the identity of the author of Hypnerotomachia
Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always attributed to
Francesco Colonna, a Dominican Friar of the monastery of SS. Giovanni e Paolo
in Venice. There is one theory that the book was written by Alberti, which,
whatever its veracity, reveals the profound affinities perceived between the
two thinkers. Hypnerotomachia Poliphili was pub- lished, with illustrations, in
a mixture of Italian, Latin, and Greek, in Venice by Aldus Manutius in 1499. An
abbreviated French translation by Jean Martin appeared in Paris in 1546,
published by Kerver under the title Discours du songe de Poliphilr, the English
translation, entitled The Strife ofLove in a Dreame, appeared in London in
1592; the contemporary Italian edition of Hypnerotomachia Polophili was edited
by Giovanni Pozzi and Lucia A. Ciapponi (Padua, 1964). Translations in the
current study are by the author, from the recent French edition (based on the
1546 Jean Martin translation), Le Songe de PoliphiU (Paris: Imprimerie
Nationale Editions, 1994), edited, prefaced, and transliterated into modern
French by Gilles Polizzi. On the influence of this book in France, see Anthony
Blunt, "The Hypnerotomachia Pobphili in lyth-Century France," Journal
ofthe Warburg Institute 1 (1937): 117-37; this is an important early study
flawed, however, by a less-than- rudimentary comprehension of Renaissance
philosophies. The importance of the engravings in the Hypnerotomachia Polophili
for considerations of the landscape are briefly discussed in a book that is, in
its breadth and depth, a model of scholarship on gardens and landscape, Simon
Schama, Landscape and Memory (New York: Alfred A. Knopf 1995), 268-79. For an
idiosyncratic and su^estive allegorical read- ing, see Alberto Perez-Gomez,
Poliphilo, or The Dark Forest Revisited (Cambridge, MA: MIT Press, 1992). 44
Colonna, Songe de Poliphile, 120. 45 Ibid., 125. We find here the origins of
Astroturf 46 Ibid., 128. 47 Ibid., 276. 48 Ibid., 325. 49 Lamarche-Vadel,
Jardiru secrets, 31. 50 Colonna, Songe de Poliphile, 325. 51
Ontheepistemologicalproblemoflists,seeAllenS.Weiss,"TheErrantText,"in
The Aesthetics ofExcess (Albany: State University of New York Press, 1989),
77-87. Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was
directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and nonutilitarian
inventions of Raymond Roussel, and the simulacral metaphysics of Jorge Luis
Borges. 52 Gilles Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de
Poliphile, xvii. Abram, David. The Spell ofthe Sensuous: Perception and
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London: Thames and Hudson. Grice: “Measles is natural, dying from it is not!
Dahl’s daughter died from complications of measles – unnaturally so – poor
child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo Alessandro Collini.
Keywords: naturalismo, naturismo, pterodattilo, filosofia, pisa, Firenze,
nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio Chelli, marchesa
Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una nuove Atene”,
Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s daughter. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colombe: l’implicatura
conversazionale di Galilei – Aristotele e la stella nuova -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any
philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea
that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto
per essere stato uno strenuo avversario di Galilei. Non si sa quasi nulla della sua vita, ma
restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un
particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza
logica. Scrisse un discorso sulla nuova
stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente
da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra. Per conciliare le osservazioni di Galilei
sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della
perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i
monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario
all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico,
sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro
forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria,
affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili
vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele,
per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono
rimaste anche lettere tra il Delle Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il
suo avversario, che aveva soprannominato Pippione. Vari accenni a questo
personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario
Biografico degli Italiani, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo.
• H 105 by Stillman
Drake STILLMAN DRAKE Z' ■%AS»^
*2 é tii
DIALOGO DE CECCO DI RONCHITTI Da B r v z. e n e
. IN P ERPVOSirO De La Stella Nvova. Al
Loftrio e Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo Calonego
de Paua , so Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte,
per la medejlma Stella, centra Arjlotel^ . ls3
*9 «3 te
te te In Padova, g£Ì Apprcflb
Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v. H ikSk tk^s skfjh «^EsS* «JbJU (?X:§(s
P AL LOSTRIC.
EREBELENDOPÀUO::. E L S E G N O R Antuogno
fquerergo 'Dennett* fimo Calone*o de Vjua ,
Vedifleo, RebelédoSegnor Paròn , s'a vee&è on voftro
puouero feruiore,que no fé me altro , che la boaria , e'1 mefticro
de pertegar le cam pagne, ade-fio, que el la to- leflfe co* vn
Dottore de quiggi da Paua, per via de desbuta ? no ve pareraela na botta
da ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a mentre fé conto c'hò
fatto con fèquellù, che le mef fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio
dot- tore . L'è vera , que inchinda da tofatto , ci A 2
me nuTnfaua el me {naturale a~guardare in cito, e fi a
g'haea gran piafere desfeguranto la boa ra, le falce, i biron, la
chiocca, e'1 carro,con tutto ; mo gnan per quefto a no ghe n'harae
iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mil- le, emilliantabotteadire
mona confa , mò n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta Stella nuoua,
que dà tanta fmcrauegia a tutto el roeflb mondo ; per conto de dire on la
fea, a ghe n'hì , per muò de dire , fatto lotomia j faellanto,
edesbutanto co quanti difea, che la n'iera in Cielo 5 que fé ben a no ve
n'ada- ui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi, efia
vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a
tegnia mcn te a zò cha difiui . Tonca mò, per que adef
foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg gi , fé conto cha m'ho mettù el
voftro gab- ban , fe'l parerà bon , a ghe n'harì vù Tha- nore. ma
fé, pre mala defgratia, el ghe foef- fé qualche fcagarello(cha no'l
crezo) que o- lefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche a darme
alturio,fipiato che l'è voftro . Caro Paron habbieme per recomadò,cha
prieghe lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve da* ghe vita longa,
e fanitè . Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie
cento, ecinque^. Seruiore della voftra Segnorra
Cecco di Ronchitti, Quiggi , che Rafona . Matthio. Nale.
Ootta de chi me fé 5 mo que feccura , que brufa- mento e que
fio ? a sè> che no vuolpiouere mi , bon ctt aqua . Mo no difegi
, que a le Vegniefìe l'è a man a manfute le lagune ? Penfeue^elfe
ven ape inchin da a slarilafofina . <td pojfon ajpiettar de
belo, que i fromintinafcira. i nafcìra condife zJldafchio . N A. a dio, a
dio, Adatthio. quefaellamento el to ? iejliefl sì fora de ti an\
MA. ben ve gnu Na- ie 5 mo caro fretto > a no se mi. a m'anda-
fé a lambì canto el celtbrio, per que no pio uè mi , que fin parfefire de
Ht timpt ? gtiè pligoloy che gi ardere del Gordon fé rompa
% rompa , per le pine ? NA. Ver canto de quello
, l'è ongrétn dire y que tant ciòtte el s'ha veZjU nunole
"pìoììolèX^itagr Ò ba da,e fi gi è torne indrio fenz^a bagnare
el fabbton gnan tanto co harae fatto on pijfar de rana . <*// evèrtè
< que fé l <và drto così a feron al finimondo mi I p> è e
tutti brusè y le campagne fecebe a muo noffo \ tanto que a longo andare,
nu elbe Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne tre. MA. Tirate on
può fottofla voga- ra 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a fera,
da quecrito mo cheU fprociedafo fccume an ? NA. mo nheto vezju quel
la Stella, chesberlufea la fera \k tn mi- fi, que laparea nogio de
z^ostta) e fi a- dello la fé <vè la mattina con fé <và a
bri*. fare, que la fa on [pianare belettfèmcì no t'acuorì^to, che
la xè vegnua da fre- (co ? e que no la s*ha velati a me pi inan%o d
adejfo ? mo tè ella cafon de Hefmera uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che
dtfe ori \ dottore da Paua. AIA. Cu in feto ti, que la no shablne
me pi ve&ua ? NA, <*si fen- % ^fentìf altro
dial^o vrió,che lez^ea on certo slibraT^uolo.efiel dì fé a , que la
fé fornente a desfegurare lomè a gì otto del me fé d'ottubrwpafsc.
E (i quel librai^ zjtolo el l' haea fatto on lettran da Pa- nai
chel contatta , pò afe con fé . MA. *Doh cancaro a i fcagarieggi da Patta
, faosfìy per che cjuefììt no l'ha ve&ua ello > il vuole,
che tutti ghecher&a, que me pi la noghefuppifta ? -Guari mi a n ho
mi *vezM le Toefcarie , e fi leghe xe . NA. Jidopre conto de quello
, el me par pure aria mi , che la fé a nuoua . AIA. qlA no dighe a
ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò de fae Ilare ne ben \fe miga
elfoejfeper gramego , NA. ^4 fé confagòn tonca, que te nuoua. AIA.
Sì, mofeando tan- to lunz^i el no pò faere &g que lafippia ,
per dire, che la xe ella, que no laga pione re . NA. ^liedio, lim^i , la
n'è gnan fora a la Luna, per quanto dfea quelli- _ braz>z*uoia.
À4A. Chi eloquellù , e' ha O] fatto l ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ?
* NA. Nò, che te Filuonco . <&1A. Lì Filuo-
Fituorico ? e ha da far e lasoflluorìa col mefurarc ? No
feto , que on z>auattin no pòfaellar de fibbie ? El he fogna
crerc a gi fmet amatichi^que gi è pertegaore de t aire,fegondo y
che an mi a per t ego le e a pagne, e fi a pofjò dire, a rafion 3
quanta le xe longhe 9 e larghete così an iggi. NA. El dìfea ben
aponto quel libraz^T^uolo 9 che ì Smetamaticht ere, que lafippia
elta de bebi ma che i no l'intende . A4 A. mo per que no
l'intendegi? me truognelo, o me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i
Si- *f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele , e
z^enderabele in quato a onpuoco a la hot taf e mtga elno poeffe gender ar
fi, e fior romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ? MA. On
faellegt de fiere fon tfmet ama fichi an ? S'i Ftà
lomefulmefurare>quc ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi
le, ò nò . Selfoejfean de Polenta,nopo- m raegi ne pi , ne manco
tuorlo definirà ? mo el tne fa ben da rire , con Hefuò sba-
*~T già fari . NA: Ah te bella , que e Idi- fi confi de Ha fatta in
pur afise luoghi de quel quel libra^ZjUolo.sZMÀ.
Que vnctu mì> ^*jj cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p
" u s'in caue la vuogia . NA. Eldifea,que fé lafoejfe sbenderà
da nuouo in lo C/c lo, el boqnerae anche, que rì altrz Stella , o
qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in so fc ambio liueluondena, h
vefinaqueL la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco . Ai A. TV
parfeche'l faelle con gifmeta rnatichi ? tamentre l'è tanto
fcapu^ZjUa, cha no poffot afere, mettamofegura>que onpuoco de
Cielo chiue, e n altro puoco li uè, s'habbi combino a vno^ el
s'acuorz^e- ra elio on el manche ? quando fé fa le nu noie, e le
piozje, onfevèelfegnale , que le fé a He tolte per mettrele
wfembrefmo digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie re, perche
el "vuole, che lafappi incende ra line elltk? Epos'imaghinelo (la
ferae ben da dire al preue ) que tutte le felle che xè in Cielo fé
pofia vere r el ne pos fi- bule . Eperz^uontena>> chi me tèn, cha
no pvjfa dire* que trè>o quattro, e ari pi [iel- le de quelle
menore , che no fé <vea,fe xe B amucchìh e sì gi ha fatto Ha
bei) a <iran~ de? No porae an efifere ,que la fé foejfe penderà
in Papere, e pò , chefempre pi lashaejje alz^a ì tamentre a no
vubdi^ refie con/e, per que la ne me firefesfion, no me ri mudatomi-,
bafia > que gnan elo noparlaben . N *d. E fi el 'vuole polche
quefiofea el neruo de la rafon de Stote- ne . ^MA. Toncafipiando così me
fero el neruojutto el so Zjenderamento.e fcor rompimento ander a in
broetto. NA. S'i nìeruìe sì debole, la carne fera benfroL la .
Eldife, quefe'lfepoeffe Xepderare in Cielo de le ftekenuoue, el
befognerae y que da tanti befecoli m qua/ in foejfe fcor rotta
qualcuna de quelle >che fempre me xe Ha vez^ue : que gì è : a no m arecuor-
do quante : bafagt eparegie\£ fmoghin manca gnegima, que el lo
difettatene . MA. Pìivh , mo queHa firen%s benfen l^a penale, chi
diambarne ghkndttto* che Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ? Ce
ben on fpianXare , mo no na [iella. E fi mt a thè wchtndamo chiama [itila
> per que que la in par e, fé ben la rì e,
corri e le altre. NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì mi ?
bafa.che la riè na [iella purpiamen. e file altre fi elle no fé xè me
ftorrotte,per que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debe- fogne dt
f Atti fuo : mo no de quefìa , che fipìanto vegnua, l'è anche ti
deuere,quc la vaghe via . E per conio de dire , que no s'ha me
ve&uHelle afeorromperfe^ re [pundime on può. La terra ( che xè
me- noredele [ì elle ) s* eia me flramua tutta in fona botta ? NA.
Mo, copeforinfe la terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf fangi tutti a
fca&z>afaJfo ì <£WA. ^A cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a
può coel fefa,efiporae effere ,che'lfefaeffe anche de le [ielle,
que xè [ielle. Pure > a domanderae enti era a queliti dal librai
z^uolo, a comuo el sa, que gneguna fella no fé fa mèfeorrotta de fatto,
che per di re> que nogh'è me fio homo, che fé rihab- li ado, e
(jue el Cha ditto Stoterte $ le me par noellemi . NA. el
dife>cjuefefia [lei T „ rf t x làfoefje m Cielo>tutta la fluori**
fnatu- cap ' r * C 2 tale cap. 4-
raleferae na bagia $ E que Statene ten \ que arZjOnz^antofe na
Bella in Cielo.no l porae muouerfe . AIzA* Cancaro, l'ha bìo torto Bd
Bella, a deroinare così la fi- luorìa de que fioro . s'afoefiè in iggi a
fa- rae e et aria denanz^o al Poe fio mi , e fi a ghe darae na
quarela depujfefsion tmba t a, e fi a torrae na cedola reale >e per
fona le incontra de ella, per que te casòn, que f ?&c ni
" e ^ Cielo nofemuoue^ tamentre quello Te manco male^ che el ghe
nepancchiie an di buoni) que cricche* Ino fé muoua.lSlA. ^j;
Mo rì altra, con que re fon (difelo) quei Cielo de fora xelo da manco de
gì altri ? que elvegniraea ejfer da manco fipian- dofcorrottibele,e
naffan doghe de le (leU lenuoue , e no in gi altri , eh* è pi baffi
. IAA. Cancabaro, da quello a zi altri, el gtie defenientia, per
conto de macre , pt % che né dal monte deB.ua a on gran de me gio ;
ep?rz*>ontena elio fipianto sì grande^ el pò haere de le altre Belle
da nuouo^mo nò fi altri , que gì ha afse dcvnaperv- no>e
phfclghe nafajje anche in iggi quàl che che
flelletta , s'ìmaghinelo , que tutti la verde defatto f 'o te cottora.
NA. Eldi fé, que per fare el mondo Fptefetto , bo- gna> che
ghefuppì qualconfa incenderà- bete , e incorrottibele , e fi la no pò e
[fere altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per que mò cosi
el Cielo ? E mi a divenne el Parafo, che xe defora dal Cielo , xe
elio così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La ghepar na confa
imposfibole^que na biel- la così gran de tifj^e ma poffa de fatto
borir fuor a in tvna preuifta . MA. E a mi nò. Quando na Vacca fa
on Veello, alt» hora % che te lomenafìi, te maored'vn ^Agnello que
fé a crefsu inchinda in cao . per que mo? per que la mare
delVeello, don belpeXzjatto, tè maore, que riè na Piegora . Fa mo
tò conto , che Uà Stella despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere
gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan te defletto ala terra, te parfe
mò , que tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe tè così, a comuò
calelajn pè de crefcere, la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela
e p. 4. qjavhe cap.
cap. 4 maghe dagnora pi in su mix, e que % l
para] che la cale, per que la ne <va lun&i.NA. Pian, che el
libraÌQUolo df>que i primi di, che la fé vele la crejcè on
btlpuocofe l'andejfe in su , la no ghe porae tntrare $ per que
fempre la ferae cala. MA. &4l l'hora quella dal libraz^z^uolo difea
ef fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que la prima botta eh a
la <vitila me par [egra denijjema , e que fempre la xè cala ,
per muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie refon no me per du fé
ami >e fi afaello,per che quellu dal libral^uolo va majfafuo ra
del fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin carezza . NA. Orbentena>fìnti
an que- lla. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente in lo Cielo, per
que {di feto) el befognerae, che'l ghe foeffe di contragi, e che ino
ghe pò e fere, f piando que tè ria quinta /una ^t, òfoHantta\
quefegi mi? A1 A Mo sì ceole . gi è de quelle boi te de S toetere
quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i feaviui,e fi 1 1 noi fat
Ilare de Culo. §A cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai
do > •de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an
chi- ne mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f fo,e del
chiarore dei Inferitele dei feuro? che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a
l'inco tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha [iella ghe poca
cffere,e fi no glfiera , e fi adeffo la ghe xe . ri eh rotfso quejìo
? moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora quel , che 7 vuole . E
pò elio el fa conto de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar lega
de He re fon ? on fita halo catto , que onmefuraore vaghe Jfelucato
sufìenoel le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo cane aro , el gti
arz^onz^e , que fé in Cielo ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo
elno fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el doenterae tyejfo, e
f curo. AIA. Si fé qui leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo
gì è pi [prefetti ,fegondo , ch\i fentì na botta adire al mèparon.que el
difea.che Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que a fio muo,el
Cielo noporae anar a cerca <via>fianto , che i lemìnti r oa tutti
in sii, in z>o, mo no attorno . <±7ldzA. E fé mi a
diejfe cap. 4, cap. 4 >
Io di C nico eap. 7- a
àiejfe a rincontralo , que ìvaanthe attorno ? El gh' amanca i sletranique
di pinfon ~y£j <^ /* terra [e <vol\c a cerca,con fa na ^! pe
" muoia da molin . penfate mo ti de gi al* tri con la va a faellare
, tutti sa fretta- re > NA Eldife pò, que la fi ella xe ape la
Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no che pò efserfuovo. ^1 A. .L'ha
fatto ben adire* que no gh'èfuogo , per pi re fon. NA. E così el
tèn, qùe'l fipìa air e, quel- lo, che lecca ci culo (a vuos/idire, el
Cie- lo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea ben dire an
quejìasì. NA. E (diftlo) el u Cielo no pò e fi ere de fuogo,per que fan
to così grande el bruferae tutti gì altri le- minti . MA.
<z5fy'lo me vegna e l morbo , che queTiufeanto dottore fe'l fé caejfe
la yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na fa! tua fola no
bajìeraela a tmpigiare on paviaro, e pò anche a brufare quanto le-
vitarne fé catta ? NA. <*A cher%o de sì mi. MA. E fi quante fornafexe
atmen do, le no porae brufare on Cecchin , che foefje d'oro, per
que mò ? feto per quei mo per per que loro no fé
pò brufarc . e così an* che fé gì altri lemintipoejfe brufarfe, ba-
Jìerae onpucco de fuogo , f?r e far l'effet- to-, fenXa tanto co Idi fé
elo. NA. Lavhe va la , quanto de quello 5 mo crito pò ù fremamèn,
chel Cielo fea fuogo? AIA. oA no dt eh e così mi .Uè che'l dottore
ci- ga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife fenz^a metreghe
su volto, gnefale. NA. aPklo finti ti altra , que la ne miga da
manco no. El difè ì que i fmetamatichi ha de boni ordigni , e de le re
fon freme y ma i no le sa u onerare^ . ^IA. <*A co- mito fé ri
elo adb elio ? feraelo me fr elo de la t or dal Bo? aldime mi. fé on
fmetama fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà : Naie, mi a
<vub faerte dire quanto gh 'è per aire da lì a nogara a l'arare; e fi
el lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muo- uerfe 5 e col l* babbi
me furo , e quelite /'- babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì
co'vnfi lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi que tè così 5
no che r de reto , che Vvouere ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi ,
que C cade ? cip. r .
p.l C^>. tap.f.
cade ? MA. Perche toncaquandoel me fura na Bella (per muo de dire )
ogiongi dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla , chel falle de
millanta, e de milion de me giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a
dire, quattro dea, b na fpana,a taferae. mo de tanto ? l'è maffagnoca. N
A. Se- topo, querefon de i fmetamatichi^el ven a contare? MA.
T>ì mo. NA. Vnaxè de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer
cene, e que la Stella, così a no la pofsan vere, per pi de mezjhora. E n
altra de anarghe fottoapiombm , caminantoghe al ver fa vinti dìt me
gì ari. e fi ti dife.que le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è
amo frare , que la fella fea pi in su de diefe amegia-y e fan elio
di fé, che l'è on belpez* ZjO pi elta . zZPIA. Cane aro , l'è
aguti*- Zj>o dal cao groffo 5 mofelcrè,floChri- Bian, que la
Bella vaghe pi in su de die- fe megiarì, e fian quelle refon eldife^
tè fegnale que le riha da far con elio 5 per- che tonca mettrele
fui so slibr aiuolo, e pò dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re*
fori jfo# Ufo fatte (per quanto ì dìfea a Vaua
7^k buoni di) con tra on inasprente di fi- luorichi de S tot e ne , que
althora tegnta duro, e fremo, che la rìiera pi alta de die fé
amzgta 5 e perz^uontena queliti dalli- braZj^uolo die a lagarle Ilare
> que le no ghe daea fall ilio . NA. orbentena, ghe ne pi?
diJJ'e que lù, eh e e attratta iporcieg gi. an, sì> sì. gianduJfa>mo
elgh'e on brut to intrigo de Prealajfe , e de <vere , e de Luna
. que fegimt ? p rifate, che quellù, che le\ea la diffe 9 e fi la
defehiarè p\ de tre botle.efi gneguno no l'intende. Ad A. £1 die
haerla intriga a polla elio, perpa vere n homo da 2^0, e da palo, e fi la
fera pò a n altro muo, perche a se ben mt,que de la Prealajfe el no
pò haèr rafon. che l'è on muo de me furar e per agiere,maffa
feguro. NA. Lagame mo vere sa me rì- arecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen
9 che no fé pò guardare de meXpfuora a na lì e Ha 5 e que fiaganto
così da /unzji , el nèposfibole e aitar ghe elme%p,masfima- mentre
,per que t 'è na confa, (ondale que. e 2 ma. cap,
*7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe ne ditto pareggie in
fon groppo . chi è quel lu, che cherZja de poerfmirare de me%o via
a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof fa? che cane ab aro de
filatuoriefe vaio a imaghinare ? gh' in falò de pi belle ? que Ha
fera lacrima. V altra, a comuo e at- tenevo miegio el mez^o d*vn criuello
j mettantoghe gi voce hi ape > ostarganto^ iTb" d & te
on belpitoco? NA. zZkfò, fagan toghe E b uctc & t' ^ a
lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin, a no porae gna desfegurarlo
que flejfe ben. MA, Guarda mo toncafe tè el vera 9 que no fé pofa
cattar el melo^ de le Ftel* le \ per che gièlun^i ? %A l'altra . in
che dariflo pifremamen in lo mez^o % con na occhia Jn quel d*ona
ballalo d'on gamie* ro? NA. CancabxrOi aona balla iper que co a
l'effe giti fi a infdhverfò , la fé- rae giù fra in tutti . M A>E pure
elio el dt fé a l tn con tr agio . NA. Mo elgh'ar- ZjOn&e que
gi è {al noffro parere) majfa pècchemneyper cattargheel meZj0.MA.
sì> el dtfe an §uefta ? e quattro tonca, in )
t on t'onboccon. dime onpuotì. a comuòpo*
rtfto fallar pi > a dar in mez^o Confondo da ttnaz^ZjO , o d*on
taglerò ? a dighe de mofìrarlo. NA. Fotta , a por ae fallar don
belpuocopì in f ti fondo da tinaXr z^o , che in t el tagiero . A4 A .
Efielbon dottore dal libraz^z^uolo dife a l'incontra, gio . Va
modriOy de fa Trealaffe. NA. Aio no fé podanto fmirare de mtXof r
uo* ra a le. fi elle , no fé pò [aere on le fìppia ( dif lo) perche
no fé ve elluogade drio* ghe . esPI<*A. Ste mettisfi elto gabban
fu ngraile de la me fiala da manie chel lo f con d effe tutto ffaertfo e
at tarme su quale elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn granfa re . a
fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e tr)> inchinda > chafoeffe Ime ,
e quando heffè ditto , con far a e a dire 9 nuoue> e e ha veeffe
9 che in su quell'altro ghe foffè el gabban , a dirae , que l'è fui die
fé mi . no vaia così ? AdoA Mo la no pò efsere altramen ella , e
così anche fi vena far e in lo CielOifeben quel letr anello non s'in
sa adare . Uè benpìgrofso, che né elto- raT^Q
cap. tf. «ap Cip. 6
razzo de Cremona vè$ che ì dtfie> que l'è ****•
s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar don in la Luna, el noflro vere fé
ghe fic- ca entro (dtfielo) e perz^uontena ho fé pò fare la
prealafiftLJ . <&dA. Chel me fio che elio (fqua fio eh a thò
ditta) a veefiskn te Belle de fora , chelfiarae on pia/ere , fé
lafioejfe così . NA. Pian, e ha novo* rae fallare, el me par pure , che'l
diga , que no fé pò vere mela la Luna, negna mele le He Ile ,
filanto , che le xe grande % e'I noflro desfegurameto tira
mafifaftret to , fie ben elfie va pò slargamo . <&14A.
^yPlade imaginete pure 9 que chiappela da che cao te vuofi , l'impegola .
che me fa mi quello , fé mtga a no pò fio vere tut ta la Luna , ne
gnan tutta na Bella? no bafla eh a la vegga on puoco , e cha la me
fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò> te na bagia la que fi a . doh mal
drean$ el fie fafiea pò bello , d'haer catto na fpe- lucation
fiottile per fiarghe Bare i fimeta mattchi . IMA. Seto que le na confia
> che no gtìì me fio penso ? mo per la ma- re
cap. 6 re ib. T- ' re di can, que
inchinda on Veelo thàfk pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a [X.
dire ajfe botte al me paron . E fi el no fé %'"££ riha te gnu tanto
in bon . NA. vuotu y ' 1 ;. i ctì andagamo inanXp ? <^/aA. Sì y di \
28 ° Fr ' NA. F rello te te fari s fi fcompifso da ri- fo y Whaisfi
fentio vn batibugio , que ghe *•«*• Xèy de <lA> By Ny Oy ^
figì liti f Ì >afl ^ , 1? »» talea offerire , che la Prealaffe e
bona , mo i fwetamatichi no la sa vouerare ; que flaghe ben .
<&14A. Elnodie inten- dere gnan elio zj> y cheldifi^ .
Tirate on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y che apèfiofofsà ? NA.
Sì mi . MA. *Uito mo quell'albaray che xe lialuon de- tta vefin a
tar&erz_j ? N<tA. Quale? la grande , la pigola ? MA. Lapec
chenina . N$A . Sì mi eh a la "veggo . MqA. Orbentena , guarda mo
bender- to $ qual te pare , che fea a bo da man * de Ho falgaretto
, e de queltalbara ì NA. Staganto così , el me pare mu que talbara
egnirae a ejfere a bb da man . M$A» Tirate mo da ft altro lo . NA.
ave- a njegno . M<tA* F remate chine, e ade/
fi ? N<tA- Mo cane abaro , a jlo muo el fato aretto farae elio a bo da
man , e l' ai- bara a bo da fuor a . zsllzA. ^rue te fa mo a ti 3
fé miga te no <vi de meZjOfuora el falgaro, ne l'albaraf e que danno
te da, -per che te nopuofivere anche elio de drìo , de tutti du ?
N$A. ^Mo gnente , per que afmirofegondogi *vri de le fior- z^e mi,
e no figondo a quello, cha no veg* go . <&dA. Elfi fa così anche
in agiere <ve , e que Ha xè na forte de Prealajfe . ^Torna mo
chiue on a fon mi . NA <±A ghe fon <vegnu mi . a^kttA.
Cjuardanto de cima via aflo falgaretto.puotuvere queltalbara , cha
te difia , fi ben la ghe xè per mie ? N<tA. Lagame mo guarda*
re.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl mo tanto lunl^, che guardanto de
cima fuor a alfalgaretto, te credlsfi definirà- re derto a
mez^alama.e te t o facuorz^tf fi d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot
fi fi pi elto de /li du . N<t/1. $A fi ietta cha ghepenfe on
puOco : %A dirae defatto, que que t albata
foejfe pi baffa> t*l falgaret io pi etto mi 5 per que el me parerae
co- sì* anche no /tanto elvera. Ad A. Fa ori può ri altra con fa.
va su fi a nogara,cha fagiere mi . NA. One vuotufare ? zZl'IA.
vaghe , e Po te fenttnefi . NA. <td gtiandere , fda che te vttò così
. Qt&fA. Pian, chete no te f aghi male . NA. Ta de mi ; mo a
mefongifquafo fcapogio riongia> e mondò vn z^enuogio. Ai A. G
hefìto ancora ben fremo? N A. Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a
fmtrare quell'albara , che te guardaci an chi de [otto . NA* E pò ?
<&dA. S mirato a quella dertamen,puotu vere ftofalgaretto
> co te fafìui flpiato de fot to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da
lu Xi. così a telta> a dirae, queelfalgaret tofoefepì bajfo mi.
Ad A. Vie tonca lo* cha te contere de belo . NA. E l gif è
puocafatga a f aitar z^ofo . Al A. S in- time mò.per que quando te gì eri
ab affo, elfalgaretto tepareapì elto delialbara\ e ftpianto su la
nogara , el te parea a T> l'in- 'tincontragìo
j perXuontena àn queHo xe ri altro muo de Prealaffe^j . que
Prealaffe ven a dire, con far ae a dire , defenientiadeguardamento . Fa
moto conto, che fé t'andiesfìsìt quel moravo, che xe Ime, elfalgar
elio tepareraepì baf fo dei'albara, eabo da man 5 ettetor- niesfipo
da IV altro lo,elfalgaretto te ve gnirae a parere pi elto de l* albata. ,
e & bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo de Prealaffe
^fegondo, che me defchia- rlna botta el meparon. ttntindito mo? NA.
Pootta, mo Te pi chtar-a % que riè on gratto da vacche, a me
fmerave- gìo a comuo quelli dal IibraXZjUolo,ri ha fapio faellay e
lome d'ona forte de Prea laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa
•rae Ho anmafa , fel , ri keffe fatilo con fé die . Orbentena ?fa mo to
conto, que fé la He Ha nuoua ,e la Luna ne foeffe ve sin co
èflofalgaretto,a por non, le fisi le de fora nefarae don bel
peXzjOpilim ZJ> cheriequell'albara. e fi farae popi- bolo >que
no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h ci cap.
y. e i Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi* de
guardamento ? e pure tutti la *ve in lo rftèdìerno luògo, api k quelle
[ielle, che i ghe di fé. quel da la baie [Ira > o che ghe fita
del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA. A/lo el tòfaellamento rièbon,perque
nepof Jìbolofaerc quanto la Luna fé a lun\i $ che elio di fé
anquellu dal libralz^uolo a AIA. Nò al so muò de elio , el no fé pò
faere . mo i fmetamatichi chela catta, beri gì. NA. oA no fé qui d'irte mi
,fe lome, che the refon da vendere . MA. Crito mò,chequellu d al
libr aiuolo di rae cosìan e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa raeben 5
tamentre elporae efjere tanto depinion , queeltegniffe duro .
cinque in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo , e chel metta a me
conto . NsA. ^A no se miga,a comuòfea Ho posfibole, che'l di- ga
(l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m dtfelo, che in gnegìm luogo
,fe tome , on el ghe xè fora dertamhì > e apiombw ,na fepòfare
lafcoridaruola del Sole? a thò purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu
2) 2 brio, cap . 6. IfrOTCII,
«ap. 7- èrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna
gi vogi) el fé por a chiarir e,che, per yuan to a he fentìt a dire, la fé
farà. Aio con que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La Luna fé va
volz^anto (difelo) e filano fé pò vere dert amen dome quando la xe
in Z aneto . <&14A. Tornami) adire . NA. El dife elo , che
nofipianto la Ltt na in Z aneto, no la pò fondere tutto et Sole .
^MA. c Doh giandujfa , fio può- uerhomocrhque la Lunafea nafritag
già elio . Con cane arOychefìanto ella reo da 5 quiggi , che Ha in Zaneto
, gtitnpò "V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl Sì. que vuol
dire Grafalta? &WA. eA comuo , Grajfalia ? NA. El di fé elio,
que l'ina nuuola a muo latte , ve- sin a la Luna , e que la ne altramen
in Cielo . <£WA. Oò , a tendendo adejjò. l'è laflrà de %flwa .
NA. <*An sì sì, la fra de Roma . sOMA. Efìeldife 3 cjue la ni in
Cielo ? N$A. <£Mo, no, difelo. MA. Con cane abaro ghe dijjangi
tonca nù P Hra de Roma, che vuol dire , Hrk del Par
affo, fé la no foefse ti fufof ] NA '. Cjuarda ti . e sì elfapo delle
sbraofarì contra onFUuorico(eben an divieggi) che no
crea,quelafoeJfe in Cielo , per che ellodifea Stotene > che la gh'iera
. Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e a, que te fera, in f agno muo a pò
fon benfael larecaminanto sì. NA. Vapurlà.cha ve gnomi, pooh, el
ghe ne que Ut puoche ancora . el di fé , che la ftella nuoua la
trema>per que la fé va suentolato,quan do la va a cerca . ^lA.
Ghe'lcritotì? JMA. <*A ghe'l crerat,fe'l noghinfoef fé paregte
delle flette, que va a cerca , e fi no trema mi. e fi el trema tome
quelle* chexe elle, elte>perque a nopofsonfre- marle de vifta,
che paghe ben. e anque fi a Ir emanto la de efler li uè . aPkfdd:
Àdò va , che te sì on Rolando . NaA. Tamentre que, nofapianto queHù,
on la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere co- muo la flpia
incenderà 5 e sì le venaej fere tutte filatuorie , quelle, che 3 Idi fé
a \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala el
ni cap. U cap. 19. elle fogna
ben > que la fea così. NA. Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo dt
Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ?
NzA* El dìft , que la Beila durerà afte s afte, /e s'im-
batte j, che L Sole no la desfaghe , elio . At^sL El poca an dire, que la
durerà inchinda , que elio va a romprela 5 in t* avno rnub , con la
(e a anda via, el pa- ra tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà
rotta . N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal drean $ quejìa farae ben de
porca ! El *—*\ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno
confa, e que l'è na Bella de quelle bone. J\d<zÀ. Inchindamb la va ben
, quanto de quello, mofe la tegmffe mo fremo con Bi ficchi 9 a que
ftjfangi ? crila purea tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel le
puoche con fé . M<t4. Con farae a di ^; re ? NtA. Con far a a
dire^ quei doen* tera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé te- stura a
la verite . AisA. Vete> che'l se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no
vito a comno te agnino \ el ne amposfibolo % chel
cup. li. chel viua , habbìanto tanto e dibrio
da Xoene^j . N^4. T^e me sbertez^à nero ? dì pìprefto , que el
fprenuoUuo è Ho ve ro in nìi, que a s'haon tegnu a la veri- te, fé
ben elio voi e a archiaparneght^j . zTkfo/l. T'irà , che f he vento.
iVW. El dife pò anche * que Ha Bella ca7z, \ - ra via le giottonarì
, le rabbie 5 quf /i- gi mi ? oJldtA. Sì >Sì , così noJìejfcle
in perorare , le nuollre carte > mo ano me fmerauegio
difuofprenuoHichi,que tutto el so libr alinolo me pare onfpre nuoflico
mi 5 e que fempre el fraghe a indiuinare^ . N^4. El dife ben , che
el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F ' [lampare^ . zsì4<iA. Che
l foghe pre- flo,per que feanto vesjn Li ^Marefèma-, e l farà bon
da qual confa an etto.ftgon do, che que fio n ha fatto rire adejjò y
que l'è da Carleuare_j . N-*A. E quelìlt , che le&ea diffe ,
che'l creapurpiamen , que el l'haefje fatto flambare per ven-
derlo, e gu agn ar qualche marchetta eU lo . M$A> Che'l U&re
tene* a tfazy Zjargi, Lorerc* cap.
f. 6. sgargi, e fé ghe nauanZjeffe qualchuno,
chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le
Jp tette 3 che l farà ben meffo in conerà . N<tA. Lagoni a line,
àfebn a cà. <vuotu Rare a cena con mi ? a fin dare ontiera ve .
Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe nega rri afptetta 5 tamentre a
fin def grati . AV/. $A T>io tonca . MzA. sA 'Dio .
IL FINE IIMII asS a£$5
* 1^/7 >" r» * 1 "- ; <r*
li u TU ■ 1 JL ■
■a ■ Grice: “If I had to choose
between Colombe-Aristotle to Galiei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe.
Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of
the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the
‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink
according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are
square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colombo: l’implicatura
conversazionale dell’idealismo toscano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor
of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’
be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between
theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and
I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’
in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna
a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana --
Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium,
Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa
d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo,
Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo
– il nome corretto -- in L’origine del
linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli
scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia:
L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo
della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università
Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli del
pensiero filosofico. Introdurre alla comprensione e uso
dei linguaggi e degli strumenti specifici
della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione
di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto,
della società e della storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute
e salvezza dell’uomo. Il senso
della cura e dell’educazione. Una
sfida per la ragione e per la fede.Valutazione
critica del rapporto
metafisica-antropologia-soteriologia in tre momenti della storia
dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo
Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno.BIBLIOGRAFIA G. coLomBo, I Greci e
l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio,
ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, S. kierkeGaard,
La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché completa):
ai fini della prova d’esameè
richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la
disperazione;J. p. SarTre, L’esistenzialismo è un umanismo,
Armando, Roma, 2006 (o altra edizione, purché completa). DIDATTICA DEL CORSO. Lezioni
in aula, ricerche e percorsi personalizzati. METODO DI VALUTAZIONEEsame orale
finale, valutazione di eventuali elaborati scritti o relazioni orali.
AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti per ogni chiarimento
didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza
necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di
lezione presso lo studio universitario, martedì e giovedì h. 10.00-11.30.
Cap. I. AIIO A. AoxdZ (loi ikqI iov jtw&avtt 1ft$
ovx d(is- 17i kiztjTos slvca. xcd y«Q lxvy%av ov tcqcoijv sis u6zv o
foco- 4 oh <s3 poi* Stallb. ad b. 1. Facit, inquit, Plato Apollodorum inter
epulas versantem et convivis narrantem ea, quae hoc libro continentur. Sed
neque epulae commemorantur, nec convivae Apollodori, ut sane
mireris, Stallbaumium in re dubia et incerta certum iudicium exhibuisse.
Platonis voluntatem declarant verba p. 173. C., quae primus Sydenh.
corrupit. Eius couiecturam cum codd. auctoritate probatam reperirent
ceceutiores, ad unum omues “taUta” pro “tautA” ediderunt* Verissima autem lectio
vulgata est: “ovxoa 8rj iovreS apa xovS AoyovS itepl avt&v
lizoiovpE$a y dkxs,oitEp dpxopevoS EtnoVy ovh ape- AextjxodS d ovv 6 «
nai vptv 6i7]yij<5a6$ai , xavxa XPV 7toutv”. Apollodorus nimirum
cum domo relicta Athenas proficisceretur, sermones in Agathonis convivio
habitos ei repetierat, qui ipsum tum temporis comitabatur. Brevi post
redeuntem, ut videtur, ex urbe cum alii rogarent, ut eosdem sermones ipsis
repeteret: accinctum se paratumque ad rem ostendit ita, ut qui
vellet, quando iuberent, quod brevi ante fecerit, idem nunc facere,
h. e. inter eundum narrare. (p. 178. C. “ovtoo 8? IoyxeS apa xovS
AoyovZ TtEpi avroov ItcoiovpeScx”) TtvvScivEd Se. Vulgo
additur “nun” quod nec codices habent exceptis paucissimis, nec FICINUS
in conversione agnoscit, neque vero sententiae ratio exigit,
merito omiserunt Belck., Stallb., alii. Praeter codd. optimorum fidem “notheias”
suspicionem movet ipsa sedes “nun” particulae , qua sede effcitur,
ut nescias, ad antecedentia pertineat, an ad sequentia temporalis particula.
Schieierm. relata ad “itwBdvetiBE” particula verba convertit: Ich
glaube anf das, wonach ihr ietzt fragt, nicht unvorbereitet zu
sein. Hoo quoniam dici nequit nisi respecta habito alius temporis,
quod praesenti tempori opponatur, otiosam particulam ietzt censebis
rectissime. Nam priori tempore non exegisse viae comites sermonum [“Sttv
avicbv (frahjQo&sv. twv ovv yvaglfiav tig oM 6&sv xatiduiv fis
xotftfa&sv ly.uX.t6B , xal xaLfcav a (ice ry xXy- 6tt, '0
<PaX.ijQtvg , k<py, ovrog, uXoXXoSwqos, ov xbqi-“] narrationem, cor
disertis verbis indicetur, caussam non video. Nou rectius alii cum
Wolfio: letet bin ich vorbereitet, euerea Wunsch zu erfullea. Quid
euim? Tempore aliquo non praemeditatum Apollodorum fuisse ut per se
intelligitor, ita non erat verbo posito indicandum. Ceterum,
ut clarior fiat totius loci ratio, tenendum est, *in medias res* lectores
abripi, ut, cum Apollodori comites dixisse fingantur: Narra, si
lubet, Apollodore, orationes illas nobis, Apollodorus
contra respondeat: Videor equidem mihi ad rem, quam exigitis,
optime instructus. $ a\e poS ev. Phalernm navale Atheuiensium
fuit haud procul ab urbe distans. Aunotat Schol. ad h. 1. $d\7jpoy
6ijpoS AlavriSoS, IB, ov 'AnoWo&GopoS, Quia autem, inquit Hiickertus, ad
mare situm Phalerum, ex veterum more dvikvai positum est de eo, qui in urbem
tendebat, uti ex urbe Piraeeum petens xccxapaiyeiv dicitur, cf. Plat, de
rep. I. init. xal itai?,GDV dpa ry xXjjdei. locum queudam inesse verbis insequentibus,
addito itaigcov participio declaratur. Variae autem doctorum hominum
sententiae sunt dubitantium, ubi iocus lateat. Wolfius in festiva
(paXypevS vocis pronuntiatione iocum deprehendisse sibi videtur, Schiitzius
de formula judiciali cogitandum censet, quae addito pagi nomine conspicua
allocutionem festiva quadam gravitate ornaret. Sed non efficitur
nisi superaddito patris nomine formula judicialis, v. c, ^ypod^EYTfS
JijpoCSivovS, TlaiaviEvS, quo exemplo usus est Sebo), ad Plat. Gorg.
p.451. B. Adde Aristoph. Nubb, v.134., M. xls £d$’ 6 xoipaS tt/v
Bvpav ; 2rp. # siScovoS 1 v\oS 2rpe- if)id8?fS,
KiJivvv6$£r. Non minus a vero aberrat huius loci interpres in
Scbilleri Nova Thalia T. II., p. 170. # quem Stallb. laudat: Ile
da, gestronger Herr, Biirger und Ziinftcr von Phaleron. Satis lepida haec
sunt, sed ab interprete ficta, non facta a Platone. Ordo verborum mutatus
est, atque hominis nomini nomen, quod a demo derivatur, praepositum;
scin’quam ob caussam? Plato cum scribere debuisset
^TroAAodeapoS" ovzoS o $a\7jpEvS, illum verborum ordinem exhibuit,
ut, qui Apollodorus vocandus esset proprie, idem a7roAAodc*>pot;
epitheto, quod hominis opportunitatem exprimit, ornaretur. Scribendum
igitur est: 6 <Pa\7jpEvS, Eqxrj , ovros, obroA- A od&pof, commate
p6at ovrof posito, ut nominis per iocum dati potestas elficacius eluceat.
OvroS enim in allocutione cum nomine proprio coniungi solet, ut in
Protag. p. 193. D. , quem locum Stallbaumii industriae debeo, scribitur: onat
lyco ttjv tpoavrp' yvovs av-TOV 'imtOHpOLTlfi t Iqxrjv , OVTOf, pi)
n vEODtEpov ayyzXXziS; Sed I more Homerico nunc disputamus, r
STEpov npoTEpov, Quin statim revertimur ad explicandum, qui in ficto
nomine proprio latet. /isviig; Kayu bntixag niQii^uva. Kal og,
'AitolXo- dcoQS, S<prj, xal fiTjv xal Evay%os as Itfpcow,
fioviofie- vos 8uatv&i<S&<u xi}v 'Ayu&uvog Igvvovoiav
xal Za- E iocnm lepidissimom? '0 $>ot\r)pevi rectissime ut
cpaXijpiS pronuntiandum censet Astius, non, ut calvitium carpatur Apollodori, quod
nullum fuisse pari iure contendimus nos, atque luisse Astius suspicatur,
sed ut vana Socraticorum morum imitatio notetur. Consentaneum nimirum est,
«et verbis probatur ov XEpipEVEif, Apollodorum ad Socratis
modum festinasse, corporis habitu pedumque positu e longinquo ( [nopfico
- Sey') conspicuum. Ut igitur Socrates ob incessum (IpivSov in-star
fipEvSvedSai dicitur Aristoph. iN ubb. v* 361, et Syrap. p. 221.
B., ita Apollodorus $aXrfpis appellatur, quae vox eiusdem fere significatus
atque fipivSoS, avem aquatilem denotat altissimis pedibus superbam. Sine
dubio autem multo iucuudior erat, quam Astianum illud calvitium,
Apollodoro anoXXo^oapov epitheton, quando quidem ipse Socrates, cui
ille aimilliuius videri gestiebat, datum se donatumque civitati a
deo praedicare solebat, cfr. Apol. Socr, p.30. E., iav yap .ipk ano-
XTEivrfZE, or> jup&UoS aXXov toiovtov Evpr/dETE aTEXVGof, ei xal
yshoioTEpov einely, npoSxeLpevov xy noXei vno tov Zeov x.t.X.
ov X E p l fl£V ElS. Ilaec est Stephanianae lectio editionis, quam
Stallb. in textum recepit, Bekk., Dind., Riickert. nepiplveiS
ediderunt ex auctoritate codicum. Utraque lectio bona eat i
utra verior sit, alii videant. Unum hoc certum esse puto: in
interpunctione et in accentu codicum fidem perparvam esse aut nullam. Futurum
tempus in textum recepi sensu quodam veri ductus, non ratione. Ad
idem fortasse recurrit, futurum an praesens tempus probuveris, neque
est, uisi pronuntiatio verborum, quae alterutro recepto tempore iminntatur. xal
prjv xal £v ayx 0 ^ ^post pr/Y in vett. cditt. omissum Platoni redditum
est e codicibus. De voculae veritate consentiunt viri docti, de eius
explicatione non item. Riickert. xal ErayxoS esse censet neu 1 i c
h sch n, xal prjY autem, inquit, ne quem offendat in orationis principio
positum, non esse moneo in principio, sed respicere praecedens membrum ov
itEpiplvetS, hoc sensu: Tu non exspectas? Et tamen ego nuper iam
te quaesivi. Quid? Tu non recte explicas, Riickerte , hanc
particulam? Et tamen ego cius significatum ium diu quaero. Satis est, exemplum
laudasse unum e multis, quo exemplo Riickerti explicatio reprobetur.
Protag. 310. A., 22. navv plv ovy . xal XapiY ye siti opan, lav
axovi/re. Et. xal pijv xal rj/ieis daX, iav XiyyS. Stallb. xal
pijv xal ad notissimum comparandi genus revocat, quo utrnmque comparationis
membrum addito xal augetur, e. g. xal ivayxof de i&jtovv, c
osnep xal yvv de %7]TG). Dubito, num recte. Ut exemplo utar Protag.
supra laudato, certum est, amici non hanc sententiam esse: Uti tu no-XQazovg
xal 'AlxifittxSov xal zwv nV.ov tav toti Iv r a Owditxva auQaysvojiivav
jrfpl zav Iqcouxuv 16- yav , rivis z\Octv. «AAog yag zig (ioi diqyiizo,
«xijxo ag •bolvixos zov 0Mx aov‘ £<pij di xal Os lidivai. cllkcc
yaq ovdlv el%B Oarptg iiyuv. Ov ovv (ioi St^ytjOak' bis, ita nos
tibi, si dicas, gratias habebimus. Sed ipste videtor sententiam
suam mutasse Stallb. ad Protag. 309. B. , 2. ev Vpotye ido&v (
sc. SiaxeitiSai d 3 AXxi(5id8r}S itpoS i pe) ovx rpaSta 6e xal xfi
vvv 7 ) pipa • xal ydp 7toXXd vTikp ipov ehte, ftorjSaov i pol ,
xal ovv xal apxi an baivov £p- XO/iai f convertit enim
rectis- sime: und duher komme ich aoch eben erst von ihm. Videtor
igi- tor xal ZvayxoS, xal qpels, xal apri cett. in hoc genere
loquendi cum gravitate quadam dici , quae cum affirmatione coniuncta
sit. Prius xal autem in initio posi- tum particulis pr/v, pev t
dr/, ovv , xoi ita inservit, ut easdem ia initio enuntiatiouis
ponendas, quoniam per se non possunt euapte vi exordium
enuntiatorum esse, suffulciat atque quodammodo in principem locum
orationis in - ducat. Exempla permulta huius xal expletivi
reperiuntur , cfr, Symp. p. 189. C. xal p7fy 9 eo 3 Epv~
£>ipaxe, ehteiv x ov 3 ApiSroq>dv7j t aXXy yh tctj iv vqj 2xgo Xeyeiv
x. r. A. Ibid. p. 199. C. xalpjjv t o o (piX e UydBoav, xolXgA poi
£$o£,a$ xa$T/y7/6ad5ai xov hoyov. Adde 220. D. xal ydp SipoS xoxe
rjv y quo loco cum gravitate caussae indicium in prima sede
enuntiatiouis positum est;< die Ur- sache vnr, es war damals
Soromer. Contra in verbis 220. A. beivol ydp avroSi x ei M c
»vif. vis epitheti quoniam caussae gravitatem superat, ab initio
Setvol positum est. Cratyl. p. 384. B. itaXaid itapoipia ,
oti x d xaXa Isxiv dity $X £t paSelv • xal 8j} xal xo itepl x tav
ovo- patGDv ov dptxpur xvyxavei ov pa$ypa. Iam nostri loci
verba convertenda sunt; Und er sagtet Apollodorus, in
Wahrheit, bucIi neulich schon suchte ich dich. a\\oS ydp xis
poi 8trj- yeixo. H. e. Alius mihi iam fuit harum rerum narrator,
quem Phoenix edocuit, Philippi filius; te quoque rem compertam
habere dixit; verum euimvero nihil certi narrare potuit; iam tu
igitur narra. Proprie ita disposita singula membra
exspectaveris: drAAo? ydp xis poi fterjyeixo — aXXa ydp ov6lv elxe
6a<pls Xi- yeiy — t<pr\ de xal 6h eiSivai — tfv
ovv poi dvfyrjdat. Invertit, ut videtur, Plato ordinem enuntiatorum, ut
Glauconis audiendi studium et festinationem vividius
exprimeret. dixaioxaXoS yap el . Minus apte in conversione FICINUS:
te enim interest sermones amici tui narrare; neque Stallb. satisfacit
convertens; te eniih maxime decet, amici h. e. Socratis, magistri
tui, sermones referre. Verba sic reddam potius: Convenit enim tibi in
primis, qui Socrs- Sixonbtaxog yag tl zovg rov balgov Koyovg
anayyllluv. ngbttgov 6e pot, ij 6’ og, tini, Ov avtbg nagtyhov tjj
evvovela zavzrj fj ov; Kaya tlnov , ori II uve a- C nctoiv Iones eoi
ovdev diiyytie&ai ecupig 6 Sit]yob(iE- vog, d vmazl qyet vtjv Owove lav
ytyovivai tairtjv; tis, amici tui, sermone» referas. Ceteram ut
snpra <pa\rjpis et deodatns Apollodorus vocatur, ita nunc kxaipoS
2 ah xpccxovS audit. In verbis insequentibus r/ d* OS legitur;
non male. Aptius fortasse est f/6o$, de quo Schol. ad Piat.
Phaedon, a.v. 17 6* 'Eav plv, inquit, # dvo piprj A oyov, Hsxai
£<p?j oSy xovxiSxiv £<pi] 81 ovxof. oi Sb Xeyovdxv , ort auro
pavor drjpaivei xo £<p 7 /. iav $ £r pepoS XoyoVf tsxai <pi\ot
f aif f ASrjvatoi t r) u<pe\oS rir Aiyi- vffxaix. T. A. Bekkerus
e contraria ratione p. 205. C. oAA* opd>S 7/6?/ scribendum vidit
pro oAA* opcoS 7} 6* ip oddkv diijyet 6$ai. Ficin.:
Revera, inquam, certi ni- hil retulisse tibi ille vi- detur. Cum
emphasi dicitur diijyeid^ai ac non sine acerba irrisione eius , de
qno supra di- citur » diTfyeixo. 9 Nimirum cura Glauco dixisset:
oAAo? yap xiS pot dujytixo t Apollodorus ovSlr St ijyetxo dacptS
satis malitiose responsurus erat, quod in orat, obliq. conversum
audit: £oix£ 6ot od&v di7fyEi6$ai. Riickert. infi- nitivum
praesentis dtr/yetd^ai censet, malim imperfecti iuter- pretari.
Exempla si requiris in- finitivi imperf. , cf. p. 176. A. l<prf
— da 'avddt xe 6<pds Ttovrf - 6a6$at xal $6 arx as xdv $eov xal
xaXXa xct vopiZopeva z pi- ne 6$ oct npds xov notor, quo loco quae
momentaneae actiones eunt, aoristo, durantes imperfecto tempore
descriptae sunt. Adde p. 174. D. xoiavx* axxa 6<paS £<prj dia
AexSirra? Uva* et q. seqq. Ceterum addito 6a<p&S ad- verbio
indicatur, Phoenicem nar- rasse quidem , sed narrationem non ita
instituisse, ut res narrata penitus ab auditore percipi pos- set.
Ilinc paullo supra dicitur fiovXoperoS dia 7tv$iti$a$ b. e. cupiens
rem omnem, quomodo gesta ait, accurate de- scriptam audire. De
praepo- sitione did cum verbo composito vid. p. 174. A. jpks yap
avxov diifpvyov h. e. heri fugi ipsum ac vitavi feliciter, p. SIS.
C* aAAa diepijxocvifda), onatS ..., sondern du setztest es
durch, dafs Phaed. p. 97. C. oot apa vovS Isxiv 6 diaxodpcov
xe xal navxw alxioS t ubi diaxo - tipdov est: omnia excepta re
nulla exornans. iyroye drj . Bekk. in textum recepit
£y& drj annotans, in quinque codd, iyaye S 1 ) repe- riri*
Videtur igitur vir doctis- simus codd. auctoritate motus esse
plurimorum, ut lyco di) re- ciperet. In servanda lectione vul- gata
nobiscum consentit Riicker- tus, in explicanda non itera. Ph dij
enim, inqoit, quod caute et cum restrictione affirmat, ut Phaedr.
p. 242. D, Theact. p* 145. D. cum maxime h. 1, aptum esso censeo. E
Ruckerti een- ijv IqukJ. 3 , togrs xal Ifii xagaytved&ai. Eyeyys
fli}. Iloftiv, >)v 6 J lya, ta ttavxcjv; ovx olaft , on xoA,- icov
iroav ’AyaQ ov Iv&aSe ovx Ixidedqfirjxev ; dtp ov d’ iya 2 .'oxqutei
GvvdiatQlfia xal inifuA.es XEXoljjpat ixdattjs rjptQas tldzvai 8 n ctv
Xiyy y nQcctry, ovSeneo 173 tQuc izi) larlv. n qo toti 6e utQirQt%uv oxy
Tv%oifu, ‘ 1*1 • tentia scriptam esse debebat rfyov
- fxal ye Stj ovxgjZ. Contra iyooyt 6t) sc. ?}yovpai ovxooS } cum
gra- vitate quadam , quam vocare in- dignationem possis, affirmat:
Nun freilich dachte ich, aucb da seist dabei gewesen.
7Xo5ev — cd rXavxcov ; Stallb. distinguendum esse docet
a Glaucone, fratre Platonis, Glaucouem hunc, de quo Apollodorus p. 173.
A. ita iudicat, ut divitem quidem hominem fuisse, sed a philosophiae
studio alienissimum recte coniicias. ixoScv cum vi negandi ita semper
ad- hibetur, ut ad praecedens verbum finitum referatur. Dixisset
igitur, explicatius si loqui voluisset, Apollodorus: TCoStEV r/yst
6v , rjv 6* iyco f eo rXavHcov , atque sic, li. e. explicatins,
Plato locutus est ia Cratyl. p. 398. fin.: 6v ix^S elneiv; EPM. it
o$ev, do 9 yo&b, Uxoo; Adde Menex. p. 235. C. M. vvv fibreoi
ol/iai iyoo xov alpeSsvxa ov itavv evitoprj- Ceiv — 2. zoZev sc.
olet . . . do ’ya$E ; iitid e Sr/pr/xev. Scbol. s. v.
*Ay<&<ovoS — xal npoS lApx&aov xdv fja6iXea gj*£to,
coS MaptivaS vEooxEpof, Verisimile est, ut Stallb. ad h. 1.
annotat, Agathonis in Macedoniam pere- grinationem hic tangi.
Quoniam apud Archelaum tyrannum tam laute vivebatur, ut qui cum eo
essent, lautitiis quasi sepelirentur, tectius quidem, sed iocosius
, ut solet, Aristoph. in Ranis v. 83. idem poetae apud Archelaum
di- verticulum notat: *H. UyaSaoy dbxov 'fxtv; d* oaco- Tancdv
p anoixexoci. 'H. 7Coi yfjS 6 xXrjpoov ; J. is fiaxapoov
evaoxfxcS. Errarem quod attinet Glauconis, qui rEGoSxi celebratum
Agathonis convivium arbitrabatur: facillime potuit, cum multos iam
annos Agatho abesset, vel obiter facta temporis computatio meliora
do- cere. Sed non curasse videtur homo Xpyp<xn£ TIMOS virorum
il- lustrium sive absentiam sive prae- sentiam, nequo studiose
secutus osse nisi quae divitias manifesto augerent.
iiei pe\\s it eitoirj pai. Sensus est: Seit ich aber mit
Socrates verkehre, und es roir zum Gesetz gemacht habe, jeden Tag zu
wissen, was er irgeud spricht oder tlint,' sind noch nicht drei
Jahre verlaufen. OTCXf xvxotpt. Scriptam ex- stat in aliquot
codicibus otcoi t. Sermo est de eo, qui, quo veniat errando, nqn
curat. Hinc con- vertenda verba sunt: temere, ubicunque
versarer, ober- rans. Minus recte, ut videtor, Ficinus, ad cuius
conversionem Stallbaumiana comparata est : an- tea vero, quocunqua
continge- i xa\ olnfitvig rt itoniv, a&luoligos 17
orovovv, ol>x rjctov y <Sv vvvl, olofuvog Sslv navia. (t/Mov xqut-
thv ij <piXo<Soiptiv. Kai fig, Mi] /Sxibjct, tqitj ' uXX’ ilxe (to
i, nate lybvtx o r) 6vvov6la avrrj. Kayixt thtov , ore JlaiSav ovtcov
Tftiav Iri, ots ry tCqixtt]} igciycoSlq ivi- Ktfitv 'Ayatiav, ty vCxiQulq
y y r a hnvUux. &!vtv bat, oberrans, cfr. Piat. Pbaed. p.
82. D. toiyapioi rovroiS ptv — \alpnv clxovres avtois, coi ovx
eiSodiv, 0X7} gpxortat. aSXicor e pos r\ orovovv. Schol, ad
Gorg. ap. Bekk. p. 847 s, t. a^t]\arovi — aSAiof — o xdSt6iv
dvtjxistoiiivujxopcvoi. Pro 7jv volgato o codd. auctori- tate 7/
Platoni restituerunt re- centiores editores. Eam lectio- nem
scholion Bodl, cod. compro- bat s. t. 7 / : 'Attlxov roveo, axo tov
ta (Swypypirov • dj/paivt i 81 rd (a rd vxf/pxov ' Iu ydp axo tov
TfV Tiara SiceAvtiiv ‘ico- yixjjy * "OpTjpoS • rj rore xovpoS
la, vvv 5’avri fle yrjpas bearet. Do 7/ et ijv discrimino Herm.
egit ia praef. adS. Oed. T. p. VII* jt a id cov ovx cov rj pcov it
i. Inverso ordine vulgo haec edi «olent rtoddeov r)pcov orreov
hi* Recte fortasse. Ceteram ambigue haec verba dicta sunt, , ac
non «ine magna Socraticae disciplinae laudatione. Nimirum itoudctS
vocat h. e., non pueros, sed homines pueriles Apollodorus cos, qui
Socratica disciplina non imbuti huc illuc eircumferantur., Verba igitur
TCaidojv ovxcov j}pcov hi de eo tetnpore intelliguntur, quo expers fuit
Socraticae disciplinae Apollodorus. Et quoniam tertius annus erat, ex quo
Socrati «ese ndiunxerat, tempus convivii definit ita, ut qui his
proximis annis tribus convivium Agathonis celebratum neget.
Definitione hac non sufficiente neque accurata Apollodorus pergit: ore
ry 7tpcdxy zpaycodiit ivlxrj6ev ’Ayd- %cov ry vSrtpaUr, rj y rd
imvt- raot l^vev avtuS ts xal ol x°~ pevraL. ore t y rt pcdxy
r p ay codice. Riickert. ad h. 1.: Non integra trilogia, sed prima e
tribus fabula; nam singulis etiam fieri poterat, ut quis victor
existeret. Recte. De tempore, quo prima tragoedia Agatho victoriam
reportavit, vid. Alhen. Deipn. V. p, 217. ore ydp UyaScov ivixa y
IlXarcov tjv 8exate66dpoov iteov 6 p\v ydp litt d pxovzoS Evtprj
fiov S ecp ccv ovtcii Arj- vaiotS. h.e. Olymp, 90, 4. Hoo temporis
indicium perutile quidem est inprimis iis, qui in vitam Agathonis
inquirant et in historiam rerum, quod solertissime fecit Fr. Ritscbl
in Comm. de Agathonis vita, arte et tragoediarum reliquiis, llalis Sax.
1829.: frustra eo utuutur lectores in opusculo Platonis, qui ipse pro
scripti sui cousilio nullam eius rationem habuit. licivixia USvev.
Solebant poetae victoria reportata festum diem parare iis, qui
susceptis chori partibus, ut populo fabula placeret magis,
effecerant. Quo die quoniam diis sacra fiebant ob victoriam, factam
est, ut ad euni significandam Graeci formula uterentur td iitivixia
Svav. avios tb xa l o t yogivtuL Tlaw , i<pt], aga naXai, wg 1
'oixtv. dkku rlg 601 diyyeito ; fj cevrog Zkaxgdrrjg ; Ov (icc xbv Ala,
i)v 6’ ly <a, akk’ vgxig <Po Ivixl’ ’Agi- &c6di](iog r\v rig,
Kvda&rjvcaBvg , Cfuxgog, dwxoSrjros de l' itagayeyovec 6’ iv ry
Ovvovela 2k<axgdxovg tgu- CTijg wv iv zolg (idhora tav zort, tog i(ioi
doxei. rj avrds 2. Unus cod. Vat, ?/, quam lectionem merito
reie- cerunt editores. Schleiermacberus 7/ part. potestatem non
satis asse- cutus convertit: etwa Socrates selbst? Quamquam eadem
vox manet, sive y sive ? f scripseris, tamen hae formae inter se
discrepant vehementer, y posito omissum cogitatur alterum enun-
tiati membrum a Ttorepov parti- cula instituendum v. c. notEpov
dXXoS xiS 7/ avxoS 2coxpdxyS; et quoniam in huiusmodi enuntiato bimembri,
ubi ab indefiuito ad definitum transitor, loquentia ludicium simul
involvitur, consentaneum est, omisso quidem, sed subintelligendo
membro priori quaestionis alterum vi quadam augeri, quam verisimilitudinem
vocari licebit. Igitur y non tam corrigendi vim habet , ut Stallb.
et Hiickert. iudicare vi- deo, quam probabilitatis. Contra quando 7/
exhibetur, prius illud interrogationis membrum prorsus evanescit,
ut, quoniam neque huc neque illuc interrogationis mo- mentum
declinare possit, inter- rogatio admodum temperetur. Igi- tur 7/
particula qui utitor, suum iudicium ab interrogatione seclu- dit,
et sive negarit sive affirmarit, qui rogatur, ad utrumvis audiendum
paratissimus est. Exem- plum ut afferam, fiunt enim leges linguae
luculeutiores exemplis, legitur vulgo in Platonis Menon. p. 71. B. 3 py
oiSa, itais&v, oitoiov yi xi , el&dyv; y Sonet 6oi
olov te eIvcu, oStiS Mkvcovct py yiyrcStixEi , xonaparcav osxis
isti, tovtov eldivai, eUte xaXoS 7 i. t. A.* Viderunt interpp.
scriben- dum esse y Somei, eorumqne iu- dicium codd, aucto/itate
probatur. Nihil enim certius est, quam Socratem ita instituere
interro- gationem, ut simul indicet, Menonem non posse negare rem
in- terrogatam. Ad nostra verba ut revertar, Glauco, cum
Apollodorum htaipov 2<*mpaxovS indi- cavisset 6upra, y avxoS 2ao xpaxys dixit admixta probabili- tatis
notione: am Endo doch wohl Socrates selbst. Iam patet, opinor, cur tanta
gravitate, quanta potuisset, Apollodorus responde- rit: ov pd xov
Jia. Graviora enim negatione opus est in re- sponsis, ubi ita
instituta prae- cedens interrogatio est, ut quae vera non sunt, ea
vera putare, qui interrogat, videatur. Kv6 a 5 yvaievS. Vulgo
legebatur KvdaSyvsvS , quod Fischeri industria correctum est. Steph. Byz.:
KvdaSyvatov. Sfj- poS ryS riaydioridoS <pvXyS' o dypoxyS
KvSa&yvatevS. Eandem formam reperies apud Aristophanem, quem ad h. 1.
laudat Riicker- tus, Vesp. v. 895 et 902. tiptxpoS,
arvicoSytoS a ei* Haec epitheta commemorantur eo consilio, ut
quibus ov fiEvtoi alka xai ZkoxQartj y£ ?vta ijdi] avtjQoptiv
m> Ixsivov ijxovda, stat' (io i (ofioloyu xa&axtQ Iscei- vog
dttjyeito. Tl ovv; Etprj • ov diqyqaco (tot; sravrog tj odog V £t’s
atfrt» fautqSda n opEwoftsvotg stat Asystv stat dxoveiv. Orna
di] lovteg a(ta rovg Aoyoug Jt£gt avtav Aristodemus tanqnam homo So-
cratis amantisaimus indicetur* Nempe solent ita iudicare impe-
ritiores, ut ab externo habita corporis ad ingenia concludant* 2
pvxpoS est , quod nos dicimus : untersetzt. Apud Xenophontem
Aristodemus pixpoS audit M* I. 4. 2. , ibique deos esse negat.
Festis diebus blautis Socrates usus, est, ut videre licet e p. 174.
A. , Aristodemus ut semper ctyvTCodtftoS fuisse censeatur, ad- dito
atl edicitur , quod in ahi ex plurimorum codd. auctoritate Ruckert.
mutavit. Utrum recte fecerit, nec ne, alii videant. iv zois
pdXisra rc ov Ture. h. e. Convivarum illorum, qui Socratem maxime
amaverint, acerrimus amator. Latiore signi- ficatu verba tuiv rore
Schleierra. accepit* der war bei der Gesell- schaft zugegen gewesen
und einer der eifrigsteu Verehrer des So- crates damaliger Zeit,
wie mich dunkt. ov yievtot aXXa. xai , Adhiberi haec
dicendi formula solet, ubi commemoratum est, quod iam satis videri
possit ad rem, quae paratur. Apprime re- spondet Latinorum : nihilo
minus tamen. Interdum xai omittitur, quo omisso edicitor, ut id,
quod ante commemoratum sit, minus probari iodicetur aliudque
adda- tur illo multo probabilius, cfr* Piat» Meuen. p. 86. B, n
dw ptv ovv* ov pkvxoi, gj 2&>Hpa- teS, aXX’ iyooye
ixelvo av r/dLSta, Zltep TjpOflTJV TOTtp&JTOV , Hai
Cxetpaijxijv xcti dxovdcujn. — Eodem plane modo xai omittitur
in formula dicendi ov fiovov — dXXitj de qua vide sis, quae an- notata
sunt ad p* 180* A. ovdiyyr/cco poi. UtGraeci, ita nos:
erziihltest du mir das nicbt? quod ita dictum est, ut explicandum
sit: scio te nolle narrare, quaro exorandus es mihi. Alia plane
ratione Stallb* hanc dicendi figuram explicat: Ilaec
interrogatio , inquit , alacritatem qtiandam animi et
aviditatem sciendi indicat, fere ut Latinorum: quin tu mihi —
narres? Alia ratio est Verborum p. 2 12. D. rtaiStf, $<py
t ov tixeipetiSe, ubi ad lectionem codd. trium (SxeifsadSe
Riickertus annotavit: Aoristum ut non admittendum, ita non omni ex
parte spernendum duxerim. Male. Vid.annot. Ceterum T i ovv ab
inseqncntibus verbis maiore interpunctione disiunxi, nam non
possunt, ut videtur, in una cademqne interrogatione ri ovv ov
couiungi. - - itdvxoot 7 } J 6 o f. parti- culam, veritus Bekkeri
auctori- , tatem, e textu semovi, quam- quam Riickerti exemplis
edicitur, ut certum iudicium de eadem edere dubites. Laudat enim
ille Piat, de Legg. I* p. 625.^ A. ftposdoxdi ovx av dt}8&>
rjpd? C irtoiov(ie&cc , i vgte, otcbq ccQ%o^evog tfotov, ovx
dfiste- zrjxcog I '//a. el ovv dei xa l vfilv dirjyytiacfftac ,
ravra ^937 iioielv. xal yaQ fyutys xal dXXag , otav [Uv twag % egi
<ptXo 6 ocpiag Xoyovg rj avtog nouafiai y ccXXcov axovcoy flebis tov 0
ie< 3 ftca tocpeXelti&at, vTteQtpv wg cSg %ccIq(j' otav 6 s aXXovg
zivag , aXXag te xal tovg vfie- tBQovg tovg tav itXovtilcov xal
xqtjimxxlGxlxcov, avxog te a r&oiiat, vpag te tovg ixaigovg l?.eco,
on oceG&e n D Ttoielv ovdev % OLOvvteg. xal icspt re
xoXireiaS xd vvv xal vopcjv xrjv 8iaxpi/5?jv XiyovxaS re xal
axovovxas apa nara Trjv nopdav rfonjdetiScti. 7tav- tgX 6 9 rj ye
ix KvooGov odds — oo$ axovopev, ixavtj x.x.X . Adde Apol. S. p. 33.
D. xi ptj avxol ySei-OV, xgjv olxeioov xi- vds tqjv ixsivcov ,
itaxipaS xal adeAcpovS xal aXXovS rovZ itpoS- T/xovraZ , eiitep vn
ipov xi xaxov litEitovSEfSav avxdtv ol olxslot, vvv pEpvijdSaz.
TcdvtooS Se 7tdp£i6iv ocvxqdv tcoXXoI lv- xavSoi, ovS iyco opta x.
x. A* Ce- terum convertenda verba DOstra sunt: Wie nun? sagte er, woll-
tcst du mir nicht erzahlen? je- * dcnfalls ist der Weg in die Stadt
gecignet fiir eine gcgenseitige Unterhaltung wiihrcnd dea Geliens.
Picinus habet: apta quidem via est, quae ducit iu urbem, et ad audiendum
pariter et ad dicendum. xovSXoyovSrtEpl ClvxgSy, Nota vim articuli
, quo absente ecnsus existeret hic: Sic igitur inter eundum de his
collocuti eumus. cfr. p. 207* A. xavxa X8 ovv Ttdvta iSldadxi p£ ,
oxoxs nept xc ov iptDXixdjy Xoyovf nounxo x . A. Addito
articulo sententia haec est: Sic inter eun- dum, quae verba
fecimus, de his Icag av v[ie lg i[ie yyeiti&e
fecimus, cfr. p. 216« C* aAAa di pov dxovdzxxe t aoi opoioS
xi iStiv ols iyco eixa6a avxov xal xrjv Svvapzv , Savpadiav
lx?i h, e. et vim , quae ipsi est, quam admirabilem habet.
ei ovv Sei — xcqieiv . De his verbis vide quae annotata sunt
ad p. 172. A. Docet autem hic locus, qui dilferaut Sei et Xpi}, de
qua differentia verborum jam a Ruckerto est ad h. 1. 'an- notatum.
dei necessitatem ex- primit, XP 1 ? voluntatem necessi- tati
inservientem, cfr, Aesch. Or. c. Tim. p. 29. 6 vopo^ixijS —
aTtadsi^Ev, ovZ XPV 6rjp7jyoptiv xal ovf ov Sei Xiyszv iv xaa
dijpoo h. e. Manifesto legislator declaravit, qui velle debeant
coram populo verba facere et quibus orationem habere non li- ceat.
v iC8p cpv&S co S xalpv* Orta est haec dicendi formula ex
vitEp<pvGjf x a ip°° & Xatptof quod cum non intelligerent ,
qni describendis libris occupati essent, factum est, ut coS saepius
omit- teretur. Seusus est totius loci : lam si etiam vobis
narran- dum est, volo equidem, quod feci nuper , idem nunc
facere lubentissime. Namque aeque nunc atque alias sive ipse
instituam, xccxodaifiova slvai, xal oto^icu vfiag dhjfrij oi&tJ
' iyco [dvtot vfiug ovx olo/uu, uiX tv olda. Cap. II. ET. 'AH
ofioiog st, tn 'AnoXXodoQB' ail yag 6ctv- tov rs xaxt]yoQUs xal rovg
dXl.ovg, xal Soxng fioi aTE%v wg ndvtug d&Xlovg tjysi6&ttL xlijv
EaxQccrovg, ano (Savrov aglifievog. xal ono&cv aozl rav tijv
tfjv vive narratos audiam philosophi- cos sermones, praeter
quod augeri me scientia puto» impense etiam laetor»
Xprj paxi^x ix gjv. Stallb.ad h. 1, a Vulgo XPWonrti&v-
Illud aptius hoc loco recte indicavit Fischerns. Praecedit enim
n\ov- 61gov.» Recte xpVf £0LTt StixtaY receperunt editores non satis recta
de caussa» Licuisse enim con- tendo Graecia dicere: ol it\ov- dioi
xal XPV paziSxad, ut Latinis licuit fures ^et malefici dicere , neque
dubito , quin lectio vulgata p. 221. B. xovS q>i\ov$ xal x ovS
itoXtpiovS recipienda sit» Nostro contra loco, quoniam non de certo
quodam hominum genere sermo est, h. e. de foene- ratoribus, sed
homines indicantur quovis modo lucro inhiantes, XpTJpocTtftiXGov
unice verum est. l6ooS av vpeiZ, Schleierm» convertit:
Vielleicht nuo haltet ihr wieder eurerseits (lafiir, dafs ich
iibel daran bin , und ich glaube, ihr mogt ganz richtig glauben,
ich aber glaube es nicht von euch, sondern weifs es. Oh6Sai>
aXtjSf} . o letiSat ( opSd SoZdctsiv p. 202. A.) eldivai, vocabula
Socratica sunt, quibus Apollodorus uti videtur li. 1», ut Socratis
discipulum se probet. Ceterum laudaro Plauti versus lubet petitos c
Cas. initio: Clcostr» Face, Chaline, certiorem me, quid meus me vir
velit» Chal. Ille edepol videre arden- tem te extra Portam
Metiam, Clcostr. Credo ecastor velle. Chal, At pol' ego haud
credo, sed terto scio. dei o fio io S — it\r)v 2? X p
dtx O v?» Vario modo haec verba ab interpretibus explicantor.
Wolfius Iv pbv yap xoiS XoyotS dictam esse censuit pro aX \d yap iv
xotS \6yoiS . Frustra. Astius convertit: unde tandem nomen pavixoS
acceperis, non perspicio: namque in dmnibus tuis sermonibus tantum
abest, ut pavixoS sis h, e. nimius et vehemens in laudando,
ut et te et alios praeter Socratem cum acerbitate quadam
reprehen- das. Apoll. Et merito pavtxoS a vobis audio, de me et
vobis ita sentiens. Hanc conversionem nemo probabit. Nam neque usu
qno- dam loquendi probatur, pavtxoS inprimis de laudatorum
studiis valere, neque ex kxaipov ver- bis colligitur satis, pavixov
ni- mium in laudando significare. Quid dicam de responso
Apollo- dori , quod ex Astii conversione iit languidissimum?
Pessime do fitavvfiiav UXafltg, ro /icevtxog xaXiUs&ai, ovx oida
sycryt ' Iv /jiv y«Q rolg Aoyotg «fi roiovzog fi' tiav roi T6 xai zolg
aXXoig dyQiatveig xXt)v Zaxgcczovg. ATIO A. * Si q>lXzccz£, xai
dfjXov ys dij , on ovtw diavoov(iBvog xai xeqi Ifuctrcov xai x£qI vfuav
(ictCvo- (icu xdt xaQaxcaOi nostro loco meritu. est Ruckertus, qui,
cum non posset, quid kratpoS sibi voluerit his verbis, intelligere,
scilicet e codd. ya- haxoS pro jxavixo? in textum re- cepit. gUnde
tandem mollis ap- pellatus sis, equidem non intel- ligo; in
sermonibus enim semper talem te exhibes : et tibi et aliis
succenses praeter Socratem.» Haec ut pugnant cum sequentibus, ita
ut ne pugnare videantur, Riicker- tus ,in verbis Gqlvxqj re xai
roiS aWoif dypicdveiS insaniae la- tentem notionem deprehendit,
ad quam respiciens, quamque augens in maius per indignationem
Apol- lodorus dixerit: o5 <piXtave , xai dfjXoy ye 6rj x. r, A.
Artificiosa haec suut, non vera, Neque Plauti auctoritate nunc
movemur, qua uti Riickcrtus potuisset in re sua. Legitur nimirum in
Me- nuechra. v. 224. Both. Insanit hic quidem, qui ipse
maledicit sibi, et v, 228. Nam tu quidem berclo certo nou
sanus satis, Menaechme, qui nunc ipsns maledicas tibi.
8tallb., quoniam Apollodori inge- nium ad morositatem proclive
fuerit, etiam pavixoS de ingepii * tristitia et morositate intelligendum
indicat. Deinde supplendum ccnsfet opS&S 6h doxeis Xapeiv
avTjjy ante verba iv plv yap totS XoyoiS ael roiovroS ei. Tot-
ovroS autem interpretator /um- xof> tristis et morosus.
Ut libere dicam, quid mihi videatur, Apollodorus et ad tristitiam
et ad hilaritatem propensissimus erat ita, ut sive tristis sive
hilaris suarum rerum modum ha- beret nullum. Nimium ia
tristitia Apollodorum icperimus Pbaed. p, 117. D. in risu atque in
maerore Phaed, p. 59* A. in vitnperio Symp. p. 178* C.etD.» et quo
animo hominem in ma- gistri laude fuisse censes, qui praeter
Socratem omnes mortales infelices indicabat? Ia quo indicio ut ro
fjLcrvixov eluceret magis, Plato dypiaiveiv verbo usus est, quo verbo
animi summa commotio exprimitur. Idem cadit in uvccfipvxqGduevoS
parti- cipium, quod quo exquisitius, eo aptius est ad turbas animi
ex- primendas. Iam patere arbitror, fxavixoS h. 1. neque de
immodica laudo neque de nimia morositate dici , sed de laudis
vituperiique immoderatione. Rectissime autem Stallb, vidit, ante
verba iv y\v yctp roiS A. aliquid supplendum esse. Solet enim yap
particula ita adhiberi , ut sententia quae- dam , quum facile e
cogitationum serie supplere possis, omissa in- dicetur. Stallb.
supplendum censet op^djS 81 doxeis \afieiv avrjjv. Nobis placet ei
/i?} lx rcov A o- ycov. Totius loci conversio haec est: Immer bist
du derselbe, o Apollodorus, Immer klagst do ET. Ovx a£iov xig l r
ovtcav, a 'AxoiioSags, vvv IqI&iv' di A’ Sxeg ideofieftu <Sov,
(itj &iiag xoi-q- ffjjg, aiid diyytjdtti rtvsg tj6av ot ioyoi. •
AIIOA. r IJ<Sav tolvvv Ixuvoi roioiSs tivk g. fidi- iov d’ UdQZVS
v/uv, dff ixeivog diijyeito, xcd lyw xu- 174 . gadofiat dirjyrjdaa&au
, 'dich and die andern an, and scheinst mir ohne weiteres, aufser
Socrates, alie fur ungliickselig za halten , indem da mit dir
selbst den Anfang maclist. Und woher da in aller Wclt den
Beinamen da hast, dafs man dich den Toll- kopf netfnt, das weifs
ich nicht, Ermufstedenn aut deinen Aeufse- rungeu herstammcn. In
diesen zeigst da dich wirklich so; da ziirnst dir and den andern,
und zollst allein dem Socrates ein unmafsiges Lob. o3
(piXtate — 7tapa • naico. His verbis, quae de f ia - vi xoS nomine
annotavimus, con- firmari videntur perpulere. 'Ezcu~ poS nimirum
cum non nisi to jaclyihoS xaXiitiSai commemoras se t, consueta vehementia
usus Apollodorus paivopat xal 7ta- paitaioa dixit. Haec verba
optime transtnlit summus Schleierm. : 0 Liebster, so ist es jaklar,
wenn ich so denke von mir und euch, dafs ich toll bin and von
Sumen. Inest tamen aliqaid his verbis, quod male me habet. Nimirum
amicas dixit: E dictis tuis illud cognomen ortum est, aut eius
originem et caussam ignoro. Ad haec verba nnm quadrare tibi videtor
Apollodori responsum? Quid quaeris ? res acta est scilicet, saevio
et mente captus sum. Si quid vi- deo, ol pavixoi at
exaggerant res, ita rixari amant, ad utrum- que nutura ducente. Ad
rixas autem se compos^js se Apollodorum etiam verba amici
docent: ovx a£>iov nepl tovtgdv, 'AtcoXXo- ScopE, vvv
ipi&iv. Quid mul- tis? Posito post napaitaico signo interrogandi
verba convertenda sunt: O Liebster, ist es denn nqn schon so
ausgemacht, da fs ich toll bin und von Sinnen, wenn ich so denke
uber mich and euch? toioiSs rivi?, Additur indefinitum
pronomen, ut indi- cetur, sermones non verbo tenus ab Apollodoro
referri. Recte Stallb. ferehuinsmodi convertit. Sic paullo infra p.
174. D. roiavt arra <5q>dS i(p7j SioXexSev- ra? Uvau
Schleierm.: so ohn- geflihr ... Adde p. 176. A. Ad- yov roiovtov
rivo? xatdpxEtv. p. 180. C. &ai8pov fikv roiov - rov riva Xoyov
£q>rj eItceIv . MaXXov 8i eius est, qui ipse se corrigit. Habet
Ficinus ; immo vero a principio eodem ordine, quo Aristodemus
retulit, vobis ipse nunc recensere conabor, cfr. p. 188. D. ovra. )
jroAA?/V xal fiiEyctXrjv , fi.aXXov 8h nd6av Svva/nv x. t . A. adde
p. 193. E. Vva xal rd>v X oixcov dxov- dajjiev ti ExaCroS ipely
pdXXov 8h rt kxdtspo ? * UydSGor yap xal 2aoxpdr7]S Xoiitoi. p.
194. A. si 8h yivoio , ov vvv iyoo tlpiy yaXXov 81 i'8a>?
ov Stio/iai x t r. A.*Eqsr) yuQ of ZkoxQcm) ivrv%m> leXov/ibov ts
xal tag (Skavrag vxoSeSefdvov , a Ixtivog bliydxig biolti, Mul
iQt6%cu avrov, onoi fot ovta xcdbg yByEvrjiiivog. xai rbv datlv , oti
'Em, delavov dg 'Aya&covog. yaQ avrov ddcpvyov roig huvixloig ,
ipofirj^ilg rbv Zyhov' 6fiol6yri<5u d’ dg vifoiEQOv mQiGttiftai,.
tavta $ij $q>7) yup ol Scoxpatif, E nostra cogitandi
ratione verba si spectas, scriptam exspectaveris : lepr) yap
2cDxpdt£i Ivtvx&v. Illud genus dicendi ex objectivitate enatum est,
qua pro ingenio suo Graeci utebantur in narratione. Eo autem
efficitur dicendi genere, ut Socratis loti calceisque ornati imago
oculis obversans lectorum, ut Apollodoro , ita quaestionem moveat
lectori l oitoi tot ovtgj xaXoi yeyevTjplvoS. Sexcenties hoc
dicendi genus reperias apud Graecos scriptores, unum exem- plum ut
laudem, cfr. p. 174. E. ol phy yap evSvf nalSa riva SvdoSev
ditavzr\6avta ayetv n. t .A. taS fiXavt a£. Schol. ha-
bet : v4t o 8r} par a.ol fiXav- tia, 6av8dXuz l6xvd. Satis no- tura
est, Socratem perraro cal- ceis usum esse, id quod nostro loeo
colligitur e verbis a ix£i- voS oXiyaxiS iitoiet. Quod raro fecit
Socrates, ut calceis uteretur, idem Aristodemus nunquam fe- cisse
perhibetur p. 173. B. *Api- StoSrjpoS yv nSj Kv8a$7]Yai£vZ i
dpixpof, dvvxo Srjt oS a e i. X^^S yap avrov 8 iir tpvyov . De
8iacp£vy£iv verbi potestate vide quae annotata sunt ad p. 7*
Ceterum brevius qui- dem Socrates loquitar, non item obscurius.
Sententiarum ordo haec est: Iam heriAgatho me vocavit, sed non
im- petravit a me, utfaoe- rem, quod juberet. Odiosa
enim erat concitatiorum hominum turba strepens. Promisi autem ei
hodie ad coenam, tavta 8i } ixaXXcon rt- daprjv.
Rostius V. Cl. %d verba ixaXXoDTtiddprjv , Iva — £g a an- notat:
ornavi me (et nunc orna tns sura) ut accedam. Vide Stallb. ad Piat
de rep. V. p. 472. C., qui laudat Rost. Gramm. §. 122. not 4. b.
Herm. ad Viger. p 850. Buttra. 126. i. Tavta 8ij interpretes
positum esse censent pro 8ia tavta 8 t} } de quo usu loqueudi vid.
Matth. Gramm. pl. §. 470. 7. p. 873* Rectius opinor, tavta de
ornatu intelli- gitar, ut verba convertenda sint: Hoc igitur, quem
miraris {ovta» xaXof y£y£vr/p£vo$), ornata or- navi me et nunc
ornatus sum, ut pulcher ad pulcrum accedam, Si dictam esset supra
ortoi for VJ/- pepov ovteo xctXoS ysyevTjp^- voS, unice probaremus
iuncturam hanc: promisi autem ei hodie ad coenam, atque eius rei
gratia ornavi mo cet. TtpoS t 6 i$&\eiv dv livai a
Stephani hanc emendationem, inquit Riickertns, li- brorum lectionis
aviivai a Bek- kero, Dindorho, Astio, Sommero, Stallbanmio
receptam, admodnm dubitanter retinui. Quod enim in sequentibus
simpl, Uvat po- 9 ixaXAaxiodfitjv, ivu xaXog xaga xakov ia.
t?A<la Ov, tj 6’ og, ntUs H £l S XQog t 6 l&iXuv dv livai axhytog
Ixl B Sslnvov} Kciyco, Itpr}, th tov, ori Ovrag, Sxwg dv Ov
xtfav]jg. "Ex ov rolvw, fqpi?, Ivu jc «1 rtjV xagoifilav
Siarp&dgafttv (itra^dXXovrtg , ag aga xal dya&iov liti Saltas laOiv
avtoparoi aya&ot. "0(irjgog (itv ydg xiv- sitom *st, «t eo non
«equitor, ut etiam h* 1. debeat. Imino si locus, e quo Socrates cum
Arislo- demo profecturus erat, inferior fuit quam is, ubi Agatho
habitabat, nonne tum primo loco poni licuit aviivai , sufficiebat
in seqq, simplex verbum?» , Hia verbis contra eos dispotatum est
rectissime, qui e sequentibus { a6iv et Urat de dv levat iu-
dicarunt. Atqpe sic Stallb. iu- dicasse miror annotantem: Codd. et
vett. editiones omnes £$i\eiv aviivai, quod de Stepbani contectura
mutavimus praeeunte Astio et Bekkcro, JSimirum sequitur deinde
la6iv et livai de ea- dem re dictum . Caecutiisse videntur
interpretes, ubi scriptor verborum positu studiose fecit, nt clare
videre potuissent, *Enl deinvov et ad livai pertinet et ad
axXrjXot) nam ut xaXeiv ini deinvov recte dicitur, ita axXrj- tot
ini deinvov he ne habet; rursum livai arctius cum dxXrjxot coniungendum
est, et est in hac coniunctione enuntiati acumen. Verba convertenda
sunt: Konn- test du dich wohl entschliessen, obgleich
uneingeladen, doch zu kommen zum Gast- tnahl. lam concedamus
necesse est Riickerto , aviivai ini deinvov recte dici, si in
altiore loco Aga- thonis domicilium fuisse constaret, non recte
dici aviivai axXrj- xot Ruckerti aequitas concedet nobis,
cfr. p. 174.C. axXrjxov inoirjdev i X 5 d v x a tov Mevi- Xeoav ini
xrjv Soivrjv, ubi rur- sum indicare licet e posito ver- borum de
scriptoris voluntate. Adde p. 174. D. iyoo plv ovx dpoXoyrj6cn axXrjxot
tj x e i v , aXX' vno 6ov xexXr^- pivot. Ceterum ndot Mystt npdt x 6
iSiXeiv dv verba respondent nostratium: Wie steht es bei dir mit
der Lust ... pro Hattest du wohl Lust .... cfr. p. 176. B. diopat
vpcov dxovdai , nd)S fet npds td ipfi&dSai niveiv 'AyaS
gjv. Iva xal tijv napoipiav pex aftaXXovx et» Socra- tes haud
raro poetarum versus immutabat, ut mutati contrariam sententiam
funderent. Tangit liuuc morem Appulei. Flor, p. 6. ed. I. Bosschae:
Nec ista re cum Plautino milite congruebat, qui ita ait: Pluris
est oculatus testis unus, quam auriti decem. Itnmo enimvero hunc
versum ille (sc. Socrates) ad examinan- dum homines
converteret: Pluris est auritus testis unus, quam oculati
decem. Editores fere omnes e codd plu- rimorum auctoritate
pexaftaXov- tet receperunt. Praetulit pexa- paXXovxet Bastius, quod
et codd, nonnulli iique melioris notae ex- hibent. Couveitit Stallb.
mutatione corrumpamus , participio in 2 dvvivst ov (iovov
duttp&eipcu 9 aXXa scccl vpQldat e!$ tavvfjv rijv rcaqoiplav.
noirjdccg rov 'Aytqdpvova C diacptQovTOG ecyadcv ccvdQa substantivum
converso, quo sub- stantivo temporum discrimen ve- latur. Unice
rectum est pxxctfiaX- XovteS. Nam qui mutat, eo ipso, quod mutat,
proverbium corrumpit. Vides igitur, 'eiusdem actionis esse et
6ia<p$sipe iv et fterapdXXetv, cuius actionis et obiectum et ef-
fectus h.l. commemorantur. Hoc autem videtur doctis viris' fraudi
fuisse, ut putarent, de duplice actione, quae temporis discrimen in
se susciperet, Platonem egisse, eo £ dpa xal dyaScvv. Schol. ad
hnnc locnm : avtopa- rot 8* ayctSoi 8«Ac3v ini dcn- raS la6iv.
xavxtjv 81 X iyovdir tiprjtiSat ini 'HpaxXei, o$ ott kfStidovto ro3
Kj/vxi £,lvoi iniCxrj* KpaxtvoS 81 iv IJvXcda jiEtaX* Xti%a$ avTtjv
ypdtpti ovtoof. otd’ av2r’ ijpnS, w? 6 itaXaioS A J- yot, avxopdxovS
aya&ovS Uvai xoptpdjv ini douxa 3 eaxav . xal EvnoXiS iv
Xpvtitk 3 yivtu E schol. verbis facile colligitur, vario modo hoc
proverbium im- mutatum fuisse a Graecis, vid, Athen. IV, 27. p* 178.
Cal, De primaria autem proverbii forma, quam Schol. indicat,
Schleierm. haec disputat in den Anmerk. zur Uebers. p. 524, Eiu
sonderbarer Gedanke ist es von* dem Scho- liasten, dass er uns an
das zweite Spriichwort des Athenaeos ver- weiset, welches von
Tapfern und Feigherzigen handelt (aya$ol SeiXgov) , wahrscheinlich
in dem kriegerischen oder feindseligen Sinn, dass dic Tapfern
ungeladen erscheinen und, die Feigherzigen vertreibend, sich selbst
an die ra scoXffUxa , xov di Mtvt Sehiisseln setzen. Sondern
So- crates meint aya$o\ dyaSajv ini Scuraf, und aagt nor
acherz- vreise, sic wollten es durch eias Umdrehung eiumal
verderben, iu- dem sie niimlich den Agathon und seine Gnate ayc&ovf
nann- ten. .... Der Homerische Fall lrisst sich auf das ayaSot
ini 8 e iXoHv gar nicht anwenden, weil, wenn nur eine Anwendung
uber- haupt da sein soli, Agamemnon rousste ein 8nXoS sein.
Sondern «ras Socrates dem Homer vor- wirft, ist, dass er auf das
Spruch- wort, ais sei es alter, anspielend den Menelaus einen
ayaSoG nenn». Haec subtilius, quam verius disputata sunt. Primaria
proverbii forma ea est, quam Scholiasta laudat, quae quomodo mutata
sit et ab Homero et a Platone, iam videamus. Nam etiam ii
interpretes, qui Schol. formam ut primariam proverbii agnoscunt, de mutationis
et corruptionis ratione male indicarunt. Legitur apud Homer. II.
/5, 408. ctvxoparoS di oi ?/A3« floTjv ayaSoZ MtviXaoS, de
quibus verbis Plato ita videtur iudicasse, ut fiotjv aya$oS voce non
virtute fortem interpretaretur, idqne verbis ayaSov ra jCoXejxixa ac.
ipya opponeret. Assumto deinde Apollinis iudicio, quod legitor II. p f
588., aperte eloquitur! ignavum ad fortem accessisse &xX rjxov
h. e. invocatum. Proverbii primitiva forma si est, nt diximus,
avxopocxot 8 9 ciya - 3oI8£iAcJt' ini daitai iadtv, facillime
agnoscas licet homcricae hov fia}.9axov alxfirjrtjv, Qvalav itoiovfiivov
xret tOruov- rog tov 'styafisfivovos axhjxov ixolrjatv IX&ovxu rbv
Mt- veltav Isi t>)v Qoivtjv, %dga ovr a Isi rt)v xov « yeivovog.
poeaeoa superbiam , qaae iisdem verbis eodemqne usa verborum ordine
sententiae innocentiam ita pervertit , nt proverbium audiat :
avxoparot 6*' dya^cor 6 et Aoi ini Saltat ladiv* Iam quod Homerus
fecit, idem licere sibi, ut proverbium corrumperet, Socrates putabat,
Neqae tamen pro SeiXdiv, quod in primitiva pro- verbii forma
legitur, ad Agatho- nis nomen alludens dyaSdir scripsit, ut
Stallbauraium judi- cantem video, — r forma enim proverbii
elficeretur haec: avto- patoi 6* ayaSoi dya^av, qui verborum ordo
non reperitur nostro loco, neqae xai part., ut Riickert. censet,
hoins muta- tionis indicium facit, — pertinet enim vocula ad totam
enuntiatio- nem, eoius exemplum habes Symp. p. 193, C, ei Se rotiro
ctpt6tov t dvayxalov xai zcov vvv nap- orroor ro xovxov iyyvtdtca
dptdxov elvai. Adde p. 206, A. dtp ovr, iq>rj , xai ov povor
elvai , aXXa xai dei elvat , — sed Homericum SetXoi in ayaSoi
mutavit, minus, ut videtur, Aga- thonis nomen (dyaSdiv), quam
Aristodemi laudem (ayaSol ) respiciens ; avxopaxoi 6 * ayaSdtv dyaSol
'ini Saltat fadtr. Comprobatur haec explicatio no- stra perpulere
Aristodemi mo- destissimo responso : IdoDt pivrot xirdi ryevdod xai
iy o> ovx tiv Xiytit , <w 2oSxpaxet, aXXa xa%’ "Oprfpov
cpavXo t oSv ini dotpov avSpot Urat SoirrjY dxXrjto t, Ceterum ad
Homericam illam proverbii corruptionem, non ad primariam formam eius
Socratem a. Platonem respexisse, etiam ex ordine verborum colligitur, qui est
apud Pla- touem. Homerum enim ex avro- paxoi 6’ ayaSoi SeiXcov fecisse
consentaneum est: avxopaxot 5* dyaSdiv SeiXoL nihil mutata verborum
sede, et tamen mntata sede subiecti. Iam servato, qni apud Homerum
est, verborum or- dine Plato scripsit: dyaSwr avxopaxot
aya~ fiaXZaxov alxjiTfTijr. Fortem et strenuum bellatorem
Menelaum fuisse, e multis Homeri locis colligitur. Semel apud eundem
vocatur paXSaxot alxprjr/fS II. p f v. 588., ad quem locum Platonem
respexisse multi fuere, qui annotarunt. Utitor autem il- lis verbis
deus Graecis infestus atque rerum bellicarum minus peritus, Apollo,
non, ut ignaviam Menelai notaret , sed Hectoris euimurn nt
excitaret et augeret. Si displicet igitar, quam supra
commemoravimus, malitiosa fiotjY aya$ot verborum interpretatio,
(licere autem interdum poetarum versiculos psr iocum falso inter-
pretari, quis negabit}: quibas ta- men displiceat, iis dictum esto:
Menelaum paXSctXOY appellari, ut Agamemnone inferior, non ut'
ignavus ffcisse indicetur Quid, quod Aristodemus paullo infra di-
cit p. 174. C. "I6&S pevxoi xiv$v~ yevdco — cpavXot axv ini
6o<pov dr8p dt Uvai Soivijr dxXrjxot, num revera hominem
nequam 2 • Tavz uxovOaq ilitnv £<pt]' *I<Stas pivtot
xivSwivOu xal iyd ov% ag 6v Xtynq , a ZdxQare g, aXla xo&’
" OfiijQOV , tpctvkoq m> ini <5o<pov avSQOg Uvai tooivrjv D
KxXrjtoq. atj ovv aytov (ii ti axoXoytjGu; uiq lyto fiev ox>x
b[io).oyTj<Sa axXr t roq ijxeiv, a/U’ vxo aov xzxXttfd- foisse
putas, aot ita moratum, ut qui ipse tpavXov se esse confi- teretur?
Si quid video, nihil aliud indicare Aristodemus voluit addita
tpavXoS vocula, quara se cum Agathonis sapientia comparatum Agathene
inferiorem esse. ovv aytov pe naxo- Xoyrjdei; Verba
difficillima sunt ad explicandum. Faciendum igitur est, ut,
antequam senten- tiam qualemcunque nostram ape- riamus, quid alii
de hoc loco consuerint, videamus. Levissima accentus mutatione
Astius scri- bendam coniecit : dp* ovv aytov pe ti aitoXoyjfdei.
Sed duplex interrogatio ab hoc loco alienis- sima videtur. Creuzer.
Leet. Piat, ad Plotin. de pulcritud. p. 5l8. ay aytov coniecit,
quod saepis- sime scribarum incuria in ayccv mutatum reperies. Ea
coniectura Stallbaumio probatur, qui verba convertit: Nam igitur
aliqua ra- tione excusare poteris, quod me adduxeris? Addit autem,
non quaerere Aristodemum, ecquam h abiturus sit excusatio-
nem, dum ipsum adducat, sed num futurum sit, ut possit excusari
aliquo modo, quum ipsum ad epu- las secura duxerit* Non male.
— Nihil coniectura opus est. Ut rectius verba intelligantur, ab
Aristodemi responso exordiendum est, quod legitor p. 174. B. ovttoS
( sc. 2x?> ) OTttoS av Cv neXevys h, e. ibo, manebo, prout
iusseris. Haee eo consilio di- cuntur, ut Aristodemus, quod in-
vocatus veuisset, a nemine pos- set, utpote qui vocatus esset a
Socrate, rusticitatis accusari. Socrates contra, ut. hominem ad
suscipiendum iter dulcedine quadam pelliceret simulque itineris suscepti
excusationem a se amoveret, Aristodeme, inquit, dic, si placet, Agathoui
, quod Homerus fecerit, at verba proverbii corrumperet : avtopatoi 6*
dyaSok o 6eiX<uv ln\ daitaS iadiv , idem te experiri voluisse,
atque eius rei gratia ad ^AyaSt&v Saltas venisse avto patov d y
a- 3 6 v. Aristodemus autem quum vereretur, ne q>ax>XoS
potius ad normam Homerici proverbii, quam dyc&oS ad Agothonem
profectu- rus sit, a Socratica proverbii mu- tatione adventus
excusationem petitum iri negat, atque iturum se fastidit, nisi a
Socrate voca- tus esse dicatur. Iam quo faci- lius hominis animam
obfirmatum perspicias, aytov scriptum est non ay aytov in
interrogatione, quam nunc interpretaturi sumus. Nimirum praesentis
temporis par- ticipium eam vim habet, ut de Socratis actione
intelligendom si- mul Aristodemi voluntatem in- volvat manifesto:
ei ayoiS pe. Sensus est : Wenn i c h mich von dir fiihren lasse
d wollte. Spreta autem dulcedine illa, quae in Socratica pro-
verbii mutatione continetur, et vog. £vv te dv , iq)tj y Iq%ou.Ivg3 ,
tcqo 6 tov fiovXev- dujlt&u 0 XI iQOVptV. ctiX t&piV.
Toiavx arra (Upccg Itptj dtalex^tvvccg livai. tov ovv ZkoxQUxrj
iatrup it&g stQogtyovzct tov vovv xccra ti/v o6ov itoQEvsti&cci
VTtoteizopevov , xal stEg^aivovtog qua dicitur ad bonam
accedere invocatus ayaSof, aliam iam exigit excusationem uon
sibi, quod accesserit invocatus, sed Socrati, quod se vocaverit*
Haec verborum explicatio sequentibus verbis perpulere probari
videtur. Schleierm. convertit: Wirst da inich also uuch etwas
entschul- digeu, weun du mich einfiihrst? Rectior verborum
conversio haec est ; Num ig>tur, si duci me a te patiar , aliud
quid habes , quo possis to, quod me vocave- ris, excusare? Quod ad
me, ovx dpo\oyi} 6 a) anArjxoi ?jxttr, aXX viro 6 ov
H&HXrjfJL&voS. — Tl pro rl aXXo positum reperies haud *aro
upud scriptores Graecos, cfr. Piat, de rep. I. p. 8S2. C. atXXd t i
oiei ; £<pij. Sed quid aliud tu censes Mallem tamen b. 1. legere
olKKo tl olti ; Adde Piat. Crit. p. 50. C. cap. XI. fin., ad quem
locum Stallb. laudat Lanib. Dos. de Ellips, p. 27. ed. Schaef. Ut unum
locum o Latinis scriptoribus laudem, apud Terent, legitor Heuut. Act. I.
8c. L v. 17« Nunquam tam mane egredior, neque tam vesperi domum
revertor^ quin to in fundo conspicer fo- dere aut arare ant aliquid
fa- cere denique, <jvr tl 8 v, seqq. An- notat
Stallb. ad h. 1.2 a Alludit ad II. X. v* 224.," unde suum
hausit Ruckertus scribens satis negligenter: Hom. II. x • 224.
Pro Xpo o tov , qua^iFischeri confectura est, libri exhibent
ad unum omnes itpo ddov , 'O tov antiquitus disiunctim
scriptum cui% seriore tempore coniunctim, ut lit, ederetur, ad
mutationem •aapte figura pellexit. Ceterum Xpo o tov nou debebat
Stallb. convertere alter altero me- lius. Socrates controversiae
per- taesus, et sibi et Aristodemo ex- cusatione opus esse
concedit. 'Sibi, quod invitaverit, illi, quod audiens luerit
vocauti. Sensbs est: In- ter eundum tu milii, ego tibi, quid
otrique dicen- dum sit, prospiciamus. naxa xijv o 8 o'v
iro- ptvEoSai. Habet Ficinus: Socratem cogitabundum lento
nimis passu gra- die ntem exspectasse sae- pius, tandem iussisse
So- cratem, ut praeiret. Enar- ratio haec est, non conversio
verborum. Ficini verba qui accuratius examinaverit, mecumj& ^a\
suspicabitur fortasse, Graecira po -3 verbis oliro infuisse, quod O
r/J ce uti orum cura sublatum, magna»? ;& ££ molestias
Ficino excitaverit. i it e 181 } Sh y evs 6 $ Stephanus
iyiveto scribendum coniecit, Wolf. do ellipsi 6 vvi{Stt verbi
cogitavit. Ut irttidr? — yevidSai, ita panllo infra ei&vf 8 *
ovr &>> I 6 etv. Haec structura virtus admirabilis est
Graecae orationis, qna efticitur h. 1., ut et de prioris narratoris
vivaci- ^ tato, et de alterius narratoris •
>* ov xeXevuv ngoiivai tlg to XQoOdev. htubr t ds yt- vlo&ai
hd t)j olida rrj 'Ayaftavog, dvcayfuvt/v xata- E Xafi flavetv xrjv
&vqciv , xal u Mtpij ccvzo&i ytloiov na- ftuv. ol (llv yag tvdvg
naiSa uva IvSo&cv dzavti/- fide, aliena, non sun,
exhibentis, lector admoneatur. Exempla huius structurae plurima
iuterpp. ad li I. laudant v. c. Piat, de rep. X. p. 617 . D. d (paS
ovv , iiteidi/ d<prx£d^ai , ev$vS 6elv ikrai itpds ttjv Aaxtdiv.
p. 619. C., p. 620. D , p. 621. B. Ceterum in tota hnc enuntiatione
infinitivi imperfecti 'et aoristi al- ternant ita, ut aoristicum
tempus actiones momentaneas , imperfectum durantes actiones denotet.
ol p$v ydp. lloc legitur in Bodl. aliisque codd. non paucis.
Inceptae stmeturae potestatem, de qua modo dictum est ad ijteidt }
— yivkdScti , misere tur- bant rov plv verba , quae olitn pro ol
yiev edebantm. Facere autem non potnit Apollodorus, ut, cum
Aristodemum paullo ante lo- quentem induxisset, nunc desub- Ito
ipse in sc reciperet illius orationem, id qnod X 6 V piv scriptura
efficitor. Recte igitur editores ol piv Platoui vindicarunt, quod et
Photius praebet in Lex. s. v. ol. Habet enim: ol
itepidTt&fi&vcoS dvrl t ov kccvxdr dZvTuvcoZ di ouroz*
dvpTtodiov ol plv ydp ev S vS itaibd riva luv ivSor (?)
ujTocvtijdetvta. xal xaxaXapfidvetv. tToc loco ne quis cum
Ruckerto arbitretur, quod in antecedente orationis membro obiectum
sit, Sn hoc subiectum esse yiaraXap- ftdvsiv verbi : aytiv abso1ute
positum eat. Structura verborum haec est. ?.<prj — ol ditavxj)-
riavTa — «ruida dytiv , h. e : dixit, puerum, qui obviam
venis- set sibi, ducem fuisse udeurn locum, ubi ceteri
cousedissent, et £<prj xaTaXapfidveiv t/Stj p. — Ceterum
solebant Graeci verbi transitivi infinitivo, qui idem snblectum
habeat, atque verbum fiu tum, e quo peudet, subiectum nou addere ea
fortasse de caussa, nc dupliciter posito accusativo (subiecti et
obiecti) ambiguitas oriretur sententiae, atque ut facilius obiectum
aguosceretur. cfr. Enrip. Piioeu. v. SI. TCudiv ittUtoi TEhiir, ubi
non addi potest pro- nomen personale, quiu ambigui- tatem
sententiae efficiat. Huius loquendi normae adeo severi ar- bitri
Graeci eraut, ut ne in in- transitivis quidem verbis, quae e
dicendi verbis penderent, accusativum pronomiuis casum iuiiuitivo oddi
paterentur. Ubi autem pro- nomen ponendam erat necessario, ut in
Piat. Parra, p. 127. 1). nominativum posuerunt, nou ac- cusativum :
.at>roV re ETteifeXStir $<prj o IloSodupoS xal rov
ILxppevlSrfy. evSvS 6* ovv. Mtv et 6e particulae ita
plerumque adhiberi soleut, ut duorum verborum, qui- bus apponantur,
mutuum relatio- nem iudiccnt. Relatio haec esse liequit nisi inter
verba, quae suapte natura possont alterum ad alterum referri.
Adhibentur itaqne, ubi nomen nomini, verbum verbo, particula
particulae respondet. Igitur nostro loco scriptum ex- spectaveris ,
quoniam ol vocuU nominis» proprii locum obtinet xrMnozioM.
23 ilavxa cfyuv au xaxixuvxa oi aMoi, xai xutakaujia vuw
y8rj (ittlovtas deutvBiv. tv& i>s 6’ ovv tog Iduv tov
’Jya&a)va , tpctvcu, '^iQiaxuSyfis , elg xa/.ov yxeig, Zlxeog
evvdunvijOjii' sl 8’ aXXov xivog evexa yX&ig, ei ulv — xur Si 'AyaSava. De- Ilex isse
autem scriptor a consueto harum particularum usu videtur, quod
enuntiatio itu conformanda «rut, ut non solum ol responde- ret
sequenti xdv 'AyaSuvct , sed «tiam evSvS ad sequens tv$vS
referretur. Duplicem hanc relationem indicare tantummodo scri- ptor
potuit, revera exprimere non potuit. Scripsit itaque ol pkv — U'3
vS 6£. Sed quoniam hac di- «endi ratione nou sublata quidem et
prorsus deleta , sed turbata tamen atque imminuta est vis relationis
utriusque ol pty — roV 'AyaSooya et rvj&vV ptr r— tvZvS 6£l ne
singula totius «•nuntiati membra dissoluta vide- rentur, OVY
particulam scriptor adiecit, quae ut contiouandi par- t cula est,
ita membrorum hiatum explet commodissime. Simili ra- tione scriptum
reperies Apol. 8ocr. init, ott p\v vpeif , oj avSpeS ’A$7/vatoi ,
xexovSaxs vxd xc ov £/i6jv xaxr/ydpav, ovh ol6a * £ y o> 6’ ovv
xat avxo$ xnt auioov oXiyov ipaviov £xe- AxxSopJfy. Qno loco non
vptlS ptr — £yoj 8£ Plato scripsit, quod inceptae enuntiationis
ratio «tiam o xt ptv — dsivotaxor 8t flagitabat. OvY priori
particulae additum reperies Symp. p. 176. B. £y co plv ovy \£yoo
vplv dxt reo ovxi rtdyv jtfAe- *rcJf 1'xo* vxo x ov xoxov y* a$
6iopm dvaipvxy* xtvuf, olfiat 6* xa\ vpaiv tovS «roAAoirf, quo loco chiasmi
ratio, qui plerumque in Uuiosrundi locis reperitur, iyoo non ad A
iyes docet sed ad ^aAtTrciiS’ ^gj re- ferendum esse. interdum
ovy particula omittitur in hoo dicendi genere de industria, ut re-
pugnantia quaedam voluutatis ex- primatur, verboruraque relatio
minus sibi respondentium deuotet id, quod apud Homerum Cst Ixc Jy atxovxl
ye Sv/igj. E.g. Piat. Ep. VII. p. $25. A. TtaXiv 61 fi p a 8 v x ep
ov plv,El\x8 8 £ pe ojucof 7 } 7iip\ xd TtparxEiv xd xoiva
>t<x\ noXixixd txiSv- pla. Adde Soph. Oed. C. v. 521.
i/YEyxoY xax6xax\ (u B,ivot, ijveyxov, dxaov plv, $£C>V ioxeo,
xovxgjy 6 * avSaipETOv ovStr , quo loco Reisig. axojy pav scri-
bendum couiccit, Dubito, unm rect'. Pessime autem alii docuerunt,
supplendam esse post ukgov ptr — IxaJy 6k oi/. Ceterum huius
structurae exempla permulta rc- periuntur, quibus ellectura est, ut
scribae interdum 8 * ovy pone- rent, ubi y ovy a Platone exhi-
bitum est. E is xaXov 7/ X EI S , d X G0> 6vy 6et7tY i/
6y$. Fortasse e Dawesiana illa lege , quae cum couiunctivo aor. I.
vetat oXgjS couiungi , Bekk. v* tivvSet- XYt/dEiS coi
rexerunt. Frustra. Stallh. nnnotut ad h. 1.: Vulga- tum dx
coS 6vv8ti7tvrj6ff> mutari, non quo coniunctivum aoristi primi
soloecum putaverim, quae fuit Grammaticorum quoruudaro opinio, sed
quod luturum rei ipsi m a g i s accommodatum •sso videbAter.
Continet «eim klgccvft ig AvuftccAov ' cog nccl %$zg {tytcSv (Jfc, i-va
xctAa- dccifu , oi?£ olog ** ^ Idslv. aM.cc IkaxQcctr] 7j(iiv icdig
ovtc aysig; Kal lyu\ iq >rj fisra<5TQEq)6pEvog , — ovdafiov uqcS
UaxQatT] iitofievov. eItcov ovv , ott xal avtog Utra UcoTCQatovg
ijxoifju, xXrj&elg iri Ixrivov Sevq Ini cohortationem
Aristodemi, ut epulis iuteresse' velit, adeoque indi- cat, Agathonem
persuasum habere, hoc ab eo factum iri. Nam in invitandi formulis
Qraeci sempcr post O7CG0S iuferuut futurum tempus, nunquam
coniunctivum aoristi. — Scripsit autem V, D. elS xaXov fjxetS*
oxqjS 6vr- &£i7tv?j6EiS. Efficitur autem hac verborum
disjunctione, ut Agatho, ceteroquiu homo elegantissimus, parum
honeste nunc egisse vi- deatur. E Stullb. sententia con- vertenda
sunt Agathonis verba: Schon, dass du gekommen bistj •peise nun mit!
Hoc non tam est vocare aliquem ad coenum, quam exprobrare alicui
tecte ad- ventus temeritatem; quasi non per se intelligatur, eum,
qui ad- venerit, una couvivari. Rectior explicatio haec est : Du
kdmmst gerade noch zur rechteu Zeit, um mit uua zu essen: hoo
modo praeposterae invitationis odiosa commemoratio vitatur
fe- liciter et rectius simul verba explicantur : Hi xaXov rjxeiS.
Sci- das habet: ds xaXov ' evxaipaS. Recte, cjS xal
Urbanitatem Agathonia ex his verbis coguoscas licet. Sensus eat: Si
alius, rei gratia huc profectu» es, in posterum di f fer;
idem enim et ego facere coactus eram heri, cum te quaereiem, ad
epulas ut‘lnvitarera, te nusquam terrarum conspiciens.
ovx olo S t ij 18 eir. Stallb. addito verbo nullo f\Y edidit,
quae vulgata lectio est , pro rf . Acute Ruckertus: confirmare V
lectionem videntur etiam libri i»» qui plane omittunt verbum,
quod fieri non potuisset, nisi v abes- set, ut interire rf in
sequente r posset. Vide quae annotata sunt ad p. 9.
dXXa Swxpdtij — &yeiS, Rogat propterea, quod scit, eum
semper cum Socrate esse, R iickert Vide ad p. 173. B. quae annotata sunt.
Ut illic ex epi- thetis, ita h. 1. ex Agathonis interrogatione colligere
licet, Aristodemum Socrati amicissimum fuisse, xal
lyv,l<prj fieradt pe- <pu pevoS, X, t. A. Comma po- tu i mas
post peraCfpetpoperoS , delevimus, quod in omnibus edi* tionibus
exstat, post i<prf , quo deleto sententiae vigorem auctum
habebis, et errorem Aristodemi descriptum vividius. Sensus est :
uud ich , sagte er sich mndre- hend, / — sehe nirgends den So-
crates mir folgen. Si qui snnt, qui post Hqtff interpurfetionem
flagiteut , /iiprjpacToS gratissimi severi osores , non
repugnabimus quidem: hoc certam est tameu, nostra interpunctione
lepidiorem Ari»todemi orationem fieri. Ce- teium lineolam post
pe%adtpe<po- ETMI10EI0N. 25 dst Jtvov.
Kctliog y' , %<p?l , nouov <Sv ' «Aia srou Itiuv ovzog ; —
“Om6&bv ifiov &q n dgyu. alXa ticcuud^a xal avxbg xov av eti]. —
Ov axitpu, H<pr), itai, cpcivai 175 zbv 'Ayaftava , xal tlga^BiS
Saxffavtj; Ov 8’, rj 8’ os, 'AQiazvdrftis , 7ta(j 'Eov&tiaxov
xaxaxllvov. peroS ponendam cnra?imns, nam per aposiopeain
xal iyco verba posita sunt. Dicturus nimirum' Aristodemus erat: xal
iyoo ijxco avxoS pera ScaxpdxovS , converso autem ipsi inter
loquendum, quoniam Socrates nusquam comparebat, prae stupore lingua
hae- sit* Paullo post animo resumto, ut orationem interruptam
expleret , xal iyco repetit ita : ehtov ovv , oxi. xal avxoS //era
2co~ xpaxovS rjxoipi h e. : ich sagte nun, dass ich ja
anch gekouimen ware, ich rait Socrates* Male Stallb,, quem
Riickertus secutus est, xal avxoS verba arctius coniun- genda
censet atque convertenda : dass ich j a e b e n mit dem So- trates
gekommen ware. Ceterum aikxo-S pexa 2arxpaxovS h. 1. dicitur, ut
sexcenties alias v* c. in Xeuoph. H* Gr. 2. 2. 17. scriptum legitur:
psxaxavxa ypi$Tf npedfievxtjs is Aaxedatpova avxoxpdxcapfd exaxoS
avxoS. Numerus ordinalis, quem vocant, StvxEpoS nou additus est
nostro )oco , quod addito Socratis no- mine plane otiosus erat
atque inutilis. xXijSelS vit ixeivov . Facit
Aristodemus, quod facturum se esse indicaver.it p. 174. D. ooS iyoj
phv ovy opoXoyijdta dxXrjxoS ijxeiv dXXd vito do v xexXrj pkv oS.
xaXcoS y\ £<ptj, rtoitov dv * aXXa x. r. A. Octo Bekkeri
codd. yi omittunt; qnf qno sunt melioris notae, co
studiosiores editores in expungenda purticula fuerunt. Fi
particulam Platoni restituit doctissimus Stallb., quem Riickertus
secutus est, motus Uterqne constanti usu yi parti- culae in hac
dicendi formula apud Platonem. Lundat Stallb. ad h. 1.
Charmid. p. 156. A. xa- AcSff ye dv , ipr 8* iyoS , ir otior.
Hipp. M. iuit. xaXcoS ye dv — voplZoov. Lnchet. p. 192. B.
op-\ &<oS ye dv X iyajv. Theaet. p. 181 . , D. o
p$coS ye XeycjY. Lysid, p, 204. A. xaXtoSy, tjy 8*iyco f itoiovrxeS
, quibus adde si pla- cet exemplorum congeriem, quam addidit
Riickertus in edit. Symp, p. 17* Convertenda verba sunt: Bene
quidem, inquit, fa- ctam a te, sed abigentium est ille? xal
avtoS. Addito xal iu- dicatur, magnopere mirari etiam Agathonem (
aXXd nov edxtr OVXOS ;") absentiam Socratis, Mi- nus igitur
placet, quod in uno cod. Paris, legitur aAAa xal $avpd$a>, neqne
videre possum, cur id in textum receperint Astius et Reyuders. .
Ficinus habet . * quare ipse qnoque miror, nt eundem legisse
suspiceris < aXXd xal avxoS SabpaZ co-, quod cum correxisset ,
serior manna xal avxoS ponendo post Sav- paZa> f factum est
fortasse, ut 4 xal remaneret ante $avpd?,ca. ov dxllf>€l.
Futurum cum Cap. III. Ka\ 2 fiiv Scprj dnovltuv tov aalSa , T va
xaxa- xloito' aV.ov is uva tajv naiSav tjxuv dyyUkovta,
negatione iu interrogationibus ad- hiberi solet liaud raro pro im-
perativo, Potest adiuncta esse huic dicendi formulae indignatio-
liis* irae, clementiae notio, prout verba pronuntiaveris.
Servitutem clementem apnd Agathonem fuisse servis, verba docent p,
175» B. itccvTcoS icapaxi^ETt oxt av ftov - XrfOSe, iytstdctr ns
vuir MV ifpeSttjxy • d iyv ovSencdxoxs iirobj6a et q. sqq. Verba
con- vertenda sunt igitur nostri loci: Wil 1 s t du nicbt einmal
nachseheu, •agte er , habe Agatbon gesagt, and den Socrates hereinfiibren
? xrrl J?jukr x.t.\."E p£v Bastii cprrectio praeclara
scriptnrae Vul- gatae xa\ ifif, quam hodie nemo explicabilem
indicabit. Probatur his verbis , quod supra annota- vimus p. 22.,
ad evitandam ambiguitatem Graecos per- sonale pronomen omittere
solere In transitivorum verborum infi- nitivis, qui e dicendi
verbis peu- deant idemque, atque illa, sub- lectum habeant.
Efficitur autem hae loquendi norma h, 1. , ut puer Aristodemum
abluisse dica- tur, non vice versa puerum Ari- stodemus, quod
Graece audiret; xal leprj axorifieir ?ov Konda. Puerum li e. servum
quod attinet ; fitallb. toV itaidct videlicet, inquit, quem antea
compellaverat. Riickert. : 6 itaiS est h. 1. is 6errus , a quo
supra Aristodemum introduci vidimus. Neuter satis recte h. 1.
articuli vim rnlerprtUtar. 'O raif «t petius servus, cui pedum
lavanda- rum officium mandatum erat. SVa xax axioix o.
Modus optativus cum particulu finali couiuuctus satis demonstrat,
duoruteir non praesentis tempuris, sed praeteriti infinitivum esse.
Vide ud p/ 7. quae annotata sunt. Imperfecti participium ha- bes p.
174. E. &•£oxal t ur (>£ iva xaXcdtxifji x. r. A. In vett.
editionibus scriptum exstat ira 7Cov xaxotxioixoy quod nullo modo
lcrri potest. Depravatiouia fontem felicissime Stallb. inda- gavit.
Cod. nimirum Flor., lit- tera a apud Stallb. insignitus, 0 7
tov. habet ty a xaxaxeotxo. i r x gJ t cor ysixor
o»r npoSvpu). Vitruv. Arcli. libr* VI. 10. 7Cp6$vpa, inquit,
Graeco dicuntur, quae sunt ante ianuam vestibula. Addendum est,
itpd- Svpcc non nisi privatarum aedium vestibula esse, publicarum
aedium vestibula TtponvXaia Graece vo- cari, Minus apte igitur
Schlcieriu. npdSvpor con vertit : Vorhof, quo verbo npoTtvXaia
indicantur. Narrationem quod attinet Aristodemi: Socrates inter
proficiscen- dum meditatus, cum prius itiucris, quam cogitationum
fiuem reperis— •et, ad vestibulum vicinae domus deverterat.
xapov xaXovvxoi. Ilacc est vulgata lectio. Codd. non pauci
xal 6ov habent, Eekk. ex optimorum auctoritate codicum edidit xen
or>j caiot patt«eini«na ot* SmxQcttTjs ovtos «vajjopjJtfas Iv xta xiov
yutovav ZQofrvQip tOtrjxe , xaftov xukovvxog ovx i&tte
tlsi&vtu. "Atoxov y' , s<pi], kiyug ' ovxovv nutes uvtov xul
(tri utprjGBis; Kal og 'iqirj tlittiv, MijSufica s, ukX iuts uvtov.
B suscepit !n Epliem. Litt. Ienens. Jul. 1852, N. 1SS.
censor Riik- kert. editionis : a Fragt es sicli, ob hier g er ad e
Red e odor abhan- £ i g o besscr sei , so ziemt die Jelztere mehr
darum , weil sie das i 11 den Vorder- und das iu den Ilintergruud
der Uuterhaltung Gebdrige schon abstuiend die das Gesprach der
lJuuptpei*- soueu unterbrecheude Meldung des Sclaven glcichsum
episodisch zuriickstcllt. Und gleichwie diese Form auch iu dem
Uebrigeu her- vortritt , indein 'kein H<pjj ein- fiilirt , so
sprechen fur xa\ ov, aul' welches wir schon durch innere Griinde
hiugewiesen wer- deu (?) i auch enlscliieden dio besteu
llandschriiten , welcben llekker mit Ilecht gefolgt ist. Dcnn auch
das Einzige, woran cin Vertheidiger des xdfiov sich konute halten
wollen, das ovxoS bei ^LtDxpdcxrfS vertragt sicli auch mit
ungerader Rede : dass Socrates hier iu der Niihe stehe.w llaec speciosius
sunt, quam verius dis- putata. Quid, si ipsa pueri verba scriptor
exhibuit, ut, ad quae omnes convivae aures ar- rexisse consentaneum
est, eadem jm»e ceteris etiam emineant? Non dispiciendum est
autem, quid obstet, quominus xa/iov scribatur, praesertim cum
hac scriptura totius loci vigor augea- tur incredibiliter. Iluc accedit,
quod Agatbonis verba atOTtov y\ &<pr} , Xkyttt et q. seqq.
ipsis nuntii verbis apprimo eoaveniant. Verba conrertenda sunt: Eiu
anderer aber von Aga- thon's Sclaven sei gekommen und habe
berichtet: Socrates der * steht beiseit am Hofraum des Nachbarn,
und ich rief ilin mehr- mals, aber er will nicbt heroin-
kommen. ato*or y, £<PV> XeyttS* Suut fortasse, qui
scribi iubeant axoitov yk xt, E<prj , XkyuS. Utrumque geuus
dicendi in usu erat Graecis. Iu formula axo- xov yk xi y l<pT),
XkyuS, XkytiS verbum transitivum est, ex ecquo xl pronomen
exaptatur, cui aro- Xoy est additum. Omisso t\ pronomiue atoxov
adiectivum adverbii vices obtinet, XLytii absolute pouitur ut
nostratium sprechen; exempla si quaeris huius usus, vide sis
Indices. Ea- dem dicendi formula explicatius perscripta audiret:
axoitov y, 2<p V , Xuyov Xiyetf, Felicissimo Si hleierm verba
convertit : Wun- dorlicher Bericht! habe Agathon gesagr.
ovxovv xaXetS aifrov * xal fu) a(pi/ <$iiS ; Vulgo male
xotXel legitur, paoci r.odd. etiam soloece exhibent u<pi]6yi pro
aqtijOEiS* Ovxovv vocem quod attinet, usu loquendi factam est, ut iu
interrogatione non ovxow , qnod ratio exigit, eed ovxovv
scriberetur. Igitur interrogationi conclusionem addi- tam habes,
quae voluntatem iubentis certissimo describit. Ceterum non possa-
I fdos y&Q ti tovx' X%u‘ Ivioth dnoOtag , Znoi, 3v
rvffl, itSTtjxtv. $u Si avxixa, cog fyw olpcu. fir) ow nivtite,
aAA’ lare. ’AkX ovxco %VV mas huius dictionis nisi hac ra-
tione assequi potestatem, ut con- vertamus: Du rufst ilio aiso uud
lasseat uicht ctwu von ihm ab. Mi/ particula quopiam non ea , quae
revera fiunt, sed rei alicuius nonnisi possibilitatem, veuia sit
verbo, cogitatam negat, additis nicht etwa verbis commode
redditur. Recte Hermauuus ad Soph. Aiae, v. 75. /at/ sic positum
dubita- tivdm esse docuit. l$o? yap xt tovx* Cave
otiosum censeas x\ prono- men. Priscian. XVIII. p. 1208. costro
loco exemplo utitur, quo demonstret, Atticos scriptores interdum x\
pronomen abundanter adhibuisse Iu Platon. Hipp. M. V* 287. B. , quem
locum Stallb. laudat, eandem enuntia- tionem reperies verbo
immutato nullo. Facit inprimis ad agno- scendam xt additi
potestatem Thuc. 1. 132. *ApyiXio? — Xvet x ds inidxoXa? —
vnovof/da? xt x oiovx ov TtposeitedraXSat x. r. X % h. e. Argilius
cum suspi- caretur, harum rerum aliquid imperatum esse et q seqq.
Adde Pl. Syrop. p. 191. A. fX<AY XI TOlOVtOY OpyUYpY ,
olor vl dnvxoxopoi. p. 194. E. onoio? di xi? av roV oav xavra
id&pi/- daro. Gorg. 472 ,C. idxi pbv ovv ovxoS xt? tpoito $
iXiyxov, ei? 6v xt olet nat aXXot noXXoi . Hom. II. 9. . 11. xovxo
xl /tot xaXXidxav M <ppedlv eldexat tlvat. Verba nostra
convertenda sunt: dat ist «o teiue Art; okoliIv , il <Joi Soxu,
(pavas ort ot av rv XV H.
e. d«- • istens interdum, ubicun- que locorum est, ibi
con- sistere solet. Quando iu- delinite loquuntur Graeci,
cum' verbo finito quietem significante, non quietis sed motus
uotiouem coniungere amant. Ut igitur de certo loco dictum supra est
Sdfij- 7<EY lv rcJ TCOV ytlXOYt&Y 7CpO- St Logo, ita nunc,
quoniam certus locus Aristodemi animo non obversatur, Znoi non Znx/
rectissime scribitur. Illud meliorum codd. auctoritnte confirmatur,
haec vul- gata lectio est, quae etiam rvxp habet pro rvxot. Ali. ratio
eat verborum c, I. p. 173. A, X po rov Se xeptrpexuv oxy
rvxpipt («c.. xepirpixuv ) ubi posito rv- XOipi sc. xeptrpexuv,
verbo mo- tum significanti admugitur notio quietia. Adde Piat.
Phaed. p. 113. B. — ov hcA oi fivotxf s ano- OxdSparadvacpvSuSiv,
ot iy av rvxarfi rrjs yyS, quo loco ad Tvxatdtv supplendum est e
prae- cedente verbo finito participium motum in aliqnem locum
sigivJA ficans ararpv Purus. Aiioch. p. 365 C. artioxet 61 SioS
:n — ti otfpypopai roSSe rov <pu- roi xai ruv dyaSur, aetSti/S
te xa l axvPtoS dxoixote xeioo- pai Orproftevos, eis evids
nat xruSa.la perafiaMuv. de repi IX. p. 589. A. uste t^xeOSai
oxy dv ixdvuv oxorepor dyp. Ibid, VI. p. 492. C. qtepopivtjv nata
(Sovv, y av ovro s <pepy. prj ovv xivelxe, aAA’ iaxe avrd
v. Valgo xivffte exhibetur, quod Grammaticorum tov 'Aya&ava. ukX fjpccs, eo xaiStg, rovg
aM.ovg £< Jtt « T8 ‘ Ttavtas xccqcitI&stb S u ixv ffoviija&s ,
Ixudav t ig v/iiv fifj hpte vtjxu' o iya ovSeikoxotb ixohjoa. vvv ,
praeceptis repugnat. Aristodemo* autem cum supra dixisset aAA* idxe
ccvxov, eadem verba nimo repetit cuqj vi maiore, quod ser- vos
Agathonis, dicto heri audien- tes paratos adhuc ad vocandum
Socratem animadvertebat. Ce- terum e xtrnr verbo facili ne- gotio
Socratis meditabundi ima- ginem lingere tibi possis. Aft- reidScn
nimirum dicitur, quod ipsum se non movet. Ad Socra- tem adhibitum ,
hominem osten- dit sine motu dantem atque re- rum
externaruimoblitum, qualem, descriptum legimus infra p. 220. C.
cfr. p. 218. C. xal eheov xtrt/daf aVxcrr, quae verba de eo
dicuntor, qui sine motu iacet atque somno quasi sepnltns. Adde Pl.
de rep. I. p. 829. D. xal iyoj aya6Se\s ctvrov einorxoS ravxa,
fiovXo piros hi Xkytir avxor ixirovr xal ditor x.x.X. Consentaneum
est, Cephalum^ fi- nita oratione, rem, de qua dixis- set, secum
reputantem, sine motu sedisse, qua propter ixivow avxor Socrates
ait. a XX ovrct) XPV • v *d. 9 ,, ac annotata sunt p. 12.
Addendum est h. 1., discrimen, quod ad p.* 178. C. inter XPV et cx
” stare annotavimus , non dbique apud Platonem exemplis
probari. Reperiuntur enim loci, obi Sii pro XPV et vice versa XPV
pro 6sl adhibetor. Ne igitur Pro- dici sophistae instar nimia
se- dulitate usi esse videamur in in- dagando verborum
discrimine: hoc certissimum est: nusquam reperiri in una eademque
enuntiatione verbnm ntrumqne, quin alterum necessitatem ex- primat,
alterum inservientem ne- cessitati voluntatem denotet.'
navtcoS it apaxiSets. * IlapaxiSedSai dicitur de cibis et mensis,
ut Lat. apponere monente Stallbaumio in annot. ad Piat. Pol. p.
854. B. In ali- quot codd. reperitur xovS aXXovS idxiaxe ndvxaS xal
itapaxi$ixc % * quod, Thierschio, Reyudeisio, Ruckerto, probatur.
Male. Nihil enim languidius xovt aXXovf — ndvxaS verbis }
correxerunt autem olim ita, qui de narxoaS vocis explicatione
desperarent. IJdrxaiS 9 inquit Riickerlos, habet, quod offendat.
Quid enim sibi vult ly 1. omnino, iiberhaupt? Cogitatione arctius
couiungendum est izarxwS cum oxi ar fiov- Xv6$£ f ut respondeat
nostratium; Thut ganz, wie ibr wcllt, setxt vdlJig vor, V.U3 euch
beliebt. iieeiddv xi s vp.tr pif iipedxtjxy . Satis
colligitur e lectiouis varietate, doctos homines iam antiquitus do
huius loci explicatione admodum du- bitavisse. Vix
commemorandum est vpir , quod in aliquot codd. reperitur pro vpir:
gravior va- rietas est in verbo i<pEdxt}xy. Pauci sed optimae
notae codd. iq>idtrjxei exhibent, tres atpe- 6xtfX7f, unus itpetdxijxu
, alius itpidtrpiE commendant. Stallb. convertenda verba censet;
quum nemo vobis praepositus sit, id quod ego nunquam feci, In
Scliieierm, conversione 30 ijaatqnoz ovv
vofitgovxis xal l/ii v<p vficov «fxX fjo9ai ixl dtZ- C xvov, *«l
rovgSs rovg u/J.ovg Qtgaxeutts, iva viiag httuvaftev. Mtxu xavxa iqyrj
oepcic; (iiv dunvtlv, rov di ZcoxQocnj ovx slgdvau xov ovv 'Aya&ava
ita/j.uxiq xilivetv aaaxlii^ttOdM xov ZtoxQtxit] , X di ovx iav.
legitor p. 889.; trogt aof, was ihr wollt, wenn euch doch
Niemand Befehl er- thcilt, was ich noch n i e • mnis g e t h a n
habe. Riicker- tus verba convertit : Apponito quaecu nque vultis,
quam nemo vobis est praeposi- tus. Ficinus , cuius maxime
conversio probabilis: Ceterum vos, o pueri, aliis epulas afferte,
et, quodcunque lubet, apponite: vobis si quidem nullus
praesidet. Sed nmn credibile est, herum, qui revera neminem servis
suis praeposuerit, dixisse: si qui- dem nemo vobis praesi-
det? Plato scripsit fortasse iitt i, 'r av, x\S i ' ptv MV t*P E
’ tSrjjxp h. e. nam, pueri, aliquis vobis ne sit praepo- situs.
Atque ne cui maior videatur huius s'cripturae audacia: scriptum exstat in
omnibus codicibns p. 174. D. itpo odov, ubi manifestum est,
Platonem vtpo 6 xov exhibuisse. Ceterum pro ppdtii cum vi ponitur
h. 1. r\S — jJ7j ita, ut r is per euphenismum dicatur. Sententia
est: diros aliquis homo vobis ne sit praepositus. vvv
ovv vopi£ovteS seqq. Laborat hic locus ex in- terpunctione mala,
quam ut ce- teri editores, ita huius libri ia- terpres celeb.
Schleierm. immu- tatam retinuit: Denkt also, auch ich wiire von
euch tum Gastmahl geladen, so wie (?) die Andern, uud
bedient uus so. Commate post xovS aXXovS deleto et posl ini Selnvcv
posito sententia verborum haec est : nunc igitur me quoque ad coensm vocatum
exi- stimantes , m e et ceteros , voa ut laudare possimus, curate.
Ac ne cui mira videatur ijti prono- minis omissio, dicturus
Agatho erat: vvv ovv vofiigovxsS xal ipk v <p vpavV%KexXrj6$ai
ini Setnvov Sepanewxe sc. ijifc Sed quonium non tam se, quam
convivas servis commendaturus erat, ea dicendi ligurii utebatur,
quae omisso ipi pronomine in- prirois convivas curandos osten- det
et. Haud dissimilis est nostro loco Piat, Pol. I. p. 329. D. xal
iyoo fiovXupEvoS Exi Xi~ yeiv avx 6 v ixivow xal tutov x. x. X.£ 61
ovx iav. Bekk. ex aliquot codd. d intextum recepit, qua lectione
oppositionis ratio turbatur, vid, Malth. Gramm. pl. f. 536. p.
1054. annot. Ut hoc, ita t spernendum est, quod non recepisse in
textam frustra Bekkerum piguit. Equidem Ru- ckerti iudicio
subscribo, qui in aunotatione ad h. 1,; Egit, in- quit, de hoc
ignoto nominativo pron. pers, Buttm. Gr. pl. I. p. 291. T. II. p.
413. seqq. al- latis testimoniis grammaticorum, quibus id quidem
edicitur, ut vix liceat dubitare, quin exstite- rit ea forma apud
Atticos scrl- fytiw ovv avtov ov nokvv xqovo v, cag da&n ,
HuccqI- ipctvtcc , dlka (iah6xa 8(pa$ peOovv dHitvovvtag* xov ovv
'jiyafravcc, tvy%ccvuv yccQ £<fyarov xazaxei[iBvov t (io- voVy sdtvQ ,
%(pij q)uvcu> ZaxQccreg , 7tag ips xatdxBuJo, tvu xal tov fSotpov
[ajtxofuvog tSov ] c#oAav<fo, o tfot D ptores, Ternra nt
recipere liceat alio loco, ubi codd. desit auctoritas, non
ef- ficitur. Quare cum in tot scriptis Platonis ne uno quidem
loco, quod sciam , ullo in codice haec forma occurrat, haud scio,
an recte inde colligatur, ab hoc certe scriptore eam prorsus alie-
nam esse. Ad verba izoWaxiS xeXtvetv annotatum est ia Sym- posii
ediiione Wolfiana Lips. 1828, p. 13.2 TtoXXdxtf xeXevur xnuss vom
bJossen Wollcn ge- nommen werden , wie das Fol- gende zeigt. Male,
Sensas est: Agathoa habe wirklich oftcr den Befehl gegeben , den
Socrates herbei zu scbaifen , er aber habe es nicht
gestottet. xov ovv’AydS<avct, rvy- Xceveiv ydp x. r. A.
Haud raro apud Graecos scriptores ea pars orationis*, quae
caussam continet alicuius rei, ei orationis parti praefigitur, qua
res ipsa continetur. Huius usus exempla ai quaeris, adi Mattii.
Gramm. pl, $. 615. p. 1242. Exemplo est etiam hic Jocus, quo prius
commemoratum est, cur Agatho Socratem vocaverit, quam id ipsum dictum
sit, Agathonem ad se Socratem vocasse. Nollem tamen huius loquendi
usus severior ar- t biter exstitisset Riickertus,* qui ad h. 1.
haec annotat: c Quod nemo, cui vehementiorem dederit natura
animum, non, ut ego opi* nor, experitur, scribendo exprimere omnes
verentur, Graeci, quorum nondum regulis esset adscriptas stilus, licere
sibi putabant, nt inchoatae sententiae aliam insererent mediam ,
qua illam vel explicarent vel proba- rent priusquam totam
legisset audivissetqne, ad quem dirigere- tur. Quamquam apud
Herodotum, apud quem exsurgens prosa ora- tio nullodum freno
tenetur, fre- quentior hic usus , quam apud seriores prosarios
scriptores. » Quem, quaeso, nostratium offen- det Platonicorum
verborum con- versio haec : • Agathon nun denn zufal liger Weise habe
et allein am letzten Tische seinea Platz gehabt — hatte
gerufen: Hierher , o Socrates u. s. w . Hdxatov xat OLxtiptv ov
9 pQYOV, Interpunctionem ponen- dam curavimus post
xatocxttps.- yoy, ut, qui ultimae mensae ac- cubuisse dicitur, idem
significantius* solus fuisse perhibeatur. Festis diebus pluribus
mensis utebantur Graeci, singulis autem non nisi ties convivae
accumbere solebant. Hinc nomen tricli- nium ortum. Iva. xal
tov 6o<pov [aitto pevoS Oov] aito - A pcv 6ao, Ia paucis sed
melioris notae codd. v, c. in Bodl. omit- tuntur verba ctittoptvds
6ov , quibus negari nequit, orationem paullo rigidiorem fieri atque
in- comiorem. Nam duobus geni- jrpog&frij totg jrpoO-upoig.
djjAov yap ott tvpsg auro KKt i^Etg • ou.yap «v nQoaxiattjs. Kal rov
EcJXQiaij xa&t&6&at xal ilitslv, on Ev uv fyoi, tpavox, m
’Aya- &cov, tl xowvtov rfij rj Gorpla, togr’ bt rov nk^oiortoov
lis tw xivwtQov quv •fjfibv, lav ciTtzojju&cc akh)Xav, tivis
divertas relationis inita positis facile fiet i possit» ut verba
falso construantur: tov do<pov dntdpEvoS dov ano • Xavdoo.
Omuia bene haberent, ai scriptum exstaret: tva anxo- pevoS 6ov tov
dotpov ano- Xavdco, o doi nposidxy x. r. A. Videlicet Agatho dnxEdSai
xivoS tropico sensu h. e. de sedis vi- cinitate intelligeret ,
Socrates autem verbum premeret pro more suo satis festive, atque de
con- tactu materiali intelligeret. For- tasse anxopevoS dov verba
e Socratis responso huc translata sunt , atque in sede minus
apta posita. Uncis eadem compegi- mus, ut quibus deletis
Agathouis sententia plane non mntetur, et flumen orationis minus
retarde- tur. — Verba convertenda sunt: Hierher, Socrates, zu
mir lege dich nieder, damit ich zugleich der W e i • -heit froh
werde, welche vor dem Hofr&um ‘der N a ch b a rs chaf t dir
bei- kam. Iam quo sapientiae lau- dem in Agathonem
converteret, Socrates posito pro xaxaxEidSai napct xiv a verbo
dnrsd^ai ri- vos , respondit, ut Fiemus qui- dem verba convertit:
Bene se res nostrae haberent, Agatho a si sapientia talis
esset, ut in va- cuum hominem ex pleniore ipso contactu proflueret,
quemadmodum «qua ex pleno calice io vacuum per lanam influens.
Si enim sapientia ita se habet, permolli facio, quod apud te
se* dto, repleri quippe abs tc uber- rima et praeclara sapientia
puto. oti yap npo anedxyS. Sensus est; non enim ah eo
investigando abstinuis- ses prius, quam id repe- ris se 3 .^
Supplendum igitur est: y EvpeS avxo , non ut Stall- baumio visum.
est, ei py EvpES avxo . Negari nequit, interdum npo praepositionem
comt veibis consociatam temporis ratio- nem eum indicare, qua
aliquid prius fiat, quam aliud quid evenerit, cfr. Piat. Gorg. p.
454. C. onep yap Xiyco y tov k%yS Ivixa nspaiysGSat tov
\6yov i pando, ov dov ZvExa y aX A* Zva py ZSiZojptSa
vnovoovvxeS npo apnaZeiv dXX.yX.cov td Xtyopeya x. r. A. Possis
hoc modo explicare etiam notissimum versum Hom. II. a, $.
noXXds A* ixpSipovS iftvxaS dtdi npotaipev ?}poocov ,
quo loco npoidnxeiv significet aliquem prius, quam exigat na-
tura, in Orcum demittere, vali- dum florentemque aetate necare.
Vides, quam bene huic notioni conveniat Z(p$ipoS epitheton, quod
proprie ad ypcooov refe- rendum est. Adde II. XI. , 55. f noXXaS
ltp$ipovS xe<paX.aS a£6t vpoidipeir- Priore versu usos es,t
Luciun. in epigr. 24» Anthol. Gr, lacobs. T, II, p. 25»
medicis :w $ &SMQ zi Iv zaig xvh!-iv &8 g>q zoi
(5«? zov IqLov Qtov lx ttjs irbjQSiStsQas eis tfjv xtvarsQav. d yaQ
ovzcog fyu xal tj Gotpla, nollou ziuiofiai r rjv xaQ« Coi xazct- E
X/UGiv’ olfiat, yaQ fie naga Gov noli fjs xal xabjg Go~ tpiag
nXrjQa&rjGEG&ai. rj fitv yaQ ifiri tpavltj ztg av illudens
adeo festive, ut mihi non obtemperem, quin totum epi- gramma hic
perscribam: 9 Iijtrjp xi i i pol xov lov tplXov v\6v
IrCEjnpEV, coite pa$elv nap' i pol xccvxa x d ypapparixd. c
oS Sfc to pijviv aei8e noti aXy&a pvpi HSrjxev lyvco , xal xo
xpitov xoi68 9 axoXovSov Inoi , noXXai 6 * ItpSipovi ipv- X a
S & 'i 6 i n potarfi ev , ovnhi piv nipnei npoi pe
paSrjdopevov. aXXa p idcjv 6 narrjpj 2ol plv Xapiij einev, hraipe
• avxap 6 notii nap e pol xavxct paSeiv dvvarai • xalyap iyoo
noXXai rpvxdi didi npoYantaj xal npoi xovt ovdev ypap-
patixov 8iopai . e ii xov xev ojxepov. Hano Wolfii
coniecturam nonnullis co- dicibus probatam editores rece- perunt ad
unum omnes excepto Itiickerto, qui eli xo xevcoxepov retinuit,
annotans : Platonem non de homine, sed de hominis mente cogitasse ,
ut eli xo x % ifpGov esset id, quod inanius est in alterutro
nostrum Artificiosior est quam verior haec explicandi ratio, qua nemo
non videt nativam orationis pulcri- tudinem corrumpi»
8ia xov ipiov fi io v. Horum verborum explicatio recta Geelio
debetur, qui haec anno- tat in Bibi. Crit, Nov. T. H. p, 274.: a
8ocratcs filum laneum significat» Nam verum hoc eat, quum duo pocula
sibi proximo adiunguntur , quorum alterum aqua repletum sit, alterum
va- cuum, ac filum laneum made- factum contiguis horum margi-
nibus ita impouitur, ut pars im- mergatur aquae, pars in vacuum
fundum immittatur, fore, ut ali- quid liquoris tanquam per cana-
lem transeat. Hic lusus institui non potest nisi cum poculis» Hinc
apta eius mentio inter convivas. Eundem
lusum scriptor noster in animo habuisse videtur Menon, p. 70. B. J
fl Mivcov t npd xov plv QextaXbl evduxipot jjtiav iv xoii n E7iXv6i
xal i$av- pagovxo icp * \nnixy xe ?cal nXovxcp , vvv 81, coi ipol
Soxei, xal ini docpia. — iv$d8e 8e 9 co tplXe Mivooy , xo
ivavxioy nepiidrrjxev • doin e p avxpoS xts xiji dotplai yiyove
, xal xiv 8vv evei ixtdov8e tgov xoncov nap 9 vpai oixedSai
tj 6o<pia. X 7fv napd 6ol xataxXi - <$tv. Pro xaxaxXi6ii
alio nomino scriptor usus esset, eoque quidem a xaxatxeidSai verbo
derivato, si id in liogua Graeca exstitisset» Comparata enim nostra
verba sunt ad Agathonis adhortationem nap 9 ipe xataxeido , quae,
quo- niam contrario seusu Socrates % l
tYt] xctl , tjg xl 9 ovaQ ovda' t] de <Srj X auTtQti *£
y.cd jtoXXrjv laldodiv %oi>o«, rj ye naga dov viov ovtrog ovtcj
GepodQU i^tXaiupe xcu exepuvtjg iyeveto TtQtonv Iv (i£.qtxhH tcSv
'EXXtjvav icliov rj TQigfivgioig. 'rfctdTrjs li, a<pq, m ZaxQtnes, 6
'Aya%av. dXXcc ravta fitv xul dXiyov vcStiqov diadixadofie&a lyio ts
xai 6v xsqi rrjs dcxpiag dixadrtj %Qtxi(itvoi rep Aiovvdta • vvv
17C <5 e xqos to dtlnvov ngoxa xgizov. ntinc cxliibet,
ippiitr/i vocator putillo infra p. 175« E. oluat ydp pe itapa
dov — nXtf pcaSy <fed$ ai* Scri- ptum exspectaveris ex lege
gram- matica, de qua supra dictum est p. 22. olpai
nXijpcD^yded^ai 'itapa. dov. Interdum tamen ad- ditur personale
pronomen oppo- sitionis gratia , quae nostro loco manifesta
reperitur. Socrates enim ad Agathonis adhortationem respiciens,
quae p, 175. D. le- gitur, dicturas erat: ut ego a tc, non tu a me
accipias ad- inirabileni quandam sapientiae abundantiam, cfr. Symp.
p. 175. fi. xov ovv *Ayd5a>va icoWiimS xeXeveiv peta7t£jJipa6Saz
xov 2(a>xpdxy, 'i 8 l ovx iav, Adde p. 220. E. fin. avxoS
izpoSvpo- xepoi iyivov xcov dxpaxyydov iph Xafielv y davxov,
qoo loco avxoS pro davxov scribi etiam praecedens avtoS non
pa- titor. p. 223. B. xov plv ovv 3 Epv&ipaxov —o *Apidxo-
ftyuoS oixed^ai diciovxaS , e Ztcvqv Aafieiv xoii xaxadapSeiY
x. r. A. 6oq>laS. Wolfium audi ad hoc verbum laudantem
Sydenh. an- notationem: Den Ausdruck docpla braucht Platon sehr
oft, und in »wei verschiedenen allgemeinen. Bedeutungen , lOTOn die
eino znr pliilosopbischen Sprache ge— hnrtj und da bedeutet docpla
dio Wissenschaft von der Natur und den ersten Grundursachen
der Dinge. Io der andern gemeinera heisst es iede Vortrefllichkeit in
irgend einer besonderen Wisaen- schaft oder Kunat, irgend eia
vorziigliches Talent, Kenntnisa, Geschicklichkeit, wie es hier vom
Agathon dem Dichter gesagt wird. S* Piat. Theag. vom herein und
Arist. Eth. ad Nicom. VI* 7* iv papxvdi xcov *EWy- YcoY.y h,
e. coram specta- toribus. Satis nota est haec signikcalio iv
praepositionis, quae unde orta sit , facile intelligi- tur. Ut
Latini dicunt in oculis versari, esse in con- spectu alicuius, ita etiam
Grae- cos arbitror primitus dixisse: iv oppadi papxvpoov, deinde
cogi- tasse tontumraodo ita, scripsisse autem iv papxvdiv . Sic
reperiea sexcenties iv orjpoo, iv dixadxai iv 3 eoiS ,
alia* 7tep\ xyS docpla?. Delevi- mus comma , qnod post docpla?
in omnibus editionibus reperitur, non ut verba arctius coniungan-
tur nepl trjS docpla? dixadxy Xpcopevoi diovvdu), sed ut XP°^~ pevoi
8. d. ad praecedens 8ia8i- xadopeSa pertinere clarius in-
Cap. IV. Mera zctvra, Sq>t), xaraxhvlvrog tov
EaxQaroyg xul HeinvrjGavrog xul xav aMcov, GjtovSdg te G<pug
nocfoaG&at, xul aGuvtug tov &tov, xul ralla tu vo- ptgofiEva,
TQtnsGftai XQog tov Ttorov- Tov ovv ITav- Cuvlav £tpij loyov xoiovrov
tivbg xuraQxsiv. Eltv } uv- dicetar. Tlepl rr/S dotplaf
autem verba explicando xavxa prono- mini inserviant* Sensas est
.* Hieriiber wollen wir nach einer kleinen Weile entscheiden,
ich tmd du, narolich iiber die Weisheit, nnd Dionysos soli Ricbter
sein. Continetur his verbis festiva adhortatio ad bibendam , quod
quo fiat iucundius, rerum seria- rum, curae Bacchi indicio subii-
ciendae esse censentor» xai x 66v aXXav ac. d«- 7tV7]6avTG)V , nam
ad alterum participium xaxaxXtvkvxoS haec verba non referenda sunt.
Habet Ficinus; Post haec, inquit Aristodemus, Socrate simul et
aliis discumbentibus, libare invicem et degustare vina
sacrificantium ritu. xal xaXXa x a vopiZo- fjLBva . Magna
est horum ver- borum difficultas. Sive spectas structuram , nescias
, quid id sit, ad quod verba referas xal xaXXa tol vojiiZopEva ,
sive ad significatum animum advertis, voluntatem scriptoris explicata
diffi- cillimam reperias. Astius scri- bendum coniecit Marce xa
vopi- gopsva. Censor in Ephem» Lit- tcr. Ien, Iuli 1832. N. 52.
xal &6avxaS xor $edv xa YOjj.iZ6jj.Eva commendat. Audacias
uterque, ut videtur. Stallb. absolute po- sita verba ceoset hoc
sensu: et quae alia suat usitata. Non male. Melius Riickertus
participium aCavxaS ad accusa- tivum utrumque pertinere con-
tendit, nt convivae et hymnum in deum et quae praeterea cani
soleant, cecinisse di- cantur. Restat, ut explicemus, quid sit id ,
quod praeter hymnum in deum cecinisse convivae perhi- bentur. Pro
adsiv alind verbum ponitur in Sympos. Xenoph. II, 1. G oS 6’
dep%peS?j(jav ai xpa - xtEZai xal idTCeitjavxo xal in aiavitiar,
kpxexai ns h. x . A. Adde Athen., qui ad no- strum locum respexit
V. 7. p. 214. &S7tEp xal nXdxoDv <pvXa66Et ieaxd x 6
dvjixodiov pexa ydp xo bmtvrj6ca tfitovSdf xk cprj6i itoirjtiui xal
xov Seov xaicovi- 6avx aS xois vopiZojikvoiS yk - padiv. Colligi ex
his locis pot- est , verba xal xaXXa xa voju- Zopeva addita esse a
scriptore, ut a8eiv vocis simplicitatem ex- plerent atque notionem
efficerent itaiGoviZEiv verbi. Paullo infra legitur p. 177. A.
aXXoiS pkv Xi6i Segov vjjvovf xal 7tutu>vaS tivat X. T, A., ad
quae verba schol. haec annotat: xaiavaS * tj xovS XEyojikvovS
7taidvaS f vjjvovS eis UxoXXojva iirl xa- 3
* SQtg, <puvcu, riva tQoitov
qu<Stu xiofiefra ; iya jisv ovv Xtya vfiiv, otl ra ovci navv %aXeitas
£z a vito tov ^i>£S izotov, xal deocca dvcaln>xijs tivog, ot(iai de
xal B vfimv zoiig noXXovg. xaQrjte yccQ yfitg. axomtO&e ovv.
ranavdei Xoi/tov’ y Tlomjora tdv tcov Sediv iatpov * rj
nauo- vaS t coi vvv, cJSaS ini evtvxip xal vlxy, 8id tov gj, iB,
ov xal nauovl^Eiv. Est in hoc scholio , alienam manam quod
prodat, hoc tara^n certum esse reor, naiGovigeiv significare et
hymnum in laudem Apol- linis aliusve dei canere, et carmen canere
ini £vtv~ Xia xal vixy. cfr. Xenoph, Hell. IV* 7. Bdetder 6
$eof xal 61 jJ.lv Aaxedaijiovioiy ap- ZapivGOV toov ano
dajiotiaS, navtsS vjuvrjdoev tov nepl tov IlodEidco naiava. Alterum
ver- his expressum est adavtaS tov Seov, alterum in verbis
contine- tur xal taXXa ta vopi^djiEra. In conviviis igitur primam
libatio fiebat poculis , ut Schol. lluhnk. habet, tribus:
ixipvdovto yap iv avtcdS ( tais dvvov- diaiS') xpatypeZ tpeiS * xal
tov plv npGDtov Jids 9 OXvjiniov xal Segov ’OXvjtni(ov iXeyov
• tov 51 Sevtspov 'Hpcooov' tov 61 tpitov 2a)t?jpo£.
Libatione oblata illud facere solebant, quod naUkJvL2,£iv vocatur.
Hoc rite per- acto vino se invitabant» tpinedSai npoS tov notov
. Praecedente tempore aoristo infinitivas imperfecti positus est, ut
esset, quo possent momentaneae, quas vocamus, actiones , a duraturis
discerni» Tphcsd&ai enim npoS notov ipsam bibendi actionem
exprimit, quae ad multam usque noctem extenditur. Ceterum
articulus additas est, ut certa quaedam potatio, ad quam convivas
poeta invitaverat , denotetur. bIev , av8p£S, (parat.
Schol. ad Politic. annotat: eJbv ay£ 5rj' rj dvyxatdSedtS jikv tcov
ElprjfiivGQVj 6wa<p?) 6'e npos ta piWovta , rj ava<panrt]jia
ofioiov tov aWa. Utnntur hac voce ii, qui aliis facile aliquid
concedunt, quo facilius possent, illis pacatis, quid ipsi
sentiant, aperire» Iam qui assentituc, is habeat necesse est, cui
assentia- tur» Igitur dicta alicuius prae- cedant necesse est elsv
voci; quae quoniam non comparent, supplenda sunt. Videtnr
autem Agatho dixisse : aWa tpenGQjieSa vvv npoS tov notov , quae
ad- hortatio Agathonis .facile eruitur e verbis dcpaS tpinedSai
npoS tov notov. Agathonis dictum Pausanias cum audisset ,
bene hoc quidem, inquit, o viri, hoc dictum ab Agathone, - sed
qua ratione bibemus suavissime? Ut nostro loco, ita etiam in
Phaedon» p. 117. A» supplemento quodam opus est ante eiev. Verba
haec sunt : xal 6 nais iHeASojv xal dvyvov xpuvor diarptyaS
yxev dyajv tov jiiXXovta dcodeiv td epappaxov , iv xvXixi
epipovta tEtpijifj&vov. I8z>v 61 d 2?coxpa- tyS tov
avSpcjnov elev f Utprj, d> f SeXrtdte , dv yap rovrojv
inidtlj/icov • ti xpy notEiv Patet, hominem cum poculum afferret,
virus a se parati vim laudasse ita , ut eius haustui celerrimam
mortem adseriberet. Respondit tlvt tQoTtcp kv c5g QaCta xtvoiusv.
'tov ovv 'AqiGzo- tpavrj ihttlv ' Tovzo fiiinoi ev Ityus , ca FlavGavla ,
zo xavxl ZQOTtcp mxQaGMvdGaG&ai qccGuovijv uva zijs Jto Oecus-
sc u\ yag avzo$ Eifii tcov z&es @E(icaizc0/iEvav. Socrates: Gnt, o
Bester, das xnasst da ja wissen. Was muss ich non thua? vide quae
annotata sunt ad p. 204. C. cap. XXIV. init, . fi a 6 x a
itio /ie$ a. Haec est optimorum codd. lectio, quam in textum
receperunt Bekk. , Stallb., alii. Vulgo 7/8i6ra ntoo- fie$a
exhibetur. Bene Riickertus od h. 1, Futurum, inquibj propter- ea h.
1. praeferendam est, quod non, quid debeat neri, Pausanias rogat,
sed quomodo, quod futu- rum sit , fieri possit commodis- sime.
Indicativum habes etiam infra p. 21 4. A. tov 6’ ’Epv%l- /iaxov ,
Uc 5? ovv f cpavaij <J * A7oafiid8r\ , Koiovfiiv ; ovtcof ovte
ti Xeyofiev ini tf/ xvXixt ovt indSofiev , » a\\* atexv doSrtep ol
8n}>d)vtES itiofie^a ; Ceterum Schol. ad h. 1. fiadta r 6 ?j
diota ivtavSa dTjpalvet, quae verba laudo, nt facilius in-
telligatur, unde vulgata lectio rjdidta fluxerit* lydo fi sv
ovv \eyao. Pro- prie dicendum erat: Xiyco fiev tjjjIv — olfiet i
6i. De addita ovv particula , qua Jliv et 66 particularum positara
excusatur, qnaeque minus sibi respondentia orationis membra, quoad
eius fieri potest, inter se conciliat, vide quae annotata sunt ad
p. 22. vfi&v tov S noWovS sc. S£id^ai dvaipvxyZ* Prorsus
eo- dem modo cap. IV* initio neti t6jv dWoov positum
reperies. Laudat Stallb. ad h. 1. V). Apol* Socr, p. £5. E. tavra
iyco doi ndSoficn , oj Ml\r}te f olfica 81 ovde aX\ov
dySpooitcov ovdiva ac. iteidedSai Coi. Eutyphr. p. S. E. a) Wa Cv
re vara vovv dya- viei rr)v 8lxr\v , olfiat 81 xal ifik tijv i/irjv
ac. dycov induat. 7ta padxeva dad ^ai.Belk., quem Riickertus
secutus est , e codd. non paucis in textum re- cepit
itapadxevdB,ed^ai. Recte fortasse, quamquam etiam aoristi
infinitivus habet, quo se commen- det. Ceterum ne quis forte seri-
, •bendum censeat itapadxevada- d$at 8eiv atque cum Riickerto
convertcudum : Hoc recte dicis, omni modo esso parandam
commoditatem : Aristophanis vo- luntas hacc est: Das erachtest
du in der That ganz recht fiir nothwendig , dass man namlich
sich auf allc Wcise das Trinken angenehm zu machen suche, Ni- mirum
in huiusmodi enuntiatis verba Xeyeiv, fjyeidSai, Soxelv, dB,iovv,
vo/ii^etv al. significant: aequum ceosere , suadere alieni,
necessarium putare, vid. Ilcind* ad Piat. Prot. p* 346, Stallb. ad
Phaed. p. 95. B« et ad Polit. VI. p, 504. E., ubi laudat Ilom. II.
IX. 626. ov yap fiot 8oxiei j,iv$oio teXevtrj rySs y 68 (y
npaviedSat, xal yap avtoS. Valgo le- gitur xal yap xal avtoS.
Bodl. uliique codd. non paoci alterum tcai omittunt, omiserunt
Bekk. Stallb. alii. Ac Stallb. qoidem, Videtur, iuquit, 7tal
additum esse ab iis, qui nat yap non solum 'AxoviSavra ovv ttvrav
£<pij 'Ego^liiaxov rov 'Axovfit- vov, *H xafaos, tpavai , ilyftt. xal
t'n hos Siofiai vfiav axoveai, Xcog fjrei xgog r 6 t§§&09ca ittvsiv
’Aya- C 9av; OvSapas, <pavai, ovd’ ccvtds tooatiat.
"Egfiaiov av tb) rifitv, q 6’ os, »s htxs, i(ioi rtjtai
'Agiaxodqfuo 0ten!<n, sed etiam nam et, nam etiam significare
ignorarent* Non repugnandam est co- dicum auctoritati, minus tamen
Stallbaumii sententia placet exi- stimantis xal yap h* 1. esse nam
et. Id nimirum si expri- mere voluisset Plato, scripsisset, opinor,
tuxi yap iyco el/n, uti scriptum exstat apud Homerum lliad.IV, 58.
xal yap iyoo tlfu h. e., denn auch ich biu eine Gottin. Nostro loco
malim xai putare expletivum , cuius exemplum infra habes p. 198.
C. xal yap pe ropyiov 6 XoyoS drepipyyjdxev , ofere x. x. A.
Eodem modo interpretor verba Pl. Pol. V. p. 468* D. ’JAXct pijv xal
xa$* r/ Oprjpov xolS xotoisde dlxaiov xtpdv tcjv yLcov 0601 ayaSoi
. xal yap "OpilpoS x . r. A., quo loco, quo- niam praecedit
Homeri comme- moratio, xal yap^OpjjpoS verba significant: nam Homerus.
fiefi anxi6 pkv Conve- nit perfecti temporis
participium cum praecedente Pausaniae dicto: tcolyv ^aAfTrooS*
Ex& vito xov tzotov. Beftanxi6pevodv verbi significatum
explicat Iacobs* ad Eueni Epigr. XV* v. 6., ubi legitur :
ftaitxiZei d’ vrtvcp yeixovi tgj Savaxo ) . tt Clem. Alex. Paed,
II. p. 1 82. 29. , V7CO p&ijs (5a - TlTlB,6ptVOS tlSVTZYOY.
fia7CTi<>£- (5$at enim et ii dicuutur, qui se largius
invitarunt vino.* Lu- cian. a Iacobsio laudatus habet T.
III. p. 8t. 41. xaptjfiapovYTi xal fteftanti6pivcp loixev . Apud
Plautum Ps. V, 2, 7* reperitar: madide madere* xal Exi IvoV*
Ficinus in conversione exhibet: Probe dici- tis , atque hoc insuper
a vobis audire desidero. Rectius Schleier- znach. : Nur von e in em
nuter euch xnochte ich noch horen, wie er bei Kraften ist zura
trin- ken. Ceterum idveiv hoc loco idem videtur esse atque
tcoXvv niveiv olvov , quod paullo infra positum reperitur;
respondet igi- tur nostratium zecheo* " E ppatov dv eZrj
yj piv — ei vpets — yvv aTcei- prjxaxe . Ein unverhoflter Ge-
winn wiire es uns , wenn ihr, die tapfersten Zecher, dieses Mal das
Trinken im Ernst aufgae- bet. Nescit nimirum Eryximachus, utrum
ioci caussa, au serio Agatho ante locatus sit. Indicat autem
illatus post optativum cum el part. coniunctum indicativus , de
obiectira alicuius rei veritate agi, quam verbis exprimere so-
lemus: im Ernste, wirklich, in Wahrheit. Exempla si requiris huius
structurae, vide Stallb. ad Apol. Socr. c. 12, annotationem. Adde
Symp. p. 177* D. el ovv Zwdoxei xal vpiv , ykvoix dv i)piv iv A
oyoiS IxavtJ Siaxptftif Apol. S. p. 35. A. ei ovr xjpcHv ol
Soxovvxe? 6ia(p&peiy ehe tiocpLqi etx8 avdput ei'xe dAAp xal
&al8pa xal tolgde, ei Vfiets ot 6vv'm<&taxoi it Lieiv vvv
diieiQr\xctxe' ijfiei 'g (ilv yag dei advvaroi. StaxQttttj 8’ lt,aiQC3
Xoyov ' Uavog y«(J xal dp.rpuxtQa, agt i^ccQ- xetisi avrta qxoxeq av
itouofiev. ineidrj ovv fioi doxei ovSeig rmv itaQovxcov itQodvnag %%eiv
xgog ro itokvv tfnviovv (Sorpiit roiovroi S6ov- rat, al6xpoy
av sfrf. b, e. Wenn nun die anter ench , welche fiir weise, tapfer
oder soust tugend- begabt gehalten werden , wirk- lich s o sich
zeigen sollten , so ware daa aller Verachtnng werth. iB,aipw
Xoyov, Vulgo i^cdpoj rov Xoyov legitur. Ar- ticulum plurimi codd.
omittunt, quem ut minus desideremus, exempla faciunt Phaedr. p.
242. B., de Rep, VI. p. 492. E. alia, et similium locutionum
analogia. Legitor v. c. in Rep. PJat. L. II. p. 357. A. o oprjv
Xoyov dnrjWdxScLi, quo loco arti- culas in uno tantummodo
Paris, cod. comparet. Neque seriorum scriptorum auctoritatem nunc
curamus, qui articulum addiderunt; hoc fecisse constat, qui nostrum
locum imitatus est, Aristidem Orat. II. Tom. II. p, 269. TlXa-
tcjva 8* lt,aif)oo rov Xoyov ixecvoS yap apupotepa. Articulum addidit,
quem non abesse posse putaret, xcd omisit, quod non intelligeret.
Kal autem ita positum est, ut indicium primi- tivae conformationis
verborum ait: ixavoS xalrovro xal ixava, pro quibus verbis cum per
compendium loquendi dixisset Plato dp<p6TEj}a , xcd remansit.
dist ££> apx e6 ei avT(p. Stallb. rectissime : ut satis
habiturus sit, ut ei satisfacturum sit, utrumcun- que
faciamus, ovSelf rcor xaportcor . H. e. Nemo eorum, qui hio
adsunt in convivio. Admoneor his verbis de loco quodam Apol. Socr. p 22. B, c.
7., quem hucusque nemo videtur recte interpretatus esse.
oXiyov avr cov anavTES ol icapovisS av fttXnov UXeyov xepl gjv
avrol inenoripiEtiar. Convertit haec ver- ba Stallb.: omnes, qui
ad- erant, melius istis de car- minibus solebant indicare,
quae illi ipsi composuerant. Addit autem, non sine vi repetitum esse
pronomen avtol , quo graviter significetur poeta» ipsos de suis
ipsorum carminibus peius iudicasse., quam alios ho- mines, qui
illos carmiua recitantes audierint. Melius in explicandis his verbis versatus
est WoIUus: a Nam prope dixerim omnes paene, qui hic
adsunt, istis meiins dicerent Ue iis, quae isti composuerant; «
quamquam ne hic quidem Platonis voluntatem agnovit. Non verisimile
euiin, homines fiavavoovS , qui nuuc arbitri sunt iu iudicio,
melius potuisse de carminibus iudicare, quam poetas. Sensus est
totius loci: Ich schame mich nnn, ilir Miinner, ench die Wahrlieit
zu sageu, Dennoch muss es heraus. Alie, die hier anwesend
sind, wurden fast besser, ais jeue uber ihre Werke, uber das
sprechen, vas sife irgend selbst gemacht hiitten (h.e. si qui ex
sua qnis- f itlvuv qIvov , l'dog av lym tcbqI tov
(U&vtixeQftai , olov D ictiy raXri%^ Xiyav rjtrov av eirjv ajjdtjg.
ifiol yccg di] tovro ys oiuca xcctadrjl ov yeyovivai ix tijg
Icctql- xijg, ott %ateitbv tolg (iv&QcoTioig 7] (ilfhj loti, xai
ovre ctvxbg bxcqv rivca xoqqqj l&riyfiaitu av iti&iv, ovxs
akkco qtxt arto aliquid fecissent, vid. Matth. Gr. pl,
{.599. p. 119S.) idcjS av ifri ~ 7/ xx ov Av eiijv. Repetita
est av particula in eadem enuutiatione non negligentia scriptoris,
at olim multi arbitrabantur, nequo explendae orationis caussa ,
sed at loquentia modestia elaceat ma- gis, qui sperat fore, ut
de ebrietatis natura quae sit, si ve- rum dixerit, minus fortasse
molestus convivis videatur. Tari cuuctatiouo et modestia, quae tum
io verborum modesto significatu, tam ia singularum orationis
partium dispositione cernitur, Cie. de oificiis loquitur L. I. c.
1. §. 2. Nam pkilosophaudi scientiam concedens multis, quod est orationis
propriam, apte, distincte ornateque dicere, quoniam in eo studio
aetatem consumsi , si id mihi assumo, videor id meo iare
quodam modo vindicare. ort xaXeirov — 7 / JIES 7 /
idxty . Adiectivom haud ruro neutro genere poni seqoente substantivo, ad
quod pertinet, femini masculinive generis , satis hodie notum est. vid.
Matth. Gr. plen. §, 437. p. 815. Sed non perinde esse, utrum genus
nominis in se suscipiat necne, nd- iectivum, Rdckertu» ad h. 1. docuit.
Puto autem, inquit, nd- 7 4oetiva sabiccti genus tum sequi, quum
res aliqua, qualis sit, quae que attributa habeat, describatur,
omnino quum do certa re certi quid pronuntietur} contra neu-
trum locum habere, quoties vel de certa re, cui generi adnumeranda
sit, praedicetur, vel de re in universum cogitata aliquid
pronuntietur. Equidem sic statuo! Adiectivum substantivi genus in
se suscipiens substantivo subiungi ita, ut, qnod singulae alicui rei
conve- niat, significet, contra nentro genere positum ,
substantivo non subiunctum esse, sed ad idem aequiparatnm. cfr,
Lach. p. 192. ovh dpa zi)v ys roiavtyv xaprepiav drdpiocv
opoXoyi)- otis elvat, bceidfptep ov xccXij idttv , 7/ avdpia xaXov
idttv . Adde Ilipp. Mai. p. 288. B. StjXsia imtoS xaXr) ov xa- A ov;
Ibid, p, 288. C. Xvpa xaXrf ov xaXov; xvrpa xaXi) ov xaXov ;
kxcov elvai , Addito infi- nitivo hominis alicuius liberrima
voluntas significatur ita, ut simul coerceri posse atque minui
liber- tas illa indicetur, cfr. Phaedon, p. 80. E. idv phv xaSapa
(sc„ V fax ?}- ) dnaXXdtTJftai p?/6lv Tov doopatoS i(peXxov6a
dre ovdtv xoivGjvovda avxai iv rea fiUp kxovda elvat; utpote
quae nullam suscipiat, quoad eius fieri potest, quan- tum in eius
potestate est, cum corpore cdmmercium. Addendam hoc est atque beue
te- nendum , non adhiberi Ixojv GvfifiovXivScani aXXag te xal
XQcuTCaXaivra tzi hi rijg TtQOtiQciiag. ’AXXa [irjv, Hq)ij cpuvai
vTtoXa^itvta (bal- Sqov tov MvQQivovelov , eyays Ooi sia&a
xti&eodca aXXcog te xai cczz’ av mqI IcaQixijs As/?;g' vvv 6’
av fiovXovzcu xal oi XomqI. Tavzcc drj axovSavzag Ovy- E
I tlvai nisi in iis enuntiationibns, quae actionem quandam
conti- neant sive revera additaxn, sive mente supplendam. Idem
cudit iu omnes figuras dicendi, quae nostrae consimiles sunt, v. c.
to vvv elvai. cfr. Lach. cap, SI* fin, zo 5h vvv elvai ttjv dvv
- ovdiav SiaXvdGJjuev h. e. wir vrollcn aber fiir jetzt, d. b.
vas nns fiir jetzt uur zu th uu iibrig bleibt, nns treuneu,
Finitus nimirum dies erat, noctisque adventas in proximum diem differri
disputationem iubebat;' quare Socrates aXXct Ttoir/doo, inquit, gj
Avdtpaxe, tama, xal tf £<0 Ttapd. dl aypiovj iav Seo* i&4
Xy. Male autem Mutth. in Gramm. plen. $. 546. p. 1071. g liuc trahit
Piat, Protag. p, 317. A. eycj t ovtoiS dnadi xaxa rovro elvai
ov B,vji<pkpojiai , neque recte, opinor, Stallb. verba convertit
in Protag. ed. p, 45. : mihi yero cum his omnibus, quantum quidem ad
hoo attinet, non convenit. Kata tovro eodem prorsus modo h.
1. positum est, quo in Apol. Socr. p. 17. B. legitur: el jtev
yap tovto A eyovdiv , opoXoyoiyv av lycoye ov x at a rovro vs
elvai fitjzcap. Itaque certum esse reor, Protagorara dicere 1.1. i
mihi vero cum his omnibus hac ratione sophistae esse non conducit*
Explica- tius paullo infra p. S17* B. eandem sententiam Protagoras
pro- t fert : iyco ovv xovtgjv xrjv ivav- xiav aitadav
oSov iAh/XvSa, xal o^ioXoy gj xe docpidxrjS elvai 7ial xaideveiv
av$pGJ7tovS* x. r. A. dXXcoS xe xal xpanta- X&vxa £xi.
Exspectaveris XpantaXojvxi, Infertur interdum post dativum casum
accusativas augendae gravitatis caussa. Nam vis quaedam est in
anomalia ha- betque, quod praeter exspectatio- nem fit, proprium
suum acumen. Ceterum nou poni solet dativo praecedente accusativus,
nisi infi- nitivus adsit ut nostro loco Ttieiv y cura qno arctius
coniungatur. Si- militer iu Pl, Criton. p, 51. D, ofiojS
Tcpoayopevopev xgj i£ov- Oiav TtETtoupiivai f A$7jyaLcj v xco
povXojikvcp ,\ . . igeivai Xa- fiovxa xd avrov aitievai OTioi av
ftovXr/rar. Lex nimi- rum Attica, quae cum gravitate h. 1. laudatur
— ajti$i Xapojv xd ddvrov x. X. A. audisse vi- detur. Symp. p, 188.
I). ovroS (sc. o"Ep(&S') xyv jiEyidXTjv 8v- vajuv kxei xal
nadav y/dv evdcxipoviav 7tapadxevd?,ei xal dXXyXoiS dvvapkvovS
oj.uA.elv xal <pi\o elvai x. x. A., ad quae verba vide
annotationem. lyooys do l el&Sa xel- $ed$ai.
Interpunctionem post 'XefaedSai vulgo positam expun- gendam
curavimus ; verborum enim dXXojS xe xai ea ratio est, ut
antecedentia cnm sequentibus arctissime coniungant. Eodem %toQtZv
mxvrag firj Sia iil&rjs itoir]<Su<s9ai zrjv l v tm itaif- ovri
OvvovUtav, aXX’ ovta, xivovza g XQog iidovtjv. Cap. V.
’Exh8t\ tolvw, cpavca rov ’EQvi,liitt%ov , tovto fiiv deSoxtai,
xlvuv '6<Sov av ixaotog (Sovfojzca., Ixavayxeg modo in superioribus
comma delevimus post 6 vp( 5 ovXev 6 aipi et post itielv, ut ne esset ,,
quod obstaret, quominus xpainaXarvxa participium ad infinitivum
prae- cedentem referatur. Ceterum recte Stallb. monet, art * av
Xi- yrjS cum gravitate dictum esse pro iav rl XiyyS.
vvv 8 * av fiovXovxai xal ol A oixzol, Vulgo post av legitur
ev , idque probant codd. plcriquc. Pro av noa paucis in codicibus
av reperitur; tredecimcodd. ^ovAcj^tarihabcnt. lia.stius cum
intelligeret, ol Aor- J rol non de iis intelligi posse, qui
assensum suum declarassent in praecedentibus, neque vero ad ceteros
convivas relatum, com- mode cum insequentibus verbis conciliari :
xavxa 87} axovSar- xaS tivyxcoptlv navxas x. r, A., scribendum
coniecit Spec. erit, p. 12.: vvv 8’ av iv fiovXevGov- xai xal ol
Xontoi, hoc ut esset : modo ceteri quoque bene sibi consulant.
Eodem fere modo Ficinus in coiit. : nunc- si militer , modo
ceteri quoque consentiant. Tliierscli. in Spcc. edit. Symp. Piat.
p. 8. vvv 8 * av ftovXotvx * av xal ol X olito i verbis locnm
sanare studnit. Astius vvv avxa (iovXovxai xal ol X ontoi exhibuit.
Orell. ad Isecr. de Antidos. maluit p. 324. : vvv 8* el ftovXovrai
xal ol Xontoi. Wyttenbach: vvv 8* opa ei vel vvv 8' av et
fiovXovxai , quod Reyndera. In textum recepit. Riickertus
Platonem scripsisse su- spicatur : xal vvv 8* av , iav fiovXovxai
xal ol Xontoi: Con- sueri in omnibus tibi obtempe- rare, quae dicis
de arte medica, et nunc quoque (sc. tibi pbtemperabo) modo
velint etiam reliqui, Stkllb. verbis nihil mutatis nisi quod ev
post av positum omitteret, haec ex- quisita, inquit, brevitate
dicta sunt hoc sensu: uunc vero rursus idem fiet,
quando quidem etiam ceteri^con- vivae volunt. Quam exqui-
sitam boc loco Stallb. laudat di- cendi brevitatem, equidem licen-
tiosam appellare malim atque in- solentem. Sed pone, verba vvv 8*
av jiovXovXat significare posse nunc vero rursus idem fiet, quando
q ni dem — volunt, num verisimile est, Phaedrum dixisse : Soleo
tibi credere cum alias, tum potissimum disserenti su- per rebus e medica
arte depromtis, nunc vero rur- sum tibi credam? — Nihil
coniectura opus est, ut rectissime Stallb. censet, neque quicquanx
praeter ev vnlgo post av posi • tum expungendum. Indicat autem av
praegressae alicuius rei actio- nisve repetitionem, manifestoque
declarat hoc loon, ftovXovrat per prolepsin pro itei&ovxai positum
esse. Verba convertenda sunt: Nunc vero rursus etiam ce- Si yrjSiv iivut,
ro fi era rovro tlsrjyoviuu rr/v fiiv agri tlgeX&ovSav avlyrgtSa
%algeiv tav, «vlovaav lavry -rj, lav /JouAijt at, raig yvvai^l raig
tvSov, yyag 8's Sue Aoj/cw «AAijAots (Svvuvcn ro ryyegov. xal Si oiav A
o- yav, tl (iovAca&E, l&tXa vy.lv slgyyySaS&ca.
&avca teris (fidem habentibus tibi) li- bitara est (sc.
quaerere potatio-* uis qu and ara moderationem.) Hoc dictum ut
intelligatur, quam bene cum insequentibus verbis conve- niat : Phaedrus
verba vvv 6 * av fiovXovxai xal ol Xoiitol dixisse cogitandus est vultu
ad con- vivas converso quasi ro- gitaturus: Rectene loquor
atque de sententia vestra? fi 1 } did Nota huno usum
dia praepositionis. Optime Scliieierip* convertit: Ilier au f also
waren alie iiberein- gekommen, es bei ihrem diesmaligen
Zusammeu- sein nichtauf den Rausch anzulegen. Paullo infra
p.176. E. eodem modo 8ia Xoyav d/ 1- XijXoiS dvveivai.
Apposite Stallb. laudat Piat, de Legg. I, p. 640. B. 1.6X1 8£ ys
xoiavxrj <Swov6ia, tbttp tdxai Sia 2r}$ , ovx dSopvfioS.
Plura exempla si quaeris huius dicendi usus, adi Klattli. Gramm.
plen. $. 580. c. p. 1149. ♦ d XX* bvx a , 7t lv o y x
ai jxpos ijSovrjv. ctXX* ovxa sc. Ttotf\6a65ai. Ceterum ovxa
accuratius definitur verbis inse- qoentibus itivovxaS 7tpoS
ySovrjv, Male Stallb. coniungenda censet ovxa itpoS TfdovTfy. nur
so zum Vergniigen. cfr. Symp. p. 193- C, oxi ovtodS av rjpav
ro ykvoS evSaipov yivoiro, tl £xx eX& tiatpev rov £ pa-
ra x. x. X. Adde p. 215. A. 2 coxpaxTj 6* iya htaivetv , cJ avdpes
y ovxcoS ticixtipytia. Si bIxqy av . Exempla huius dicendi usus
plurima reperiuntur, quibus possis adnumerare quale reperitur in
Alcib. I. p. 105. cap. 4. oxi avxov 6£ Sei dt>- Vadxevsiv £v ry
Evpdiry, quo loco indefinitum avxov praefigi- tur accuratiori
indicio £v xy Evpany • Ad nostrum locum ut revertar, Ttpo S'
?}5ovijv apprime respondet nostratium : nach Wohl-# gefallen.
Probatur haec verbi notio verbis sequentibus : nlvtiv o6ov dv
txa6xoS ftovXi/xai, bca- vayxeS 6 e prjdlv elvai. £tz dv
ayxeZ pySlr tlvai. Solebaiit regem (tftyi- 7C06iapxov') eligere
convivae, qui bibendi leges daret, quibus convivae ad bibendum
coge- rentur. cfr. Symp. p. 213. E. apxovza ovv alpovpai zijs
no 6egqS y taC dv vpuS IxavaS Tityre, ipavxov *ro perci rovro
yovpai. Tope ra rovro cum gravitate dietnm significat: quod attinet
ad id, quod post haec sequitur. Recte autem annota- tum est a
Riickerto: verba haec nunquam temporis solam conse- quentiam
denotare, sed ubique internum aliquem nexura inter praecedentia et
sequentia desi- gnare. ElSrfyovpai verbum quod 177 bt] itavtuq xcd
flovXiaft ai xat xsltvuv airov elgijytL- 6&cu. Elnslv ovv zbv
’Egv!;ltitt%ov , on 'H (ih> ftot aQyjj tov f.oyov lari xara rr/v
EvqmISov MtXavlitittjV ov yaQ ijibs 6 pv&os, tt/U« <PuldQov tovSs,
ov fitiZa attinet, Hcsycli. interjpretator elft]- yeldSai •
dv/ifiovXtveiv h. e* suaclere, censere , aliquid faciendum esse. Apprime
verbo respondere videtur nostratium : etwas zum Vorschlag
bringen, x i)v yev — • av Xrj x p iS a Xaipeiv lav, Tibicinam
di- mitti Eryximachus iubet, ut 8id Xdycov aXX?jXoiS dvveivai
con- vivae possint. Notari autem h. 1. Xenophontem, qui in
convivio suo tibicinae locum dedisset, ho- minum quoruudam liodie
satis explosa opinio fuit, vid, Boeckh, de simultate, quae Platoni
cum Xenophonte intercessisse dicitur 8, seqq. cfr. Protug. 347.
C, Tiocl ydp 8oxei poi xo 7Cepl 7Coir]decoS diaXtyeCSai
opoiuxa- rov dvai xoiS dvpitodloiS xoi$ xgjv q>avXa>Y TtctL
ayopaicDV dvSrpGJTtGDY. xal ydp ovxoi, 8ia ro pj) SvrctdSai
aXXj}XoiS 8i iavxcZv tivv&Lvai iv tg5 itoxco pr}8\ 8id xijs
kavxcov (pcovijs ■holi xoov Xoycov xcoy kavxcov vito ditaiSsvtiiaS,
xipiaS noiovdt xds avXrjxpidaZ , rcoAAov pi- OSoiytEvoi aAXorpiav
cpcovifY xijv xqjy avXaiv , 7ia\ 8id xifi ixeivaov qxxvifi
aXXijXoiS dvv- eidtv. onov 8e xaXol xayaS ol dvurcoxai xal
TCuraihtvpirui elo \v , ovh dv l SotS ovt avXr r xpidai ovxe
opx*/dxpi8aS ovza ipaXrpias , «AA* avcovZ avxolS \xavovS ovxaS
dvvtivai dvtv xu)v Xi/pav xe xal ItlXlhlddV xovxcov dia xijs
avx&v (pwpS, A lyovxaS xe xai dxovoyxas Iv pipet lavxojy
xodplooS , nav 7tdvv itoXvy oivov itioodiv. Perscripsi hunc locum,
quo non Pla- tonis sententia Socrati adseripta contineri videtur,
sed ipsius So- cratis iudicium exprimi, ut cla- rius intelligatur,
etiam in minu- tioribus rebus Platonem ad So- craticos mores
scriptionem suam accommodavisse. xait yvyaiZi talZ Ev-
8ov, cfr, Corn. Nep. praef. $. 7. Neque sedet (ac. mulier) nisi in
interiore parte aedium, quae gynaeconi- tis appellatur. Ceterum
ut paullo supra 8ia pi$TjS, fla nunc 8ta Xdyojv positum est
adhae- rente, ni fallor, notione temporis, quasi dicere voluerit
Eryximachus: 8ia Xuyor 8iax pipeiv xtjv tj ylpav . ei p
ovXe 0% e , i^iXoo. Differre inter se videntur haeo verba eodem
modo, quo inter se differaut verba et XPV* Nimirum eam voluntatem
i$£- A eiv verbum denotat, quae cou- silio nititur atque
intelligentia , PovXedSai contra adhiberi se- let , ubi aliquis
impetu quo- dam animi fortuito abripitur, cf. 174). D. avAovday
kavtij , rj , lav PovXrjxai , xaiS yvvat - £,Lv h • r, A. h. e.,'
oder wenu sie Lust liat. Adde p. 179. B. xa\ p?/v
vjrEpaito$V7}dx£iv ye povoi ESlXovdiy ol ipaov- xeS. Symp. p. 190.
A. lito- pEVETO 8t> Op$6v , GjSTZEp YVYf uTtorlpcjdf
povXjfSeitj h. e. nach welchcr Seite es ihn hintrieb, cr Lust
liattc. Igitur con- Mysiv. OaiSpog yuQ sxaetots xqus (t£ aynvaxztSv
Xe- yzi • Ov 8uv6v, (prjGiv, u’Eqv^m%e, kXXol g [iiv ruti &iav
vfivovg xal ncamvag sivca vico tiov itoirjtdiv ke- jcoirjjiivovg , ta di
'Eqciu, rijXixovtcj ovu xal xoGovtto vertenda snnt verUo nostra :
Mit welchen Reden wir non den Tag hinbringen wollen , bin icb,
so ihr Lust habt, each vorati - schlagen entschlossen.
Prorsus eoden# modo Syrap. p. 199. A, a\Xd rd ye aXrj$i} % el fiov
X b6$e, iSiXoj linetv xar ipavrdv. cpavai drj rtdvra?
seqq. h. e. Es hatten nun alie ja ge- sagt und sie urollten es and
hat- ten in ihn gedrungeft, er mochte ihnen die Eroflnung machen.
Coacervatis verborum infinitivis satis vivide turba describitur'
convivarum strepenti clamore ser- monum materiam exigentium. Ttard
r?}v Ev ptniS ov MsXav innyv. Versus Euri- pideus est:
ovx i/ioS 6 pv$oS, aXX’ ipij? pi/rpo? Ttdpa , ad quem
alludens Eryximachus dicit ov ydp ipoS o' pv$o?, aXXd $ai8pov
rovSe. cfr. Alcib. I, p. 113. C. rd r ov EvpiniSov apa ZvpftaivEi ,
co AXxifiiddtj, dov rade xiv8vv ev ei? , aXX 3 ovx ipov axrjxoevai,
ov8* tya/ eij.il d ravra Xkycov, aXXd 6v. Adde Apol. Socr. p. 20.
E. xal poi , a> avSpe? ’A5?jvaioi , jn) Sopv- firfirjrE, prj8\
dv dd%Go n vplv /xkya Xeyeiv, ov ydp ip dv ipcd rov Xoyov x. r. A.
Ad amoven- dam dictorum invidiam hoc Euripidis versu veteres usos esse
saepenumero, et ab interpretibus passim annotatum est et exempla
docent, quorum ex numero Apol. Socr. p. 20. E. Nostro
loco Eryximachus versum Euripideum laudat, non quo dicti
magnificen- tiam excuset, aut sententiae in- solentiam, qoibus
invidia auditorum interdum excitotur , sed suum cuique tribuendi studio.
Initium orationis, inquit, ad Euripidis Melanippen accommodandum
est, nam non mcasant, quae dictu- ras sum, sed Phaedrus, qui
hic assidet, eadem excogitavit. vpvovS xal Ttai co v a
Tlaidva? codd. nonnulli habent et scliol. Verba schol. laudata p.
35. in hunc modum restituenda sunt fortasse: rraidiv aS' ij
rovS Xeyopkvov? naiavas, vpvovS Ei? 'JnoXXava htl xara-
navdsi Xoipov. [rj Ilatr/ova r dv tcov $£gov iarpdv •] 7} naicova?
00? vvv, cddds ini evrvxia xal vtxy, 8rd rov &j, i% ov xal natcoviSjEtv.
Verba rj Tlanjova rdv rcov Seiuv larpov uucis inclusimus, quod aut
abaliena raauu addita sunt, aut casu quodam a sede sua in alienam
translata. rrjXtxovrtp ovrt xal ro6ovrcj J Ficinus
habet: tantum talem ve deum, Ast. verba convertit talem tan-
tum q ne. Stallb. tam multorum bonorum auctori et tam potenti. Exhibet in
con- versione Schleicrm.: dem Eros aber, eiuem so grossen und
herrlichen Gotte, Optime Riickcrt. rrjXixovro ? essa tam vetustus
annotavit. Ad- dit idem, Eryximachum querelam B &£a, firjSh £W
ndxoTE toCovtav ytyovotov xoiijrdv jttTKnrjxivca (irjdiv iyxco/uov; tl d£
fiovlu uv axi$a6&ai tovg ZQijGrovs tiotpxitas, 'IlQuxktovg (iiv xtd
uklav Phaedri referre, qtil in oratione sua hoc ipso nomiue
vel maximo honore dignam amorem praedicet, quod omnium deorum sit
vetu- stissimus. Iloc igitur ei indignum videri , quod Hercules
quidem, recens donatus immortalitate, lau- datores repererit, Amor
autem, omnibus ipse prior, suis laudibus careat. prjSlv
iyxwpi ov. Val- ckenar. Diatr. iu Eurip. Reliqq. p. 157. scribendum
coniecit prjSk iyxooptov 9 quam scripturam ut ardori loquentia
apprimo conve- nientem probaremus , si lyxco- piov verbum latiore
potestate careret. Complectitur autem iu se vfivovj xal TtaidSvaS ,
ut Ilgen. ad Scolia p. XXXVII* docuit. Queritur igitur
Phaedrus, quod , cum in ceteros eosdemque Erote multo inferiores
deos poetae hymnos composuissent et carmina pro salute et felicitate
suscepta, e tanto eorum numero ne unus quidem in Erotem carmen
con- scripserit. sl SI ftov\et av tixlipa- 65ai — dvyyp
d <pei v. Fi- ciuus habet : atqui, si vis, inquit, o Eryximache,
quaerere, inve- nies profecto Sophistas disertos soluta oratione
Herculem alios- qne laudasse, quemadmodum pe- ritissimus Prodicus ,
quamquam hoc minus alicui mirum videri debet, sed etc. Hac
conversione motus Stallb. Platonem scripsisse censet : EvprjdetS
'HpaxXeovS plv xai aXXxay — i ivyypdtpeiv (sc. avt ovS.) Dubito,
num recte. Nam illud invenies addita- mentum est, ut videtur,
Ficini, qui concitatioris hominis verba apta brevitate reddere
desperaret, Riickert. interpunctione post do- xpxdxaS deleta et
posito post 6x&- rpadSai commate sensum vetfborum ait esse;
porro optimos so- phistas. Etenim formula, in- quit, ei Se ftovXst,
cui plerumque non ndditor infinitivus, quem h. 1. appositum videmus, ita
ad- hiberi solet, ut novum inducat vel exemplum vel
argumentum. Accusat. rovS <So<px<$xds propter hanc, quam
indicavimus, formulae vim nou putem obiecti casum esse ad
tixhpatiSau , quamquam supplendus hic ipse erit ad hunc infiuit.,
sed subiecti ad seq. dvy- ypdtpeiv. Inde patet, usque ad
SvyypacpEiv omnia pendere e verbis ov Seiyov. — Displicet haec
interpretatio tribus de caus- sis. Primum tl Se ftovXet nus- quam
reperitur cum infinitivis verborum coniunctum, ut no- vum exemplum
commemorari denotet; deinde mireris post 6xtif)a6Sai
interpunctionem, qua efiiciatur, ut xovS XPV^ ^ovS 6o~ xpidtds non
cum dXEiftadSoct con- jungatur, ad quod verba illa supplenda sint
tamen. Postremo verba tovS xpijdtovS — dotpxdxds e praecedente ov
Seiyov apta tortuosam atque hiulcam senten- tiam efficiunt. Si quid
video, Phaedrus diettirus erat: si 8h ftovXei av <5xiif>a6$ax
rovf XPV~ 6rovS 6o(pi6rfx?yHp<xxXEOvS ptv xaldXXa>y iizaivovS
(sc, avTovf) xataXoydSrfY 6vyypd<pe3Y> tZs- xoxahoyaSriv
tivyyQacpEiv , 6 pUufStog Tlgodixos — xai tovto fisv ytrov xai
ftavfiad rov — alX kyaye ?jdrj nvi lvttv%ov (hpttcd ccvdQog Cocpov , Iv
(p ivrjdav ateg i iCEp O fttXtltftOS Tlp6SlX0S?E p
G>- t oS 8h ov , tovz ov 5 a vy fiadx (Sx axov ; Facit
nobis* cum in hac reFiciuus, qui paullo infra addit in conversione:
cui non gravissimum videa- tur? — Sed cum nondum ad finem enuntiationis
pervenisset loquendo Phaedrus , . in mentem ipsi venit salis
quaedam laudatio» qua minus etiam mira Herculis aliornmque encomium
indicari debeat. Igitur suppressis verbis "Epc&ti dfc ov,
xovx ov Savfioc dTGnaxoY , statim pergit; xai tovto puv ytTOY xai
Savfia- (Stoy , aAA’ fycoys x. r. A._ xovS XP ydTovS. Ironice
hoc dictum esse y ut mox 6 /JeA- xtdtoS ITpodtxoS , Stallb. docet.
Sohleicrm. verba convertit: und willst du dicli auch untcr den
edlen Sophisten umsehen, dass sie auf den Herakles und Andero in
ungebundener Rede Lobschrif- ten verfertigen, vie der vortrelf-
liche Prodicus. Riickert. ad h. 1.: XpydToi , inquit, sunt boni,
optimi, die guten. Adhibe- tur enim haec vox iq derisione. TovS
xpyfaovS 6o<pi6raS nou So- cratis verba sunt Sophistis in-
festissimi, sed Phaedri, hominis a studio sophistarum non alieni,
ut laudatio Erotis docet sophia stica arte composita p. 178. seqq.
Vehementius autem quam iu poe- tas, Phaedrus in sophistas inve-
hitur, utpote qui, cum siot re- rum utilium laudatores strenui,
inprimis Erotem lau- dare debuerint. Sententia est totius loci ♦
Ist es nicht achreck- licii, dass andere Gotter von den
Dichtern gefeiert werden, dem Eros abfcr, dem altesten und segenreichsten
Gotte auch vou koi- nem der vielen Dichter ein L«ed dargebracht
worden ist? Willst du nuu aber die praktischeu Sophisten ins Auge
fassen : dass sie uber Hercules uod andere Lobschriften abfassen ,
wie der tuchtigate uuter ihnen, Prodicas — und das ist weniger noch
xu bewundern, — aber mir kam sogar eiumal ein Ruch zu Han- den, in
dem der Nutzen des Sal- zes auf bewundernswerthe Art erhoben
war. xa\ tovto filv yTTOY xcl\ S av pa6 T ov. Unus cod.
Vindob. et Vatican, liber alterum hoc xai omittunt probantibus
Bastio atque Thierschio. Sed recte servant illud ceteri codices.
Pertinet autem ad ?/ttoy, ut sen- sas hic sit: atque hoc minus
etiam mirum est, quam hoc, quod in librum qu*u- dam incidi etc. Nec
mirum est 7/ttoy praemitti voculae, quum t ovcodtY habeat.
Quam* quam non in promtu sunt alia huius collocationis exempla,
Stallb. Iy cj ivrjdav aA,£f, Apto comparari iubet Stallb.
Isocr. Helen. Laud. p. 304. tvy fily yap TovS /5oppv\tovS xa\
xovS aXaS' xai xd xoiavxa floyXy- SivTtoY iitaiveiv ovdeis
7too7fore XoyaY T]7c6p7jdEY. Cic. Brut* $. 47. Singularum rerum
lau- dationes vituperationesque cou* scripsit, quod iudicaret hoc
lora* C titaivov davfiuGiov i'xovres xqos w(fi/.uav • y.at aXXa
Toiavta (5v %va XSoie Sv iyxexMiuaGfieva. r 6 ovv xoiov- rcov fiev ittQi
noXXrjV GxovStjv itoirjOaG&cu , "Egma Se Hijdtva Tta av&Q
dxav ter otyiyxivca tls ravxrjvl xrjv tjpi- toris esse propriom,
rem angere posse laudando viluperandoque rursus affligere. Vid. Wolf,
Prolegg, ad Demostii. Lept. p. XXXV* Restat, ut indicemus, cur Prodicus
Ceus hoc loco fiii l- r idxoC audiat. Multam operam posuisse
perhibetur in verborum discrimine explicando, quae 8iai- pfdtff
rcov ovopdxcov vocator Prolog, p. 358. A. Iloc studium acerrime
perstringitur Prot. 337. A., D. et C , laudatur Piat. Lach* p. 197.
§• 26. Haec StalpedtS quamquam summopere a Prodico exculta, tamen
Phaedro tanti esse nou potuit, ut fiiXtidrofi Pro- dicum
appellandum esse putaret. Satis notum est, Prodicum lucri caussa
Epicharmi versum in ore gessisse: d 81 X £ ^P tc * v X&P a
viP,£i. 8oS n xal Xapi n. vid, Axibch. 366. C. Sed ne hoc quidem
satis caussae est, cur fiiA XidxoS appelletur. Videtur potius, ut
ita piAxiCxoS de eo valere, qui rerum laudem non nisi ex
earum utilitate ex- aptat. Prodicus autem ne a diis quidem rationem
utilitatis cohi- bere solebat, ut videre Jicet e dicto eius servato
apud Sext. Empir, adv. Mathcm. 9. 18. i/Aiov xai defajnjr na\
Ttoxa- povf xal xpTjvaS xat xaSoAov itdvta r d cocpsXovvxa xov ftiov
rjpwv ol itaAaiol Seov S ivo - puSctv 8ia X7}v ait avxcOv
coepi- Anav f KciSditEp ol AlyiJitxioi xov NeiAov t xa\ 8id
xovxorov Mtv dpxov Ji/prjxpav vopidSij- vat xov 8h oivor Jiovvdov
nal x d 8h vSaop Ilodsidcova , to 6h TXu p n Ilepaidxov xal
ehee rcov evxprjdovxcov ditavxa. Addo Cic, de N. D* I, 42. m Quid
Pro- dicus Ceus, qui ea, quae pro- dessent hominum vitae,
deorum ia numero habita esso dixit , quam tandem religiouem
reliquit?» Iam quod Prodicus fe- cit, ut iu deorum laudatione non
deos, sed rerum utilitatem laudaret divino nomine insignitam, idem
fero iu Erotis eocomio a Phaedro factum. Nou in indolem inquirit
atque iu naturam dei, sed rerum, quarum auctor Eroa esse perhibetur,
utilitatem expo- nit j quo maiorem illam videt, eo maiore honore
deum exornat nullo veritatis respectu habito* Non mirum igitur, si
Prodicum maxime laudandum Phaedrus cen- suit, ad cuius exemplar
ipse laudationem Erotis composuit. Ceterum quod Herculis laudationem
attinet, Riickertum audi ad h. 1. annotantem: Herculis laudationem
scripserat (sc, Prodicus) in libro, coi oopai titulus, ex quo notissimam
de Hercule in trivio fa- bulam mqtuatus est Xcnoph* Mem* II* , 20.
Prodici quippe admirator usque adeo, ut, quum in Boeotia vinctus
esset, quo tempore ibi sophista versabatur, vade dato ad audiendum
eum o carcere prodiret auctore PJiilostr. vit. soph. I, 12.
ro ovv x oiovtov seqq* Vulgo post -dpvij<5<xi comma
positum reperitur, pun- ctum post Wyttenbach* Qttv a^ltog
i(twj<Sai — - ukX ornag tffilbftcu toGovtos S-eos ! Tavxa 8tj poi
SoxtZ ev tiyuv ®ccZ8qos. eyui ow Int&vfico a fi a (ilv tovra iqctvov
elgeveyxeZv xal ^txQiSao&cu , afict de tv tc3 xccqovti itQ&nov
jioi 8oxeZ Bibi. Crit.^T. I. YoL, ra. p. 10. oti ante ovxcoS inferciendam
cenanit ; Steplianus coniecit a\\’ ovxcaS TjpsAijdSai xodovxoy
Seov. Non mirum, lumines doctos in verborum structura admodum
haesisse , in qua com- ponenda ipse, qui loquitor, impe- ditum se
atque implicitum sentiebat, Addita ovv particula ma- nifesto indicatur,
verba superiori- bus annectenda esse; sed quoniam omissa sunt illic, e
quibus haec exaptari potuissent, xovx vv SavpadxaSxaxoy; factum
est, ut quaedam structurae ambigui- tas oriretur, et dicenti, et
audi- enti molestissima. Ex hac stru- cturae difficultate ut se
extrica- ret Eryximachus, dissecto inceptae structurae filo pro
infinitivo in- dicativum posuit. Hinc bene habet exclamandi *
signum , quod post &eoS positam est ab interpretibus, minus probem
post vpvijdai, Verba convertenda sunt: Dass, sage ich, an
solche Dinge viele Miihe verschwendet wird, den Eros aber Iceiner
noch wiirdig zu feiern versucht hat, sondern so vernachlassigt
wird ein so segenreicher Gott! a^icoS v pvrf dat.
Wolfiu» ad verba tc3 6b "Epooxi — ptj- 6bv iyxoopioy
annotavit: Man muss annehmen, und dies scheint mir das wahrste ,
dass Platon vorsatzlich seinen Phaedrus et- was sagen lasst, das
nicht ge- grundet war. Viro doetissimo concedimus, Eroti laudatores
vix deesse potuisse ; sed cavendum est, ne Phaedro aliquid imputemus,
quod nec cogitavit nec dixit. Negat tantummodo reper- tum esse
adhuc, qui laudem deo dignam ediderit, non ne- gat, prorsus
neglectum iacerc atque contemtum a poetis sophistis- que deum, Iam quid
sit laudem deo dignam edere s. dB,iooS vpvijdai (roV Seoy), infra
paullo explicabitur. ipavov elfey eyxetv h, e.'
symbolam dare. Non caret lepore in symposio philosophico haec dictio , de cuins
tror pico usu conferri iubet Stal». Casaub. ad Theophr.
Charact, c. XV. xo dpijdai xov Seov. Mi- nus
qusfcrendum h. 1. est , quid omnino xodpEiv significet et aB,iooS
v/ivelv, quod paullo su- pra legitur, quam qua significatione haec
verba adhibuerit Phaedrus. Socratem ipsum interpretem sume p. 198.
E. x 6 dk apa (sc. ro iyxcopia^Eiv') ov xovxo jjy xd xa\co$
ixaivEHy oxiovv, aAAcz xo aZs pkytdxa av axt$ i- v at x ai
itpaypaxi xal co S xdWidx a iav x e y ovxgdS iav xe prf'
el dfc TfiEvdrj , ovdbv ap yv izpayjxa x. x. A. Atque eodem
fere modo ipse Eryximachus p. 177. D. Soxei yap poi t inquit,
Xpijyai txadxov ypoSv Adyov eItzeiv Inaivov *EpooxoS — cJ S av
Svvyxat xaWidx ov. v rj ptv iy \6yoiS . Wolf* convertit :
eine reichhaltige, weit- 4 tlvui rjuiv toig xuqovOi
xoOfiijtiai rov &tov. tl ow D £ vvdoxei xai vfilv, ytvoiv’ civ rjfiiv
iv koyoig ixavi) dictTptfir). doxei yaa fioi yjirjvca Zy.utirov i^fiwv
kbyov tiiteiv htaivov "Eqmos 1% i dsha wg av Svvtjrai xak-
kidrov, a$yuv 61 QcuSqov icgtotov, inudrj xai arpsJrog xaraxuzai xai
1'tiuv cifia xarr/Q rov koyov. OvStlg Coi, o3 ’EQv£lntt%£, (favea zbv
Eoxqcizi) , ivavzla iprjcpiti- lauftige Materio zum Reden. ypiv iv
X oyotS idem fero est, atque yperipoiS Ir A oyoiS. Sen- sus est.*
Wenn nun auch euch wirklich so diinkt, so hatten wir in aasern
Reden sattsame Unterhaltung» De structura huius enuntiati vide ad
p. 176. C. Minus probabilis Stallb. ratio explicandi est haec: tl
ovv %vv- - xai vjuiv, ovtco Ttoicoptv yevoiro yap av ypiv iv
Ao- yoi$ ixavy biarpifty. i tz\ btB,ia. Sic Bekk» Stallb*
alii; Riickertns veterum editionum lectionem imbLB,ia in tettum re-
cepit usu Homerico nixus, quem Plato haud raro imitatus sit* Vid.
F»uttm. Lexil. p. 173» seqq. For- tasse recte habet iitibiByia^ ubi
narratur, quo ordine aliquid factum sit; contra quo ordine aliqnid
fieri debeat, ubi indicator, rectius ini 6e%id exhibetur, v. c.
in Piat, de rep, IV, p, 420. £. xai rovS xtpapia?
xaxaxXlvavraS t inibi%ia Ttpoi ro itvp bta- nivovrds Tt xai
tvcDXovpivovS H . T. A. De xPV y Cct verbi potestate J es miisse wolleu ,
vide annot. ad p. 176. E. narrjp rov Xoyov . J7a- nyp
vocis insolentiam Stallbaum* leniri posse arbitratus est addito
exemplo Phaedri p. 257* B* &aidp6s re xai iyco Avdiav rov rov
Xoyov nazipa alxioo- pevoS. Fortasse EryxtfBachus rursus ad
Euripideum illum versum respexit ovx ifioS o javSoS, aXX* ipffS jirjrpo S
napa , at- que a se quidem profectum ser- monem negat: patrem
eius Phaedram esse contendit* y ra i p anxa. De his verbis vide
Commentat. de Piat» Symp, Certissimum autem esse existimo, Platonem
his verbis le- ctoris animum ad futuram So- cratis orationem
tanquam ad caput libelli dirigere voluisse. Ceterum ne mireris, cur, cum
Socrates ra ipoxixa initizatiSat dicatur, Aristophanes Bacchi Venerisque
cultor nomiuetur, Agatho et Pausanias indicio addito nullo ad Erotis
laudem celebrandam promti perhibeantur: Schoi. ha- bet s. v, f
Aya$QDVoS .... rpa - yaSt . ... ini paXaxia . . . zaby . yv b*
ovtoS ... itaiSj 'ASyvaioS .... naibixa JJavbaviov rov r pay ixov ,
x. r. A. Qui mutuo amore se complectebantur, iis nihil iucundius
contingere po- tuisse consentaneum est, quam laudationem Erotis.
Non com- memoratur autem h. 1. Pausaniae et Agathonis amor mutuus
diser- tis verbis , quod tum temporis notissimus erat.
ovbh pyv 9 Api(StO(pdvTjS. ovbh fiyv illatam post ovre ap-
t rta. ovts yaQ av xov lya c<ito<p>j<5aiui , og ovdiv
gtijyt alio IniGtotGxfai rj ra Igatixa , ovts xov Aya&av xal e
ITavUuviag , ovds yrjv ’AQiOTu<pdvr t g , a xsqI AwvvGov xal 'AtpQoSktjv
xdoct tj diatQcjli) , ovds allog ovdelg tovtavl av lya oQa. xal r oi ovx
l| iGov ylyvstai 7jy.lv Tolg vGtcctoig xataxstfdvoig ' ali’ Idv oi
xqogQsv txavu g xal xal wg sYxaOiv, IgaQxtGst r}yZv . alia tvxu
prime respondet Latinorum ne- que vero etiam, quibus verbis
res quaedam induci solet , quae maioris momenti est, quam res
paullo ante per simplex neque commemorata. Igitur cum gravitate
Aristophanes totus perhi- betur cura Baccho et Venere oc- cupatus
esse. De Baccho liquet, nam res scenica, inquit Stallb., Baccho
erat sacra, vid. Casaub. de Satyr. poesi p. 9. ed. llamb. Venerem
autem commemoratam h. 1. censet Riickertus, quod plenae sint ve n
eris Aristophanis comoediae. Wolfius ad h. 1. an- notat : In
wiefern er mit der Ve- nus zu thun gehabt habe, bezieht sich
vielleicht auf einen Um- stand , der der Gesellschaft be- kaunt
sein konnte, fiir uus aber verloren gegangen ist, vielleicht auf
die Sitten ' des Dichters. Aliter nobis videtnr de hoc
loco statuendum esse, quamquam in hujusmodi tenebris quis clare
vi- dere se audeat dicere? Ilaud raro Socrates nomina propria
facili quadam litterarum mutatione cor- rumpere solebat atque ita
immu- tare, nt nomen existeret, quod aive laudem sive vituperium
ex- primeret. Exemplo est p. 198, C., quo loco Gorgiae
Gorgnsque nomina inter se conferuntur le- pidissime. Adhibita
accentus mutatione in ’Ayd$oov et dya~ Scov nominibus ludit p. 174. B. Quid,
si etiam hoc loco in Ari- stophanis nomine lusit? Significat 9
Api6xo<pd.V7}S cum, qni opti- mum prodit. Optimam autem, veteri
proverbio, vinum et venus est, quod Graece audit: dptdxov diovvdoS
xal *A(ppo~ dlXTf . x ai x oi ovx i B, Id ov —<*AA.
Magnopere se torquent in huius loci explicatione, qui xal xoi
conianctim exhibuerunt. Ut gravior esset xoi port. affir- matio,
vocula ex scriptoris sen- tentia initio enuntiationis ponenda erat.
Id quoniam vetant fieri linguae leges , xai expletivum praepositum
est, do quo p. 6. diximus. Latine reddenda sunt verba: Pol non
aequa cou- ditione, qui ultimi con- sedimus, utimur. Quae se-
quitur aWa particula, ita com- mode explicatur, nt omissum co-
gitetur, quod facillime suppleri potest: 7 j/ieiS ovv ovx ipovfiev^
«AA* idv — iBiapxidei Locus nostro simillimus est Par- menid. p.
128. C. xai xoi GJSnep ye ael Adxatvai dxvXaxeS ev pexaSeiS xe xal
IxveveiS td \£X$ivx a. aXXd npuxov fiev Ce xovxo Aay$dvet, oxi x.
x. A,, quo loco ante aWd facillimo suppletur ovx zvpeZ xrjv
afa/Seiav. 4 * ! aya9y xaTaQ%itto OtauSpog xtu
lpta[HCc£ha rov "Egona. Tavta S>) xal ot nXHoi xaw Eg uqu £
we<p«<Sav t e xal 178 helevov axtg 6 Zuxqkti] g. ndvrav ylv ovv a
exadros tfotev , ovre navv 6 'AgiOroSyyog lu.iy.vyto oirt av tyto «
helvos Ueye mxvtct. « ydliGta xal av l<5o£e fioc d^ioyvrjfiovevtav
sivca, tovttov v/iiv iga exdtStov xov loyov. tffiiv to iS
v6tdx 01 $ xa- x an eipkv o tS. Dictam supra est p. 175. C. xov ovv
3 'Ayd - Saova, x vyxdveiv yap kdxotxov naTaxalpevov , povov *
Jevp cpctvai, oo 2ooxpaxeS f nap iul xaxaxeido. Sunt igitur
ol vdxaxoi xataxeipevot Socrates ct Agatho. xv XV
dyaSy. Formula erat, qua feliciter succlamare Graeci so- lebant
iis, qui aut navem conscendebant, ant ad bellum proficiscebantur, aut aliud
negotium suscipiebant, cuius incertus even- tus esset, cfr. Griton.
p. 43. D, dW\ gj Kpitcov , xvxy aya$y. navxeS dpa
£vvk<pa- 6 av. Wyttenb. scribendum con- iecit dpa pro dpa t qua
con- tectura efficitur, ut omnes uno ore consensisse dicantur.
Hoc consentaneum est convivas fecisse. Sed quoniam non sine turba
et clamore hoc fieri poterat •* nt quietius convivae egisse
viderentur, dpa non dpa Plato scripsit. De hi^ius particulae
significatu vide Heisigii annot. ad Oed. Coi. Enarr. p. CCVIH. Ortum
dpa est ab apeo , soletque adhiberi , ubi ab argumentorum
enarratione ora- tio ad finem tendit, h. e. ad conclusionem. Et cum
singulos convivas Socrates nominasset ita, ut simul, cur ad laudem
Erotis praedicandam parati essent, caus- sam adderet: ' om
nes igitur consensisse perhibentur. Minus apte Schleierm. in
conversione: Hierrait nun stimmten dann anch die Uebrigen alie
uberein, ovre navv 6 *Api6t o & 1 J' poS. De horam
verborum fine^ vide quae dicta sunt in Com- mentat. de Piat.
Sympos. Minut placet, quod Stallb. attulit ad ad hunc locum: Caute,
inquit, haec interposuit, ne legentes in eam inciderent opinionem,
ut has orationes revera habitas , non ab ipso cuiusque ingenio
convenienter fictas esse putarent. a^topvypovevtcov elvai.
Codd. plerique a£,io - pYTjpovevxoY j Bodl. omisso elvai 00
habet dZtopvrjpovevxov; in Pa- ris, uno, Vindob. duobus
pancis- que aliis d&iopvijp6v£vta ex- stat, quod Bekk. in
textum re- cepit, quem Stallb, Riickert. alii secuti sunt.
Videlicet docti viri negant, a^topvripovevxovS ora- tores vocari
posse , atque non nisi orationes illo epitheto recte Insigniri.
Aliter nobis de hoc loco statuendum videtur. Verba xovxoov vpiv
ipoo kxadtoy xov Xoyov ad praecedentia referan- tur drv UoB,k poi
dZiopvypo- vevxcov elvai: verba a pa- \idra nihil habent, quod
ipsis 9 I Cap. VI. Flgarov
(ih> y«Q, Cstuq Xiya, Irpi) &ui8qov aQ^d- ftivov tv&ivdt
xo&tv ktyuv, ori filyag &tos ut) 6 ”Equs xal fravfiaatos Iv
av&Qthitoig re xal &Eolg, sroA Aa%jj fiiv xal aXXy , ov% rpiMtd
de xatd rtjv yivEdiv. rd 'yuQ Iv tolg XQtafivzcccav tlvcu tbv &eov,
tlyuov, ij 8’ os' tex/iq- B respondeat. Igitur dubitari ne-
quit de xai voculae potestate, Kctl nimirum auget corrigendo
sigoificatque atque potius. Exempla si requiris huius usus, vide
Stallb. ad Apol. Socr. p. 23. A. Convertenda autem verba sunt: Was
mir nun am meisten — oder besser, welche Redner mir am wichtigsten
und merkwiirdig- sten zu scin schienen, deren Ke- den will ich euch
einzelu dar- stellen. Proprie dicendum erat oi E8o£dv poi p
<x\i6xa a.B,io- pvjjpovevxoi elvai , xovxarv .... Genitivi e
praecedente d exapta ta sunt, quod xai addito quoaiam paene
evanescit, infra positum habes xovxgov vplv ipdb kxa- 6tov xov Xoyov.
Ceterum ex his verbis iodicnri licet de Apol- lodori ingenio, qui
orationes non tam ex orationum rationibus, quam ex auctoritate et
celebri- tate oratorum indicabat. Simili ratione paullo infra p.
180, C. non orationum, sed oratorum obli- tus esse dicitur
Apollodorus his verbis: $al8pov p\v xoiovzov riva \6yov Z<pij
tinuv , pera $at8pov aAAovS’ tivaf, (li. e. oratores non
orationes,) elvat, ojy ov jtavv dispvt]- liovev ev.
icp&xov p\v yap. Phae- drus demonstrare studet, Erotem
deum antiquissimum et honoratissimum esse, atque summorum bohorum,
virtutis atque felicitatis benignissimum auctorem. Vide Comment. de
Piat. Sympos. Ce- terum de Phaedro, Pythoclis fi- lio, quem
Socratis aequalem fuisse negat Athenaeus XI, p, 505. F., et qui in
Protag. p. 315. C. in- ter Calliae convivas memoratur, rectissime
Stallb, m Erat inquit, homo mollis ac delicatus, <Soq>oS T a
ipGDZixd vid, Phaedr. p. 227* A, Sectatus autem rhetores Sicu- los,
iuprimis Tisiam et Lysiam, mirifice sibi placebat in oratione
comenda et calamistris ornanda» vid. Phaedr, p, 227.» p. 273** al.
Itaque oratio, quam Tlato hic ab eo habitam facit, habet nescio
quid fucati coloris et or- namenti, ut facile appareat, ho- minis
ingenium et mores ut ce- terorum convivatum, q Platone ad ipsam
veritatem esse ex- pressos. rd yap iv xoiS iep£6fivr
xaxov. Sic optimi codd. Legebatur olim iv roiS Ttpetipvtd- XoiS sequente
elrat xc ov Segov. Non dubium est, quin dixerint antiquitus Graeci
iv xoiS itps- tipvtdtoiS Tipedftvtarov et iv raiS nps6pvrdxaiS
itpstipvta- xr\v\ sed usu loquendi factum paullatim est, ut non
solum iv xo U ltpE6fivtaxoS dicaretur, sed qiov de tovtov' yovijg
yc<Q "Eoatog ovz elolv ovre kt- yovrcu vtc ovdevog ovre ISiutov
ovre TCoitjzov, aAA’ 'HaioSog xquwv filv %aog yeveO&ca (ptjOlv ,
' avtdp inerra etiam iv Toi? rtpedfivtdry, Videlicet ea
amplitudine verba £ v toi? esse voluerunt, ut quae gene- ris
discrimen non suscipiant, quasi dicas, omnium rerum, quae cogitari
possint, antiquissimam, maximum, pulcherrimum. Exemplum huius structurae
est p. 173. B. napayeyovei 8* iv ry dvvovdine 2ooxpdrov?
ipet- Crrj? cov iv toi? paXidra tcor rore. Adde Symp, p. 178.
C. iv xoiS 7tpedftvraro? elvai. tifiiov, i / 5* o? . In
upo Vindob. exstat eido? pro y 8’ d?, ex qua scriptura, dupliciter
po- sita rifiiov vocis syllaba finali, rijiiov ovetSo? effinxit
Creuzerus ad Plotin, de Pulcritud. p, 146. Consentire videtur
nobiscum vir doctissimus, tlpior verbum hoc loco "admodum
frigere, neque nilo modo praecedentibus dei epithetis ^avpadro? et
piya? respondere. Exspectaveris potius superlativum, qui exstat
apud Aristot. Metuph. 1. 3. rifUQora* rov yap rd Ttpedftvrarov,
Non mutandum est y 8 1 5?, quibus verbis ipsissima Phaedri
verba premi manifesto indicatur. Phae- drum nutem dixisse reor: r o
yap iv rot? nptdfivrarov eivat rdr 3coV ov rifuov . Addita
nega- tione et interrogatione instituta efficitur, ut"
orationis vigore vis superlativi compensetur. Ceterum eo facilius
scribae passi sunt ne- gationem a praecedentis verbi syllaba finali
absorberi, quo mi- nus iotelligerent , interrogandi signo forte, ut
fit, oblitterato, qui possit non honorifica esse laus
antiquitatis. T EXfltf ptov 8 £ TOVTOV. Hacc verba si abessent, a
nemine desiderarentur, et facilius suaviusque flumen oratiouis procederet.
Cui euim non arrideat, enuntiatorum iunctura haec : rd yap iv t 61?
7fp£(jpvraxov elvai rov Stov ov xt/uov; ?/ 8 9 u?, yovy? 8e,”Eporo?
x, r.A. Cave tamen otiosum additamentum T exuypiov tovtov verba
cen- seas. Nimirum orationis conti- nuitatem ita intercidunt
h. J., ut gravior fiat caussae comme- moratio; simulque indicant,
quoniam oratorum, ut videtur, pro- pria sunt, Phaedri orationem
verbo tenus referri,# Huius rei, h. e. accuratissimae repetionis,
iudicium sunt etiam ?/ 8 ds verba, quae Apollodorus posuit, ut cla-
rius indicetur, iuitium orationis non nisi Phaedri sententias, Ari-
stodemi, non ipsius Phaedri verbis descriptas ( ap^dpevov iv- $£v6e
itoSiv') contiuere, nunc autem ita pergi in repetenda oratioue
Phaedri, ut etiam ipsa eius verba repetantur. Ceterum perraro
xexpypiov 8i, paprv- piov 8i , similia ponuntur, quia in
subsequentihus yap part. repe- riatur, v. c. Plat, de Legg. VII. p.
821. E. r expypiov 8i, iycd tovtov ovre vio? ovre itaXat axyxoa
depov. ovx eld\v ovte i.iyov- taiy II. e. neque sunt
revera parentes Erotis, neque esse a Vat £vpv6xspvo? , Ttdvtcoy e8o?
a<5(paX\? aiei f ’H8’ "EpoS. &rj(Sl {ietcc ro
%aog 6vo rovta yeviti&cu, yrpv re 'Aoi "Eqch tcl. IIccQpsvldr (
g 8e trjv ttvttiiv liyzi, quoquam perhibentur. Non esse
revera parentes Erotis, non pro- bator; non dici a quoquam ita
tantummodo confirmatum liabes, ut allatis versibus quibusdam, quid
Hesiodus et Parmeuides de Erotis ortu tradiderint, edoceare. Notabis
igitur, quam Plato car- pit, levitatem argumentandi. ovxe i 8
1 cozov . ’l8iarr?]f latissimi significatus verbum est, quod
plerumque ex opposito ac- curatius definitur. Igitur non placet
Ficini conversio: Id autem ex eo c o 11 s t at, q u o d parentes
Erotis a nullo vel poeta vel alio quo- vis descripti sunt.
Nec prosarium scriptorem cum Stallb. interpretari velim Idiooxi]?
vocem. Antiquiores enim philosophi, ut Parmenidis exemplo
docemur, prosa oratione non usi sunt, cfr. Olympiod. ad Phaedon» p,
65« E* izoiTjxaS XeyEi ( sc. o JlXd - ro ov) llapjiEvL8?fv f
'EpTttdoxXiot, *Entxappov* ovxoi ydp x. t\ A. Consentaneum est
autem, philoso- phos et poetas ibi tangi, non poetas et prosarios
scriptores, tibi in Erotis originem inquiritur» Convertit
Schleierm.: von irgend cinem Dichter oder andern Erzahler» Exempla
si quaeris IduaXTj? vocis ex opposito ex- plicandae, legitur infra
p. 178. D. ovxe tcoXiy ovxe ISiqjxtjy h. e* vreder ein ganzer Staat
nocli ein einxelner Biirger. Prot. p. 322. *C» ei? Ixooy laxpixijv
itoXXoiS IxctvoS l8icoxatS x* x. A. tprjdl pexa ro x^oS
— x a i ”E p m r a. Haec verba quo- niam cum autecedentibus
nullo modo consociari possunt, Ilein- dorf. , quem Schleierm»
secutus est, post Iloio8oS pronomen re- lativum o? ponendam
ceusuit, Wolfins <pij6\ 67 scribendum existimavit. Ileynius,
Astins , alii, verba glossema censent, quod iudfcium Riickertus
probaret, si Socratis haec verba essent, non Phaedri hominis
inepti* (?) Sed ipsum audi Kiickcrtum: In Phaedri, inquit,
oratione nihil decerno , quae tota tam inepta ei/, ut ii tollere
velis omnia t quae displiceant , haud scio , an nullum versiculum
sis incolumem habiturus . (!?) — Plato poeta- rum versus laudare
solet duplici modo» Aut nudos versus afiert, aut commemorat aliquid,
quod idem in sequentibus versibus continetor iisque
comprobatur. Atque huius quidem rationis exemplum occurrit p, 195.
D. n OytjpoS ydp *Ax?}v Seoy xe <pj]6iv ejvcn xa\ ditaXr/v'
xovt yovv 71 6 8 a S avxij? dita~ Aou? Etv at , XlycoY
Tij? piv$' djraXol TiddeS* ov ydp iit ov6eoS niXvatai y aXX’
apa 1 ) ye xax* dv8poav xpdaxa fiaivei. Prioris rationis exemplum
est p. 197. C. Nusquam, quantum scio, poetarum versus laudat
ita, ut prolatis ipsis eorum prosariam explicationem addat.
Fortasse cum Riickerto foedidam quandam Phaedri sedulitatem
Platonem no- taturum fuisse contendis. Audio, / f » npoitititov pkv * Epcora
Itetur pijritSato xavrojv. C Htitodu 81 xal ’Axov<slk ag
ofiokoyti. ovta itolkct%6&tv neque probo tamen. Nam hoc certe negari
nequit , Phaedrum recte loqui potuisse, ut non cre- dibile sit,
eundem hoc loco bal- butientium instar locutum esse. Scribendum
videtur esse: dAA’ 'Hdlodof xpturov plv xdoS tp?j6l
yevidSat avtap Ixeixa tpj]6l yai’ ev pv 6t
epv oS, nav - tcov 28oS adqxxMs alsi rj 8 * "EpoS.
Repetitum tprjdlv est, quo magis pateret, ab obliqua oratione
ad ipsa poetae verba trausiri. Factum autem videtur esse casu
quodam, ut tprjdiv a sede sua in eo loco, quo id codd. exhibent,
colloca- retur, ubi ansam dedit nescio cui sciolo Hesiodeos versus
prosaria oratione explicandi. De tprjdi verba ipsa poetae indicante
cfr. p. 177. A. $al8poS yap b«x- QTore itpoS pe dyctvcottoov
Ai- yet* ov 8eiv6v, tprjdiv x.r. A. Adde p, 202. C. Tcal iyco eluor
, TtCOSTOVTO, 2<pTjv, \iyeiS. Al- cib. II, p, 142. c. 8. A iyei
8i xooS tu8i * Zev fiocdikev, r a plv a, <prj6i, xai
evxopivoiS Ttotl avevHTOiS ctppi SiSov , rcc di 8eiva xa\
evxopivoiS axa- A dB,eiv yteXe-vei. Tlap pevidrjS 81 —
tcov, Haec quoque verba sunt, qui expungenda censeant. Omisit ea
cum superioribus tprfdl pera ro xdoi 8vo zovzgo ' yevidSai, yrjv re
xal " Epcora , Stob. in Kclog, phys. I. p. 154. Verba sanissima
esse iam colligere possis e praecedentibus verbis ov8l idtturov ovre
icotrjtov , Quibus ! commemoratis et poetarum et
philosophorum certe unum exem- plum laudari debebat ; si
Hesiodum solum Phaedrus laudare volebat, philosophorum mentionem
facere non debebat. Verba sanissima esse etiam e rectius
explicato TevidecoS verbo patebit. Sic statuo: Duae sunt in
Mythologia Graecorum Veneres, quarnm altera maior, altera minor
aetate, Atqne minor quidem dea, *Aq>po- SirrjS nomine insignita
, a poetis celebrabatur, a populo colebatur. Maior natu dea, quam numen
rectius voces , iis tan- tummodo nota erat, qui omne studium in
coguo&cendis rerum caussis ponebant, b. e. viris phi-
losophicis, Factum autem vide- tur philosophorum inter se dissen-
tientium industria, ut plus minus divinae dignitatis dea maior nata
particeps haberetur, et cum vario modo spectaretur, ne certo qui-
dem nomine insigniretur. Ti- vediv eam vocarunt, et $i\lav f et
XaoS ; aeque, qui fons est magnae confusionis, ab A<ppo8l - r
rjS nomine abstinuerant, quin maiori illi deae interdum attri- buerent.
Sic Plutarch. Erot, p. 756. F. UtppoSityv posuit pro Tevedet, sed
addita Ipycav voce, qua nominis mutatio satis excusatur: 8io IIappevl8ijS
plv axo- tpcdvei r ov "Eptura rtuv ’Acppo- SirrjS ipycov
xpetifivrocrov iv zy xodpoypacpia ypdtpcav * xpoS- zitirov plv *
Epoota h. r. A. ri- ve 6iv autem Parmenidei versas subiectum esse,
etiam Aristotelis verbis probatur Mctaph. 1. 4. xal ydp ovroS (sc.
fla p pe - opoAqgtirtu 6 *Eqc>s iv rofe XQE<S(Svtatos tlvai. XQtaflv-
torros ol tw ptybSxsov &ya9mv ij ftw a?ttos itfrtv. ou viSrfS)
xctxadxEvdZoov rrjv tov navxoS yivediv' npcvxidxov p&v, tprjdiv
f "Eparxa Sevtv pr/xldaxo ndvxcov. Notasset enim, si revera abesset,
sabiecti absentiam philosophus. Satis notus autem Graecismus est»
quo dicitur trjv Ovediv Xiyei * nptoxidxov x. r. X, pro Akytt *
npoSxidxov ptv rj rivEdiS *Epooxa Segqy pTjxidctxo ndvxoov. Iam
patere opinor, Hesiodeos versus cum Parmenidis testimonio
optime convenire. Nam quod Xaos apud illum est, ttyedis Parmenidi
vo - catur, Igitur nullo modo pro- banda est ea evplicandi
ratio, qua Phaedrus callide dicitur sub- iectum versiculi
reticuisse, ne quod testimonium pro sua sen- tentia afferat, quod
idem contra ipsum testari nimis manifestum sit. Verendum nimirum
erat, ne quis convivarum, qui Parmenidis versum memoria teneret,
erroris atque fraudis loquentem accusa- ret, aut, si non teneret, e
ve- stigio subiectum rogaret. Ceterum quod terram simul Hesiodus
commemorat, (videlicet ut esset, quo incedere Eros posset), id ei
non officit, qui deorum antiquissi- mum Erotem probaturus est.
Ad- dere placet Simplicii ad Arist» Phys. p. 9. revidecaS
definitionem. Indicat nimirum, Parme- nidem habuisse $eg5y alxiav
Scri- povct iv pido» ndvxarv , T] navxct Hvftepra, quam 3 Avdyxrjv
s. xrjy xAydovyov Stallb. minus accommodate interpretatur,
xal *Axov diXe uf o /io- do y e 2. Suidas habet; *Axov~
diAaoS, Kafia vlof 9 ‘ 'ApyeioS ano KepxdSoS noAeaS , ovdtfi AvAiSoS
nXrjdiov , IdxopixoS npedftvxaxoi * iypanpe <5£ ye- veaAoyiaS ix
6iXx oov ds XoyoS evpelv tov naxipa avxov opv&avxd riva
xonov xrjS oixiaS avxov . Hinc de Clem, Alex, testimonio iudicabis,
qui Strqm. VI, p. 629. A. Acusilanm nihil nisi Theogoniam Hesiodeam
in prosam orationem con- vertisse docet. Phaedrum Acu- silai
auctoritate temere usum esse contendit Stallb. Habet, inquit,
hominis oratio , ut iam supra dictum est , nonnihil sophistici
acuminis et tumoris. Aliter nos, atque fecit Stallb,, de Acusilai
testimonio indicamus. Videtur Acusilaus Argivus non Hesiodi solum
mythos collegisse atque in prosam orationem convertisse, sed etiam
aliorum poetarum narrationes addidisse, ut fecisse constat omnes
eos, qui Logogra- phorum nomine insigniuntur. Iu tanta autem,
quanta erat antiqui- tatis farrago mythorum, critica abhibita
sedulo caverunt, no discordia etinter se pugnantia col- ligerent.
Fieri igitur poterat, nt Acusilaus interdum ab Hesiodo discreparet;
igitur illius testimonio Phaedrus uti potoit satis commode, cfr. Otfried
Mulier ia den Prolegg. zu einer *isseuschaftlichen Mythologie p.
13.: Iudcssen hatten sie (die Logo- graphen) zugleich die
Absicht, die Mythen zu ordnen und io Zusammenhang zu briugen,
woriu ihnen auch schon die kyklischeu und geueslogischen Epiker
voran- gegangen wareo. Bel diesem yuQ %yay typ tlxsiv o zi fieltov
louv ccya&otUtov&vs vtco uvzt, ij iQaetijS * Kt tQCKSzi] ncadixu
« yag Ordnen mussten natiirlich oft Mythen vorgezogen und
aufge- nommen, andere zuriickgestellt und iibergangen, es mnsstc
eiue gewis.se Kritik geubt werden. — ovtcj 7t oWaxoSev opo-
Xoy eiTai. Parmenidis Tersum delere dubitarunt interpretes non
pauci ideo, quod ridiculum e&set, solo Hesiodi et Acusilai testimonio
laudato ita pergi : ovzca xoXXaxfaty opioXoyEitau Haec verba
num excusabiliora censes testimoniis allatis tribus? Spe- ciosius
quam verius annotat ad h. 1, Wolf, : Er braucht, wiewohi er nur
drei Gcwahrsmanner on-gefiihrt Hat, TtoXXaxo^EV , weil em jeder von
diesen das Haupt einerSekte war, au deren Gruud- satzen sich eine
Menge anderer bekannten. Quid tandem? Num ad Phaedri confugiendum
est sophisticum illum tumorem? Non, placet. Ovtgd seiungendum est
a tfoXXaxb$EY verbo, non arctius cum eodem coniungendum, quod
interpretes ad unum omnes fecisse video. Ovtcj est, ut alias saepissime,
hac, qua dixi, ra- tione, hoc modo. Scbleierm, verba convertit: Von
so vielen Seiten her wird dem Eros zuge- standen, unter die
altesten zu gehdren» Phaedri haec potius mens est: Auf diese
Weiao wird noch von vielen an- dern zugestanden, dass Eros
der alleralteste i st. Ovtcj vocis sic positae si exempla quaeris, cf.
Piat. Menex. p. 240. A., ubi commemorata Per- sarum regum
felicitate haec le- guntur: ai di yvwpai dedov- i
Xcjpivai a7tocvtcov dv&pujecay ?]dav • ovtcj noXAd xal pe- yaXa
xal pdxipa ykvij narot- dEdovXojpkyrf t/v Tf TJtpdcoy dpxrf t h. e
* hac ratione factam est, ut multae et magnae atque fortissimae
olim nationes Persa- 4, rum potestati subiicerentur. Adde Symp. p.
188. D. ovtcj KoXXr t y nat piydX?jy, paXXov 6£ itdtiav dvvapiv ix
Et HvXXt/PSrjr p\y 6 7CaS "EpojS , quo loco e» sen- tentiarum
nexu patet , ovtcj esse hac ratione, hoc modo.
itpEdftvTaToSdecjy pe- yidTcoy ct y a $ gj y ijplv aftloS
IdtlY, Ficini, ut videtur, horum verborum conversione motus: Cum vero
talis sit, maximorum bonorum no- bis est caussa, Bastius
scri- bendum coniecit: irpoS dfcrouro» tmr % peyidtcov h. t. A.
Frustra. Transitur his verbis ab altera oratiouis parte ad alteram,
h. e. ab aetatis ad beneficiorum com- memorationem. Non omni
ex parte Graecis verbis respondet conversio Stallb. ; Quemad-
modum autem est deorum antiquissimus, ita idem nobis est auctor
maximo- rum bonorum. Est enim, quam ille non reddidit
conver- tendo , species argumentationis verbis admixta, quam
sophistarum sectatores captare solebant. ov yap iycoy —
noti ipadxjj tc aiStxd. Riickertna ad h. 1. annotat: Non
accurate haec disposita sunt; quum enim esiet dicendum: nullum
est maius bonum homini, blgitized^TGTOsIe XQrj
ctv&Quxoig yyEi6&ccc itavros rov (Uov toTg t-dlhivGt, •Aul cos
(hmOst&ttt, tovto ovte fcvyyivsuc ola re tfinotuv quam A PRIMA
IUVENTUTE probus AMATOR, et postea AMANTI PUER similis, sic
eloquutus est, quasi otrumque ad verba evSvS vico ovxi esset re-
ferendum, Quod fieri non potest, nec voluit cogitari orator. Notandum hoc
duxi , sicut alia multa in hac oratione, quo magis fiat perspicuum,
quam multis ea vitiis laboret in omnibus, quae ad sententias earumque
cohaerentiam pertineut. Quod quum perspectum fuerit , qua cautione
in textu talium locorum casti- gando utendum sit, plane iotel-
ligetur. Cur de uno eodemqne homine accipienda sint hoc loco, non DE
DUOBUS HOMINIBUS MUTUO AMORE se amplectentibus, vioS et ipatitijs verba,
equidem caussam nou video. Ruckerto non rectius Sdfileierm, verba
interpretatas est: Dean ich meiues Theiles weiss nicht zu
ssgen , was ein grosscres Gut ware fur eiuen Iiingling, ais gleich
ein wohlmein en der Liebhaber oder dem Liebhaber ein Liebling. Ad
xaiStxa repetendum interpretes censent jf/aj/dta. Minus apte, ut videtur.
Nam nihil melius esse iuveni quam probum amatorem, Phaedrus ita
profert, ut iureni opus esse indicet homine aliquo, cuius praeceptis
et exemplo melior fiat. Non potest autem is, qui melior
reddendus est, eius, qui meliotem reddit, h. e. AMATORIS epitheto
ornari. Si igitur XPV& *oS nomen repetendam est, ad ipadty referendum
est, non ad kaidixa. Ceterum Riickerto assentimur de structurae molestia
querenti, qua et ad AMATOREM et ad amusium verba non referri non
possint: ev$vS vico ovrt , de lectionis veritate non assentimur;
sedulo enim cavendum est, ut nimio studio servandae alicuius
lectionis ne iniusti simus atque vitia v alicui imputemus, qui
nulla commisit. Ne multis, scripsisse Plato videtur: o v yap iyooy &X&
sIxeiy, oxi pst£ov itixiv dyaSov ev$vf vico ovxi, Tjipadrrjs
xal ipadtjj, (sc. XPV&&) V ^ou6txei 0 Sententia verborum
haec est: Denn ich kenne kein Gut, das eiuem gleich von dea
friihesten Iahren an dienlicher ware, ais ein verstiindiger
Liebhaber, und das diesem ( dem verstaiidigen Liebhaber} dienlicher
ware, ais ein Liebling. avSp cotcoiZ rjyzi6$ ail De
jjyEidSai verbi structura vide sis Indices. Ceterum interpositis
verbis pluribus a verbo, ad quod pertinet, seiunctum est xoiS piX-
Xovdi xaXdoS fttQo6E62ou , ut vis maior esset enuntiati. Sen- sus
est: deno was den Menscheu ein Leitstern sein muss des gan- zen
Lebens , nam licii denen, welche recht zu lebeu wunschen, cfr. p»
198. E. ro 81 apa , (gJs’ Hoixey , ov tovto rjv x 6 xa~ XcoS iit
ot.iv eiv otiovv x. T. X. f ad quem locum vid. ann.ad p. 202. C. tj
xoXprj6aiS dv tiva. pij <pavai xaXov x e xal svdai- pova $ Eooy
elvca ; tovto ovtE Hvyyivsia x, t. X. Pro Hvyyiviia
Wyt- tenb, Epist. erit, p, 9. evyiveui D ovta jeaAros ovts tifial
ovts nlovtog oi W «AAo ovSiv (o S £qo S . tiya 8's 8rj il tovto ; rijv
iarl fisv totg cdaxQocs al6%vvT[v, Ixl de totg xaloig tpiXoufilav. ov yuQ
Zauv avtv tovtav ovts ttoXiv ovts Idiatqv (isyaA.cc xal xcda %Qya
QtQya&GSai. tolwv lyio avdgcc ostig Iqcc, scribendam coniecit, quod
fue- runt, quibus magnopere placeret* Stallb. gvyykvEiav gratiam
esse contendit et auctoritatem, qua quis propter hominum
potentium affinitatem apud alios valeat. Rectioris explicationis
gloriolam mihi praereptam vides a Riickerto, qui B,vyykvEiav de ipsis
necessariis accipit, de eorum disciplina, maxime autem de pudore ,
quo horum cogitatio iuvenem afficiat. l)icit enim, Riickertus ait,
in se- quentibus, nec matris nec patris tantopere, si quid peccet,
pudere, quam eius, quem amet, pariter* que amatum amatoris.
Conferri iubet praeterea Legg, I. p. 627. C, nxeo vtgjv jj.Iv xoor
itovif- pdjv {j te olxia xal 7} B,vyyk- reia avrij 7ta6a ytrcov
havtfjS Xkyoix av. V, 320. B. itoXiv te xal <pi\ovZ xal
B,vyykvEiav, Adde Alcib. I. p. 105. cap. V, xal ov t inixponoS ovte
dvy- ysvijf ovte aAAoS' ovdels Ixa- voS rtapaSovvai ttjv dvvapiv
x. , T. A. Restat, ut de verbis dicamus ovtco naAoiS , quae a viris
quibusdam impugnata sunt ac permutata, Reyndersius nimi- rum pro
ovtcj xa\<jj£ scribendum censuit ovte xaWoS infarcto ante
IpitoiEiv verbo ovtcjS. Iacobsius legendum proposuit : ifutottiv ovtcjS
9 ovte xaXAoS x . r, A. Ovtcj xaAcjS verba Phaedrus addidit, ut
indicaret, aliquid con- ferre ad corrigendos mores tara pa- rentum
admonitiones tum honorum divitiarnmque faturam possessionem : sed his
maiorem esse atque validiorem amorem. Igitur muta- tioni non locus
est, neque satis- facit Stallb, dicens.; quamquam pulcritudinis
mentio in talibus frequens est, tamen non ita necessaria videtor, ut
libris invitis aliquid inferciendum sit y praesertim quum addantar
haec: ov t aKKo ovSkv, quibus verbis cetera | quae vulgo bona
ha- bentur, significari manifestum est. — Verbis ov x aAAa
ovdkv amicorum favor, gloriolae dulcedo, alia hoc genus subin-
telligi possunt, pulcritudo non potest. Patet enim, non nisi de
bonis sermonem esse, quae recto vitae modo servantur augentur- qne,
cadunt malo. Polcritudo autem non metuendam est, ne malefactis
imminuatur; igitnr ea non movetur, qui pulcher est et malus , malos
mores ut corrigat. Igitur ab hoc loco pulcritudinis commemoratio
alienissima est. Bene Ficinus: haec natem no- bis neque genus
neque divitiae neque honores praestare citius ac me- lius
quam amor possunt. \kyta 81 81} ti tovto; Scriptum 'est in
aliqnot codici- bus: A kyo 81 6jj ti tovto \ quod Bastius
recepit. Iniuria. Sententia enim foret nostro loco minime conveniens:
Num est aliquid id, quod dico? & ti al<S%Qov itouov
xcadSijlog ytyvoixo rj itdoyav vito tov , di avavdQiav (irj iqivvoyitvog
, ovt av vito itaxgog offntivxa ovrag dlyijiScci ovts vnb halpuv ovts
vit ailov ovdtvog ag vit 6 itaidixiZv. xavtov Ss tovto xal E xov
iQcofiivov oQajisv, Btt SiatpeQovtag tovg tQu6tag aut demto
interrogandi signo j Est autem revera aliquid, quod dico.
Sexcenties apud Platonem rcperies mediae orationi interrogationes
interseminatas , quibus efficitur, ut ad rem, quae proferatur,
lectores attentiores reddantur. Vid. A st. ad Piat, de P* 29.
Heusd. spec. erit, p. 87. cfr. Sympos. p. 206. E. itavv pkv ovv,
£<pj / • xi 8 ?) ovv TTjS yevvtjdeooS; Ceterum Stallb. haec verba
explicat: zi de 8?} tovto idxiv, o XiycD, Commo- dior videtur
explicatio haec, ut, cum primitus dicatur A iyco di) tovto,
interposito interrogandi verbo ti , verba illa immutata maneant
Xiyco 8?) — - ti — tovto. Ad huius dictionis exemplar verba
Phaedon, p, 73. C. emendanda sunt: ap ovv xal to8e 0 // 0 A 0 -
yov/iev , dzav ixidn/pr/ itapa - yiyvr/rai rpoxeo toiovto), ava-
/ivi/div alvai ; Xeyoj 8e tiva Tpoxov tovtov . In codd. ali- quot
bonae notae riva pro tiva reperitnr. Stallb, scribendum vidit esse Xeyco dfc
riva Tpoxov; Tovtov*, neque tamen ipse sibi satisfecit. In verbis,
^juae in- terrogationi praecedunt, cave credas, Tpoxov verbum ita
posi- tum esse, ut quod in sequente interrogatione qxplicandum
pro- ponatur. Scripsisset enim Plato, hoc si, edicere voluisset, A iyco
6h Tpoxov tiva tovtov; Scri- psisse videtur autem: A iyco 6} riva
rpoxov tovto; sc, t 6 dva~ pvr/dw eivai zo Ixidn/pr/v i tot-
payiyvEdSca. <prip\ toivvv iy<o . h. e. Meino Meinuug
ist also nun. Quae brevius ante dicta erant, ea nunc a Phaedro
re- feruntur explicatius. In sequentibus cum Astio et Riickerto
comma ponendum curavimus post vxo tov , ut 8i avavSpiav ar- tius
cum pi/ apvvopevoS cou- iungendum esse indicetur. Verba ovt av vxo
xarpoS o<p$evTct Ruckerti explicationem £,vyyi~ vtiav
praecedentis confirmant. MV a fivv opev of , Nam viri fortis
esse potabatur iniu- riam acceptam ulcisci et punire. Stallb.
zavtov 81 tovto. Du- plicem structuram haec verba ad-
mittunt. Aut enim absolute posita cogitari possunt, aut ab
in- equente opaopev apta. Prior explicandi ratio rectior. Sed
audi Stallb. annotantem ad hunc locum: In his, inquit, tavtdv Tovto
absolute positum est. Cf. Phileb. p. 37. IX pdov ovx op- $rjv ptv do£av
ipovpev , av dpSoTrjxa itixXh tovtov 81 7/8 o- vr/v; ubi Tavrov 8i
absolute accipiendum: pariterque vo- luptatem. Cratyl. p. 404.
E, tavrov 6h xal xspl tov 'AxoAAgq. Protagor. p. 344. D. xal
yscop- yov x&tenv &pa ixeXSovdat dpr/xavov av Seir/ xal
laxpdv zavzd tocvta. Menon, p. 90. D, «2
ai<fywET«i , otav 6(p&y iv cdtixQV tLVl & v - d ®w %avrj rtg
yivoLto, cagre noXiv yeveg&ai xj axgccxoxeSov tQaOxav Ti xal
nui8ucdv, ovx k'<Sxiv oitag av cc/iavov olxfcsiav xxjv sccvtdv jj
axE^uficvoi xiavxav xdv aia%gdv xccl xpdounovpevot xgdg dMqiovg. xul
(iccxoftivoi y av ovxovv xoc\ 7txp\ CCVfofySeOOf xal ruv
aWaov ravxa xavxa icoWi / avoict ItiTiv , ftovXajiivovS x. x.X.
Demosth. Midian. p. 526. extr. cd. Reisk. faeiS* 6 nXrjyeif
ht&voS vito xov TIo\v$i/\ov ravto xovxo iStoe dtocXvodye- roS —
ovd’ elSijyays tov IIoXv- ZijXov. Loquendi genus tum alibi, tum hoc
loco viros doctos fefellit. iv aidxpfi ttvt cov. * Ev a
. X. eIvoci est defixum ^sse in re turpi, versuuken scin im B6-
sen, im Argen seinj hoc dicendi genus breviloquentia quaedam est,
supplendumque mente ver- bum est, quod cum iv praepo- sitione
commode consocietur. Pro iv oddxpd* xtvl a)V primitus di xisse videntur
Craeev iv al6xp<fi rivi xtijuevoS , ut iv fiopfiopu) xeidExoci
legitur Pl. Phaed. p. 69. C« De similibus dicendi formis : iv
olva> £ivai t iv xy x iyyy elvai y iv itoztjdEi ylyvedSai ai.
vide Matth. Gramm. pien. J. 577, p. 1140. el ovv p7jx av V Xl
* Y&- voixo . Sensus est: Wenn es sichnuumachen
1iesse, dass ein Staat entstunde oder eine Kriegsgesellenscliaft
aus Liebhabern und Lieblingen, so konn- ten sie ihren Staat
nicht besser verwaltea, ais owenn sie sich alles Hiisslicheu
enthielten und ei ner dea an dem zam Best cn aufmunterte. His verbis
aliquid iuesse videtur, quod minus cum sententiae ratione conveuiat.
Etenim civitatem non melius administrari posse, quam si a turpibus
abstineant chrcs, bo- nis studeant, hoc non tam in amantes et
amasios cadit, quam in homines universos. Debebat potius ita loqui
Phaedrus: ne- minem, si civitas existerct aman- tium , melius
civitatem admini- straturura esse, quam amantes. Non dubium est,
quin vitium verba contraxeriut, quod ubi lateat, quis audeat, codicibus
tacentibus, fidenter dicere? Videtur nobis apEivov vox tanquam scioli
additamentum expungenda esse, qua deleta verba convertenda sint: Wenn nun
ein Staat von Liebenden und Geliebten entstunde: so konnten dies
e deuselben gar nicht an-» ders verwaltea, ais so, dass sie
das Hassliche ver abscheueten und das Gute rait
gemcinsamer Anstrengung zu vollbringen s \\q h t e n . Iam
admireris licet mutui amoris utilitatem. Ut enim nunc in civitatibus
multa pessime geruutur, turpia laudan- tur, honesta expelluntur,
ita in civitate cx amantibus composita Eros efficeret, ut cives ne
pos- sent quidem male aliquid agere, sed nt optime h. e. malarum
rerum fuga, bonarum studio, civi- tatem administrarent. (itr aXXyXmv
o l xovovxoi vmcoev av, okiyoi ovrsg, cog &rog BfouZv, itavxag
dv&Qcort ovg. bqcjv ydg dvr/g vnb TZcadixcov oyftrjvca ij Xiticqv xa%iv
q OTtXa a7tof}(tffl>v r\ t- xov av dtjrtov Si^acxo rj V7to Ttavrcov
xcov aXXcov , xal 7cgb xovxov x i&vdvai av TCokXdiug ikoixo * xai
(irjv ly • 7tct\ /jotxo fiev oi y*. ITaec propter antecedens ?/
6xpar6ize- 8ov adiiciontur, quo effectum etiam est, ut in
praecedentibus additum habeas xijv tavTGov; nam verbis his uou opus
erat, si alio loco posuisset aut prorsus omisisset rj 6xpax6Tt(.8ov
verba scriptor. Ceterum certam 'quan- dam txcnpiav Phaedrum in
mente habuisse, v. c. sacram Thebano- rum cohortem, haud credibile
est propterea, quod antecedit el ovv pi 1X av V tl y yivotto.
Significant autem haec verba, poni, aliquid fieri posse, quod revera
aut ne- queat fieri aut quod adhuc factum non sit dtS litof
Etieeiv. Phaedrus ne nimius in laudando videatur esse dicens,
paucos facile su- peraturos esse homines omnes, cdS titoS eItceiv
addit, quibus ver- bis vis iudicii paullisper immi- nutur.
Pertinent autem non so- lum ad 7cdvxaS dv5pc>SjtovS , ut Stallb.
iudicantam video, sed etiam ad d X.iyovf, ut alteri verbo addatur
aliquid, alteri de- matur. Vide quae de £icoS eiiceiY verbis
annotata sunt ad p. 215. I).
Xiitriv — ait o ftaXoov . Nam \EiitOTa£,ict turpissima .ha-
bebatur. , Lex Attica, cuius me- minit Lysias Or. xaxd <Pl\covoS
Compadia? T, V. p. 887. ed. Rcisk, et Demosth. adv. Neaer. T. II.
p. 1353. roy kiicovxa tijv td&iv d7C£Xrt$ai 4 ayopaS pijxe
dxecpctvovdScn prjt eISiIvcu sl$ t d Ispd ra St/poxEXtj. Nec
mi- nor erat infamia eorum, qui arma turpiter nbiecissent: de qua
re fuse disputavit Klotz. ad Tyrt* 10, 27. cfr. ’de Rep. V.
p. 468. B., de Legg. XII. p. 945. Stallb. Adde Arist. de
Morib. V. 3. TtpOSXGtXXEl l) YO/IOS , Xal ra rov dvdpeiov Ipyct
icouly, olov pi} XeiitEiY t i/y rdt,iv , /irjSk tpevyELY, pr/61
filxtnv xd oitXa .1 } vico 7t d yt oo v rcov aA- Xcjy. IIctYTES ol
dXXoi inpri- mis parentes suut, fratres, amici, vide ann. ad p.
178. C. tovto ovtE ZvyyivEia ola te ipnotEiv ovv oo xaXdoS ovte
xipai ovte nXovxos — eqS ZpvS. — JJpd xovxov sc. 7t po rov
6<p$fjvai V7CO iroadixdov. t e$ v dv at dtv
TtoXXdmS, Schleierm. convertit: und dafiir wiirde er lieber oftmals
sterbeu wollen. Graeci ut nos : und da- fiir wiirde cr lieber
hundert Mal todt sein wollen. Videlicet adeo invisum omnibus est ro
oraro- $vr}dxEiv, ut pro eo Graeci te - Svavai dixerint, nostrates
di- cant todt sein. Huius tempo- ris usus ita iuvaluit, ut id
adhi- berent Graeci etiam, ubi proprio praesens tempus ponendum
erat. Sic Criton. init, legitur: if t d icXmoY a<pixtai, ov 8 eI
aq>t - 4 xopkvov Te$vdvai ps, Vide Stallb, anaot* ad Apol. Socr,
p. Ixardbxiiv ys r a xaiSixa i} (iij porj&rjOai
xivSvvevovu — oi3d£t$ ovta xttxog, 3 vtiva ovx av avtog 6
"Epag Iv&iov xotrjaeio itQog uQitijv , ugtB ofiowv dvai tu
B fhji6tip xpvOu. xal aTi%vag, o tqn) "OfiijQog, (itvog ift-
jcvivaca Ivioxg tnv yQauv rov &tav, tomo 6 "Epug tolg IquOi
naQijtt, yiyvofitvov xaQ avtov. SO. B. Igitur non
asseutiendum Buttmanno ia Gramm. pleo. j, 114. p. 161. «D«*
Streben nach Nachdruck hat deo Perfekt- begriff ale
entechiedener uod ge- wisscr Jautcnd au dia Stella des Praesens
gebracht.» xal pt/v iyxaraXixeiv y e. Non sine magna animi
com- motione haec a Phaedro profe- runtor, qui vix cogitari
nedum fieri posse contendit, nt amator aut deserat amasinm, aut
peri- clitanti auxilium non ferat. Hac commotione animi, quam
indigna- tionem vocare possis, factum est, ut aposiopesis orta sit,
quam oculis legentium addita lineoia indicavimus. Non nliter
Astios in «nuet, ad Convers. Symposii p. 279.: Der Text ist
unver- derbt; xal yt/v — yt ist ja auch, d. h. in diesem
Zusam- xnenhange v o 1 i e n d s , und die ubgebrochene Rede, die
mit einem allgemeinen Satze endet ( OVOllS ovia xaxoS x. r. X . )
charakte- risirt treffend deu Phaedros ais leidenschaftlichen
Erotiker , den der Gedanke, dass der Liebhaber den Geliebten
verlassen und ihm in der Gefahr nicbt beisteben solite, empdrt und
fast ausser sich setzt. Ceterum xal pr/Y — yt particula» Astius, ut
modo in- dicavimus, vo lien da, Schleierm. gar converterunt. Apta
oobis visa est »d Phaedri exprimendum ardorem utriuaqua vocis coni
unctio, nt verba convertenda sint: \ olleuds gar den Liebling
im Stiche lasseu , oder ihm nichl bcispringen in der Noth. —
cfr. Symp, p 196. C. xal fitjv eis yt aySpetay ’ Epcort ovSi
“jtprjS avSioxaxai. Alia ratio est particularum p. 202. B. xal
pi}v, T)V S tyoo, opoXuytirai ye napa xdvxooy peyaS StoS tivcct, ad
quaa verba vide annot. xtvSvvevovti »c. av reo. Nimirum
xaiStxd verbum non nisi unum amasium significat. Laudat Ruckert.
Phaedr. p. 2S9. A. ovre 657 xpeixxa ovtc ItSov- ptvov Ixtuv
ipadxrjS xat&ixu aveSexai , rjxxa> 61 xal V7IO- StiiSxtpov
ad dxepydderat. Phaedr. p. 240. A. • Ixi roiwr ayapoY , axatSa,
aotxov on xXtitSxov xp°yov xaiStxa ipa- dxrjs evSatxo av ytvtaSot.
Vide sis de generis mutatione Theaet. p. 146. B. a\Ad xwy
fittpaodcov xwa xtXevt dos dxoxplredUca. Prot. 315. D. xxjv 6’ ovy iSear
xdvv xaXoS, ubi papdxtov praecedit, avxo S <%E P gj S.
Phaedrus neminem adeo mala indole cen- ' set esse, quin ab ipso
Erote ad virtutem propelli possit. Quae- ritor, quid sibi velit
avroS pro- nomen hoe loco? Fischerns com- mode explicari censet, si
oppo- sita existimentur praecepta vir- tutis, leges, educatio atque
quae Cap. m Kai fftjv viriQcoto&vrjaxuv yi fiovoi
l&iXovGw ol tQavreg, ov (lovov ou &vdQsg y dUa xal cd
ywaTxeg. praeterea ad virtutem adducere possint. Hac explicandi
ratione num minas otiosum pronomen censes $ Stallbaumio visum
est ita frigere, nt corruptam cense- ret atque in ovxgdZ
immutandum; verba convertit idem : Nemo adeo malus est,
quem AMOR non possit tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo
nihil cedat. Sed ipsi huic sententiae inest, quod admodum
displiceat. AMATOREM AMASIUM periclitantem deserere posse Phaedrus
praefracte negavit. Eius rei argumeutum nura credibile est eundem
Phaedrum hoc addidisse: Nemo adeo malus est, quem non possit AMOR
tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo nihil ce- dat ?
Dicendam potias erat: neminem adeo malum esse, quem Amor non revera
incendat* Nihil mutandum est, et omnia beno habent. Abstractum
pro concreto positum est, h. e. , dei nomen pro re, cui ille
praeposi- tus est. Sensus est verborum: Nemo, qui amat, adeo mala
in- dole praeditus est , quin ipso amore suo fortissimus fiat
atque iis simillimas, qui optima indole gaudent fortissimique sunt
non amore , sed natura ad virtutem docente. Annotat Riickertus
ad h. 1.: ttvtoS o"Ep<oS f ipse Amor, h. e, hoc ipsum ,
quod amat, etiamsi sit alio- quin ignavus. Virum doctiss.
in huius loci rectiore explicatione nobiscum consentire magno
cum gaudio vidimus. Ceterum monemur hoc loco de verbis Alcib. II.
p. 1 88. B. : Ovxovy doxei <5ot sroAA^f 7Cpop7]$daS ye 7tpoCdti-
65ai y uncos pjj XrjtSet xis avtov eijxopevoS ptydXa xaxa, doxoov 6
ayaSa ; oi £fol tvxgoGiy iv xccvxy ovxeS xy ££ei, iy y diSoadiv
avxol a xif evxope- voS xvyxdvei; Frustra Buttra. ad h. 1.
libenter, inquit, care- rem voce avxoi . — Sensus est: Nonne igitur
magna cautione tibi opus esse videtur, ne forte ali- quis bona
precari opinatus, ma- xima mala sibi expetat? diique ita morati
sint, ut qui ipsi, h. e., nullis precibus moti, faciles, mit- tant,
quod quis sibi expetat? o Uqnj "OprjpoS* Laudavit Fisch.
ad h. 1. Hom. II. x. 482. r&5 6’ tpnvEvtiz pivoS y\avx£>-
*A5Tjv7j. et II. o , 262. cj $ tirtaor Hpjtvevtie pevoS pkya.
itoipkvt A ocoSy. Iu sequentibus Orell. ad Isocr. Or. Ttepl arxtS.
. p. 825. ob praecedens ivioiS xqjy yptooav scribendum
coniecit toiS ipcodi ita6i i tap£x et * Frustra, Non enim
quaeritur, utrum omnibus an paucis qui- busdam hoc praestet Eros,
ut fortes fiant, sed de ratione agi- tur, qua ad virtutem amantes
impellantur. Neque verum est, omnes amatores ad virtutem impelli AMORE
etiam ii amant, qui natura fortissimi sunt, 5
tovtov 6's -mu tj lltXiov dvyarrjQ "JXxtjUne Lxavriv fiaQ-
ut illo Erotis impetu lucile indigeant. y ty v apev ov rcap
avtov. Omisit haec verba Schleierm. in conversione: Ia gewisa was
Ho- meros sagt, dass c inige der Hel- den eiu Gott mit Muth
beseelte, das leistet Eros den Liebenden. Neque aliter Ficinus: hoc
AMOR AMANTIBUS efficit. Verba non 'otiosa sunt, indicant euim, eam
vim esse atque potestatem avxov tov ipdv, ut ignavos virtute
augeat. Pertinent uutem ad praecedens Tovto, a qua voce scri- ptor eadem
seiunxit, ut eorum vim augeret, vid. ad. p.,178,- C* d yap Xprf av
5 peon 01S ?}yeb 6Scn navroS xov (iiov xolS piXXo vtil xaXaiS
(iicStie- 6$ai> Adde Pl. Cratyl. p. 423« fin. el xiS avxo xovto
pipeitfSai Svvaito, kxaCxov t^v ovdiav h. e. venn jemand es selbst
nachabmen konnte, ich mei ne, die Wesenheit von ie- dem.
Convertenda verba nostra sunt : Das gewahrt Eros den Liebenden, and zwar
unmittelbar aus sich. xal pyv vn epan o%vy - 6xeiv ye.
De nat pyv — yk particularum potestate supra di- ctam est ad p. 64.
Solent eae- dem adhiberi, ubi commemoratur, quod aut praeter exspectationem
accidit, aut qnod fidem superat hominum, aut in rebus summae
gravitatis* Apprime igitur commotiori animo conveniant Phaedri, qui has maluit,
quam con- sequentiae particnlas adhibere, quarum usum orationis
conformatio flagitare videtur. Debebat nimirum Phaedrus, laudata Erotis
vi, sic pergere proprie; Hinc £eri solet plerumque, ut soli AMANTES.
clXXcl xal ai yvv atxeS . Hanc lectionem, quam verissimam
ducimus, Clark, exhibet aliique codd. non pauci. Satis notum est,
Graecos substantivis duobus, quae pariter definita atque per ov
povov — a\\d xal , ovx oti — aXXa xal sim. coniuncta sunt, aut
addere articulum duplicem, aut demere. Sic in Protag. p. 342. D. legitor!
eidi iv zavxaiS xaiS noXediv ov po- vov avdpef ini naidevdet
peya tppovovvxes, aXXa xal ywatxtS h. e. ut viri, ita mulieres
«... scribere etiam potuisset Plato nullo sententiae discrimine
ov povov ol avSpeS — aXXa xal ai yvvaixtS. Xenopli. Mem. II,
9. 8. ovx^oti povoS 6 Kpixcjv iv 7/dvxia rjv , aXXa xal ol qjiXoi
avxov. Ad huiusmodi exempla H. Stephanus respiciens, cum legeret
aXXa xal al yv- vaixeSy nostrum locum hoc modo emendandum censuit:
ov povov oi avSpeS, aXXa xal ai yvvai- xtS , qua coniectura
sanissimus locus corrumpitur manifesto. Sive addis sive demis in
huiusmodi locutionibus duplicem articulum, eiusdem dignitatis,
pretii, pon- deris substantiva esse indican- tur, quae per ov povov
, ovx oxi — aXXa xal coniungun- tur. Sed quoniam feminae
viris multo debiliores sunt, Phaedrus, quo gravius vim Erotis
extollelet, feminarum nomen pondere praevalere hic voluit ita, ut
non viri solum , sed quod mirere magis, feminae quoque
dicantur voluntariam mortem oppetere. Hoc efficitur addito ai
articulo. Eodem fere modo alteri substan- tvqiclv inlg rovds tov A
oyov etg xovg "EX- tivo articulas additus est, omis-
sus in altero Alcib. I. p. 104. B. cap. IV. iav 6* ivSdde pi-
yi6xoS y ? , xal iv xols dXXoiS n EXX7/6iv * xal ov pdvov iv
"EXX 7 / 61 V , aWa. xal iv x 01 S fiapfidpoiS , 0601 iv xy avxy
7 /ptv olxovd iv yneipcp. Amplissimas terras barbaros habi- tare, satis
notum erat eo tem- pore, quo Alcib. I. conscriptus est. Ut igitur
regnandi cupido, qua Alcibiades teneretur, validius emineret,
praecedentibus iv "EA- \r\6iv verbis barbarorum nomini articulum
scriptor adiunxit. Sen- sus est: Wenn da aber in At- tica der
grdsste warest, meintest du es auch uuter den iibrigen Griechen zu
werden, und nicht allein unter Griechen , sondern was noch viel
mehr sagen will, auch unter deu Barbare», rfb viel deren mit uns
dasselbe Festland bewohnen. Adde Aelian. Var. H. II, 41. p. 181.
ed. Abr. Gronov. KXeigo , cpa6iv , eis dpiXXav lov6a ov yvvaiBX
po- vaiSy aXXa xai xois dvSpadi ro!> dvpitdxaiS detvoxdxr/
itiziv 7/v xai ixpdzei itdvxcov h. e. Kleio, wird erzahlt, konnte aus-
serordeiitlich trinken und wetteiferte hierin nicht blos mitWei- bern ,
sondern , was weit mehr sagen will^ mit Mannern , die mit ihr dem
Zechen ergeben waren, und ubertraf sie. xovxov — vitip
xovde xov A oyov, Schleierm. convertit : und dessen giebt una
schon Alkestis». die Tochter des Pelias, hinlanglichen Beweis
fur diese Wahrheit ... Recte V. D. verba servavit, quae frustra
sunt, qui expungenda censent. Heind. ad Protag, p.471* locum sic
in- terpretatur: ut huic dicto fidem faciam.
Heindorfio Stallbaumius assentitur. Riicker- tus ad h. 1. Nos sic,
inquit, sta- tuimus, si Socratis haec oratio esset, intolerabile hoc
additamentum nobis appariturum; quam Phaedri sit, ineptum quidem
esse et lan- guidissimum , attamen consulto posse a PJatone adiectum
esse. Si scriptum exstaret xovxo di xai 7 } TleXiov Svydxr/p x. r.
A., sedulo interpretes tantum non omnes annotarent: inceptae
stru cturae Phaedrum oblitum esse/ liuiusmodi confusionis
exempla plura reperirij Platonem h. J. satis eleganter non
praemeditatae orationis indicium edidisse. Ao possit sane commodius
rotrro explicari, quam xovxov l sed etiam xovxov bene habet.
Revocandum nimirum hoc dicendi genus est ad oratorum consuetudinem post
apodosin praegres- sam protasin repetendi. Vide quae annotata sunt
ad p, 186. B. Ut v. c. in Apol. Socr, p. 20. C.
dicitur: ov ydp di/nov tiovye ovdiv xcov aXX&v —
itepixxoxepov itpaypa- x ev opiv ov , inetxa xoCavxrj tpt/pr/ xc
xolI XdyoS yiyovEv> e I xi £ 7cpaxteS aXXoiov fj oi
TtoXXoiy ita nostro looo quidni liceat oratori xovxov praecedens
verbis interpositis plu- ribus ita repetere, ut simul ac- curatius
definiat anctiusqne exponat? Verba convertenda sunt: Hiervon giebt auch
des Pelias Tocher, Alkestis, einen hinlanglichen Beweis liber das
eben Gesagte. Ceterum non nisi oratoribus, quorum
interdum oratio altius exsurgit, neque vulgaribus prosae dictionis
re- 5 • JLijvasi i&sh}(Ja(la (lovq vniQ tov avvqg
<xv8qo s ano- C &uviiv , ovxav ccvta nccrgog te xal firjtQog' ovg
ixrfvt) toOovtov vxBQtficdtTo ty tfiXLq dia tov "Equxcc, iSgre
anodilgai avtoi/g allotQlovg ovtag tgj viti xal ovognlis tenetur, hoc loquendi
genu» largiendum, a ceteris scriptoribus prorsus seiungeudum
est. *AXxif6ttf* Schol. ad h. 1. ?} nepl rrjs * A\xrjdxi8oS
vnoSediS TOUXVTTf T is idttv • 'AxoXXgoy pxrjdaxo napa xcov
Motp&v, onatS d' v A8ppxoS xeXevxav peX- Xcjv napadxp tov V7ilp
tavxov 1x6 vr a xeSvrjiiopeYov, ira idoy xgj npoxipa) xp6vov
&i6Q' xal St) v AXxijdxiS 7] yvn) xov x ov ineScoxer kavxt/r ,
ov8e xe- pov tcor yoricov SeXpdavioS vix ep xov naiSoS
dnoSavelv. Stalibaumius laudat Senec. ad Hei 7. c. 17. Nobilitatur
carmi- nibus omnium, quae se pro con- ioge vicariam dedit»
eis xovS "EXArjvaS. Vulgo ad sequentia haec verba
trahuntur» Male. Pertinent ad praecedens papxvpiav . Ceterum non
assentimur Stallbaumio ad h. 1. annotanti: Neque vero eis pro iv dictum
putari debet, sed cum vi pro dativo positum est, ut Latine reddi
possit coram. Nimi- rum eis praepositio quoniam mo- tum indicat ad
finem qucndam, cum verbo transitivo primitus coniuncta, id agit,
uth.l, actionem simul involvat eius, qui clarus esse dicitur. Sic
inidffpoS elS Stjpov eum denotat, qui se cla- rum insiguemque coram
populo fecit, contra inidrjpoS Iv Stjpat is est, quem clarum
populus existimat atque laude dignum. Hinc intelliges, h. 1. de
actione Aleestis sermonem esse, quae dou tam populi laudibus
incla- ruerit , quam voluutaria morte immortale virtutis
testimonium ipsa populo dederit» Exempla si quaeris huius usus, e
Stall- baumii penu depromam haec Menex, p 239. A. noAXa 81
xal xaXd ipya dne<pt)vavxo elS navxaS drSpainovS xal idiot
xal Srjpodiqt, ad quem locum vid. Engelh. anuot» ed. p. 260.
Protag. p. 312. A, dv 8± — ovx dv aidxvvoio eiS rovS "EX-
XrjvaS avxov dotptdxpr nape- X&v i Gorg» p. 526. C. eis 81 xat
navv iXX oytpoS ytyore xal eis xovS a\XovS "EXXrfvaS
’Aptdxei8ijS 6 Avdipaxov , quo loco yiyove cum eiS praeposi- tione
coniunctum est eodem modo, quo 8id praepositio cum dvveivat verbo
coniungitur p. 176. D, ijpaS 81 8ici Xoyatv aXXrjXoiS dvreirai pro
rjpaS 8 i 8ia Xoyatv Siatpifirjv noieid^ai. vid. ad p. 43.
aunot* l&eXjj dada povrj . De ISeXeir potestate verbi
dictum supra est ad p. 44. De re ipsa cf. Eurip. Alc. v. 15.
narras 8* iXeyZaS xal 8ie£,e A- Sgdy tpiXovS naxipa yepaiar 7 } dtp
irixxe prjxtpa, ovx evpe nXrjr ywaixoS , yriS
7/$eXe Saveir npd xeivov . » rp tptXiqe, 8ia w
Epoora. Perperam minuscula littera exhi- beri solet ipeoxa. Hoc
enim AMANTIBUS Eros praebet idque Bigitizdd bfCjodgFe :
pati povov itQosrjxovras. xal tovx’ iQyaOaflivrj x 6 Zoyov ovxu xctkov
i'So£ sv IpyatSati&ai ov fiovov av&Qcbjtoig, akku xal Qeois , Se
t£ itokkSv nokka xal xaku tQyaCa- pivav EVttQi&nijtoig di \ ritiiv
tdoGav xovxo ytQU g oi quidem ex «e profectam, ut soli mortalium
alter pro altero volun- tariam mortem oppetant, quod ne- que
%vyy£veicc efficere potest, ut Admeti exemplo docemur, neque honos
et divitiae, quarum summam facultatem regi fuisse, quis negabit? Restat,
ut de <piXiqt dicamus, quae vox non nisi feminis convenit et amasiis.
Epav di- cuntnr omnes non feminae, sed VIRI, qui amant. Feminae
contra, ut alias, ita in amore viris debiliores habitae, et amasii, aetate
iuniores, quam AMATORES, tpiXovdt tantummodo , capi se ac teneri
patiuntur. Sic Antig. Sophocl. t. 523. ov x oi Gxxvki&eiY
aXXa dvpqn- Xeiv itpvr • Amasii qnXlaS si requiris exem-
plum, p. 182, C. legitur oyap jipidtoyeiroYOS £pooS xal rj \ Ap -
/xoSLov <piXla /UficaoS yeropivTj TtareXvdey avr&v xr\y apxV v
* Adde p. 183. C. xal xu ipav ■xal x 6 q>lXov$ yiyvedSai
xolS ipadxaiS. AMATORIS esse to ipav patet e verbis p. 180. A, Al6x
v A oS 61 (pXvapei qxxdxaoY faiX- A ia UaxpoxXov ipar , 0 * r\y
xaXXicoy x, x. A. oj$xe artodeiZai avxovt dXXoxpiavS, Ut
ostenderet, illos n fflio alienos esse et no- mine tantum cogn atos
, h. e, ut efficeret, ut flHftiderentur tan- tum esse cogtlJPPfacta
comparatione eius umorft, quem ipsa illi probavisset , et cognatorum ,
qui noluissent pro eo mori, t» t ai 1 b. Iuvat laudare Scolion
incerti auctoris, quod in lacobsii Anthol. Gr. T. I. p. 90.
reperitar et quo iuvenis admonetur, ut non nisi forti amatori sese
tradat: \A8pijtov XoyoYj cJ ’xaipe, paScuv [tovS]aya$ovS
<p(X.ei, [teUv] 8ei- iA 6’ dxexov yvovS oxi 8eiXoiS oXlytf x a P
lSt xovxo yepaS. Articulum addiderunt Fischerus,
Wolfius, Astins. Frustra, Tovxo sublectum est, yepaS praedicatum,
cfr. Apol. Socrat. p. 18. A. 5x- xadxov plv, yap avxrj aperi},
ptjtopoS 81 xaX.ij$ii Xeyeiv. Piat, de Legg. p, 683. B. vvv 81 8rj
xttdptij xiS rjfUY avtij itoXif, ei 81 fiovXetiZe, &voS ?/xei
xa- xoixiZdperoy. Ib, VIII. p. 829. D. rovro aTio8i8dvxQov avtois
yepaS. de rep. I. p. 331* U» ovx dpa ovtoS o poS Idxl dixaiodvvris
x. x. A, (3 ST s 7toXXcjy itoXXcc x, r.A. Rursum habes
oratoriae di- ctionis exemplum, quod^ prosae orationis leges h. e.
ad logicen examinatum summopere displiceat. Scriptum enim
exspectaveris: Atque hoc faci- nus cum patrasset, adeo pulcrum
visum est non solum hominibus. sed etiam diis, ut, quod alias npu
uisi paucissimis, qui praeclaras res gessissent, tribuerent honoris loco,
idem admiratione' com- moti facinoris huic concederent, # Sed si sententiae
Otol , ii "AlSov TCahv uvtlvai ttjv 4>v%t]v , aXX.a zqv Ixti- 0
vr/s aveiUav dyaO&ivze g Ttp ovra xal &eoi xr/v xcsgl x ov
"Egena Gnovbijv re xal agexrjv (laXiGxu ufiaOiv. exprimendae ratio,
quae Phaedro placuit, cum lodicis regulis minas convenit, habet contra,
e rhetorica arte rem si iudicas, quo se vehementer commendet
audi- toribus, Cave igitur, hoc loco quicquam mutandum censeas.
Pro alpyadpEvtoY, quae vulgata lectio est, codd. melioris notae
ipya - Capkvtov habent, quod a Bek- kero, Stallbaumio, aliis receptum
est. Recte, Aoristicum enim tempus perfecto tempore multo aptius
hoc loco. dWa xrjv ixeivrjS avet- 6av, Vulgo post aAAa
legeba- tur xal, quam voculam ex XXII, codd. auctoritate
recentiores edi- tores omiserunt. Addidit autem eandem aliquis
olim, ut loco mederetur, quem uos quoque corruptissimum censemus. Quid
enim? Censent dixisse Phaedrum: X)eos paucas quasdam animas ex Orco
remisisse honoris loco, sed Alcestidem remisisse cum admi- rati o
affari n oris ? Quid diiferuut inter onoris loco et eam admiratione
facinoris, re- misisse et remisisse? Neque satisfacit Stallb, ad h.
1, annotans: Ipondus huic sententia a addunt verba ay a6$
£vxeS xp Epyto , ut tota verborum comprehensio possit explicari
sic: Hoc facinus eius diis adeo ' . probatum est, ut cum non
nisi paucis quibusdam cx inferis redire concesse- rint, huic non
solam tri- buerint hoc beneficiam, sed cum admiratione tan-
tae animi magnitudinis concesserint. E duplice vi- tio locus
laborat, ‘sed facillima mutatione utramque emendatur. Alterum
vitium in avewai latet, pro quo dvikvat scribendam est. Sensas est:
Paucas animas passi sunt dii ex Orco redire, sed Alcestidem ex Orco
remise- runt, Alteram iu dya6$ivreS participio reperitur, quod,
verissime annotante Ruhnkenio ad Tim. L. V. Pl. p, 9, si nostrum locum
excipias, nusquam apud Platonem cum dativo coniunctum reperitur. Scriptum
antiquitus erat aveitiavavayxatiSivTeS, Syllaba nltima aveitiav
verbi cum sequens av absorbuisset, editum esse vi- detur : aveldav
ayxaCS&vxeS, ex quo enatum est aveidav aya - CSlvxeS.
Haud absimili ratione Phaedon, p. 78, A. cum'scripsis- set Plato
5xt av svxatpdxEpov dvaXldxoixe, scribarum incuria exhibitum est
dveyxaipoxepov et dvayxaipdxepov. Serior manus ut uostro loco x, in
hac forma p expunxit , habentqne Bas. 2. Bodl, Tub: Venet.
avay- xaiQxepov, Ad nostrum locum ut revertar, sensas est verborum
: Wenigen, die viel Scho- nes vollbracht hatteu, ge-
statteten dieGotter, um sic za ehren, das, dass sie wieder insLeben
% zuriick- k e h r e n konn t e n , a b e r diese sendjjfepn
sie, ge- zwangen d^Rn ihre herr- liche That, an das Licht
zuriick. * Avayxa65kvx& con- firmari videtur schol. verbis!
'HpaxXiovS lni8r}pr]6avxoS Er ?1 OQ<pla di tbv Olayoov
ArtXrj aitintpiiav Zrfitiou, <p<x(S[icc dellzccvteg zrjg yirvaixog,
l(p ijv ipav> ccvzijv 61 ov dovztg, o ti iKtXftaKi&dftcn tdoxei ,
ars av xi^agadbg, rg GertaXla SiaGcS&rat fiia- 6 ap iv
ov xovS jfioviovS $e- ovs ned depeXofievov xi)v yv~ vaina. Nimirum
Phaedrus hunc mythum pro consilii sui ratione interpretatus est
ita, nt Alcesti- dis virtutem cum Herculea virtute compararet, alteramque
al- teri substitueret* ov t o nal Seol. Convertit
Schleierm, : So wollen auch die Uotter den Eifer und die Tiich-
tigkeit in der Liebe vorziiglich ehren. lloc foret ovt cd nal ol
$£oi, sed nusquam articulus re- peritur. Sensus est potius: Sic
etiam ipsi dii summo honore virile studium amantium dignum
censent. 1 Optpia 81 xor Oldy pov. Stallb. annotat ad h. 1.:
Etiam iu hac narratione de Orpheo quaedam insunt a vulgari
fabula discrepautia , quae Phaedrus aut ipse pro consilii sui
ratione im- mutavit aut repetiit ab iis , qui rem ita memoriae
tradideraut, ut facile omnia possent accoih- modari praesenti
disputationi. — ndXitir a T ifioS 6 iv , nam^ ut cum Terentio
loquar, quod habuerunt summum, pretium persolveruut illi. (p u6 fi
a 6 el&avT£$ xijS yvv aixoS. Ovid. Metomorph. X. 50.
Hanc simul et legem Rhodopeius accipit heros Ne flectat retro
sua lumina, donec Avernas Exierit valles, aut irrita doua fu-
tura Carpitur ucclirus per muta silen- tia trames,
Ardnus, obscurus, caligine densos opaca Nec procul abfuerunt telluris
margine summae. Hic, ne deficeret, metaens, avi- dusque
videndi Flexit amans oculos: et protinus illa relapsa est
Bracliiaque intendens, prendique et prendele captans Nil nisi
cedentes infelix arripit auras. i q> tjv f/nev. Abest a
co- dicibus longe plurimis , c^uod vulgo legitur hxoov post dtp
i/v positum. Qui factum sit, ut iu textum irrepserit hoc
verbum, aliis indagandum relinquo. dxe dSv hi$ apa>8 6 S.
Ci- thara non paucarum chordarum instrumentum nativa hormonia-
ram varietate aures audientium permulcere quidem putabatur, sed
animorum robur paullatim infringere atque quasi colli quefacere. Igitur
quod de arte tibicinum dicitur iu Piat, Gorg. p. 501. E, xijv
ijSovtfV — porov Sidtneiv, aAAo o Jdb' q>povxi2,eiv , idem
io citharam cadit. Qua cum usus esset in Orco Orpheus,
Nasone teste Metamorph. 10, 41, Exsangues flebant animae, nec
Tantalns undam Captavit refugam, stupuitque Ixio- nis orbis ,
IJec carpsere iecur volucres, urnisquo vacarunt Belides, ioque tuo
sedisti, Sisyphe, saxo. 1 xcd ov roAfuev Evtxu xov "Egenos
djto9vrjOxuv , ogafp Alxt]<SXig, ulla 6iu[iTi%av&6&(H £<»v
tlgiivcu elg "Aidov. xotyagtoi 8uc xuvra dtxqv avrtS tntftsclav, xul
InoiTjaav xov ftavurov avxov vxb yvvaix wv ytvt(S&cu , ov%
d>gmg Tum primam lacrymi* victarum carmine fama est
fcumenidum maduisse genas , nec regia coniux Sustinet oranti , nec
qui regit ima, negare. Igitur non mirum, paXSaxlge- 6$at visum
esse eum , qui citharae adhibitis sonis alios delenire maluit, quam ipse
fortis animi specimen edere atque Zvtxa x ov "EparcoS mortem
oppetere. Ceteram maiuscula littera Erotis nomen scribendam
curavimus, nam ut supra p. 179* A. ovziret ovx av avroS 6
"EpcoS ZvSeov XOtTjtiete x. t. X. abstractum pro concreto positum
est, ita non intelligitur, cur non idem in nostrum etiam locum
cadat. xiSikvai eis n Ai8 ov. Quoniam qui in Orcum se
conferunt, e superiore loco in inferiorem descendunt, pro eisitvai
positum exspectaveris eundi verbum cum xata praepositione
coniunctum. Sed miuus h, 1. 1 regionis ratio habetur, quam versus
proficiscun- tur, qui Orcum appetant, quam xei, quaeuxn veteres
Orcum com- parare solebant. Petita nimirum a sepulcris imagine,
quae aedes sunt mortuorum, Zv " 'Aidov sc. Sopois et eis r
Aidov sc. dopovS dixerunt. Aedium autem notioni tiSikvai et
ZS,ikvai verba ap- prime conveniunt. Igitur nostro loco nulla
ratioue habita regionis subterraneae tisikvoa dicitur fis Aidov sc.
dopovS. Simili ratione paullo supra legitur areXrj ait Zite
pip av Aidov sc. 66- pcov ; contra p. 179. C. Z& a Atdov
dviivai reperitur et dvei- tiav sc, ZB, n Aidov. Adde Piat, de rep.
I. p. 527. xaxkfiijr aiS Ileipaid , et paullo in- fra
7tpoSEv%dpevot — anypey itpoS zq a6rv. xoiyapxot dia
xavxa. Haec verba ita posita sunt, ut sive xotyapxoi sive dia
ravra omiseris, sententiae ratio prorsus non mutetur. Cave tamen
pror- sus otiosum alterutrum verbum existimes. Nimirum Graeci
ac- curatiori alicuius rei indicio prae- mittere amant verbum
latioris significationis, tum orationem ut expleant grata quadam
ubertate verborum, tum, ut adsit, cui fa- cilius sequentia
annectantur. Verba convertenda sunt: Dahcr legten sie ihm
denn also wegen dieser Schwache eine Strafe auf. Idem dicendi genas
paullo infra repe- ritur p. 184. A. ovrcj df/ vito xavtijS xrjS
xtixiaS , . xai Zitoirjdav xov $d- vaxov. Nota vim xov
articuli, de qua supra dictum est ad p. 12. ovxgj Srj iovxeS dpa
xovS Xo- yovS itepl avxdjv ZitoiovptSa. Noluit dicere Phaedrus ,
deos morte poetam puniisse, sed tan- tummodo effecisse, ut eo
tempore, quo tempore Orpheo moriendum esset , poeta a mulieribus
inter- ficeretur. Rectissime Schleierm.: Deshalb haben sie ihm
Strafe aufgelegt, nnd veranstaltet, dass sein Tod durch Wtiber
cr- £itif e a£y ^CTu *A%i Xlka rov tijg Qitidog viov
ItlprjfSav xal elg fiaxagav E i rijtiovg aitETtEprpccv , ort
jtETivtipEvog itaga tijg {irjtgog , cog ttttofta.voZto aTtoxTELvag
"Extoga , (irj %ou]6ag di xovxo o”xccd’ iX&cov yiiQcuog
xeXsvrrjGot,, ItoXprjdEv Elt<5&ai folgte. Addo Symp. p. 195.
E. iv ydp 7 }$e6iy xtjy oixrjdiv ZSpvxau ovx
<vfit£p *Ax^XXia i xi p 7/ 6 a y . Hauc brevilo- quentiam, quam
vernaculo ser- mone assequimur , Schleiermach. aspernatus est in
couversione : 9 Deshalb anch habeo, sie ihra Strate aofgelegt
— nicht ihu, wie den Achilleus, deo Sohn der The- tis, geehrt und
in der Seligen Inselu gescbickt. Recte Stallb. orationem hoo modo
explendam esse censuit : aAA* ovx ixtprjdccY avtoY £>S7tEp
^zAA^or , dv xal ei f paxapcov vijdovS dnirrepipav, ori x. r. A.
Legitur paullo in- fra p, 189. C. ipol 8 oxov6iy avSpooitoi —
SvtiLaS dv rtoiEiv pEyidxaS , ovx coSnep yvy rov - tqjy ovSey
yiyvsxai itepl avxov. Exempla plura huius structurae Stallb.
collegit ad h. 1., Heind, ad Gorg. p. 592. A. et ad Frotag. p. 841.
A. eis paxdpGov vydovf* De insulis beatorum vide
Hesiod. "Epy. xal 7/. v. 170. xai xo\ piv valovOiv
axrjSia Svpov UxOYTtS iv paxapoov vi]6o%6i rtap 'Elxia-
YOY fta^vSivTfY oA fi tot rjpoJEf, zoloi peXi tjdiat
XCLpTtOY rpiS SxeoS SdXkovxa (pipet SiDpoS
apovpa Multi fuerunt, qui in insulis bea- torum Achillem
versari narrarent. Aliter Hom. Od. XI, 487., obi Ulysi felicitatem
Pelidae praedicanti respondet Achilles: pr} 6rj poi Solyccxov ysrtapavSa,
<pai8ip 'O6v0dev, fioyXotprjv x indpovpos Igov STfXEVEpEY aXXcp
ecvdpl rtap* dxXrjpcp, co pr} filo* xoZ izohvS eItj i} itadiv
yexve66i xaxacpSipi- voi6i olv&6<$eiy % Ad hos versus aetate
Phaedri haud dubie notissimos ille nunc non respexit, sed aliorum
testi- monia praetulit, quae rem suam melius probarent.
rtsitvdpivoS 7tapd x rjS prjXpoS. Haec cum Homero conveniunt,
vel ex eodem potius depromta sunt^ cfr. II. XVIIl.v.94. ojxvpopoS
8rj jxaiy xixoS, iddeai. oj^dyopEveis* ocvxtxa ydp xoi Actito.
peS* n 'Europa 7tdxpoS hxolpoS. p?} rtoirjdax 8b xovxo.
Haec est lectio vulgata, quam ex VIII. codicum auctoritate in pif
artoursivaS Sb xovxoy im- mutarunt Bekkerus, Astius, Stall-
baumius. Hoc certum est, veri- similius esse, ad explicandum p?)
noir/daS dk xovxo margini ad- scriptum, post in textum rece- ptum
esse pr} drcoxXElvaS 8b Xpvxov f quam vice versa ad hoc explicandam
glossema fuisse pr} itoirjdaS dfe xovxo. Fidenter igi- tur vulgatam
lectionem in textum recepimus. fiprjSr)<$a$ fw
ipadxy Jlax po x\<jp xal Xtpaprj - 180 (SoqQqiSas
no tQaOTij TlarQoxkw xal rifiUQTjaces ou! fto- vov vxEQUxo&aveCv ,
ulXa [xal] inaxoftavuv titeAevtij- jtor i. o9ev St] ) ud
vxtQayttO&Evug oi frsol St-atpiQotncog 6 aS, Wolfias ad h. 1.
annota- vit: Es kann fioySydaS nicht vou einer wirklichen
Hulfe in der Schlacht verstandeu werden : deim da Patroclus umkam ,
war seiu Freund noch nicht wieder ira 8chlachtfelde , uud er erfuhr
die Nachricht davon erst durch den Antilochus. Recte. Kai
igitur ante xipOJpljdaS explicativum est, cuius exemplum paullo
supra reperitur p. 179. D. xoiydpxoi Sia xavra 8ixyv~ avxcp ineSe-
vav na\ ixoiydctv n. X. A. Adde p, 179. E. ovx doSxep *Axi AA«x tov
xyS GixtdoS vldv ixipydav na i eis pandpcov vrjdovS aniittpipav. Nostra
verba conver- tenda sunt: indem er dem Patroclus beistand, d.
h. ihn rachte. Argutius quam verius de his verbis Riickcrtus
iudicavit exsulto Phaedrum (ioy- $EtV verbo usum esse censens. Quum
enim, inquit, non tulisset opem Achilles , quamvis prope abesset a
certaminis loco , ne quid probri iude videretur in ' eum, quem
laudaret, redundare, abducendi erant ab hac cogita- tioue quantum
heri posset audi- tores , id quod hoc ipso verbo factum esse
puto. dXXd na\ iitcritoSccvetY» Vitii aliquid haec verba
contra- xerunt nat addito, quod nullo modo explicari potest.
Titepa- noSaveiv adhibetur, ubi aliquis pro aliquo eoque
vivente moritor, ut Alceste mortua esse dicitur pro Admeto p. 179.
C. &$e\y6a6a povy vitep tov avxyS dvdp6*i dnoSav ilv .
'ETtaico^aveiv est : mori pro ali- quo, qui iam mortuu*, est. Fici-
nus verba convertit: nec pro illo mori solum, sed et peremto illo
interfici. — Igitur utrnmquc fecit , et mor- tuus est pro Patroclo
super- stito Achilles, et mortuo illo morti se dedicavit.
Phaedrum aliud quid dicere voluisse certis- simum est. Expungendum
est nat, quod uncis includendum curavimus nimiae audaciae
crimen fugientes. Est autem ov povov • — aXXd eius , qui alterum
mem- brum orationis, quod per ov juo- vov commemoratur, negat,
al- terum probat se ipsum corrigendo. Sensus est: non dicam vitepa
- itoSavetv, sed potius Inarto - Savelv. Vide p. 11. de ov
pev- roi — aXXd et ov pivxot — aXXa nat .cfr. Alcib. II. p.
142. A. 61 61 apidxa 6onovv - xeS avxoov rtpdxxeiv , 6ia 7roA- Xqjv
mvdvvoov iXSuvxeS ncA yjoficjy , ov pov ov iy xavry xy Cxpuxyyict ,
a A A* , iitei eis xyv tavzajv naryXS ov , varo xgjv (SvnocpavxGbv
rtoXiopnovpe- vot itoXiopniav ovSiv iXaxx a> xyS vrto xdov
rtoXepiaav 6ie.xe- Xetiav, vSre n. x. A. o2e v 6?} na l — iitoielto.
Haec verba si abessent , nemo opinor desideraret. Nihil enim
coutineut aliud, quam praecedeu- tium verborum meram repetitio-
nem. Sed de industria haec re- petiit orator, ut quanti a diis
aestimetur virtus amatoris , durius eluceret» Eadem de caussa, atque ut
exemplo demonstretur, avtov Irliitjcsccv , oti xov lQaOtr\v ovtbj xbqI
itoXXov ixoiuto. AlCyvXog d's cplvuQU cpcctSxav ’A%Mtcc JJoxqo-
xAou iquv, fig r\v xaXtiuv ov (iuvov IlatQoy.Xov , aXkce amasiorum quam amatorum
vir- tutem maioris aestimari, paullo infra dicitur p. 180. B. :
dia. xctvxct xcti tov *AxiMict xrjS 'jJbtrjtiTiSoS paWov
ixLptjOav, eis paxccpav vrjtiovS dnonep- iltavxeS ,
ovtco itepl rtoXAov. Du- pliciter ovzcj vocula in huius- modi
euuntiatis adhiberi solet, atque aut praefigi praepositioni aut
eidem postponi. Nou perinde est, utram sedem occupet. Praepositioni ubi
praemittitur, aut ad praecedens dictum respici significat, quod eandem
rem, quae nunc commemoretur, enarratam contineat, aut hominum
opinio- nem tangit memoriamve audito- rum, qui bene/ teneant id,
da quo nunc agatur. Sic nostro loco ovxcd nepl noXXov
explicandum est: quod amatorem, ut supra dictum est, tanti
fecisset. Adde Piat, de rep. III. p. 391. D. fiy toivw , 7 / v 6*
£ya), p^re rade neiSaopeSa , pyx' idjpev Xiyeir, qjS QrjtievS
Uo6ei6wYoS vlds IletplSovS te JioS (Sppij- Gav ovzcoS ini deivcis
apita- yaS x. r. A., quo loco ovxaoS manifesto significat: ut
homi- num opiuio est, ut vulgo putant. Minus recte igitur
Stallbaumius ad h. 1. annotasse videtur: ovzcoS ini 6eivds ap-
itayaS h. e. i<p ovxco detrds apnayds. Non aliter explican- dus
est tovus Xeuoph. Cyrop. II. 2. 13» fin. opcoS ovzcoS iv TtoWii
dzipia ijpdS ixeiS, ubi ovzgoS convertendum est: ita, ut nunc facis,
ut facientem te videmus, cet. Contra praepositioni postposita
ovzcoS vocula proximum verbum ita extollit , ut additamento opus
sit, qno illud accuratius definiatur.AitixvXoS cpXvapei . Phaedri
oratio ad eum finem ten- dit, ut Achillis allato exemplo probetur,
deos amasii amore ma- gis delectari, quam amatoris fide. Factum
autem tragicorum fabulis erat , ut homines illo tempore Achillem
amatorem non amasioui Patrocli putarent. Priusquam igitur eo, quo
tendebat, Fhacdri oratio pervenire pot- erat, illa hominum opinio
corrigenda erat et emendanda. Hino verba Aidx^XoS. 6e —
"OprjpoS necessaria ad rem censenda sunt, /ruslraque fuerunt ,
qui ea ex- pungenda censuerunt,Valckenarius ad Euripidis Rell. p.
13., Wol- fius, Beckius, alii. xal iri ayivetoS. Pulcherrimum
omnium Achillem fuisse discas ex Iliad. p , 673. NipevSy ds
xaXXiGzoS avijp vno "IXiov tjASe Z(2v aXXcov docvaoov, per
dpv- pova IhjXelcova, Patroclo iuniorem verba indicaut Iliad.
A, 787. x ixvov ipoy , yevey p\v vn ap- te poS idziv
'AxiXXavS, TtpeGfivtepoS 61 6v l66i, ' Adde Od. A, 469.
AXotvxoS oS dpidzoS itjv eidos re Sipas re rcov dXXcov
davadiv, pex apv- povcz IbjXeloova . Imberbem adhuc fuisse "nusquam
apud Homerum indicatam repe- M xal t(ov fjQcbav ccjtavxuv, xal ta uytvuos ,
Ixtita vtta- TEQOS Itolv, <3g CptfiLV "OjllJQOS. ctkKu yaq xcj
ovxi (iu- kiOta (itv ravxijv xi)v doeri/v ot 9col UficSoi zijv xeqI
B xbv "Eqara , fid/J.ov fttvxot ftuviux^ovat xal ayavxat xal ries.
Hinc factnra est, opinor, ut Riickertus lectionem vulgatam
revocaret atque in textum reci- peret d\ X dpa xai. Colligebatur enim,
inquit, magis ex Homero, omnium pulcherrimum Achillem fuisse (atque
adhuc imberbem) quam ut disertis verbis ab eo dictum esset . Sed facile
dpa voce caremus, quam optimae notae libri non agnoscant. Efficitur enim
verbis (*>S <pr\6iv "OfirjpoS, quae cum prae- cedentibus
htEixa vearcepoS itoXv arctius coniungenda sunt, ut Phaedrus non
nisi de aetate Achillis poetae testimonio usus esse videatur,
pulcrum autem im- berbemqne eum vocet ©x artili- cum statuis
indicium capiens. Hae statuae imberbem, ut constat, Achillem
repraesentabant, barba- tos heroes ceteros, v. c. Hectorem, Agamemnouem,
Ulixem, alios. Ceteram ne otiosa verba censeas xal Ixt dyivEiof;
ama- sius non nisi imberbis pulcher habebatur. Verba
convertenda sunt: Aeschylus aber faseft, wenn er sagt, dass
Achilles der Liebhaber des Patroclus sei. Er war nicht blos schoner,
ais Patroclus, sondern auch schoner, ais alie Helden, und
noch bartlos, dann um vieles jiinger, wie Ho- mer es ausdrucklich
bezeugt. % aWa yap rcu ovxi. Re- ctissime Stallb. monet,
verbis de- letis Aldxvtos , di — "Owpof, non aXXa yap ,
sed xal yap ponendum fuisse. Indicatur autem aAAtr yap particulis,
Aeschylum ne ita quidem Homericam narrationem pervertisse , ot
Achillis laudem augeret facinusque eius clarius redderet. Nam deos
lau- dare quidem et admirari virtutem AMATORUM, magis tamen admirari et
laudare amasios, qui pro AMATORIBUS mortem voluntariam
oppetierint. 1 r i)v Ttepi t(jv w EpGoxa. Haud raro accuratiores
definitio*- ues verborum a verbis, quae de- finiunt, seiunguntur
plurimis in- terpositis verbis augendae gra- vitatis caussa. Vide
quae ad p. 66. annotata suut. Conver- tenda verba sunt : Dic
Gotter eliren diese Mannhaftigkeit ganz ausserordentlich , ich
meine die, welche der Liebhaber zu haben pflegt ; cf. Piat. Hipp.
M. p. 294. A. 7/pEiS yap nov ixuro igrjxovjxev , go n dvxa xa
xaXa. Ttpdypaxa xa\a t itixiv , ooSTtep c5 jectvxa ta peyaXa itixl
px- yaka> xqo v7C£pix oyr u $av paZovd i x al dy ar-
tat xal ev itoiov 6iv sc. xav- r rfv xrjv dpex-qr tijv 7tepl xor
"Epwxa. Ceterum ayadSai ita a SavpaZEiv verbo differt, ut admi-
rationem cum laude coniunctam exprimat. Bene Schleierraacherus in
conversione verba t reddidit • weit mehr jedocb bewundern und loben
und vcrgelten sit es dyarttji . Quoniam in sup«~ zr Ninos
ion. 77 IV xoiovdiv, orav 6 inwatvog tov iQa<St)]v uyanu
i} OZCiV 6 BQCtOTTjS TU XCUdtXtt. &SIUXBQOV yccQ (QUOTTIS
Ttca- dixmv ‘ iv&eog yaQ ion. dia xavta xal tov 'AydXia tijs
'AXxrjOndos palXov itifir^av, ds (luxaQav Mjtfovg an o- rioribus
de significata verborum diximus ipav et <pi\tiv , iam videamus
etiam de notione aya - rtav verbi. Mediae est autem, quod vocant,
significationis ver- bum, maiorem quam (piXEiv, mi- norem , quam
ipav potestatem habens. Hinc raro adhibetur, ubi de vero amore
sermo est. Legitor autem apud Xenoph. Mem. I, 5. 4. x a S”
TtopvaS dyanoovxa pdXXov t) xovS kxaipovS. Piat. Dion. 4. p.
175. itpiXt/daXE CtVXOY <*)$ TCCttEpOC xal i/ y a 7Cij doct e
gjS ev e p - yijxrjv. Symp. p. 181. C, ro <pv6ei
ipficopEYEdXEpoY xal vovv paXXov %x ov dyan&vTE?* Videtur ayaitav
verbum circum- scriptum esse iu Simonidis dicto, quod legitur Piat.
Protag. p. 345* D. mxvT aS 81 Inalvrjti i xal tpi\hx> irtwv
oSTtS f.pSy /vjSlv al^xpov. Nostro loco Phaedrus hoc verbo usus est
, quia neque <pi\eiv neque ipav ad ntruraque enuntiati membrum
h. e. ad AMATOREM et ad amasium referri poterat. $ siot e pov ydp
ipa- 6tyj S itai8txd>v. De neutro genere StiotEpov verbi vide
quae annotota sunt ad p. 176. D. ott XaXEito v xoiS dvSpcoiroiS
7/ idxlv. Sententiam quod attinet, cfr. p. 179. A. ov8e\S
ovxod xaxoS , ovxiva ovx dv avtoS d "EpoaS ivSeov itoirj6Ete
xpoS dpETtjv , dpoiov slvai tc5 dpidxcp <pv6ei , quae
verba in amatores tantummodo , non item in amasios dicuntur.
Ce- terum otium nobis fecit Riickerti unnotatio ad h. 1. ,
ed. p. 46. : Phaedrus sic est ratiocinatus : qui amat , non suo ,
sed divino impulsu agit , est enim ZySeoS; contra qui amatur, eo
caret, Iam qui alieno et quidem divino im- pulsu agit , ei facilius
est , magna perpetrare , praesertim amanti , qui non potest non
subvenire amdto , quam ei , qui huiusmodi incitamento caret . Atqui
quo difficilius cuique est praeclare agere , eo maior virtus est ,
si fe- cerit i igitur qui non amat , maiore dignus est admiratione ,
quam qui artiat * Sola enim caritate facit id, quod amatorem
ut fa- ciat , vis divina impellit , — tov 'AxtXXea xrjs
'AXxi]- 6xi8o$. Interdum ipsas femi- nas Erotis auxilio gaudere,
cap. VII. initio Phaedrus docuit. Recto igitur scripsisse nobis
videmur p. 179. C. ovS ixElvtf xo6ovxov vnepEffdXexo xy ipiXint 8id
xov w Epoora, c oSXE x. X. A. Alcestis enim et ipsa UvSeoS.
Minoris autem a diis Alcestis habebatur, quam Achilles , nam illa
Erote ad mortem ducente mortua est, hic pietate erga Patroclum
motus, mortem oppetiit. ovxoo Srf HyatyE. Aliquot codd»
habent ovxui 81 ) xal fyooye Mple. Iu sequentibus ter posi- tum est
xal, ut epitheta Erotis, quae dei laudem efficiunt, signi-
ficantius extollantur. Comparari potest cum nostris verbis p. 180.
B. paXXuv pivxoi $avpd%ovd7 jr
i[i4'avTeg. o vtco drj iycyys cprjfu *EQ(oza %mv xccl ttqe- C^vtcctov xal
r ipidt azov xal xvQudtarov uvai slg aQETrjg xa l Bvdatjioviag xr rjow
av&QaTtotg xal £c5oi xal zeAev- %r}<Sa(Siv. xal
ayavxcn xal ev iroiovdiv . Sensas est: Hac igitnr, qua dixi»
ratione equidem contendo, Erotem et antiquissimum deorum esse ct
honoratissimum et ad vir- tutis felicitatisque assequendam frugem
et viventibus et mortuis auctorem potentissimum. Sed ipsa haec
verba mirum est, quam male cum praecedentibus conve- niant. Etenim
Phaedrus cum dixisset : maioris aestimandam esse virtutem
eorum, qui nullo Erotis auxilio adiuti fortes se praebuerint, quam
quorum virtus non nisi divino quodam instinctu quasi excanduerit,
num recte ita perrexit: ovxco 87) iycoyi (prjpi n Epcoxa $£gov xal
npedfvxazov — xal xvp iGoratov elvai eis a pexi} 5 xxrjdiv x, x.
A. roiovroV xiva Xoyov. Vide ann. ad p. 15. Sequentia
verba aXXovS xivaS tlvat convertenda sunt: nach Phaedrus wiiren
einige andere an der R e i h e gewesen. Pactum nimi- rum erat, ut eodem
ordine, quo sederent, convivae placita sua proferrent, cfr. p. 177.
D. 80- xel poi xPV vat exadxov \6yov etostr inauror "EpcoxoS
ini 8e- Btiu — apxeir 8\ <Pai8por npco- T or. Sed non verisimile
est, in- ter Phaedrum Pausaniamque lo- cum habuisse omnes eos,
quorum orationes ab Aristodemo praeter- missae sunt, vel quas
Apollodo- rus, quippe memoria non dignas, oblitus erat. (cfr. p.
178. A. nav Tcav pkr ovr , a ZxacdxoS elnev, ovxe navv 6 *Apidxo8ij-
fioS iyiyvT^co, ovx 9 av lyco t o IxeivoS iXeye, Ttavxa).
Igitur Riickertus in uberiore expositione convivii p. §61. quaesivi
, inquit, doctus videlicet nihil negligere zn Eia tonis libris , in
quibus haud raro res gravissimae ad perspiciendum scriptionis
consi- lium ex istiusmodi minutis vestigiis eruendae sunt, cur hoc
loco omissionem Aristodemus indicas- set , ceteris reticuisset . Et
olim quidem mihi risus sum reperisse , aliter tum etiam statuens
de ipsis orationibus , in quibus tem- poris quendam ordinem
observari putabam , quo singulae, quarum placita proferret, sectae
sese excepissent philosophorum . Post, mutata sententia rursus eo
de- ductus sum , ut nescirem . Com- mode possis hac ratione
hanc rem tibi explicare, ut Aristode- mus quidem, qui Symposio
inter- fuit, accurate locos indicaverit, quibus locis et aliorum et
suam ipsius orationem omiserit, ut Apollodorus autem satis
habuerit memoriae mandare, quid convivae dixissent, nou item mente
te- nuerit, quo loco quorum oratio- nes ab Aristodemo non repete-
rentur. Ut tamen aliqno modo commemorandarum orationum paucitatem
excusaret , Phaedri relata oratione alios quosdam fuisse nniversim
narrat, quorum orationes Aristodemus non retu- lerit. De sua ipsius
memoria tacet, quamquam panllo supra p. 178. A. in minatis rebus
de- biliorem confessas. Cap. VIU. #>«[(5(301' fiiv
toiovtuv riva Ivyov hfn) tlxuv, fi Era c Ss 9 uISqov aXkovg uvas iivca,
uv ov nciw die^vtj^i- tuv ov itavv 8 1 tfivi; fi 6- vevev.
Comparari cum his pot- est Piat. Lacii, p, 189. C. iav 81 fiitaB,v
dXXoi Xoyot yiv cov- xaiyOv ndvv jiiyvTjycn, ad quem locum
Engelhardtus de oi3 itayv vocularum potestate disserens h. e.,
inquit, plane non recordor. Sic ov ndvv saepissime} cfr. Theaet. p.
156. C. , Phaedr. p. 228. E,, ul,, nec non in respon- sis, v. c.
Xeooph. Mem. S. III' i , 12. Eodem modo latinum non sane saepe idem
siguificat, quod ov ndvv i. e. plane noni de quo vide
Heindorfium ad Horat. sat. II. 3. 138., p. S04* Ov ndvv xi autem
non satis, non sane multum explican- dum esse videtur, cfr. Locian»
Contempl» I, p. 506. elni pot, Ct8?/poS tpvExai £v Avdiot ; ov ndvv
xi i. e. non sane mul- tum. Piat. Eutyphr. init, ovd avxoS ndvv x i
yzyvcodxco, to EvSveppov, r ov av8pa i. e. ne- que ipse hominem
satis novi. Pronomen indefinitum quod attinet, certum equidem esse reor,
xi in huiusmodi enuntiatis non ad ov ndvv pertinere, sed ad verbum
finitura. Quis enim ne- get, ut ad Eutyphronis locum modo laudatum
revertar, Graece dici yiyvdrfxEiS xi x ov avdpa , ut rectius
Platonis verba convertenda sint: ne ipse quidem ma- gnopere usquam
hominem novi. Luciani verba ov ndvv x t converterim : non sane
usquam sc* reperitur. Rectissime autem Stallbaumius io annotat, ad
verba ApoL Soc^ p. 41. D. p. 95. ed.: 8id rovxo xal £ph
ovSapov dnixptipe x 6 tiijfiEiov, xal Hyaoye xoiS
xaxarl>r}(pi<jajAbvoiS pov xal r oiS xaxtjyopoiS ov ndvv X a
^~ natvcd h. e. haud sane, non magnopere, nicht eben, qua
formula nos qooque cum Elpcoviict loquentes gravius ne- gare solemus.
Haec, quam Stallbaumius laudat, ov ndvv vocularum uotio apprime ad
no- strum locum quadrat. Apollodo- rus nimirum alios quosdam
fuisse narrat, qui Erotis laudationem edidissent, factum autem esse
il- larum laudatiounm mediocritate, ut earum non magnopere
recordaretur, Earum autem pror- sus oblitum ne fingere qui- dem
tibi Aristodemum possis, qui Phaedri, Pausaniae, aliorum orationes
memoriter recitarit. Restat , ut dicamus de Lachetis loco supra
laudato, qui sane do- cere videtur, ov ndvv significare prorsus
non. Verba sunt haec : iycj ptv yap xal iniXav- Sdvopai 7/6 tj xd
noXXa 8ia xrjv rjXvtlar (Zv dv 8ictvo7j^d> £p£- 6$aij xal av d
dv axov6a). iav 81 ptxat,v aXXoi Xoyot yi - * vgoyxoci , ov ndvv
pipvrjpau Nonne frigidissimam conversio- nem censes hanc: Ich
pflege namlich Alters halber immer das meiste zn vergessen,
was ich im Sinne habe, sie zu fragen , and so auch , was ich hore
(h. e., was sie antworten)* Falleq aber noch qndere Erdrterungen
da- zwischen, so erinnere ich mich vevev * ovg TtccQELQ tov Jlavdavlov
Ao yov dirjyeixo. slitelv d’ av toVy ot l Ov fcaktog f 101
6oxtl y o5 <&ai$QE, XQOpEpXijO&cu 7jgiZv 6 nicht eben leicht
des Vorigen? Multo nptins lectores censebunt Lysimachi verba converti:
Fallen aber noch andere Erdr- terungen dazwischen , so ist es mit
mei nem Gedachtniss g a n z- lich aus. Sed neque Haec con- versio
recta est, neque omni ex parte Platonis verba recte exhi- bentur.
Maior interpunctio post axovdco poni solet, pro qua si comma posueris,
optime sibi re- spondentia verba habebis irti- Xav^dvopai ra itoWa
et ov itavv fiipytffiat . Lysimachi sententia haec est: Denn
ich vcr- gesse Alters halber das Meiste von dem, was ich im Sinne
habe sie zu fragen, und erinnere mich wicderom nicht an das, was
ich hore, d. h. was sie auf meine Fragen antworten, besonders
wenn anderweitige Gesprache dazwi- schen fallen» tov
JJavdaviov Xoyov. Phaedrum , qui iracrj/p tov A o- ; yov vocatur p,
177. D. , Pausanias vituperat, quod nihil accuratiore definitione usus
Erotem laudandum proposuerit. Etenim ut duplicem Aphroditen, ita
Erotem duplicem esse, ut Phaedrus, si recte atque ordine habendarum
orationum materiam edere voluis- set, anto indicasset, uter Eros
laudandus sit. His praemissis Pausanias in utriusque dei natu- ram
inquirit, ac Pandemum quidem h. e. vulgarem minus laudabilem iudicat, contra
summis laudibus extollendum Uraniam existimat. Idem iudicium
opti- marum civitatium legibus, quae sint de AMORE, probari
censet. Athenienses enim et Lacedaemonios Erotem per se spectatam
ne- que laudandum censere nequo contemnendum, sed accurate
sem- per cognoscere studere, virtuti» an voluptatis studio AMATOR AMASIUM
AMET, AMASIUS AMATORI se tradat, atque eum solum AMOREM admittere et
probare et laudare, qui homines ad virtutem impellet. De Pausania
paucissima sunt, quae scimus. AMATOREM Agathonis fuisse Pausaniam
e Protag. p.S15. E. colligas. Adde Xenoph. Symp. c. VIII. §.
32. Scholiasta, cuius verba laudavi- mus p. 50., Agathonem amasium
fuisse tradit Pausaniae tra- gici. Aelian. Var. Hist. II. cap. 21.
narrat, Pausaniam una cum Agathone apud Archelaum regem vixisse :
tls *Apx £ Aaou icotk ctcpi- xovto o te ipadtrjs xoci 6 ipri-
fiEvoS ovtoi ; de quo diverticulo vide annot. p. 8. Dixit autem
Aelianus 1. 1. eIs *Ap x £ Xaov eodem dicendi compendio, quo eif
*Ai6 Ov dici solet, quae ra- tio dicendi Aristophanis aetate ^
fortasse usitatissima ansam dedit comico diverticulum illud elu- dendi
Ran, v. 83- Ceterum non minus, quam Agathonem, Pausa- niam mollitiei
atque luxuriae de- ditum fuisse, ex eius apud Ar- chelaum tyrannum
diverticulo coniicere possis* r 6 «jrAca? ovtu) yt . r. A. b.
e. definitione addita nulla, tam simpliciter, sine ulla
explicatione accuratiore. Quaeritur, stru- loyos, ro ecxAag ovra
xceQyyyel&ai lyxmfuaguv “Egcora! fl filv yaQ tlg yv 6 "Eq0 g,
xaXug av sl%s. vvv SI — ov yag louv tlg- prj ovzog Se Ivog, 6q&6z£qov
Ioti ctnram verborum quod attinet, utrum nominativo an
accusativo casu posita haec verba rectius accipiantur. Ut verba
vulgo ex- hibento?) nihil certius esse reor, quam nominativum casum
unice probari posse. Efficiunt enim X 6 anXcoZ ovtcoS verba
praece- dentium verborum appositionem: Nicht gut scheiut mir, o
Phaedrus, die Aufgabe gestellt zu sein, namlich so schlechthin
aufzuge- 1 ben, den Eros zu loben. Neque probaverim accusativum
casum, qui Riickerto placet» Caussam enim, inquit, proponit, cor
non recte proposita dicendi materia sit, quatenus cet.
Nimirum hac structurae ratione frigidiorem orationem effici
censemus atque sedatiorem , quam quae Pausaniae, homini inprimis
ipco- xixfi , conveniat. Fortasse hoc modo Pausaniae verba
scribenda snnt, ov xaXc jS poi Soxei , gj $alSp £ ,
7tpofi£ft\f/6$cti ijjiiv 6 XoyoS • ro anXoaS ovtoo napr\y- yiXScci
iyxcopia^eiv " Epcoxa ! qua verborum distinctione quan- topere
vi augeatur totum enun- tiatum, sponte apparet. Habes enim
vituperationem Phaedri coniunctam illam cum indigna- tione summa,
quam per me licet etiam irrisionem interpretari: Wie kann man nur
so schlechthin die Aufgabe stellen, den Eros zu lo- ben ! Atque, si
quid video , haec natis malitiose a Pausania pro- feruntur ita , ut
ad praecedens Phaedri dictum comparentur p. 177, C. io ovv xoiovtov
phr itkpi TtoXXjjv (xxovdrjv noirjtia- 6$ai y"Ep(oxa&k
pT}8ha ita> av - SpQOItCDV TEToXflTjxlvai tfe XCCV- Ttfvl xrjv
rjpkpav aZlooS vjuvtj - Coa! Ceterum iu aliquot codd* non malae
notae ovtgo? exhibetur, quam formam h. 1, unice probamus» Sed fusius de
ovrvt et ovtgdS formis infra disputaturi sumus. vvv 8h — ov
yap l6xiv sis* Haec verba sunt, qui nno tenore pronuntianda
censeant; v» c. Engelhardtus ad Apol» Socr* p. 83* B. p. 221. ita
iudicat, nt nullam prorsus omissionem verborum Graecos sensisse
statuat» Sed neque hoc indicium proba- verim, neque vero iis
accesserim, qui vvv dh — ov yap verba li- neola apposita
disiungunt, vide- licet ut esset, quo legen- tium oculis
«aposiopesis* indicaretur. Aposiopesis enim non nisi in iis locis
reperitur, in quibus aliquis ita commoto animo loquitur, nt pauca
verbis expri- mat, cetera legentibus divinanda relinquat. Non
igitur aposiope- sin agnosces in verbis : Hoc vidi, neque
vero illud, aed omissionem praecedentis verbi fi- niti, quod,
quoniam facillime e praecedentibus suppletur, ne nimia abundantia oratio
laboret, lectoribus supplendum relinqui- tur, Idem in nostrum locum
cadit, ubi, cum praecedat xaXcoS av £?££, facillime post vvv da
suppletur ov xaXcoS $X ei - I an * quid differat aposiopesis ab
omissione verborum, quam 'ellipsin vocari licet, statim ap- paret.
Aposiopesis reticentia P •xaotEQOv xgo^QTj&rjvai vxolov det Ixcavuv .
lya ovv nu- » p«(Jof(«t tovto ixavoQ&uOaO&aL , xqutov fiiv
"Egara eorum est, quae aliquis additurus rebatur potius, uter eorum
laucrat , sed propter ammi comraodandus esset, quam qualis esset tionem
disertis verbis non ex- is, quem laudari oporteret. R ii Im- pressit;
ellipsis contra elegantem kert. verborum omissionem indicat,
inavopSudatiSat. Hu- quae in praecedentibus leguntor, ius yerbi
potestatem Ficiui conet quorum repetitio foedam quau- versio non satis
assequitur: hoc dam abundantiam dictionis eifi- itaque emendare
conabor, ceret. Ad nostrum locum ut re- Ea nimirum ini
praepositionis vertar, lineolam post vvv 8e cum verbis compositae vis
est, verba ponendam curavimus, ut ut aliquid post aliquid fieri e
praecedentibus verbis aliquid significet, cfr. p. 180. A. oti supplendum
esse clarius indicetur. nenvdpivoS napa tijS prjxpoS Simillimus nostro
loco est Lachetis ais’ dn o$ av olxo — ixoXprf- p. 200. E. el fikv ovv iv
xols tfev •— ov jiovov vnepanoSa- SiaXoyoiS xols apxi iyco plv veiv aXXa
inanoS av elv, Itpdvqv elSooS , xooSe 81 p?) quo loco quid differant
ano- elSoxe , Sixatov av rj iph / ia - $av&65ai et inanoSctvtiv
, Xidxa ini xovxo x 6 ipyov na - sponte intelligitur. Adde Protag.
paxaXeiv' vvv 81 — opoicof p. 328. E. vvv 81 nbteidpai * ydp itavxeS iv
ctnopia iyevo- nXr,v dpixpov xi poi ipnoScdv, pe$a, quo loco post vvv Se o
8f/Xov oxt TlponayopaS (ict- supplendum esse ratio loci docet: 8la>S
in ex 8 18 dB,ei , ineiSi} ovx ig>dv7fv eISojS. nal xa noXXa
xavxa it,e8l- 7t poxepov n po ij - 8a%ev. xal yap el piv xiS
vai . Haec. verba ex abundantia nepl avxdov tiityyevotxo oxojovv
quadam posita sunt, quam etiam xdiv Srpirjyopoiv , xa% dv xal Latini
adamarunt dicentes : prius xoiovxovS XoyovS axovdeiev ij praefari. Simili
modo supra IlepixhiovS i) dXXov xivoS xoov p* 177. D. dicitur: apx £ ^v
8h Ixavcov elneiv * el inave- 4?al8pov n pdixov , neque no- poixo xiva
xi, Gjfi tep (iifiXia strates ab Jmiusroodi diccudi ge- ovSev i'xov6iv
ovxe dnoxpiva- nere abhorrent. Quem enim of- 6$ai ovxe avxol ipidSai,
aAA* fendat conversio haec: Phaedrus iav rtS xal dpixpov inepta -
hahe zuerst den Anfang gemacht? Xrj6y x i xtav prjSivxtav, Ssnep Nostra
verba Schl ei erm ac heras xa x a hxela nXrjyevxa paxpov convertit: dasi
zuvor bestiramt rfx £ 1 xdl anoxeivei, iav prj werde. Graecis verbis
magis re- imXdfirfxai xiS , xal ol fiijxopeS spondet: dass zuvor
vorausbe- ovxta dpixpa iptaxrjS ivxes 8o- stimmt werde. Xixdv
xaxaxelvov6i x ov Xoyov. 6 nolo v 8 el in aiv £iv ., Perscripsi
totum hunc locum, ut Nondum licebat oitoxepov dici, lectores e vestigio
de Stallbaumii s quia quot Amores essent, nondum sententia iudicare
possent. Jn erat definitum ; accedit v quod, his, inquit, vereor,
ne vitium alietinmsi esset, tamen non id quae- quod lateat. Quum enim in av
t- i ' i (pQtzGcu ov 6tl Inaivtlv , insita Inaivioai a^tcag
tov &sov. navzss yag Zapsv, on ovx isziv civiv "Egazos
p £ 6% a i sit interrogare aliquid praeter illa , quae ipsi
oratores dixerunt, haud scio an deinde parum accurate dicatur In e
p cj - Ti) 6 Tfl. Equidem scriptum malim av EpGDtrj dp, h , e . interrogando
denuo attingat, Quamquam codices veterem lectionem tuentur omnes.
-Nihil mutandum est, et omnia bene habent. f Enav£pid%ai est
ali- enius rei , de qaa paollo ante dictam sit, caussam et rationem
sciscitari. Enepcoxdv contra eius est, qni audita qua- dam oratione
alicuius sententiae sire repetitionem sive enarratio- nem flagitat.
Sensus verborum est: lefzt aber glaube ich es, Nur eine Kleinigkeit
ht mir noch im Wege, die Protagoras ^ gewiss nachtraglich recht gut
beseitigen wird, da er iiber so Vieles mir Belehruug gab. Wenn
freilich Iemaud iiber denselben Gegen- stand mit eiuem der
gewdhnlichen lledner sich bespriiche, so mdchte er leicht solclie
Reden horen, sci es von Pericles oder von irgend einem andern, der
zu reden versteht. Fruge dagegen Iemand nachtraglich nach Grund und
Ursache irgend eines Satzes , so haben sie, wie die Biicher, keine
Antwort und bleiben stnmm ; biito Iemand aber um die Wiederho- luug
nur eines kleinen Satzes, so sind diese Redner vrie Erz , das lange
klingt und tont, wenn man es nicht anfasst, und geben ia solcher
Weise (vide ann. p. 58, nam ut illic ovxgj noXXaxoSEV, Protag. loco
ovxco dpixpa positam est) auf eine kleine Frage einen unendlichen Sermoo»
Ad nostrum locum ut revertar, verba convertenda snnt : ich
will nun versuchen, diesen Fehler nach- traglich zu
berichtigen. npootov 'jtlv " E p coxa. <p p a 6 cci .
Ne quis forte xoci particulam desideret, qua haeo verba
praecedentibus commodius annectantur: Sol ent Graeci, verissime
notante Stallbaumio ad Apol. Socr. p. 22. A., eas sententias, quae aliis
sub — iiciuutur explicationis causia, ita addere, ut particularum
et conjunctio- num vincula omittant. Effici autem videtnr hoc asyn-
deto, ut gravitate quadam oratio augeatur, quae addita xai par-
ticula prorsus evanescat. Hoc di- cendi genus tam simplex est at-
que omnis expers artis , ut non mirum, idem iam apud Homerum
reperiri, cf. II. a, 504. seqq. coS zco y dvxifiioidi pax^dda-
peveo inktddiv dvdtT/tTjy • Xvdav 6 * dyopt/v napa vsvdlv
Axaiar. IJqXeiSqS psv ini xXidiaS xal vijaS ildaS rfie, dvv
re Mtvoixiu.br) 7ca\ oli Ixcepoidiv * 9 Atptibr)i 6 * upa
vija $or)v aXabe npoipvddtv , is 6* ipirai i-xpivsv x. r. A.
Adde Phaedon, p. 91. B. Xoyi- B,opai ydp, oo <piXe Ixcfipe.
xal Sioedoa gjS nXeovexTixtiS • tl pev tvyxdret dXrjSrj ov xa
cc Xiyoo , xaXcoS 6t { xo nei- dSrjvai* eI bl prjbbr idxi
xe- Xttrxijdavxiy dXX ovv rovxov yt x ov xpovov avxdv tov
itpd tov Savatov ijxxoY xoiS na- -6 * .
’Aq>Qo6ltt]. (tiag (ilv ovv ovGtjs ttg av Tjv “Egag' hct 1 dt 8q 8vo
Igtov, 8vo dvayxrj xal "Eqqhb tlvav. xag 8' ov povdiv u7j6i}
5 Idopoa. odvpo- ptVOf. c tB,loo S tov 5eov. Haec verba
vario modo interpretari li- cet. Possunt de elegantia lau- dationis
intelligi , de sinceritate laudatoris» de laudationis veritate
cett. Sed horum nihil Pausanias in mente habuisse videtur. ’A£UgjS
tovSbov esse: ita deum laudare, ut nihil omittas eorum, qnae deo
conveniant atque ad praedicandam eius laudem pertineant, ver- bis
indicatur p. 180. E. a 8 ’ ovv huctrepoS eTlKtjxe, itEipaxkov
Elireiv. TtdvTsS ydp tdpEV* Omne s, inquit, s c i m u s,
Aphrodite n' non esse sine Erote. Sed quod omnes scire dicuntor,
idem fieri interdum potest , ut scire se opinentur tantummodo,
revera non sciant. Eandem igi- tur argumentandi sive levitatem sive
audaciam habes hoc loco, qua Phaedrus in oratione sua usus est p.
178. B. yovijs ydp KpcDToS ovt sidlv ovte Xiyov- xai vit* ovSevoS
ovte iSicorov ovte noirjTov f ad quae verba vide ann. p. 55. Cur
Aphrodite sine Erote non sit quaerentibus variae caussae se
offerunt, quarum aut una vera est aut nulla. Eas nunc recensere eo
facilins omit- tere possumus , quo minas ipse ^Pausanias de caussis
rei cogitasse videtur, quam rem omnes compertam habere narrat. Ceterum
ut TtdvtES ydp Idpsv h . t. A. Pausanias dicit, ita Socrates dissimulato
ingenii acumine p. 202. B. neti jnjv, inquit, ?jv 6* iycd 9
opoAoyeirai ye napd ndvxoov pty/US etvai. «
ptciS p\v ovv ovdtj S*. Ve- teres editt. habent TavrrjZ 8\ pia* phr
ovdrjS , quod fuerunt, qui probarent. Sed non dubium est, verissime
notante Stallbau- tnio, quin id grammatico alieni debeatur.
Bekkerns e codd. non pancis piaS p\v ovdtjS edidit, quod sane
habet, quo magnopere se commendet. Tantnm enim ponderis
enuntiationi, quae quasi fundamentum eat totius disputa- tionis,
infert, qnantnm eidem ap- prime convenire videtor. Sed codd.
optimorom auctoritas re- spicienda est, qui coniunetivam particulam
exhibent. Probatur eadem nobis etiam propter du- plicem relationem,
quae hoc loco manifesta est, et de qua fusins disputavimus p, 22. et
2$. Pro- prie dicendum erat: pia? p\y ovdrjSf sii av ijv^Epwg'
Svolv 8^ 8r) ovt o iv, 8vo dvayjcrj xal EpcoTe slvaiy sed eandem
enun- tiationem etiam hoc modo cogi- tari Pausanias voluit, E i
p\v pia Tfv , eU dv t/v^EpcoS- insl <$?/ 8vo idTov , 8vo
dvdyxrf v.a\ "Epare elvai. Duplicem hanc et nominum et
particularum relationem mutuam indicare Pausanias tantummodo potuit,
non item disertis verbis exprimere* Indicatur autem ea, pkv
vocnla ad prius nomen apposita, 8s autem cura posteriore
particula coniuucta ptaS p\y — iitEi dL Sed hac scribendi ratione
repugnantia quaedam exoritur singu- larum orationis partiam , quae addita
alterutri sive nomini sive particulae ovv particula mitigatur atque
lenitur. Riickertus ad h, I* ita disputat, ut Pausaniae 6vo Tio
&ea; rj (iiv yk loti itQEOjivztQa x«l afi^rap, OvQavov &vyutr]Q,
tjv Srj xal OvQavlav l%ovo(iatfiiiiv ' Teri) a corruptissima
ceuseat atque non nisi verborum mutatione sa- nanda. Videtur enim ,
inquit, haec ipsa varietas , quod alii tavTTjS 8 i, alii ovv
addide- runt, argumento esse , antiquius hic vitium latere , quod
variis modis sarcire stpduerint librarii. Itaque in mentem mihi venit olim,
essetne Platonis manus haec ; *Aq>po8ixrf % j]S ytiaS plv
ovdTjS, Cui si quando acci- disset, ut negligens librarius pro
*Aq> poSitjj ?fS scriberet *Acppo~ 6 It rj S , Jieri postea non
potuit, quin ~6 abiiceretur, quo facto alias coniungendi verba
rationes iniri oportebat, quarum ad nos duae pervenerunt.
Perscripsijhaec verba, ne deesset, quibus nostra displicerent, quo
commodius Pau- saniae verba explicarent. 7t 65 i 8 * ov 8 vo
x oo $ ea. Vulgo xa $ed; sed miuus usi- tatum hoc apud Atticos ex
prae- cepto Grammaticorum. Eodem xnodo reperitur rcJ 68 co in
Piat, Gorg. p. 524. A» Plura huius loquendi usus exempla
Matth. congessit Gramm. ampl. $. 456. 1. p. 812. Ceterum haec
interrogatio ex eo genere est, de quo diximus ad verba c.VI. p. 60.
Xkya 8tf xi xovxo; Mediae orationi interrogationes immisceri
haud raro, ut vigor orationis structurae mutatione augeatur, satis
notum est. Hoc vigore, quem oratorium vocare licet, Pausanias ita utitur,
ut argumentorum absentiam obtegat, quibus duplex deae numen probandum
erat, ?} pkv yk itov Ttptd flv- tkpat, Riickerto yk
particula videtur non argumentationi, sed expositioni ante
dictorum inservire. Frustra. Quod modo annotatum est ad praecedentem in-
terrogationem, optime cum huius particulae vi, quae est vis
argumentationis, convenit. Rectissime Buttmanni praeceptum ad Dem,
Mid. p. 46. laudavit Stallbaum: Quum quis uno argumento ,vel
exemplo aliquid probat, potest hoc ut suiliciens afferre : quod fit
particqla ydp ; potest etiam significare, plura quidem posse
desiderari , sed hoc unum satis grave esse : quod fit addito yk,
certe, saltem. Restat, ut de tcov particula dicamus, cuius po-
testatem non satis recte Riicker- tus interpretatus est. Annotat
nimirum ad h. 1.; Addita part. itov urbanitatis declaratio est , '
qua speciem exhibet qui dicit ' etiam de re certissima dubitatio-
nis atque ad lectoris assensum provocationis . ' Non aliter Butt- mannus
de eadem vocula indicat in Indic, ad Piat, Dial. IV. Be- rol. MDCCCXXII,
Sed quam hi urbanitatem dicunt, equidem in Pausaniae oratione
arrogantiam interpretari malim. Nimirum 7tov vocula e dicendi
genere ov xl Tt ov depromta est, atque iu in- terrogatione positum
significat, mirari atque indignari eum , qui interroget, si quis
aliter atque ipso de aliqua re indicaturus sit» IIov vocula igitur
non tam wol con- vertenda est, quam doch wol, doch sicher, doch
gewiss. Usu loquendi factum paullatim est," ut nov particula
significet, notissimum aliquid esse ita , ut de eo dubitari
nequeat. 5ic in ij 8e vecotIqcc Aioq xai Aicovrjgy yv 8% ITavdrjfiov
xa- E Xovusv. avayxaiov 8rj xai * 'Eqcotcc tov (iiv ty hijpqc
jfrvSQybv IIdvdypov 6 q$ ag xcUsid&ac , zov di Ovq&vlov. Alcib. I*
p. 129. C. 'O di XP°^~ pEvoS xai (L xpip ai °vx aXXo ; — TIgoS A
eyeiS ; — "fhSTtEp tixv- toxojioS xipvei itov tojjeI xai
d/it\y xai aXkoiS opydvoiS. Adde Criton. p. 44. A. IIuSey rovro
TExpatipg ; — EyoS Coi ipaj. x\f yttp ttov vCxspaia Sei pe
ditoSvijCxeiv, if v dv Z\$oi to tcKoiov h. e. den Tag darauf mus»
ich, wie du weisst, sterben, wenn das SchifF zuriickgekommen sein
wird, xai Ov p avia. De Venere Urania atque Vulgivaga
secun- dum Platonis sententiam dispu- tarunt Apulei. Apolog, p.
281* cd. Oudend., Io. Lydus de men- tibus p. 89. seqq. Alios
lauda- vit Astius ad h. 1. Qudd autem illa dicitur dprjxcap 7 pro
magna deorum laude haberi solere, quod alterutro parente careant,
docte demonstravit Wesseling, Obserr. II, 10, p, 177. seqq.
De Venere Vulgivaga ex Iove et Dione nata v. interpp. ad Cic. de
Nat. Deor. III, 23. Elmeuhorst, ad Apulei, p. 328. seqq. et
quos laudat Bach. ad Xenopb. Symp. VIII. 19. Ceterum vix est, quod
moneam, totum hoc argumentum a Pausania ita tractari , ut fabulas
de Amore et Venere pro consilio ano mutaverit eique accommodaverit.
Stallb. iit aiv eiv piv ovv det itavtaS SeovS. Vario
modo sollicitarunt haec verba interpre- tes. Bastius scribendum
couiecit inaiYEiv pkv ov dei itavxa (sc. w EpGDxa ). Orsilius ad
Isocr. de Antidos. p.326. iitaiveiv juv — 3cod 5* expungenda
censuit. Riickertus Astio assentitur, qui vel superstitionis caussa vel
propter metum verba addita esse iudicat, videlicet ne Pausanias
deos con- temnere videretur. Stallbaumius, ne Pausanias sibi
contradicere rideatur, facto inter litaiveiv et iyxajpidpEiv
discrimine verba convertit ; Omnes deos cum honoris
significatione commemorate pietatis est; non autem omnes en-
comio digni haberi pos- sunt, Hanc verborum interpretationem cave
probandam censeas. Non yerum est enim, quod Stallbaumius inter
hcaiveiv et iyxwpidpEiv discrimen sta- tuit, neque idem scriptorum
locis probatur, cfr. Piat. Menex. p. 235. A. yorjxevovdiv T\pdtv
ras ipvxaS xai xrjv ito\iv iyxoopidpovxeS xaxd itav- r aS xpoxovS
xai xovi texeXev- TTjxoxaS iv x<p noXipw xai TovS TtpoyovovS
?}pcjv dnavxaS tov f ipitpoCSsv xai avxovf TjfiaS xovS Zxi ZrivxaS
Ijtai- vovvxss x. r. A., ad quem locum Engelbardtus verissime
annotavit p. 241. ed.: irtaiv ovvr e$ ni- hil est nisi repetitio
quaedam praecedentis iyxcopidP,ovx eS ob enun- tiati longitudinem
ad- iecta. FICINI conversio, ne verbo tenus quidem facta, audit :
laudare quidem deos omnes decet, sed utriusque AMORIS opera
distinguenda Pausaniae mens haec estx Male ’ Enaivilv yh> ovv dei fiavtag ftsovg' «
& ovv txattQog *’i hj%B, XBiQceriov tlitilv. Uda a yag
ngd^ig <od’ fyti' aixrj hp avtijg figar- Phaedra» nihil definitione
nccuratiore usus Erotem laudandam proposuit. Duo enim sunt Erote». Duo
igitur (ovv) nunc Erotes laudandi sunt, quoniam omnes dii, ut dii,
non possunt non laudari. Ea laudatio ut recte fiat atque digne
deis, quid utri** que Eroti datum sit muneris, iam dicendum est.
Pausanias igitur , quod in laudatione Erotis a Phaedro proposita duos E
rotes commemoret, alterum Ovpdviov , alterum ndvSypov , eius rei
excusationem petitum iri putat et a negligentia Phae- dri, qui
Erotem laudandum propovicrit dei naturam duplicem non respiciens,
et a pietate quam diis omnibus mortales praestare debeant. Restat, ut de
ovv particula dicamus, quae h. 1. dupliciter posita est. Prior part. con-
tinuandae orationi inservit, de ulterius potestate dictam supra est
p. 22. et p, 84, o(vt fj i<p avtyS itpat- ropivy.
HpatTopevy parti- cipium adeo suspectum visum est hominibus
quibnsdum doctis, ut tanquam inutile additamentum expungendum
censerent. Neque his assentimur , nec Stallbaumio credimus, quod
annotat ad h. 1.: Poterat omitti participium, fateor: et omisissent
fortasse alii, qui non haberent Pausaniae in- genium, Ficinus in
convers.parti- cipium non expressit, cuius tamen parva in huiosmodi
rebus auctoritas. Quid? quod Gellius, verba graeca laudans N. A, XVII,
20. participium edidit, idem in latina conversione omisit. Participii
vis haec est: itatict yap itpct%iS c o6 9 ix*f avty avtrjS
TtpdB,iS o v 6 a ... h, e,. Mit • aller Handlung verhiilt es sich
so: so fern sie an und'fiir sich Handlung ist,ist sie weder gut
uocli^ schlecht. Haud raro Graeci scriptores verbis transitivis
utun- tur ita, ut addito obiecto nullo, non aliquam actionem
denotent, sed meram verbi notionem ex- primant. cfr. Symp. p, 184 .
B, av t eu epyetovpevoS eis XPV- para. — p y nata<p povij
6y h. e,, wenn er in Beziehung auf Geldgeschenke oder auf
Befdrde- rungen im Staatsdienste s e i n e Verachtung niclit
zeigt. Pl. Gorg. p, 489 , D. y olei pe Xeyeiv, idv CvpqtetoS 6v\
Xepy 6oi> Xcov 9tal 7tocYto8ot7td)V av- SpcoitGQV pySevoS d£,ia>v
rtXyv iocj? tc 3 dajpazi itixvpfcaOSai, xal ovroi <pd>6 iY t
avia tavuc elvat vojptpa; in his verbis, cum praegnantem , quam
vocant, g>dvai verbi siguifteationem non perspicerent,
Heindoriius, Butt- mannus, lleusdius, ad conie- cturas ingenii
confugerunt, xal ovtoi <poo6iv est: und (wenn) diese das Wort
nelimen, ihre Stimme erheben. Pro- tag. 384. D, coSicep ovv dv
el ItvyXOLVOV VltOXGDtyOS cov, <5ov av xP 7 } yai t tlnep
epeXXis /tot diaXkZetiBai, pelP t ov cp$ty- yeCSai y itpoS tovS
dXXouS, ubi pei2,ov positum est pro pdA- 181 TOfiivtj ovzs xcdrj
ovzs ale^Qa. olov 8 vvv tfftus holov ■ ptv, nlvsiv Tj aSuv rj
duxkeyto&cu, ovx i'<J n zovzay, > avzo xafr’ ccbzb xaXov
ovSlv, ai. A’ Iv zy sipaiju, a ; av nqayfiy , tocovtov «jrifJij* xcdas
(itv yaq nqaxzb ■ fiivov xal oq&w s xcdbv ylyvszai , prj OQftas de
alctyQOv . ovza 8rj xal zo Iquv. xal 6 “Equis ov nas eOn xaXbi;
ovdi agto<; lyxujiui&<5%at, , aiX b xaXw$ nQOZQtnuv
Iqcxv. Aor, ut esset, quod verbis q>$oy- yov itapexeiv (b. e.
tpSiyye - 6Sai) conveniret. Adde Apol. S. p. 80. D. — idv ipl
ditantei- vrjxe — ovx ijj.1 pel^QD fiXa- ifrete rj vpaS avzov$ t
quo loco ad utrumque dicendi genus re- spicitur. Hac significatione
verborum praegnanti factum est, ut multa verba cum genitivo couiungi
soleant, ubi quartum casum exspectaveris cfr. Protag. 851. E*
itorepov ovv , rjv 5* iyc & , tfti fiovXei ijyepovevEiv (h. e.
7jys- jj.Gov elvat) xrjs dnhpeooSy rj iyco ijydopai ; JixaioS,
£<prj f 6v Tjyei- G$ai' 6v yap xal xaxdpx xov Xoyov. Ne praeteritum
pro xorcdpXEtf exigas, sensus est; da bist ia auch der Urheber
der Rede. Menex* p. 237* cap. 6* xijS 8* Evyereiaf icpcoxov
vxrjp^e toiSSe i} tgoy Ttpoyovaov ylve^ 6i$ tu T, A. h. e. war die
Ur- sache* Adde e latinis scriptori- bus, apud quos rarior hic
usus, Plaut. Asia. v. 256. Both. Aeta- tem ego velim servire (h. e.
servus esse), Liburnum ut conveniam modo. roiovrov ditiftTj*
Tropum aliquetn in mente Pausaniam habuisse, certum est* Fortasse
proverbium erat, ad quem allu- sit: talem farinam prodire solere , qualis
in mola parata sit* ovtoo 8ij xal to ipav. Post ipav nulla
interpunctio reperitur neque in codicibus uequ s in libris editis ;
graviorem posui- mus nos, qualem sententiarum ratio exigit.
Pausaniae mem haec est: ut quaevis actio per se spectata neque
tur- pis est nec pulchra: sola ratioue agendi cogno- mentum
accipit: ita nitiii in se habet % Q ipay per se spectatum, qnod
veli vituperes vel laudes: ex sola amandi ratione indicatur. Quod
sequitur xai non mera copula est, sed fortiorem significatum habet,
quo apud La- tinos poni constat adhaerento consequentiae notione
atque pro atque igitur* Verba con- vertenda sunt: So verhalt
es sieh auch mit dem hieben, Und ist also nichtieder Eros
schon und eines b e- sonderen Lobes wiirdig, sonderu nur der,
welclier auf eiue schone Weise zur Liebe treibt. ooS dXySooS
Ttav 8 rj jio Quid sibi velit goS «A?;3o3s' , a nemine demonstratum
video. Si- gnificat autem , propria potestate adhiberi, h. e.
adieotivum esso non nomen, 7tdv8rjjioS. Recte igitur aliis in locis
mihi videor K t Cap. IX. 'O (Tsv ovv Ttjg
HavSy/iov 'AcpQoStzrjg eos aArj&cog JtavSrifiog eOzc xul
itiegya&tai o xi av xv%y xal ovxog B lozt/v, ov ot tpavAoi xmv
dv&Qtltxcov igatiiv. £ga( H 6s ol xoiovxoi ngdhov (iiv o&% fjxxov
yvitcaxav i} itaiSav, IWf hxa, eoi/ jcal tQcoGi , zov Gufiuzav puAA ov xj
zav m«inscnla littera UdvSyfioS «eri- psisae.
iZepyagexat 3 xt «Y xvxy^ Vett. edd. pro xvXQ exhibent xvyoi,
Male. Ad xvxy •imple* verbum e praecedentibus repetendam est, uon
compositam i&pya$Qp£YQf, ut visum est Stalibaumio, Sensos est:
und was irgend noter seine Hande Itomnrt, das henutzt er oh
ne vr e i ter es fur seinen Zweck. Huius structurae exempla
per- multa reperiuntur. cfr. Phaedon. P- ( 64, C. 6H(ij!<ti St},
<J dyaSl, £av apa xal dol %w8oxy, aixep Xal £fio\ (ac. doHtl,')
Pari modo affirmativum verbum repetendum est praecedente verbo
negativo Platon. Gorg. 457. D. — <ft A' iav Ttepi zov
dfupidftnxtjdatdi xal prf <pfj o exepos x ov Sxe- (>ov opS/wS
Aiyuv fj fit } o'a- tptaS JC. tpy, Sententiam ipsam quod attinet
cfr. Piat. Pro- t*g- P- 353. A. xi SI, o! 2aS~ HpccxcS, §ei ?)
licis 0xoixei6$ca T?jy tgm* 7toXXcov Sdfcctv ctv~ Spomtaiv, o'{ oxt
av xvxoodi, xovxo Uyovdiv, Adde Piat, Criton. p, 44, O. xal
ovxoS idxxv, ov x. X, A. Pausanias si brevius loqui voluisset,
verba audirent xal tovzov — ipwdtv, Illam oratoriam dicendi figuram etiam
in- fra reperies p. 182. A. ovxot yap cldiv ol x. x. A,, p. 186.
C. xal xovxo idxxv , fi ovofia %o iaxpiHov et alias sexcenties.
Ceterum ipdv coniunctum cum quarta essu verbum transitivum esse, cum
genitivo, praegnanti, quae vocatur, potestate adhiberi, ut idem
sit, atque amatorem esse alicuius, supra annotatum est p. 88. Hinc
nostra verba con- vertenda sunt; und das ist der, welchen die
minder Gebildeten unter den Menschen lieben. Liebhaber aber «ind
solebo zuerst, nicht minder von Wei- bern ais von Knaben,
cos av Svvatvxai avotj- xoxaxoov. Stallbaumii ad h. 1,
annotatio haec est: Tribus par- tibus ait constare diiferentiam
inter asseclas Amoris coelestia atque vulgivagi, primum sexu, qui
ametur, deinde parte, quae ametur, postremo amandi modo. Itaquo
mutavimus lectionem vulgatam avo7/XQxdxa>Y Schiitaio obsecuti, cuius
coniecturam fir- mant codd. aliquot non malae notae (Paris, et duo
Vindobb.) Satis speciosa est, neutiquam ta- men vera haec verborum
interpretatio. Tantum euim abest, ut temeritate tanquam argumento
Pausanias utatur, quo tpavAovS il'v%ibv , htuxu m g av Svvavtai'
avorjxoxazmv , jrpog ro ' diangdl-aO&ai fiovov fi /.{novies, a/eel
ovvteg de xov xa- AcJg ij [trj. o&ev 6rj %v[ifiatvu avrols o rt, av
xvfjaGi, xovxo ngdxxuv, opotcos pev ccya&i>v , opoias Si
xovvav- C riov. laxi yag xal ano xijs &eov vecoxega g xe ov6t]S
nolv rj xijs exigas, xal pexe%ov<3ris Iv rjj yeviaei xal I
• tu>v avSpcdnoDy Pandemum amaro quam pueros, deinde corpus
magis probet, ut potius allatis argumen- quam animum amant,
postremo tis tribas Pandemi amatores te- natu minores» mernrios
esse doceat intempe- icpdf x 6 Siart pd£,a6Sai. raritesque atque eorum,
in quos* Ut paullo supra i^epya^ed^at, cunque inciderint, ineptissimos
ita hoc loco dianpaB,ad%ai verbi corruptores. Nullo enim, inquit, di-
latissimo significata turpissimae scrimine facto etmulierum etpue* rei
notio obtegitur. Schleierrn. rorum AMATORES sunt, deinde sire in
conversione habet: indem sie mulierem amant sive puerum, cor- nur auf die
Befriedigung sehen, poris quam animi pulcritudinema- unbekiimmert, ob auf
sebdne gis delectantur, postremo, quain Weise oder nicht. Ceterum
per- fieri maxime potest — uum i ne- pulcre hoc additamento
explicatio p tis simo m od o Pausaniam di- nostra dyoj/xotdxcjy verbi
pro- xisse censes? — quid ineptius in bari videtur. Aetate enim pro amore
cogitari potest, quam cor- vectiores cordatique homines haud pore magis
quam animo delectari? facile ab iis corrumpi possunt, K evocanda lectio
vulgata est avorj- quos temerarios libidinososque ToxarcDYy quam
Riickertus quoque amatores esse intelligOnt. Contra, in textum recepit,
minas tamen quorum aetas prudentia caret, recte verbom interpretatus.
Avorj- quo facilius fraudi obnoxia est, j oraro i enim h» 1. non stuleo
cupidius ab illis tissimi sunt, sed infirmio- Edti ydp jcai ris
aetatis. Hinc verba ex- 5 eov. Cave Riickerto crcda» plicabis p. 181. D.
xp V v dk xal annotanti ad Jianc locam, da- vo/iov tdvctt pyj ipay it a i
8 cov t riorem omissionem verborum esse fya pjj eis adfjXoy tcoAAtj
dirovdi/ o "EpGOS ovtoS , nulla videlicet arrjAitixero ' x. r. A.,
ad quae in proximis praecedente Erotis verba vide annot» Quid? qivH,
mentione. Brevior Pausanias esse quae his verbis praecedunt, no- maluit
atque, quae facillime sup- etram explicationem apertissime pleri possint,
eadem -audientibus probant: aXX* ovx i^anarf/day- supplenda relinquere,
quam ora- xe£ , iy aq> p o dv y y Xaftov - tionera exhibere nimia
verbositate x eS cis* viov x. T, A» Pausa- laborantem. Proprie euim
dt- niae igitur voluntas haec est: cendum erati eidi ydp xal and
Pandemi amatores non nisi e ge- xovxov rov "EpaxoS , oS idxtv
nere temerariorum hominum sunt; and xi/S Seov x . T» A. Similiter
quorumcunque ipsis potestas est, Pausanias brevitatis studio dixit eos
Amant, non miuus feminas p. 181. C. ol ix tovxov xov
oppetitur. and x ii s ahjtaos xal aQQtvog. o 61 tijg
OvQccvtag tcqStov ftlv ou (izxzyovdijg &t]A.sog, a A A’ ctQQBvog
ftovov — xal Igxlv ovtog o tojv italdav Eqco g — 1'sr utk itQEGfivttQcig,
yfigcag CC(lolQOV. 0&BV 6tj iJU tO UQtjBV TQZTCOVXai 01 £x
XOVtOV rov “Ego rog Mxvoi, ro <pv6e i iggauBvzdtzgov xal
vovv fiuMov Myov ayuTtavttg. xal ng av yvotrj xal tv avry
EpGDToS hnnvoi pro ol ix tov- TOV TOV^EpcuroS tov <X 7 CO xav-
TtjS rijS iitiitvoi. Cetcrnm ne mireris itoXv voculae post
comparativum posituram, ita lo- quuntur interdum Graeci, ut se- dis
insolentia verborum potestas augeatur» Exempla huius locu- tionis
non rara • supra reperitur p. 180. A. xal itt aykvEioS, hcEira
VEooTEpoS 7to\v, <2s <prj- div "OprjpoS. Adde Piat.
Gorg. p» 488. E. ol yap xpEixxovf fisAxiovS itoXv xaxa rov dov
4 \ 6 yov. Plura exempla Stallbuu- mius laudavit ad h. 1. ed. p.
50. xal ^rfX^os xal a?/3/5e- YOf, Ilis verbis explicatur,
qui fiat, ut TlarSjJpov asseclae et femineo et masculo sexu
dele- ctentur. Hoc quamquam disertis verbis non commemoratum est
a Pausanid, tamen colligere licet ex iis, quae paullo infra
legun- tur: aW afifisvof povov — xal idxir ovxos 6 xwv
itaiScjv "EponS — quae verba immerito tanquam glossema
expungenda censuerunt Wolfius, Schiitzius, Astios. Sensus est: und
dar- auf beruht das W e s e n der Knabenlicbe. OvxoS autem
pronomen positum est e generis haud rara assimilatione prorotiro.
vfipscoS a/ioipov . In his asyndeton improbantes Astios et
Orellios alter xk inseruit, alter apoipoS scribendum existimavit.
Frustra. Solent addita eopola nulla ens partes orationis
enu- merare Graeci , quarum suam quaeque pondus habet, cf.
Symp. P 17 3. B. ’Apt<5To8t//toS 7/y xiS, KvSaSijvauis , apixpoS
, dv v- noSijroS dei. p. 175. C. rov ovv AyaScava, xvy x dvctv ydp
?d X a- rov xaxaxclperor, yiivov. Ce- terum vfiptaS d/ioipos
Urania dicitnr ita, ut simj| ,* 0 P a „de- mon Aphroditen oratio
dirigatur, cuius Swepyos perfidos et cavillatores asseclas reddit, cf. p.
181. D. aAA^ ovx iSoxaxijCavxeS, iv dtppo6vvy XapoVTtS cjV
viov, xaxayeXddavxes oi x ji d £ d $ ct i ije \ccX\oy
djzo — xpi X ovx£S x. x. A. oSev 8xf — trixinvoi. Haec
accuratiori explicationi in- serviunt praecedentium xal Hdxiv ovxos
o xtiv itaiSov *Epa>s. quae verba quoniam ita exhibita snnt, ut
pro concreto, quod vo- cant grammatici, abstractum po- situm sit,
nostro loco concretum ha^es h. e. masculi generis ama- tores in
abstracti nomiuis locum substitutos. Cave igitur h. 1. de inutili
praecedentis «licti re- petitione cogites, "Exixvoi vo- cem
qnod attinet, cfr. Piat. Me- non.^p. 99. D. cpaipiv civ Seiovs xe
tLvai xal IvSovtiidZetv, inl- TtvovS ovxaS xal xar£ X opevovS ix
xov Seov. Adde etiam Phae- dri verba p. 179. Br xal dxe- XvdiS , S
£<pi) ” Opi/pof , pivoS Ttj muSigatitla tovg tUtxgivcSs vno
xovtou tov * 'Egatog D oQiirjfdvovs. ov yag igmat nalfa iv t «M* ix$Ldav
rjdq i/iitvevdai Mot$ xgjv ypcocjv TOV jSfoV, TOVTO 6
"EpGOS T OlS i paxSi Ttapixei yiyvo/ieyoy itap
avxovx tq cp vdet ififxu/isyidTe- pov x. r. 'A. cfr. Piat, de
rep. V. p. 455. D. ovdb' dpa idxir , c 5 <pi\s, imxtfSevpa tgov
noXiv dioixovvTGDY yvvaixoS Stoxi yv - vy) , ov8 * avdpoS 616x1
dvtjp , aX A* 6/1 oie os 6iEditap/iEvai ai cpvdtiS iv a/jypoiv xoiv
Z&oiv, xai icdvroov plv pexexsi yvvrj faixjfdevpdtGrv naxa
cpvdiv , irarxGJY 6 l ayijp , in\ icadi 6h adSevidxepw yvvjj
avdpoS. Ceteram came h. 1. Pausanias dyanwvxeS participium
exhibuit, tie forte aliquis, si ipcovXES di- xisset, rei
iutelligentiam perver- teret explendae voluptatis notio* nem simul
adiungenx. nat tiS av yvoiij xal iv avxy xy icai8 spadxia
» Inest his verbis , quod male me habet. Nullum in codicibus
vestigium est deprationis, igitur commendanda tantummodo lectoribus , non
item in textum inferenda scriptura haeo est: xai tiS av xai yvotrj iv
avxf/ ty izaidepadxioc K. x. A, Nihil frequeutiua apud scriptores
Graecos dicendi genere xai T\S xal, xal Tivef xal , similibus. Unum
hu- ius dictionis exemplum nt com- memorem, in Piat. Criton.
p,4$. A. legitur; ZvvrjSrjS. JjSrj jaoI idxtv, <y 2 &lx
parces t 6id xo jr oXXaxiX Sevpa q>oixdv’ xal ti xai
evepyeretxai vk i/iov, quo loro Stallhnumia rectius Buttniauuuf
edidit evepyexelxat, ille evepyhrjxca in textum re- cepit.
Sensus est; Er kennt mich scliou , o Socrates, da ich oft hierher
komme \ dann uud wann bekommt er aufch etwas von mir. Ad nostram
locum ut revertar, certissimum esse reor, Platonem non scripsisse
xai far aruxy xy ica\8epadxla. Satia enim erat dixisse far* avxy
xy itaiSepadxlq. aut addita xal vocula xa\ iv xy TCcaSepadxla.
elXixpiy dt X k Etymol. M. p. 298, 56. Sylb.. elXixpivrjS' 6
xaSapoS hqi\ d/Mtfifc kxepov. icapd xo eXv, 1 } Sep/iadia, xal xo
xpivGOy q iv xy £Xtf xexpi- /aevoS. Alii aliter hanc vocem
explicare studuerant; nobis, unde haec vox depromta sit, quaeren-
tibus sponte se obtulit salia comparatio , quod coquendo purius fit et
clarius. Salinatoribus igitur vox antiquitus propria fuisse
videtur; deinde, ut fit, ia quotidiauao vitae consuetudinem ita
abiit, ut propria eius signi- ficatio prorsus evanesceret, cfr*
Symp. p. 211. E* xi 8rjxct , iqrq, olopeSa , el xoo ykvQixo avxo xo
xaXov 18eiy elXixpivls, xa$ a pov , a/iixxov , dXXd. /xi}
avaicXecov dapxcov xe av- $ p coTziv-ojv xal xpGopdxGov xal aXXyS
itoXXi}? <pXvaplaS $vrj- xrjS , aAA* avxo xo, Seiov xa- Xov
6vvaixo jaov o$i8hS xa- xi8e\v ; Adde Piat. Menex. p. 245. cap. 17^
8ia xo eiXixpi- vdoS elvca h £X\7/yeS xal dpiy&ls fiapfidfiGJY.
Sunt igitur, Riicker- tus inquit, ol eiXixpivcaS vico Xovxov xov
"EpooxoS capptjpivoi, qui pure, sincere, ab hoc Amore aguntur,
nec admistum habent agxavtcn vovv ”6%uv • roxho Ss itlijOuc&i t< 3
yivuadxuv. XKQBOxsvccOfievoi yuQ, olfiat, tlalv ol ivrev&tv
agxu/iE- qnicquam de viliore illo et vul- ga ri.^
ov ydp i p oj 61 it ai8 cov , «AA* ineiSav x. x. A. Haec est
librorum omnium lectio, quam H. Stephaniis primus ita immutavit, ut
aAA’ iitsiddv verbis 7 voculam interponeret. Ea scriptio tum aliis tum
Stallbso- mio adeo probabilis visa est, ut eam in textum reciperet.
Con- stat autem , aAA* ?/ voculis du- plicem rationem, quae
proprie non nisi duabus enuntiationibus exprimi potest, in una
euuntiatione coniunctam indicari. Sic nostro loco dicere possis ov
ydp (npoxepov) ipcodt naidcov 7 iiteidav jjSrj apx&vxai
vovv $6X £lv t dicere possis etiam ov ydp ipcooi izaldGov, aAA’
(ipu>~ 6iv avtoov) insidar 7/67 ap- X<&vt ai vovv 1 l6x £
iv ’ His enun- tiatis in unum couflatis dicendi genus efficitur hoc
: ov ydp ipdodi nalScov, aAA* 7 / iiceiSdv X. t. A. Hoc per
se spectatum, cur reprehendas , non habebis. Nam quod Riickertus ad
h. 1, dubitare se ait, num recte jral- 8tS dici possiut ii, qui iam
pu- bescant, eo quidem argumento lectores non admodum movebuntur.
Quaeritur autem, an Pausa- nias ita locutus sit. Certi quid equidem
statuere non ausim, ve- risimile tamen mihi videtor, Pausaniam, cum
paullo ante AMATORES nominasset, qui eo delectentur, quod validius natura sit
atque intelligentia emineat, nostro loco non nisi oppositionis rationem
habuisse , Ttald&v nomen autem ita posuisse, ut idem sit atque
dvorjxoxdxav , quod p, 1 8 1 . B. reperitur. Eodem significatu
paullo infra dicit: XPV y ^ vopov elvat jn) ipav naiS 00 v ( h. e.
pueros immaturos ) , ivct p7) elS dd?jAov iroAAr) freovSt/
dv7]At6xEro. xo ydp xdov n aci- da) v xiAoS aSr/Aov, ol xeAevtcc
xaxlaS xal dpexi/S. Ceterum ellipticam enuntiationem habes, quam
cave per aposiopesin explicandam censeas. Expletior enuntiatio audit: ov
ydp ipcodt icaiScov, aAA* ineiddv ?/8 tj dp - Xcovxai vovv l6x £iv
y r dxe ipdj- 6iv avxGJV. Sensus est: Sio sind nicht
Liebhaber von noch unausgebildeten Knaben, sondern zeigeu sich
ihnen erst dann ais selche, weun iene anfangen Verstand zu bekommcn.
Schleiermacheri conversio: Dean sic He- ben nicht Kinder et q.
seqq., ea -de caussa minus nobis pro- batur, quod illud nomen
de utroque sexu intelligitur , h, 1, antem non nisi de masculo
sermo est. Noluit autem Pausanias dicere: orAA* 7/67 vovv
{(Sxovxcov, quia significantius indicatura» erat, amato ies id
agere, ut ea aetate, qAMASIOSua
intelligentia efflorescere posset , omni studio excolerent,
consilio adiuvarent, exemplo meliores reddereut. Hinc apx £
<S$ctt verbum appositum habes temporis momentum significans , quo tempore
amasiorum ingenia excoli possint, atque 7toXAy 6itov8y amatorum,
quae<, p. 181. E. commemoratur, eru- diri, porro iireiddv finali
parti- cula Pausanias usus est, tardum maturitatis proventum
depingens, x g 5 yeveidtixeiv. Ne hoc quidem, inquit Stallb.,
Pausaniae roi igav cog tov filov Szavra gvvetfofitvoi xal xoivy
OvfijiiaOofisvoi, alf! ovx t^cczccrrj 6 avrig , iv dtpQotivvr/ J.ajiovzig
wg viov, xazuyiluGavtts olxrfitQ^ai lz’ aliov ingenio indignam
est, quod aeta- tem illam adolescentium diligen- tias indicat, qua
perveniant ad maturitatem quandam rationis, et qua iam liceat veris
illis, quos dicit, amatoribus eorum uti consuetudine, Nimirum pubertas
est {/fit} ^nyjzetfrnr//, ut ait Nom. Od. X. 279. De hoc loco vid.
Comm. de Symp. Platonis. itape6xEvct6 pivoi ydp, olpat,
Eidiv seqq. Verba haec Stallbnumius convertit: Nam qui inde ab hoc
tempore amare incipiunt, ii se ita comparave- runt, ut velint per
totam vitam cum amasio suo versari, non quum eum, quippe quem
depre- henderint iuvenem, imperitum et imprudentem fefellerint ac
dece- perint, cum risu et contcmtu ad alium aufugere. — Participia
igi- tur ita posita censet Stallbaumius, ut ad praecedentis
participii ex- plicatiouem sequens fucer® exi- stimet. Sic iv
dfppotivvy A a- fidvTEf toS viov. quae verba Orellius in £zr'
dtppo6vvy Xa- fidvttS mutanda censuit , ovx iB,anati}6avTES verbis
explicau- dis inservire arbitratur. Nostro arbitratu non dubium
est, quin i^axarrj(javTcS participium ver- bis supra lectis tcov
datpdtcav fiaXXov v T&jy rpvx&v, iv drppo - 6vvr? XafiovtES
o oS viov, intifbc cjS dv dvvGovtai dvoTjzoTarajv respondeat.
Igitur hoc loco participia propriam ac suam potestatem habent, id quod
Orellius Eix pro iv scribendo indicaturus erat. Verba convertenda
sunt: Deno entschlossen sind, meino ich, die, welche das
mannliche Gesclilecht von diesem Alter aa zu lieben beginnen , die
gauze Lebenszeit mit ihm zusammen zu sein nud ein gemeinsames
Leben zu fuhren, nicht Betrug an ihm zu dben, nicht es in
seinem Iugendunverstan- de zu iiberlisten, nicht mit Hohn davon zu
gehen, indem sie zu einem andern ab- springen. Ceterum participia
cu mulari solent vinculis nullis col- ligata, quando loquens
inducitur, qui est animo commotiore, cfr» Gorg. p. 471. B. favidaS
xal xarapESvdaS avrov re xal tov viov avrov ’A\i%av6pov ,
dve- ifnov avrov , cfredoV r/A ixigjttjv, i p fiaXodv e 1$ ltpaB,av
7 vvxrcop i^ayaycjv ani- 6<pa£,Ev x. t. A. Adde Symp. p. 2
1 0 . D . xal fiXiiearv 7tpo$ noXi) 7/677 ro xaXov , prjxin r 6
itap Ivi — dyanuv x. r, A. i 71 dXXov dxor p i x° y
T E S. Aliquo modo hoc loquendi genus vernaculo sermone assequimur
quidem, sed repugnante plerumque dicendi usu. Aliena enim a nostrae
linguae indole illa facilitas est, quam felicita- tem vocare possis
, qua scripto- res Graeci complurium actionum rationes in una
enuntiatione con- iunctas exhibuerunt. Schleicr- macherus habet in
convers.: und von ihm zu einem cmdern zu entlaufeu. XPV
v ^ xal vdpov tlvat x . r.A. De XPVVU 1 verbi notione supra dictum
est p. 12 . dncrtQiyovtu;. XQ , 1 V vofiov ilvai firj igdv mxiScav,
ivcc fitj tls aSrjkov xolfo) Onovdij dvr t liaxtxQ. zo ydg zwv e
Ttaldav zti.og udrj?.ov ol Tlievza xaxiag xal ctgctqs Significat
autem: Debere aliqnem aliquid facere ita, ut, si id omi- serit ,
officio suo defuisse censeatur. Imperfecto eiusdem tempo- ris exprimitur:
Debuisse aliquem aliquid facere, quod revera non fecerit olTicium
suum male exse- cutus. Iam nostro loco quoniam non comparet, cui
male servati officii crimen imputare possis, verba hoe modo
convertere li- cet ; Eigentlich hiitte , wenn es nach Fug und Recht
gehen solite, ein Gesetz da^seiu miissen etc. Ceterum cave av
particulam XP*j y verbo adiungendam censeas. Ea enim si adderetur,
particulae potestas esset , ut, quod olim fieri oportuisse dictam sit,
idem nunc non opportere fieri indicetur. Sed oflicii quovis tempore
eadem conditio est, ut nou possit aliquo tempore officium esse,
quod idem alio tempore non officium ait. Alia ratio est Selv
verbi, quod quoniam necessitatem indicat extrinsecus illatam h. e.
cer- tis quibusdam de caussis ortam, £8ei dv commode dicere
possis ita, ut cedentibus iliis caussis vetere proverbio effectus
cessisse cogitetur; 18 ei dv autem significat, olim necessa- rium
fuisse, nunc autem non amplios necessarium esse. Et quoniam
saepissime contittgit; ut non amplius necessarium videatur
praesenti hora , quod olim ma- xime necessarium fait , non mi- rum est,
$8ei av crebro opud veteres scriptores reperiri ; con- tra XPV V
nusquam, quantum scio* occurrit apud veteres, coitis rei argumentum
est, quam supra commemoravi, officii constantia. tva ut) eis
aSrjXov — avTj XioxET o. Codices aliquot dvaMoxoixo exhibent, quae
le- ctio bene haberet hoc loco, si Pausanias non nisi de
possibili- tate, quam vocant, xov dvaXi -' tiHEdSca ageret.
Indicaturus autem ille aperte erat, saepe iam fa- ctum esse, ut AMATORES
AMASIOS frustra ad virtutem propellere studerent , ut unice rectum
censendum sit avtjXLoHETO . Optativi modi exemplum est Alcib. I. p„
105. E. YEGOXtpGD filEV OVV OVXl doi xal itplv xodavxrjS iXxidoS
yipEiv, gj £ ipoi doxEiy ovx sia. 6 5eoS diaXayeoSai , iva prj
fxaTTjv StaXey oiprj v. Opta- tivo autem modo Socrates hic utitur,
quod revera non expertus erat, ut in erudiendo Alcibiade frustra
operam consumeret. Adde Menon, p. 89. B. ouff TjptiS dv
TtapaXaftovxEf ixtivoov djzoepij- vdvxcDV icpvXaxTopEV Iv dxpo-
tcoXei — ivot pij8 eis avxovS 8lE<p$EipEV, aXX ETtElS)}
dtpLXoivxo eis xijy 7/Xixlav xp*j- Cipoi ylyvoivxo xals itoXtdiv. Plat.
Criton. p. 44. D. ti yap dxpEXov f cJ KpitcQV, oIoIxe eivat ol
noXXol x d piyi6xa xaxdf.£ep~ yd&CSau tv u oloixs i)6av xal
aya$d xd pkytdxa. vid r Rostii Gramm. §. 122. 12. to yap
x&v 7tai8wv xk- XoS x. x.'X. Duplici significata TtaiSajv
nomine Pausanias utitur, ut id aut masculum genus deno- tet cfr. p.
181. C. xal idxiv 4’vxrj s te jrtot xal 6ca(iaros. ot (uv ovv
ccya9ol rov vopov tovtov avtol avrolg exovteg ri&Evraf x9V v ^
ovtoS 6 tcov itai§Gdv w EpcoS — oSev 8 rj ini to afifiev
tpinov- tat x. t • A., «ut veootipovS significet, ut hoc loco.
Schleier- macheriis haec verba convertit: Denn bei den Kinderji ist
der Ausgang ungewiss, wo es hineus will, ob zur Schlechtigkeit
oder Tugend der Seele und des Lei- bes. Ut V. D. convertendum
censuit, h. e. virtutem a vitiosi- tate disjungendam , non conjungendam
cum eadem, ita Graeca verba scribenda sunt; nullo enim modo ferri
potest, quod in omni- bus editionibus exstat xccxlaS xal apErrjS .
Constat autem saepissime xal pro r/ et 7} pro xal exhiberi in
libris, ut non audacias agere censeri queat, qui sensu flagitante
verborum alteram vocem in alterius locum substi- tuat. Scribendum
igitur h. 1. puto esse xaxiaS r/ apEtijs. Ge- nitivos quod attinet
xaxiaS et apEtrjSy qui e praecedente loci adverbio pendent, vide
Matth. ampl. $. 324. p. 632. avtol avtols %xovxeS
tiSEVtai» Media forma Pau- sanias usus est TtSivat verbi, quod qui
legem scribunt, iidem illi legi sese subiiciunt. Eodem modo apud
Xenoph. Oecon. 9. 14. scriptum reperitur iv tatS EvvopovpivaiS
noXsdtv ovx ap- * XEIY SoXEt TOtS XoXltaiS , 7 JY vopovS xaXovS
ypa~ if> cjy t at , quo loco Pausaniae verba abundantia quadam
exhi- bita esse doceare. Satis erat dixisSe r ol plv ovv
dya$ol tOY YOpOY TOVtOY ixOYtES tl- Sevtai. Addidit autem
avtol avtolS 9 ut aequitas illorum ama- torum clarius
eluceret, qui ipsi nulla necessitate nrgente, sed li- berrima
voluntate {biovtES') il- lam legem scribant. tovtovS tovS
itavStf- povS ipadtaS, OvtoS pro- nomen nominibus praeponi
solet ita, ut significet, de aliqua re sermonem esse sive landanda
sive turpi, quae alias iam innotuerit* Igitur et laudis et
ignominiae exprimenda* notioni inservit. Ac nostro quidem loco non
obscu- ram esse potest, quo significatu pronomen accipiendum sit,
et recte Stallbaumius annotat, ovtoS cum contemtu dici.
Exempla huius usus ubivis obvia sunt. Laudat Stallbaumius Piat.
Criton. p. 45. A. ovx opacS tovtovS x ovS 6vxog>dvtaS coS
EvTeXeiS, quilus verbis occasionem datam video, de Sycophantarum
nomine quid mihi videatur, aperiendi. Ad- modum enim displicet,
quod Schol. annotat, ad Piat, de rep. I. apud Bekk. Comment. Crit.
T. II. p. 397* dvxotpavTTjS XkyEtat d iffEvSddS ti xtv oS
xatTjyopdiv. XExXijdSai 8* ovra> nap ./ISi/- vaiotS TCpdrtov
EvpESivtoS rov t pvxov rtjS dvxtjf, xal 8ta tovto xgoXvoytcjy
iZayeiv ta dvxa, tc ov dk (paivoYtGJV tovS i£d- yovtaS dvxoq>avtcoY
xXr]^h'-~ TGJVy dvviftrj xal t ovS 6na>So\jr xarrjyopovvtaS
ttvurv tptXane - X^TfpovooS ovtoj npoSayops->j - $ijvai % Duplex
schnl. eat ad Aristoph. Plut. 37. Alterum ctim Platonico convenit,
alteram haec habet : Xipov yEvopivov iv r y 9 Attixy tivls Xa$pp
taS dvxxS taS atpiEpcopivaS toiS SeoiS ixapicovvtOy pera 8h
rav:at xui rovtovg tovg navdrjfiovg tgatixag itQogavayxa&iv
to roiovrov , wgittQ xal tc5v EvSrjviaS ' yevope vtjS xanjyo-
povv TOVZGDV rivis, xcti £xel- $ev dvxocpctvrai Xiyovzai, Mae
narrationes non dubium est , quin fictae sint, qnibus 6vxo-
qxxvr&v nomen explicetur. Per- cit schol. Aristopli, evpijrai
61 itepl tovto v xcd hvepct Idro- pia itavv ipvxpd, Sed ipsa
illa schol, explicatio admodum friget, 2vxo<pavTcov nomen a
6axxv- <pavT7jS descendit, dc qua voce Pollux habet X. 192. otav
drj- jLiodS&vrjS Eiitrf GaxxvcpdvTaS, rovS itXixovraS
rctiS ywcnBX XEXpvcpaXovS axovovdiv, Hoc genus hominum consentaneum
est loquacissimum fuisse et cu- riosissimum nequitiaque refertis-
simum, atque in omni re tonso- ribus, obstetricibus, aliis similli-
mum, Factum est autem usa „ loquendi atque, ut in Piat, Cra- tyl.
est p, 421. C. dia — ro navraxy GrpicpedSai ra ovo - para, ut nomen
6vxxo<pdvnjS audiret, ex quo 6vxo<pdvTi\S enatum, it
poSav ay xd2,tiv to roiovrov . Pauci libri pro t d roiovrov habpnt
rdHv roiov- roov. Exspectabas, inquit Stall- baumius, oldyitep idrl
tovto, ori xal ro ov iXEv^Epoav y . it . avtovS p?) ipav. Sed nihil
mutandum. Annotat Riickertus ad h. 1,: Spe- ctat pronomen ad snpra
lecta verba pyj ipav itaidoov. Neque habet duplex accusativus
huic verbo iunctus quicquam , quod offendat. Alia ratione
nobis hic locus explicandus videtur, Pausanias nimirum cum
praedi- casset eorum amatorum iustitiam et aequitatem, qui^ipsi
tibi lu- ite v&igav ywaixav xqos- beatissime illam
legem imponant, nunc id agit, ut non cogendos Pandemi amatores
censeat, ut eandem legem sibi scribant, at- que ab immaturis pueris
absti- neant , sed statim ad rationem cogendi abit, modumque
indicat, quo modo viles isti amatores ab immaturis retineri
possint. Sen- tentia igitur verborum haec est: Die guten Liebhaber
legen sich dieses Gesetz aus eigenem An- triebe aufj non muss man
eigent- liph auch deo Anhiingern des Pandemos dieses Gesetz
aufdrin- gen, g an z in der Weise, wie wir sie nach Kraften
nothi— gen , freigebornen Frauen ihro Liebe nicbt zu widmeu.
Prono- mina generis neutrius cum arti- culo coniuncta haud raro sic
ad- hibentur , ut absolute ponantur atque adverbii vices
obtineant, . Sic in Piat. Phaedone legitur p. 65. B. olov ro
roiovde XeycD, quo loco to towv6e absoluto positam est,
vehementerque dif- fert a verbis, quae leguntur Eutyphr. p. 13. B.
olov toiovds se, Xiyco. Symp, p. 178. E., ad qnem locum vide
annotat, p. 61., t avrdv 6e tovto xcd rdv ipeo - pevov op&fiEV
, on x. T. A. ubi T avrov tovto est : ganz auf die- sflbe Weise.
Adde Piat, de Tep„ X. p. 605. B. t avrdv xal rdv piprjrixov
itotfjrr/v (pyjdopev — ipitoieiv x . r. A. Prorsus eodem modo ro
roiovrov positum est nostro loco. De plv ov v — Si particulis vide
aunot. p, 22» r qoy £Xev$& pcov ywai - xgjv — prj ipav.
Liberae mulieres ex hominum conspecta quam heri potuit maxime
remo- 7 182 avayxatofiev ccvrovg, xa&’ 5 Oov dwapi&a,
fiif igav. ovroi yag tlaiv oi xai to oveidog ntnoirpimtg , ujtftt
rivas toAj iiav kiytw , co$ aloxgov jjK(x'£tC0ai IgaOralg. X iyovai 5a
sl$ rovrovg unofiXbiovns , ogwvrig avrdv rrjv axuigiav xai ddixlav' htd
ov Sr/ xov xo6(Uas yi vehantur, cfr. Symp. p. 176. E. tals
yvvailA raiS IvSov, ad qnera locum Nepotis praefat. $. 7.
laudavimus p. 44. Mens Pausaniae hic esse videtor: De- bete, si
heri posset, pueros immatoros domi manere abscon- ditos, ut liberae
mulieres domi maneant, hominum adspectum fu- gientes , ne amatorum
prava se- dulitate corrumpantur. ovxoi ydp eidiv oi xai
x* t. A. Pronomen sequente ar- ticulo cum contemtu positum est, ut
supra tovrovS r ovf TtavSif- pouS. Sic p. 181. B. non sine
adhaerente ignominiae notione dicitur xai ovtoS idtiv , ov ob
cpavXoi rcov dv^pcditcov ipdodiv,, Kal vocula hoc modo explicanda
est: Isti enim cum aliorum ma- lorum, tum etiam auctores illius
rumoris sunt, quoad quidem non- nulli dicere non dubitant, torpe •
esse amatoribus gratificari. Pro < Sire TivdSf quae optimorum
co- dicum lectio est, vulgo tuSre rtvd legitur. Sed singularis
numerus minus aptus hoc loco, non quod sequitur pluralis numerus
Xiyovdi 81 x. r. A. , sed ne forte lateat lectorem, non certi cuiusdam
viri, sed populi rumorem hic tangi. Ad to oreiSoS Riickertns
anno- tavit: Graeci, quamvis frequen- tissimus usus sanxisset
quodam- modo hunc amorem , tamen ut probarent eum , nunquam indu-
xerunt animum, immo turpitudi- nis nota erat, non quidem amasse
pueros amatoribus , sed pueris amori eorum satisjecisse .
Aliter, atque Riickerto visum est, super puerorum amore iudicarunt
Grae- ci. Vide Commentat. de Symp. Platonis. avrcov
tTjy axaipiav xai aSixiav. cf. p. 181. D. i&aKazrjdavreS , iv
dtppodvvy XafiovreS coS viov , xatayeXa- davtts olxytfedScu iit
aXXov dnotplxovxES. Ibid. 1. B. itpoS to 8ianpd£>ct65ai pdvov
fiXe- itovTtS, dpeXovvteS 61 tov xa- Acuff ?/ firj et q.
seqq, i x el ot) Srjxov — yi . Haec est optimorum codicum
le- ctio; vulgo male ov Srjitov — re exhibetur, ri ad verba
perti- net , quibus appositum est, et conditionem indicat ita, ut
ap- prime Latinorum si quidem respondeat. 8tjxov voculam quod
attinet, supra de itov particulae significatu dictum est ad p. 180.
D. Eius significatus vis 8tf ac- cedente, cui ironica potestas est,
ut in Piat. Menone p. 86. D. iireiSij 6h dv davxov pkv ov8'
imxetpeis apxtiv, tva 8 rj iXev- SepoS tjS , maximopere augetur.
Ficiuus verba convertit satis fri- gide, ut videtnr: nihil autem,
quod n\odeste etlegitime fit, vituperare decet. Verba convertenda
sunt potius: Dena es ktnn doch offenbar wol ir- gend eine
Handlung, wenn an- ders sie mit Maass und Fug un- xai vofilfiag
orwvv Ttgayucc nQuvcbtitvov i poyov av Si- xaiag tptQoi. Kul
8rj xal 6 xcgl tov tgcoza vvfiog iv fiiv ra is ctM.cug itoktGt, vorjecu
gudiog' anXag yag SquStcu ' o 6’ iv&dds xal v iv AaxtSulyiovi
TtoixUog. iv "HXiSi B ternommen wird, tiicht mit Recht
getadelt werden. Prorsas eodem modo dicitor in Apol. Socr. no-
tissimo loco p. 20* C. o v ydp djfrtov dovye ovdev xcov aAA.Gov
nepixxoxepov npaypaxevopivov, t7TF.iT a toGavxij tprjpTj xe xal
AoyoS yiyovev x. r. A.., quo loco interpunctionem post dovye
delendan^ curavimus» Sensus est: Denn es hatte doch offcnbar wol,
vvenn auders du nichts weiteres gethan hiittest , ais die andern,
eia solches Gerede und Geschwatz nicht entstelien kdnnen» xal
8?) xal . Harum parti- cularum notionem Sehleiermache- rus in
conversione non reddidit, neque Ficinus easdem convertendo
expressit. Exhibet enim: lex utique de AMORE et q, seqq. Biickertus
ad h. 1. haec annotat - Particulae coniunctae xal 6r} xai ibi locum
habeut, ubi a genera- raliore sententia ad specialem transitur , h.
e. , quum id , quod in universum disputavimus, etiam de certa
aliqua re valere dici- mus, quo in nexu semper aliquid conclusionis
est. Habet igitur harum vocum quaevis vim suam nativam; quarum
prima copulat cum prioribus, altera vel conclusionem indicat, vel rem pro
certa ponit, quam particulae 8rj vim velim ostensivam appellare,
ter- tia adiungit, fierique subsumtio- riera docet» — Negari
nequit, xal 8rj xai particulas interdum ita a scriptoribus
adhibitas esse, ut iis transiri significent ail ea, quibus,
quae antea in universum dispntata essent, proben- tur. Cave tamen ,
omuibus in locis hanc particularum significationem veram habeas. Ac
no- stro quidem Joco Pausanias ad novam rem , b. e. ad civitatium
leges transit ita, ut, cum cora- memorusset p 182. A. duplex de
AMORE iudicium Atheniensium, quorum alii ipsum laudent, alii
vituperent, aliorum civitatium iudicia annectat, et quomodo in- ter
se differant, exponat. Ad eum rem commemorandam adi- tum patefacit
8rj particula, quae quo magis emineat, initio enuntiati ponenda
erat, atque eidem xai expletivum , quo suf- fulciatur,
praefigendum, vide annot, p. 5* an ydp <2 pitixa i. E
recta ditA&S vocis explicatione sequentis verbi itoixiAoS recta
explicatio sequitur. Illud denotat actionis reive alfeuius sim-
plicissimam conditionem, qua ef- ficitur, ut facile possis et quasi
primo obtutu, quid sit actio sivo res inspecta, cognoscere. Jlot- .
xi\oS contra de plurimarum re- rum inprimisque de colorum
compositione valet, quae ita comparata est, ut nequeas dicere
statim, cuius coloris sit id, quod noixiXov vocatur. Hinc ad ho-
minem relatum noixiXoS eum significat, quem non tam ver- sicolorem,
quam varium appella- fiev yaQ kcc I Iv Boiorolg , xal ov firj docpol
Alysiv> ca tAiJg vEvqfio&itrjtai xalov eo %aQl£E6ftcci
Ipatiraig, xal ovx av ug tlxoi ovts veog ovts itcdcuog d>g al-
ti iQQVy iva , olfiat, ^XQaypcn? t%atit Aoyco «stgi»- rnnt et versipellem
Romani. No - //oS"; iroixiXoS est igitur lex, quao ex ambiguitate
sententiae labo- rat. Eius ambiguitatis in Athe- niensium et
Lacedaemoniorum lege Erotica exemplum explica- tius enarratam habes
p. 182* D. seqq. iv "IIAiS i plv yap\ seqq.
Triplex apud Graecos de AMORE lex obvaluit. In Elide et in Rocotia atque
in iis civitatibus omnibus, quae eloquentia carebant, obsequi amatoribus
pulcrum habebatur. Apud Iones eosque, qui barbaris subiecti erant,
ut philosophicae gymoasticaeque exercitationes, ita obsequium erga AMATORES dedecori
erat. Ambigua lex erat apud Athenienses et Lacedaemonios,
ambiguumque indicium. Nimirum ro xapl<Sa<$$ai ipadralS et
pul- crum et turpe habebatur. vEvopo^irrjrai. Sydenh.
annotat, ad h, 1, laudatus u Wolfio :• Dies Wort, wie das vor- hin
nnd mehrmals gebrauchte vo- poS, muss man nicht von einem
geschriebenen Gesetz, von einer positiven Satzung in ausdriick-
lichen Worten verstehen , son- dern von Gcwohnheit und Gebrauch , der
nach und nach das Ansehn eines Gesetzes gewiunt. cfr. p. 183* D.
rjyrjdair av •xaXiv altixtdrov ro roiovrov ivSaSe v o pi^ed^ai. In
Piat. Cratyl. p. 384. v. 16. Bekk. ov ydp tpvtiei kxddrca
necpvxivat dvopa ov8hv ovdevi, dPiA.cz v o- pep xal rc ov
iSitidrtarv te xal xaAovvtcDV, Ib. p. 388, Hermogenes
interrogatus a So- crate, quis nominum usum sup- peditaverit, cum
id nescire se confiteretur, ille ap ovxl , inquit, d vopoS doxei
doi tlvat 6 xol- padidovS av ia i Iva prj Ttpaypar x.
r. A. His verbis Pausaniae indicium continetur demonstrantis , qui factum
sit , ut cautione adhibita nulla paederastia in Boeotia et in Elide
pulcra indi- caretur, Sed ex ambiguitate qua- dam hoc indicium
laborat, de qua interpretes nihil annotarunt. Aut enim licere
obsequi amatoribns dicit, ut impetrent amatores, quod lege
prohibente iuvenibus nunquam persuadere possint, ut ipsis
concedant, aut propterea legem illam latam censet, ut iu- venes,
quos Boeoti atque Elidenses admonitione non possent, AMORIS vi ad virtutem
impellerentur. Utra explicatio rectior sit, in Commcnt* de Symp. Platonis
explicatum habes. r 7 } S 8 h 9 IcDviaS xal «A- XoSt n
oAAaxov. Quid Pau- sanias dicere voluerit, ut facil- lime
intelligitur , ita difficillima structurae ratio est, quam nemodum sati3
explicavit. Plerique interpretes ad coniecturas inge- nii
confugerant, quarum numero pon minus turbatum te senties, quam ipsa
difficultate Platonici loci, H. Stephanus scribendum coniecit rrjs
81 IooviaS jroAAa- fitvoi ntiftuv rovg veovg, Sn aSvvcttoi Ikyuv. r rj$
di 'I avias xal aklo&i xoXku%ov altSxQov vtvo[u<Stai ,
cicJot vito fiaQfiuQoig olxovGi. rotg yag fiaefidQOi s Sicc rag
TVQawidus aloxQo v tovxo ys, xal % yt <pdo<Soq>la r.al C '
x°v xal aAAoSz x. r. A.; Thier- «chias ty 6i luriae, Astius rois 6
h 'iGDviaS conieceruut. Ut elios silentio praeteream, ingeniose
Riickertns scribendam duxit rijS * IcarlaS xal aAAoSt #oAAa- Xov
al6xpov vevopidzat , pa- \i6xcl 6 * o6ql vno fiapfidpois olxov6iv.
Stallbaumius , vide, inquit , ne genitivas pendeat e pronomine vdoi
vel potius e pro- nomine demonstrativo ante 0601 intelligendo. Nemo
enim olTen- deret in his TrjS 61 'iooviaS xal dXXuv noXkuv x^pdjy
0601 vno fiapfidpois oixovdt , napd t ovroiS ai6xpov
vevopidrat. Quum autem orator post r 7/S 61 'iuvlaS posuisset
adverbia <*A~ Ao.9i noXXaxov, addidit statim aldxpovvevopidTcti,
quae sic non poterant commode alio Joco collocari, atque deinde demum
ad inchoatam structuram , quam in mente habuit, reverti putandas est.
Haec explicatio impeditissimae structnrae et ipsa impeditior est. Riickerti ingeniosa quidem
sed audacior coniectnra est, atque cura veritate rei non satis
conveniens. Ceterae coniecturae omnes ita comparatae sunt, ut intelligere
sane non possis, qui factam sit, ut lectio ad sensum facilior in
difficiliorem sit mutata. Ut meam, qualiscunque est, sententiam
proferam,' cum in praecedentibus Pausanias iv*H\i8i pev yap xal iv
Boiu- totS xal ov pi) Cocpoi XiyEiv dixisset, pev particula
adhibita, verba secutura esse indicavit, quae illis verbis
opponerentur, Ilaec oppositio ut validius emineret, ita instituta est, ut
altero membro oppositionis ad ulterios exemplar comparato
adhibitoque chiasmo gratissima varietate delecteris. Igitur cum proprie
dicere debuisset Pausanias iv 61 zy 'ioDviot , ut supra legitur iv
v H\i6i — xal iv BoiuzoiS, di- xit rif 'luvlat, nomen ad praecedens ov
comparans; pro aXXoov TtoXXuv x<* opuv , quod optime cum
sequente otioi — olxovdiv conciliaretur , «AAo3t ^roAAa^ov posuit ,
ut esset , quod praece- dentibus dativis cum iv praepo- sitione
coniunctis respouderet. Iam certam est, genitivum r rjS *Iuvia5 per
se spectatum non esse explicabilem ; excusabilem autem indicabis, si
ad prius oppositionis membrum respexeris. xal i} ye tpiXodo
epia. Gymnasia philosophorumque scho- las matres fuisse et altrices
pae- derastiae , a multis vantiquitatis scriptoribus traditum Cst.
Unum ut laudem, cfr, Cic, Tuse, Q, IV. 53. Mihi quidem haec
in Graecorum gymnasiis nata consuetudo videtur l in quibus isti
liberi et concessi sunt AMORES. Bene ergo Ennius: Flagitii prin-
cipium est nudare inter cives corpora , Persecuti autem esse
barbari dicuntur pari vehementia et filiam et matres , quia elatio-
res animos hominibus ingignerent, novarumque rerum studio pectora
incenderent. t) (pUoyvfivaarla. ov yag, olfiat, <Sv/uplgsi roig Sq-
XOVOi tpQovrjfiaTa fttydXa lyylyvs<s9at rav ag%ofievcov, o«(5e tpiltag
loxvgctg xai xotvmvLag, o drj fuelusxtt tpt- hi tu re ulla narra xai 6
"Egcog ifinoieiv. igya 6h tovto Pfia&ov xai oi tv&uSe
xvgavvot' 6 ydg 'AgiGxo- ov y <x p , olfiat. Olfiat
rerbam haud raro modestiae in- dicium est, indicatque, qui eo utitur se
nnimi iudicium pro opinione haberi velle. Nostro loco non sine
acerba ironia adhibitum est , cu- ius usus exemplum est Piat, de
rep. I. p. 337. A., ad quem lo- cum vide Stallbaumii annot.
<p po vrj pax a peydXa — fc 5 v upxopiroor. Minus apte
Sdileierroacherus convertit: grosse Einsichten. Amore efficiuntur
potius atque procrean- tur elatiores animi h. e. grossartige, kiihue
Gedanken. cfr. Me- jaex.p.239. fiu. cj v 6 ptr np&- XoS, KvpoS
, l\£v$FpGo6aS Tllp- tiaS rovs avrov TtoXlzaS tgj avrov <p
povr)fLaTi cepa xai rot)? diuitoTaS MifiovS idov - Xoodaxo x. r. A.
Pro tgjv ap- XOpivoov io aliquot codd. repe- ritur r diS apxopirotS
, quo casu Plato non usus est , ut dupli- cis dativi vel
ambiguitatem vel simplicitatem vitaret. Ne mireris autem lyylyvt6$ai
verbum siae dativo positum esse: paullo infra legitur o 81} paXiOxa
cpi- Xu — 6 *EpcoS ipzou.lv. Adde, quem locum lluckertus
laudat Piat, de rep. V. p. 464. D. tjSo- vdt re xai aX yijBovas
ipzoiouv- taS }$la>v ovxoov idlaS. o 8 1 } pdXi6x a
epiXei, Adhiberi solet singularis numerus pronominis relativi,
quando ad plura nomina refertur, quae plurali numero posita sunt.
Ultra pluralem numerum egredi non licuit , igitur singularis
repertus est generis neutrius, quo prae- cedentia
comprehenderentur, ra re dXXa narra. Annotat ad haec verba Schleier-
roacherus: Dieses andere al — les kann doch nur Philosophia tmd
Gymnastik sein , uud fur diese wenigeu Falle ist der Ausdruck etwas zu
reich. Allein, wo so viele Biicher alie schwei- gen , und die
Nothweudigkeit nicht sehr dringend ist, da ist andern vorwitzig.
Eine solche Nothwendigkeit scheint aberwobl vorhunden zu scin.
Igitur pro narra V. O. scribendum censuit xavxa, quam couiecturam
Riik- kertus vulgatae scripturae praefert. Monet contra Astius : sensum
esse verborum: prae ceteris omnibus maxime amor. Hoc ex- plicandi
genus et Stallbaumio placet, et nobis probatur. Pausaniae mens haec est:
nihil esse, quod non odium moveat tyrannorum,
philosophiam, gymnasticam, musicam, poesin alia hoc genus: nihil
autem mugis illis invisum esse, quam puerorum amorem, quo iuprimis
elatiores animi , firmae amicitiae atque contubernia efficerentur.
xax iXv6 ev avrcov rrjv dpx V v ' Pausaoiam h, 1. in historia
Pisistratidarum errasse primus, ut videtur, Abrah. Grono- ytltovog
Hq<os xcu tj 'Jgfiodlav tpMu filfiaiog ytvofiivt/ xctttXvOtv avrdv
xfjv KQ%i)v. ovuog, ov fiiv al6%Qov tte&i] xaQi&e&ai
£Qct<Staig > naula rdv ftipivav xuxcu, xdv fitv aQxovxov it
Xtovd-ia , rdv Si ciQxofiivav avav- W 8(/ia' ov dg xaXov aitldg
Ivouia&rj , Sia xyv rdv 9e- vins rectissime docuit in annotat,
ad Aelian. V. H. XI. 8. Tantam eaim abfuit, at interfecto Hipparcho
libertas civibus Athe- niensibus redderetur , ut potias Hippiae
tyrannis durissima secuta sit. cfr, Thucyd. VI. 54. Neque hic error
solius Pausaniae fuit, sed Atheniensium fere omninra, qui ob
libertatem restitutam Har- modium et Aristogitonem summopere colebant.
Sic in spolio no- bilissimo, quod apud Athenaeum exstat XV. p. 695.
B. dicitur: Ev pvptov xAordl to BiitpoS (pOf)lf Ogj
&SitEpApp68ioS x *Api6xoyeircav , ore rov xvpavvov xxavlxj/v
ItiovopovS r *A$ tjvaS licoi- rj6dxrjv. Nihil igitur mutandum ,
neque interpretatione xataAveiv verbi potestas mitiganda est, qua
aperte indicatur, Pisistratidarum dominationem funditas eversam
esse. Restat, at paucis dicamus de verbis fiifiatoS yerdfiim/, quae
opposita esse videntur xaxeAvOev verbo. Minus placet Schlcier-
macheri conversio : denn des Aristogeiton und Harmodius zu einer festen
Freundschaft gedieliene Liebe zerstorte ibre Herrschaft.
Converterim equidem potias : Denn so wie die Liebe des Aristogeiton and
die Neigung des Harmodius Halt und Festigkeit gcwonneu hatte,
stiirzten sie die Herrschaft der Tyrannen. Ka- xeAvdev autem
dictam est, non xoneAvdar, at significantius indicetur, nou viros ipsos,
sed animum elatiorem, qui EX MUTUO AMORE natus sit, interitas aucto-
rem fuisse. xaxiac rc ov 5 epiv cov. ol Siperotf ut sequentia
docent, et tyranni sunt, et ii , qui tyrannis sublecti sunt.
KetdSai, de tabulis solenne, quibus leges inscribebantur, de more
dicitur, qui hominum pectoribus intixus est atque quasi
innatus. rijs i>vxy S apyiav. Sa- pra dictum habes: tva f
oipai, pr) npaypax ixatit A oya> nei - pcopevoi TCeiSnv xovS
viovS. Recte igitur apyiav xijS tyvxijS converteris: Tragheit,
Stumpfheit des Geistes. 'Ey$ vpTjSivzi y ctp. Hia
verbis quid respondeat in proximis, non reperies. Igitur Pausaniam inceptae
verborum structurae oblitum recte existimave- ris, ut Stallbaumias
censet, qui Ex hoo loco , inquit, Pausa- niae ingenium plane
cognoscas, qui plurimis sententiis coacervatis magooque cnm studio
collectis deinde inchoatae structurae adeo obliviscitur, ut videatur
ia alia omnia abiisse, donec ad ex- tremum in memoriam eorum
re- deat, de quibus ab initio coepe rat dicere. Nos Stallbaumio
clementiores oratori nou praemeditato largiendum esse ceu-
I fdvcav TTjS *l>vxrj$ agylav.
Iv&ude Sl itokv tovxcav xctk- Xlov vevofio&iTijTcu xal, SjtEQ
tlxov, ov {tudiov xata- voijCui. Cap. X. 'Ev&vfirj&Evu
yccQ, ott Ityecat. xaXkwv r 6 tpavE- * ptag Iq&v rov lu%Qa, xal
fuxfooxa vav yEwmotatav semus hoc, at interdata, senten-
tiarum accedente mole, quae me- ditatione in ordinem non digesta
sit, ab incepta structura oratio deflectat. Aestu sententiarum refrigerato
Pausanias ad oratio- nem suam revertit p, 183. C. rauxy plv ovv
otySeirt av xi$ x, T. A. ut eum dicturum fuisse colligas :
<pi\odo<pla$ xd piyidta xapnotx dv oveldrj, ndyxaXov 6 o£eiev
av vopigedSai iv xy8e xy ndXei xal xd ipdv xal rd <pi\ov$
yiyvedSai xois ipa- dxcaS. rd q>avEp&$ ipdv rov
XdSpa. Aperte amare pulcriua esse, quam tecte amare nusquam, si
lionc locum exceperis , apud Platonem commemoratur. Con- sentaneum,
est autem, Athenien- ses sic consuisse, ut ab improbo bonus amator
facilius discerne- retur. Convenit cum nostris verbis, quod infra
legitur p. 184. A, rovrovs 87} ftovXexai o ypi- tepoS vopos eu xal
xaAdoS fiat- davi^Eiv x, r. A. In sequenti- bus yervaidraroi
iuvenes intel- liguntnr nobilissimo loco orti ; aptdxoi sunt, qui
optima indole gaudent, aldxlovS autem epithe- ton de corporis, non
item de animi habitu accipiendum est. Sententia verborum est;
Dicitur h, e. censetur ( nara Xiytxai eiusdem h. 1. significationis
est atque vopi^exat, neque dubiam est, quin hominum iudiciam
tan- gatur, quod vopoS a Pausania vocatur, vid. annot* p. 100.),
dicitur igitur pulcrius esse aperte quam tecte AMARE iubetnrque AMATOR
AMARE quam maxime fieri potest, nobilissimos atque optima indole praebitos,
etiamsi minus for- mositate excellant. ovx &S tl aidxpdv
7Coi- O vvxi. Stallbanmius haec verba arctius cum praecedentibus
coniungenda censet, quae hanc in se . » h sententiam
contineant: xal oxt 7) napaxtXzvdiS rrJ ipdUvxi napdt itctvx&Y
ylyvtxai ok $ av p a - dxov xi itoiovvxi, Displicet haec explicatio
duabus de caussis } primum aliud quid sensisse Pausanias perhibetnr, quam
qaod verbis expressit, deinde si ponas, cum ita sensisse, admodum
frigent sequentia xal itpoS xo ini - XEipelv — i^ovdiav 6 vopoS 6
£8 coxe rej ipadxy Savpa- dxa Ipya ipyaZopevcp iitat - VEitiSaif de
quorum verborum sensu mox dicetur. ' Verba ovx <yf xi aidxpov
7Xoiovvxi ad rc3 ipwrxi pertinent, apposita autem sunt propter
napaxeXevdiX padxtf verborum ambiguitatem. JJapaxiXsvdiS enim et
iis fit, qui aliquid facere jubentur , et iis , qui aliquid ut ne
faciant, admonentur. Possit igitur li. 1. xal agldtav, xav al6%iov
g cUrav wGi, xal ori au tj xagaxblevG ig ta igairu maga jcavtav
davfiaGz!] — ov% ag %i al6%gov itowvvxi — xal eXovti te xculor
Soxtl ilvai xal (it/ slovri alti%g'ov, xal ngog ro etii^uqhv e tkuv
i^ovGlav 6 vouog dlSaxt tcj iga&ty &av(ia6ta %gya Igyaifiiiiva
tnaivEiG&ai , a ei ng roXfup// tcoleiv aXti Iruovv diaxav xal
povXuuevog biaitgalaa&ai icXr/y 183 re» ipiUvTi xapaxiAevdiS
etiam ita intelligi, at uoa amplius AMARO AMANS iubeatur. Sed ne
haec verba sic intelligerentar , Pausa- nias ovx fifr xi aldxpdv
noiovvxi verba apposuit* Sententia totius loci haec est: Si quis
reputat apud se, — ingentem ab omni- bus cohortationem fieri
amapti non quasi turpe aliquid faceret et q. seqq, xal
kXovxi xe xaXov, K venatione repetuutur verba in re amatoria
usurpari solita; qui amat , duaxei , si res succedit, alpel XOV
ipcopevov, AMATUS aXtdxexai. Riickert* N 011 sine caussa iisdem
venatoriis verbis Plato etiam de vero indagando utitur, cuius usus
exempla non rara sunt. cf. Stallbaumium ad Piat, Phaedon, p. C6. A.
Cete- rum cum eodem Stallbaumio e praecedentibus verbis dxi
parti- culam repetere nolumus; etenim iam his verbis Pausanias ab
incepta structura verborum defle- xisse videtur. xal 7tpoS x 6
iittxei pstv ZitaiveidSai, Non caret hic locus difficultate.
Stallbaumius verba convertenda censet: et quod attinet ad
studium amasii capiendi etiam laudari licere quamvis AMATOREM
mira lacientem. Quae conversio e duplici vitio laborat, quorum
alterum est in male intellecta 7CpoS praepo- sitione, de altero
paullo iufra di- cetur. Certissimum hoc est, at- que xal ante — „
xe — xal vocula posita probatur, verba kXovxi xe xaXov 8oxel
elvat, xal p?} kXovxt aldxpoy posita essp, ut confirmentur
praeceden- tia ovx ri aldxpoy Ttoiovvxi. Interdum enim Graeci, qnae
ad- dita caussali particula proferenda sunt, praecedentibus copula
ad- hibita annectunt. Possis igitur verba convertere: nicht,
ais vena er etwas hassliclies tbate, denu wer Beute fing, dem
wird Lob zu Theil, dem beutcloseu folgt Sclimach. Recte igitur
post Savpadxri et post aldxpoy li- neolas posuisse nobis
videmur, quippe quibus legentium ocu- lis , quae enuntiationes
arctius coniungendae sint, indicetQr. Iam non dubium est, quin
verba ori av rj TzapaxtXivdi? rw tpajpxi napa ndvxQjv Savpecdxij
de studio amasii dicantur, quod in- fra vocatur xo imxsipEiv
kXetv. Non verisimile igitur, Pansaniam cum cohortationem amatoris
commemorasset h. e. cius , qui cupiendi amasii cupidus est, itu
perrexisse: xal itpd? xd iiti - Xeiptir kXetv et quod attiuct ad
studium amasii capiendi» Desideratur nimirum rovro, [(piXotSoyiag'] ra
(ityiata kccqi rott av ovsidrj. tl yag »; X9W a ra fiovlofiBvos i tagd
rov lafieiv fj ccQxr/v ag^ai i j tlv akXrjv dvvctiuv idtloi xouiv ola neg
ol yi particula, qua respici indicetur ad id t de qno iarn
sapra dictnra sit: xai TtpoS ye x 6 Imxetpety ?(. x. A. Non parvi
aestimandum Astii evpTjftat, quo illud deside- rium mitigatur: xal
npoS x<p tjnxnpuy kXeiv x. x. A. Cave, tamen coniecturam
aliquam pro- bes , ubi codd. lectio commode explicatur. Rectissime
autem Ficinus verba convertit : Ad AMATUM sibi
conciliandum; codcmque modo Schleierm icherns: u m den Versuch z 0 '
m a - i- heu, ob er i'lin gewinnen konue. Quod verba attinet
t&ovtitay — 6f.6g.ixf — lucuveraSctij mira Stallbaumiana ex- plicandi
ratio, qua lex permit- tere dicitur amatori, ut laudetur. Quamquam satis
intelligitur quidem, quid sit, quod dicitur permittere alicui, ut
laudetur, tamen non lau- dabilem hanc dictionem merito censeas. Non
autem id agit h\x ad augendum amasii capieudi studium, ut, quamvis mira
faciat amator, tamen eundem Inudandum censeat, sed ea sine dedecore facere
permittit, quae si quis alius h. e. non amans facere auderet,
summopere vituperaretur. Posi- tura igitur participium pro' infinitivo
est, infinitivus participii Jocum obtinet notissimo Graecorum usu, qui
iam apud Home- rum haud infrequens, cfr. II. IX. 540. oS xenia
rroAA* Ip6e6xtv t'5ci)v pro oS itoAAa xaxd ip- Guv Proprie igitur
Pausanias dicturus erat: xal TtpoS x 6 litixtipcty kXely iZovdlccv
6 YopoS SlSwce xg> lpa6xy $av- pa<$td Mpya i py agetiS ai
xai ( sc. dldooxe ) litatvFitiSai lit\ xovtcj . Ad 816coxf e
praecedentibus ne l£,6v6iay nomen ad- dendum censeas, videunnot. p.
89. [ip i\o 6 oq>iaS] x a plyi~ 6ta xapitotx’ dv
oyeidtj. Uncis inclusimus <pi\o6oq>iaS nomen, quod nullo modo
ferri potest. Idem Bekkerns fecit rectissime. Stallbaumius, ut veritatem
illius nominis probaret» verba convertenda censuit; quae si quis
faceret alias, eruditorum maxima acciperet opprobria. Sed agitur hoc loco
non tam de eruditorum indicio , quam de totius populi
existhnatioue, neque aliud tangit Pausanias , nisi roV TtEpl XOY
"EpeJta vdpor , ad quem con- •titiieuduin eruditorum iudicia
aliquid conferunt tantummodo, non omnem constituunt. Iam quaeritur,
quo modo haec vocula iu textam irrepserit. Diximus de haere in
Commentat. de Syra- pos. Platonis, ad quam lectores
ablegamus. 7 / t iv* aX \ tj v &v vapiv. Uniusmodi
zeugmata non rara sunt apud scriptores Graecos, quotidiani sermonis
indicia, non praemeditatae orationis orna- menta. Idem dicendi genus
ROMANIS in usu fuit, siquidem apud Terent, exstat in Andr. I. 1. 28 « Quod
plerique omnes faciunt adu- ' lesccntuli ; tQtttiTtti
ngog ra naiSixd, Ixttflag te xtd dvTifioXriOug iv Tcclg dirjdiCt
noiov/itvoi, xal opxovg 6 /ivvvrcg, xal xoifu/O sig in i frvQtug, xal
i&iXovtag SovXtiag dovXeveiv Ut animam ad aliquod
studium udiungaut, aut equos Alere, aut canes ad renandum, aut
ad philosophos, Horum ille nihil egregie praeter cetera
Studebat. Idem dicendi genus patillo infra recurrit: xal xoipr)6etS
ini 5v- pai$, quo loco frustra xotpGopE- voS Bastius addendum, Riickertus
transponenda verba esse censuerunt. Alia ratio est Piat. Apol. S. p. 23.
D. xccvxa Xlyovdiv, oxi x a /.UTc&pa xal ra vno jniS , xal
SeqvS /«?} vopi?,Eiv xal xuv yxxo 0 A oyov xpeixxGO n oze/K, quibus
verbis variae hominum susurra** tiones ielicissime depinguntur
adiuncta simul temporis, quo edebantur, diversitate. Ac temporis quidem
diversitatem mutatio structurae indicat, fiuitorum verborum omissiones
hominum opinantium, haesitan- tium, aliquid aut nihil
scientium sermones depiugunt. Brevius de eadem re et signifi-
cantius, adde sis lepidius, Socrates loquitur Apol. S. p. 18, B.
ipov yap ttoAAoi xaxrjyopot ytyo- radi npo 1 » vpds, xal
naXai itoXXa 7/drj Hxtj xal ovSlv aXe- A eyovTES7 quibus verbis
et multos iam annos accusatores exstitisse dicuntor nihilqoe
veri dixisse; his tertium additur, quod verborum sono Socrates
assecutas est. Dixit nimirum itaXai - jcoXXayjSijecrj, quod sonat
ut natJcdXtj , atque vanos accusatorum susurrationes rumoresque
lepidissime describit. xal o p no vi d j-ivvvte?. Num
iureinrando non nisi amanti uti licuit? Quid, si quis pecu- niam ab
aliquo sumsit, non debere censendus est ad reddendum se inreiorando
obstringere ? Aut qui rei publicae administrandae praeponendus est,
eine cives se iniurato subiicient? Non dubium est, quin upxovS
dpvvvtES de periurio inteliigendum sit , quod iu quavis alia re
turpissimum, in amore, e Pausaniae certe senten- t a, maxime
excusabile est. Quaeritur autem , qui possit opxovS o/.ivuvteS periurare
signifi- care, Pluralis numerus upxovS indicat, ut videtur,
iusiuran- dum semper in ore gerere, at, quicquid dixeris, eodem
confirmes. Hoc qni faciunt, iurmuraudi sanctitatem non magui
aestimare solent, eo- demque haud raro confirmare, quod est
fulsissimnm. Iliuc fa- ctum, ut upxovf oprvvrfS haud raro peri uros
significet. xal xoipijdeis ini 3*J- paiS. Amatores pernoctare
so- lebaut ante fores amasiorum , ut severitatem eorum
misericordia adhibita/ infringerent. Notum Nasonis praeceptura
est: Auto fores iaceat; crudelis ianua! clamet»
xal eXoyt af 5oij- A eiaS 8 ovXevetr , Vulgo l$£\ovtdS
legitur, quod imme- rito Astius in iSeXorxai immu- tandum cenauit,
Recentiores edi* tores ad unum omnes /SeXoi'T£S probaverunt , quod
plurimorum ”3*. olag ot56’ av dovlog ovdelg, l/ixoSt£oito av ftrj it
pat- ii thv ovtci tjjv XQcrhv xal vito (pD.av xal vtcd effipav,
t(5v [tfv vveidi^ovrcov xo kaxdas xal KveAev&epias , tav de
vov&etovvtuv xal ala^wo/ilrm’ vnep avtcaV ra 6’ fpuvn navta tuita
noiovvu %a.Qi s iitedti , xal dtdotai codicum auctoritate
confirmatur, u Stullbaumio autem ita expli- catur, quasi positum
sit pro xal iSeXovzl SovAeiaS 8ov~ AevovxaS. Eius videlicet
loquendi normae memor est, de qila diximus p 106. Praeplacet nobis
i%eAov~ xaS, quod arctius cum dovXevetv iuhnitivo coniunctum
notionem c ilicit iSeAoSovAeUtS, quae infra commemoratur p* 1S4. C.
avtjf av i/ i5tAo8ovAela ovx ai6xpd tlvai ov8s xoAaxda. Adde
prae- terea p. i84. B. c Zsnep ini xolS ipadxaiS fjy dovAtvetv
iSeAoYxa ifYTivovv SovAeiav x. r. A. ijnt o 8 igoiT o av
pj) 7 T pdx r eiv ♦ Impediendi verba vel cum solo infinitivo
exhiberi soleut, vel addito infinitivo, qui cum jn} couianctus
est, si im- pediri significant, ne quid t‘i a t. Contra ubi cautio
indi- canda est, ne fiat, quod iam saepius factum sit,
infinitivus cum prj et articulo* exhibetur. Exemplo e$t Thuc. III.
1., quem Incani Riickerti industriae debeo, flpyw xo J17J
TtpOE^lOVlLXS XWV OitAojy xd iyyvS rijS 71 u AecoS
Xtthovpytlv. xal aldyvv o ji iveay vnlp (xvttv y- lTep\
ovtcHv B ii cicer to videtur non ad actiones referen- dum esse,
quas aliquis commisit, sed ad homiuem, a quo sunt pa- tratae, Habet
haec explicatio, quo so commendet, neque oilicit eidem pluralis
numerus, ad quem a singulari numero Graeci solent interdum
transire, Praeplacet tamen nobis ea explicandi ratio, quam cum
ceteris interpretibus Schleicrtnaclierus recepit. Verba convertit:
indem dieso ihm Schmeichelci und INiedrigkeit vor- werfen,
ieue ihn zurecht wei- sen und sich dariiber acharnen wiirden.
xal Sedoxat t )ico rov r 6 jio v dvev 6 v e 18 ovS np .
Prorsus eodem modo , quam- quam verbis paullisper immuta- tis, p.
182. E. xal — iZovdiav 6 vdpoS 8i8coxe rc3 Ipadxjj Savjiadra ipya
ipya? t opeva) iitaiveidSai. Iu sequentibus pro bianpaxxopLvov
veteres editt, codicesque pauci 8ianpaxropiv(p ex 'libent, quae
scriptio quoniam ad explicandum facilior est, quam illa, minus est
hoc loco probanda. Possis conferre cum nostris ver- bis, quae
leguntur p. 182* C, , xal oxi av 1 } napaxiAevdiS rc3
ip&vri napd ndvxoov Savjxa- c ni} ovx <*jS xi aidxpov noi-
OVYTl. o 8 e 8 eiYoxaxov x, t. A. Rarior haec
structura, eademque oratorio dicendi generi apprime couveiiieus ;
vide Matth, Gramm, ampl. 482, p. 806, Verba convertenda suntvQ uod
autem gravissimum est, h o p est, quod cet. Quae sequuntur
verba, &S ye Akyovdiv ol noA- A ol et ad praecedentia
referri vxo tov v6(iov ccviv oveiSovg xquvcuv, wg xayxttXbv. u
jtQayfi a SiaXQcmofiivov. o di duvbtarov , Sg yt Xt- yovGiv oi jtoXXol,
on xal opvvvti fiova Ovyyvatfii] naga &ec5v ixfidvrt jwv oqxov '
utpQodiGiov yctQ opxov ov (fdGiv elvcu. ovto xal vi &eol xal o i
av&gazoi xaGav possunt, et ad sequentia; quae- ritor,
utra relatio rectior sit Ruckertus ad h. 1. Verba, in- quit, gjS yt
Atyovdiv ol itoXKol non ad seqq. referenda sunt, quasi dicat: quod
vulgo dicunt veniam esse cett., hoc enim ipse sentit Pausanias
pariter atque vulgus, in eo autem discrepat, quod vulgus hanc rem gravem,
admirabilem putat esse, qnipJ| quod caussam ignoret; ipse auten^
gnarus caussae, non admiratur. Pertinent igitur haec verba ad
adiect. 8tivotaxov\ Quod autem gravissimum est ex vulgi quidem
sententia, hoc est , quod cet. Re- ctius quam Ruckertus f fecit ,
Schleiermacherus et Astius de ho- rum verborum explicatione cen-
suernnt. Verba nimirum ojS yt Xkyovdiv ol TtoXXol ad sequen- tia
trahenda esse, ipsius Pausaniae verbis , quae insequuntur, demonstratur.
Dicit nimirum d<ppo8i6iov yap opxov ov <p ce- ti iv elvccij a
quibus verbis, quo- niam suum indicium Pausanias secludit, satis
apparet, eundem de impunitate periurii certe du- bitavisse. Quid,
quod Pausanias p. 183. E. turpis amoris indi- cium censet, si quis
amasium aetate provectiorem relinquat, jcoWovS A oyovS
xalvno- dx&<> £1 * xqraidxvvaS, umn verisimile est,
eundem per- iurii impunitatem credidisse? Certissimum igitur est
verba cjS yt Aiyovdtv ol zoAAol ad se- quentia pertinere,
quibus ea prae- posita sunt, ut clarius appareat, vulgus , non
Pausaniam sic iu- dicare* ixfidvti t gj v opxoov.
Stnllbaumius FJekkerum secutus ut exquisitius tov opxov in textum
recepit, quae lectio Vindobb* duorum est ; eadem apud Cyril- lum
adv. Iulian. VI. p. 187. re- peritur. Sed minus placet nu- merus
singularis, (vid. p. 107.) et genitivi, quem plurimi codd* habent,
certissimum exemplum Ruckertus suppeditat de rep. I* p. 538. E. tov
tovtov ixfial- vovra xoAd^oudir, Vix iutel- ligitur autem, cur
Plato hoc loco exquisitiorem verborum structu- ram admiserit, alio
loco eandem probaverit minus. dcppo8 i diov y a p op-
xov. Schol. habet ad h. U d(ppo8idtoS opxoS ovx Ipnoi - vipaS, ikl
ttav 6i Hpt&TOt dpvvv- tgjk itoXAaxis xal intopxovv- tcov
ptpvrfxai 81 tavti/S xal 'IldioSoS Aiyarv, ’Ex tovS’ opxov
£St/xev apti- vova dvSpcoxoidt, vod(pi8laov ipyoov ittprl Kvitpi
- 8oS. xal TIA.d.toav iv. Svputodicp. cfr* Aristaenet.
II. 20. p. 105. tov£ 8h opxov? avrol (parh p?} itpoS- Ttikd&iY
zois g )dl tgov Secor. Adde Epigr. Callim. IX. v. 3* in Anthol* Gr.
Iacobsii T. I. p. 214. C llovtilctv ntJtoirjxatii tu tQavn, wg o
v6(iog (prjdv o ivftads. rccury [ilv ovv ohftdrj av ng nayxaXov
vofii- & 0 &cu iv ryde rij ndXu xal ro igav xcc i ro
xplXovg ytyv£0&ai toig igaOtaig. insidav da naidaycoyovg ini -
CryOav rsg oi narigsg tolg igcsuevoig firj ico6i diaXs- yeti&ca xolg
igaCralg, xai ra naidayaytp rctvta ngogre- tofioCev' aXXd
Xlycvtiiv aXifiia, ita aggressos est, ut p. 183. D. rovS iv ipcoxi
diceret: eif xavxa xiS av dpxovS pij Svvetv ovar is aSa- fiXitfuxS» His
verbis ioest autem, 4 h * vutgjy. quod minos bene habere
videtor. ovtcd xa\ ol 2 eoi. Si Constat quidem, 5i purtjcnlam
non addita essent verba coS 6 adhiberi saepenumero , ut ad
vdfioS (pjjolv d ivScide , ncmi- praecedentia orationem
recurrero nem esse puto , qui Pausaniae eaqoe quasi resumere
indicetur, argumentationem non rideret. sed ita tamen noster locus
com- Colligeret nimirum ille e vulgiJkuratus est, ut foitiorem
parti- de periurio sententia, eoius ve-^Ptulam desiderare videatur.
Eau- ritatem ipse addubitare se osteu- dem in lectione vulgata habes
: dit, d«*os revera summam agendi eis 6r t xavxa XiS av ftX itpaS,
• licentiam AMANTIBUS concessisse. quam recepissem in textum, si Addito
autem d)S d vdpoS (ptj6iY plurimorum codicum auctoritas 6 ivSade
nihil, quod reprehen- non obstaret. De paedagogis, das, habebis.
Ceterum discas ex qui puerorum et puellarum do- liis verbis, qua
potestate vofioS ctores fuerunt atque doctores, nomen Pausanias exhibeat.
Si- Stallbaumius laudavit Piguorium gniiicat enim nihil aliud, quam
De Servis p. 116. seqq. rulgi opinionem. ftif ico6i
SiaXeyetiSai xavxy /ilv ovv olrj^eitf x otS i p a6x ais . Ad
senten- av xiS. Si quis igitur reputat tiam quod attinet, nihil est
in apud se, pulcrum haberi xd ipdv bis verbis , quod
reprehendas, ita, ut, qui amet, potitus amasii Dicuntur nimirum patres
familias laudetur, eidemque iurato periurii pueris praeficere, qui
prohibeant, poena apud deos nulla esse ere- no cum amatoribus
congrediantur datur, is dubitare non potest, quin coufabulenturque.
Sed si ad iu hacce civitate pulcherrimum cen- conformationem
enuntiationis re- aeatur et amatorem puerorum esse spicis, duplici dativo
offenderis, et amatpri amasium gratificari, quem Graeci scriptores
perraro iiteiddv 51 7t ai6 ay co - admiserunt, quippe osores acer-
bo vS. Plenius si dicere Pausa- rimi fortuitae ambiguitatis. Unum nias
voluisset, verba audirent exemplum huius rei ut afferam, ineiddv de xiS
opii, oxi ine6xy- Plato insolei^iorem verborum 6av ol natepeS —
tjyijcaix' dv structuram admittere maluit, quam x. x. A. Sed ipsam
rem h, e, duplici dativo ambiguam oratio- xo i7tt6xTjvat xovS
TtaxipaS x. nem edere atque e nominum s^- x. A. non intercedente
upa verbo millima terminatione laborantem tayniva y, rjfoiudtTai de xccl
eraigoi dveidl£co6iv, euv xi ogatii roLovro yiyvofievov , xcd rovg 6
veidi£ovtag .av oi 7tQS0pvtfQ0i (i?'j 6ucxco?.vcoCt prjdh koidoQcoCtv cdg
ovx D OQftug Myovrag, elg de ravta ng av fiAi^ag rjyyCcxLx av naXiv
td6%i6xov ro tolovtov ivftade vopltecftai. Td de, oluca , cJd’ ov%
ccTthovv iouv , onsg p. 182. C. OV tivjupfpu TOlS a pxov 6 1
tppovijpaxa peydXa iyylyve6$cti zoS v dpxope- vcov, ad quem locum
vide annotationem p. 102. Nostra verba quod attiuet , videtur
du- plicem dativum Flato admisisse* ne nescias, amasios an
amatores confabulandi facultate privare dicantur amasiorum patres.
Quoniam autem amatorum pro- prium erat, ut loquendi cum amasiis initium
facerent, non amasiorum, ut cum amatoribus: optime Orellius pro
xaiS ipa - tirc&S scribendum esse vidit xovS ipadxds,
z 6 6^, oi/utt, To 8i poni solet, ubi ab opinionum falsarum
mentione ad id, quod rectius est et verius, tranaitur. Hinc re vera
autem verborum significationem esse Biickertus censet. Recte.
Prin- cipium, inquit, hic usus duxisse videtur, ab eiusmodi
enuntiatis, quale hoc nostrum est, ut ro 8i revera esset illud
autem, sub- iectique vim haberet suo in mem- bro , quod deinde
alterum exci- peret d<5vv8ixG)X, at h.l., postea contracta sunt
in uuum duo haec membra, et quidem vel sic, ut td maneret
subjectum, quod ad rem, de qua sermo esset, respiceret, suumque haberet
subsequens praedicatum , vel at subiecti vim plane amitteret. xal ro3
naidaycoycp r avxa xpoSxezaypera y. h. e. and dem Fiihrer dies
ausdriicklich xur Pflicht gemacht ist sc. fttf idr xotS Ipcouf.voiS 6ia-
} AiyttiSaci xovzipatixdr. Iu sequentibus libri ad unum omnes
ixepoi exhibent, quod praeennte Heiudorfio ad Piat. Pbaedr. p. 210.
plerique editores in ixalpoi immutaverunt. Schleiermacherus , quem
Riickertas secutus est, ui- mia cura, ut videtur, JVepot retinuerunt.
Adnumerandus hic locus iis est, quos summa con- stantia male
exhibuerunt codd. Vide p 21. annot, ad verba npo 6 xov.
ovx anXovr l6x\v y oizep seqq. Respicit Pausanias ad verba
cap. VIII. TcaCa ydp' itpa£,iS gj6* avtt) lq> ccvxijs Ttpat-
TopkvTj ovxe xaXjj ovxe aiCxpd d\\’ iv ry npa£ei, d>> av
npax^ift xoiovxor dnifir/. Fue- runt, qui uegutionem ante nr^Aotiv
positam uncis includerent tan- quam ineptum scribarum additamentum; alii
alia ratioue locum sanissimum emendare studuerunt, v. c. Astius eivoct omisso,
quod in codd. aliquot non comparet, scribendum censuit: ovx chzXajS
idxlr, onep IB, ap- XyS &\&x2V > ovxe xaAov avtd
xa$*avx6 ovxe aitixpov . — Qoo minus recte verba intelligerentur,
interpunctio impedimento fuit, quam post iXix$V * n omnibus £*
aQxrj s IA s%fhj ovts xakov ilvca avxo xa&' atrto (wtb cdaxQov , dXka
xakug fisv ngccrrofievov xukbv, altSxQag 6i cdtSxQuv. cdOxQajg (itv ovv
iorl tcovj]qc 5 re xal itovrjQhig %uQit,t d9ai, xakidg i5s jjpjjffroj te
xal xa- E koog. novrjQog d’ itsnv ixtivog 6 IgaOrr/g 6 itavdtjiiog,
o rov (Suficcrog fidkkov yj rijg ilwpjg eqdjV xal ydg obSi /luvLjiog iauv
, ars ovdi (lovlfio v Igav ngayfia- rog' ccfia yag tcS rov Gcjjiarog
av&Et foyyovti , ovjreji editionibus repertam
delevimus. Subiectum enuntiati est ro <pt- Xelv s . ro x a pfe*i
1$oci ipatizaif, SensOs est: Gratificar i ama- tori uoo simplex
actio est, quoad quidem sta- t i m ab initio actio per se
spectata nec pulcra esse nec turpis dicta est, sed pulcre acta
pulcra, malo acta mala est. cti(S XP&Z p\v ovv *
Haec est codd. plurimorum lectio, quam cum olhn io sequentibus
KOtXov 8s legeretur, in aldxpov pev ovv immutavit II Stcpha- nus.
Nunc illud codd. consensu probatur, igitur xaXajS 6e scri- bendum
est etiamsi non in qua- tuor codd. exstaret. Ceterum non recte Stallbaumius
ad al- 6xp&$ et xaXcjS censet e supe- rioribus intelligeudum
esse Tcpaz- T6iv . Nimirum iu superioribus p. 181. B. seqq.
Pausanias cum de ipav actionis ambiguitate lo- cutus esset, nunc eo
orationis finem direxit, ut et de amasii amore h. e. de tpiXtiv,
quid videretur, ediceret. Sensus est: 'Hassliche Liebe nun ist beim
Liebling, wenn er sich einem Schlechten auf schlehte Weise e r
- giebt. ixtivoS o ipa<5z?jS. Ille, de quo dictum est
p. 181. B. Collocata verba ita sunt, ut necessaria articuli repetitio
conteintum qnendam exprimat, quo maliim amatorem Pausanias atFiciat. Padem
articuli repetitio honorifica est p. 187. E. xal ovtoS itiziv o' xaXoSf 6
OvpdvioG , o t rjs Ov pavias Mov6rjS "EpcaS* Igitur neque
honorifica neque ignominiosa significatio ixeivoS verbo cum duplici
articulo con- juncto eilicitur, sed extollit tan- tummodo verba,
quibus apponimur, quae verborum sublatio pro sententiae ratione in bonam
aut in malam partrm accipienda est» offerat ukotcz a pzv os.
Haec verba ex Homero II. ^,71* depromta sunt, ut primus Fische- rus
vidit. Reperiuntur eadem haud raro apud poetas serioris aevi, ut
apud Mare, Argentar. cp. VIII. 1. opvi , zl fioi cpiXov vvtzov acptfp
- 7ca6a$ ; ?}8v 6h II vfifijjS EidcDXoy xoizjjS (&x £Z
dnonza.- pevov. Ceterum quam bene Homerica dictio rei
describendae conveniat, iam vide. AMATORIS am^siique coniunctio cum
^mimae et corpo- ris conjunctione comparatur, quae nisi coniuncta
sunt, esse non possunt. Amator igitur amasium deserens levitate
sua, quae azco- I i tjQct, ot %tT<u a7CoitT<x[isvoSj
itollovq Zoyovg xal vito- tf%E<SEig xcaai<S%vvug. 6 8 e rov
ij&ovg %Qr}6 rov ovrog egatirrig duc p Lov [ievel , ars iiovifico
Gvvray.ug. rov - rovg 8ij povlezca o rmitEQog vofiog ev xal jccdiug
pa- Gavltuv, xal roig ]itv %aQL($cc<sftcu, rovg 8s 8tcc<psv -
yuv. 8ta recura ovv tolg fuv duoxeiv itaQaxEXBV&caiy roig $£ (pEvyEiv
, ayavo&etdjv xcd Patiavl^cov jtoztQav 7toxs iGnv 6 eq&v xcd
jrotEQav 6 6QcZtiEvog. alita 6q ittdyevoG participio
expressa. Umbrae imaginem repraesentat; amasius ab amatore
derelictas miserrimam conditionem ostendit quasi corpus sine anima
iacens. Sensus est totius loci : Denn er (o itdrdijfioS ) ist
nicht treuhaft, da er nichts dauerndes liebt. Denn mit dem
Verwslkon der \ Bliithe des Korpers, die er Jiebte, schwindet
er fiatternd daron nnd xnacht viele Worte' nud viele
Versprechungen z u ni chte . r ovrovS 6 rj fiov\ st ai
seqq. Verba convertit Schleierm.: Diese also will unsere Sitte,
dass man wohl and rccht priif j, nndden einen gefallig sci, die
andern aber meide. Iisdem fere ver- bis in convers. Symposii
usas est Scbnlthessius p. 75 Riickertus verborum sensum esse ait:
Velle legem explorare amatores, facta autem ex- ploratione pueros
aliia obsequi, alios vitare. Aliter atque doctissimis viris visum
est; nobis de his verbis statuendum videtur; sed ut Pausaniao voluntatem
fucilins cognoscamus, brevi repetitione opus est sententiarum, quae in
eius oratione continentur. Athenis nimirum legimus fuisse de amore
legem ambignam, cfr. p. 182. B. Eius rei caussam esse, quod
quaevis actio per se spectata et pulcra esse possit et turpis.
Actionem enim non cx actione sed ex agendi ratione recte iudicari,
cfr, p. 181» A. Hinc bonum amato- rem esse , qui bene amet ,
ma- lam , qui male, cfr. p 181. A. fin. Pari modo amasium
malum vocari, qui male se tradat ama- tori, bonum, qui bene, cfr.
p. 183. D. AMATOREM, Pausanias pergit, ad persequendum
amasium omni modo impelli lege Attica, cfr. p. 182. D., amasium
contra ab eius congressu retineri. % cfr* p. 183. C. Hoc quo
consilio fiat, iam dicendam est. Utrosqae videlicet, h. e, et
amatores et amasios, lex Attica explorare studet, atque bonis
amatoribus araasiisque favere, malos pellere. Huic explicationi
Graeca verba optime respondent excepto uno,- quod de legis
efficacitate dictum admodum friget, Atacptvyeiv , si quid video,
depravatum est, scripsitqae Piato (pvyaSeve iv. 8ict roruta
ovv toiS iikv seqq. Totam hanc enuntiationem delendam censuerunt
Schiitzius et Astius. Mitto aliorum conie- cturas commemorare ,
quibus non 8 vxo rav tijs tijg atrius XQtarov [liv ro
aXlGxtG^ai ta% v altSxgov vtv6(u<Srai, iva %qovos iyyivrytai, og
Srj Soxti tu xo Xka xahas fieafavl£eiv ' ixura ro vito %qj]- B
[turav xal vxo xoXvttxav Svva/iitov aitovai (iIg%qov, luv rs xaxcos
xa6%cov xryfy xai /irj xaQtipyGy, av t tviQyetov(iEvo$ elg ZQijfiara i)
eis Sucxga^ei , g xohuxas sonatur, sed corrumpitur locus
sanissimus. Mens Pausaniae haec est: Um nun die Sinnesart der
Liebenden kennen zu lcrnen, mnntett das Ge- setz die Liebhaber
znr Verfolgung derLieblinge, die Lieblinge zur Fluclit vor
den Liebhabern auf, und ^ichtet nun and priift, wes Geistes
RinderLieb- haber uud Lieblinge sind, ob sie zu den
schlechten oder zu den guten gelid • ren. Eodem fere modo in
con- versione Ficinus : et hos qui- dem sequi iubet, illos
fu- gere, diiud icar, s et examinans, quae quis amet et quae in
quovis amen- tur, Nam ex iis , quae quis amat, cognoscere possis,
utrum bene amet necne, ovtej 8 rf vxo x avxrjS xyS
aixiaS , Hac igitur, qua dixi, ratione atque ea de caussa sc. ut
amantium ingeuia accurate examinentur, vide annotat, p. 72^ xpcoxov
p\v xo aXl6x£~ 6^ at. Statim capi atque te- neri amasio dedecori
est, quod intercedente tempore nullo amasius de amatore indicare
non potest, fierique potest, ut malo se tradat. oS 8rj 8
o x ei. cfr, Meleagri Epigr, LXII. in Iacobsii Authol, T. I. p.
20. EItte AvxatviSi AopxaS' F6’ ok £xixr)xta tptXovda
"HXgqZ. ov xpvxret xXaCrov ipeota xpovoS. xo vxo
XPV t 1 *** cov aXdjvat. Divitiis atque potentia in civitate capi,
h. e. si quis invenis diviti viro et potenti se tradat , non qao
mores probet , sed quia* divitem eum esse videat atque poteotem;
quod quibus modis heri possit, in aeqq. statim exponitur} mem- bra
enim, quae seqnuntnr, iuueta particulis iav xe — av xe, non nova
quaedam continent, quae ubi locum habeant, torpe sit amati
obsequium, quem sensam Astii versio exprimit, sed dupli- cem viam
indicant , qua - possit heri, ut divitiis aut potentia quis capi se
patiatnr, si aut male tractatos ab amatore praepotente reformidet,
nec audeat fortiter resistere, immo metu se submittat, aut
beneficiis pellectus non con- temnat, sed tradat se homini, qn»
pecuniam det, in reboa pu- blicis gerendis adiuvet, Riik- kert. De
xaxa(ppov?/6y verbi significatu supra dictum est ad p. 87.
vxo noXtx txGov 8vyd- pec ov. h. e. spe magnae in civitate
auctoritatis et potestatis, vid. Wyttenbach. ad Plut. de Ser. Num.
Vind. p. 58. StaUb. Eodem modo posi- prj xctTCKpQovrjtffl, ovdlv yap
'SoxeZ rovtav ovrs fiiflcaov OVTE fLOVLflOV ElVUl %dQl$ tOV fMfdi
7tE(pVxlvai ai£ CiVTCDV yEwalav tpiklav. pia 8rj Ieltcstccl r<3
^psziQtp vopcp oSog, et (iskkeo nakng %ctQieZ<5&cu iQa&rjj
jcaidwa. fifrt yaQ rjpZv vopog, &Q7UQ Irii roZg iQaCtaZg ijv — dov
- Xevuv i&tkovra qvtwovv dovkeiav icaidu&olg pfj xoka- C
tam habet p. 178. D. ovxe xi- pal ovte irkovxoS h. e, neqae
honoram neqae divitiarum futara possessio, vid. annot. p. 60.
iav te xax&S zadx oav X. X. A. Expressit haec Phaedrus p*
178. D. hoc modo* ei xi alOxpov zoidZv xaxaSf/koZ yl- yvoixo 7f
7tCt6XG>V VICO xov 6i avavdpiav prj dpvYopEYoS, ad quae verba
vide annot, p. 61. XMpif xov pijdl 7tE(p v- xkvai . Recte
Stallbaumius: praeterquam quod ne ori- tur quidem inde
generosa amicitia. Eadem dictio repe- ritur Symp. p. 173- C.
xgo/jI? xov ofedSai QotpEktidSai vnep- <pvooS c oS X a tp°°*
Exempla plura huius dictionis Stallbaumius congessit ad Apol. Socr. p.
35. B. fin, : x&P^S & r V s 8o5y*> cJ dvdpES, ovSl
Sinaiov fioi Soxei elvai x, r. A $ikiav cave latiore sensu dictam
putes $ non enim valet nisi de amasii erga amatorem benevolentia,
vid. an- not. p. 69. ' %6xi yap ijpiY vopoS seqq. Haec
Verba, ut vulgo disppsita sunt, non nisi per anacoluthiam explicari possunt.
Dicere debebat Pausanias : l6xi yap rjpiv vopoS, Ssicep iitl xoiiS
ipadxalS tjy SovAeveiy — ovtgo xal uWtjy piav iiovrjY 6ou- A eiav
kxovdiov tivai x. x. A. Acquiescentem, in anacoluthi*
Stallbaomium video, quae in hu- ius enuntiationis brevitate satia
molesta est. Displicuit eadem et aliis , qui vario modo locum
sanare studuerunt. Aliquid vitii verbis inesse videtur, sed non
mutauda verba sunt pia poY7f 9 de quibus Thierschius egit Spec.
Crit. p. 47. seqq. et Schaeferus Melett. Cr. p. 19. Plura exempla
attolitStallbRumius ad h. 1. Rectis- simum est, quod in uno Bekkeri
codice legitur, oSitep pro daSzep\ verba hoc modo disponenda sant:
£ 6 xi yap i}piv vopoS t oSnep inX xoiS kpadxalS 7 }V • dovkeveiv
kSkXoYta ifvnvovY dovXeiaY itaidixols p?} xoXaxeiav elvat pr/de
£zoYEi 6 t 6 xoY * oyxeo 87 } xal aXkrj x, x. A. Sensus est: Lex
nimirum nobis est, quam AMATORUM esse supra diximus: Si quis quo-
libet modo serviat ama- siis, eam servitutem non ignominiosam esse,
lam nt amatori, ita amasio etiam lex est eaqne sola, quae
serviri amatori concedit quidem, sed non nist ita, ut id fiat
virtutis ergo. Iutelligent prudentiores, quid homo sibi ve- lit.
Apprime huc pertinet Xe- noph. Symp. c. VIII. $ 32. xaixot
TLai) 6 aviaS ye, 6 *Aya - Sgovo? xov TtoiTjxov £pa 6 xijS 9
dzokoyovpEYoS vnlp tgjv axpa- dia dvyxvXiYdovpEYODv , eZpij- xev ,
coS xat dtpaxEvpa cifoa- 8 • xdav dvv.i pijdl iitovtiduS tov, ovtco
drj xcct alit] pia povq Sovlda ixovdiog Idrttrai ovx htovdSitixog.
avri] di iduv rj xeqI zqv ccQBttjv. Cap. XI.
NsvopiGtca ya.Q drj fjpiv , idv ng t&ily uva &£- QttJtevtLV
rjyovpsvog 8i ixelvov apelvav HcBti&at, rj xcczcc (iocplav riva ij
xaza cillo oxiovv pigog dgszfjg, ccvrq au % l&Elodovltla ovx cdo%Qd
tlvai o vdb xolaxela. ficorarov dv ykvotzo in nauSi - xojv te xal
ipadzcov. i} nata dotpiav riva. De latiore tiotpicxS
significatu, quae qn\o6ocpia. paullo infra vo- catur, vide annot.
p. 34. Satis autem erat dixisse: y Maza. 60- rpitxv riva ij holS*
onovv fii- poS dpEZrjS, Sed haud raro Graeci iu rebus, quae
genere non differunt, specie di- screpant coniungendis vtWoS
nomeu -addunt, quod qua ratione fiut , infra docebitur. Exempla sunt
huius usus Symp. p. 188. A. civ$pGj7toiS "Hat zotS aAXoiS
ZqjoiS T£ HCtl (pvzoiS. Gorg. p, 473. C. ZtjXgdtuS qqv nat cvdai-
povt%dpevoS vi zo zaiv itoXtzdjv xai z<yv aXXcov gtva) v. Alcib,
I. p. 112. B. xal al paxen ye xal oi Sdvazot dux zavryv trjv
dicupopav toiS ze 'AxaioiS tux\ to2s aAAoiS Tpco6iv iyivovro.
%v /tftaleiv cis tavto. Bene Riickertus , duae, inquit, hae
leges in unum quasi locum conferendae sunt, h. e. cura agenda est/
ut harum legum utra- que valeat atque observetur, quo- ties amatori
puer se dedut , ut ille nihil recuset facere atque pati, quo
dilecti gratiam consequatur, hic eo flagret sapientiae atque virtutis
studio, ut cum fugiat, qui ad hanc nihil conferre possit, contra qui
virtutis auctor sit, ci se tradat, nihilque, quo gratus illi sit,
facere recuset. ro ipadty itaibrxa x a ~ pitiatiScei.
Plerumque solet duobus nominibus hoc modo iunctis articulus demi, si in
uni- versum de toto genere sermo est cfr. Piat. Eutyphr. cap.
IV. dvodiov yap etvai zo vi 6 v itazpi <dovov I xe&iivai.
Symp, p. 1 84. B. cl ftiXXei xaXcvS x a ~ pul6$ai ipa&cy
naidixet. Tw ipcttizy autem, quamquam sensu nou cassum est, tamen,
quoniam sententiae rationi minus convenit, prae pauciorum codd.
lectione zo ipa6zy postputandum est. Et- enim non dispicias , cur
suo quisque amatori amasius re- ctius dicatur, quam iu
univer- sum amatori amasius grati- ficari. otav yap e
Is zo avzo l f Sensus verborum est: Weun uumlich Liebhaber and
Liebling den eincu Zweck vpr Augen haben, velcher sicli aus der
Vercioigung ihrer hei- 6e Z Sfi xa vufia xovta ^vfificduv elg ruito, xov
re itegl t>)v mu8iQu6tiuv xal xov % egi t>)v epdotiotplav r t
1J xal rijV aU.ijv dgtzijv, el fisXXn ^vafir/vai xaXov yt- veOftcu
xo IgaOrfj xtcadixu xagl<Sa(SQai. otav yag elg r 6 tcvx o iX&coOiv
iguGxrjg xe xal naiSixcc , vo/xov %% cov ixaxtQOg, 6 (i iv %aQ(J5ayLtvoig
xcadixoig vxi/geuav ouovv Stxulag av v7tt]QBTBLV, 6 de xa xoiovvu avtov
Corpov xe xal aya&ov Sixaiag av ouovv av vnovgyelv , xal 6 (itv
dvvafiivos elg tpQovrjOev xal xrjv aAXijv dgextjv £i\u- (iaXXeO&ai, 6
Se Stotnvog elg nalSevOiv xal xijv aV.rjv e derseitigen Gesetze
ergiebt. Co- piosius paullo infra p. 1S4. E» dicitur: rore — rodrmv
ZvvioY- tc av eIs x avtov xgjy ropcav. Minus recte RiickertusJ
Quum enim conveniunt. na l ti}v &XXrfv d p ex ?}y
Bivfi{jdXA.e6$ai. Verba tran- sitiva, quae vi quadam pronun- tianda
sunt, ut iis seutcntiae caput contineatur, haud raro ab- solute ponuntur.
Verba conver- tenda sunt*, indem der eine in Beziehung auf Weisheit
und Tu- gend Befordcrer zu seiu verraag, der anderc in Bezieliung
auf Bil- dung und Weisheit Besitzer zu sein verlangt ... Vide, quae
de absoluto usu verborum supra an- notata sunt p, 87. Eius
usus ut unum exemplum hic addam, legitur Symp. p. 175. A.
napov naXovYtos ovn faeXei eisiEYca, quo loco, quid differat
naXe.lv et naXeiY xivd , edocearis; re- ctius igitur, quam factum a
me est p. 27., verba convertenda sunt: und ich rief mehrmols , h.
e, liess mehrmals den Ruf ergehen. xox e 61 / — eis
xavxov- X gdy YvpGDY. Wenn dann, sage ich, dicse Gesetze zu
einem Zweck sicli vereinigen. di/ particula positu est , ut
filum orationis interpositis verbis ab- ruptum rursum anuecteretur.
Pror- sus eodem modo p. 183. D. t.is 61 } xavtd xiS av (IXtipaS,
ad quem locum vid. anuot. p. 110. Pertinet autem b. 1. tore Stj
n. x. A. ad, praecedens otocv }'dp eIs tu avxo £A $a> 6 iv n. r.
A. Coniecturis verba frustra sollici- tarunt Astius et
Bastius. B,v p it i nx Et xo naXoY elvai . Phavoriuus :
6t>j.iitl- Ttt E iy XiyErai nal xo tivpftai- veiy et s. v.
6v/iftE<SeiY : <5tyi- iriittEiY • opov yEvk6Sai • oi /uS?
"Oprjpov trjY Aefciv nal inz xi’xypd>Y aTtofiaGEWY ti-
SeadiY. Stallb. tovxcj. Convertit Schultbessius : Selbst
sicli hier- i n getauscbt zu finden , briugt keine Sebande.
Schleiermaclic- rus, cuius verba Riickertus pro- bat , exhibet in
convers. : i n diesem Falle. Ficinus verba red- didit; in hoc
utique falli turpe non est. Unice vera Stnllbaumii interpretatio
est: quum sic a f- ' fecti sunt animo. Errat 'autem Ruckeitus, xo
ititcutaxu- <3o<piav maci&ca , r6te Srj tovtcov kvviovrav tlg
xavrov xav vofiav (iova%ov Ivrav&a fcv/ixlserei to xaX ov elvai
XcuSixk IqccG xjj %aQlQa6&UL , aAXofrc de ovda/iov. ini zovToy xal
Hganaxqfrijvai ovdiv alaxQoV ini fis rotg «X- Xoig nceifi xal
i^anarafiiva alo%vvr t v tpiqa xal fitj. ei 185 yecQ «S tQaarjj ag
nXovdicp nXovxov evexa xaQiQa^ievog htanaxri&eiri xui ur/ Xafioi XQVf
lccta ) ivcupuvivxog tov d$ai ad solam amasium perti- nere
censens, non item ad ama- torem. Etenim quae sequuntur exempla,
quamquam non nisi de amasio loquuntur, tamen simul amatoris
imagiuem involvant, qui vel amasium frustratur falso amore, vel
ipse amasii studio falsissimo decipitur. Verba con- vertenda sunt: Bei
solcher Absicht ist selbst die Tauschnng deseinenoder
des a"n dem nichtschimpf- lich. Bei ieder undern Absicht
dagegeu bringt Lieben undLiebling sein Sebande, mag nun einer
getauscht werdea oder nicht. lB,cntaTi\% elrj xal jxy
Xdftoi. Si quis spe excideret h. e. si non acciperet. Igitur xal h.
1 . explicativum est, de qua vide sis Indices, cfr. Al- cib. II, p.
143- c. 10. xaxov apa — idrlv rf tov fieXxidxov dyvoia xal xo
dyvoelvSo fie A- xidxov. Dc iusequentcava^nrW*'- TOS Riickertas
<K ava<paive6$ai f inquit, verbum proprie significat ex
inferiore loco emergendo apparere $ hinc subito apparere, dicitarque haud
raro de iis, quae cum speciem quandam habuissent antea, falsam
illam, subito, qualia revera sunt, se ostenderunt,» Displicet hoc
subito, quod ne quis, verum habeat, videat Piat, de rep. VI. p.
484. A. oi pty di} <piXodocpoi — xal ol /ii} dux /laxpov xivoS
die- ZeXSovtoS Xoyov /loyiS it co s dve<pavTj6av olol eldiv
a/i- i poxepoi . Neque debebat Rii- ckertus exemplum putare ,
quo sententiam suam probet Symp. p. 213. C. eicSSeiS
l€,aCpvi)S ava<paived$ai onov iyoj di/u/v r/xidxa de idedSat,
quo loco neutiquam abundat i%al<pv7jS verbum, XO y e
avxov: quod ipsum qttinet, quantum quidem in ipsius potestate
est. Wolfius verba convertit: sei- nen Charakter, seine Ge-
sinnnug, quod quamquam ferri potest, tamen propter iusequens to xa$
avxov etiam aliis minus probatur. ovdiv jjxxov aldxpov
h. e, non minus turpe est, quam si AMATOR revera dives esset, AMASIUS
igitur non deciperetur atque pecuniam acciperet. xav ei' xiS <ȣ
dyaSai. De xav el particularum signifi- catu disseruit Buttmaunus
ad De- mosth, Mid. p, 33. Nimirum quoniam non nisi ad modum
verbi alicuius referri potest dv particula, conseutaneum est in
fdr- Igadrov xlit/ros, ovdhv qzzov alexQov. Coxsl yng o toiovtos xo
ye avxov budet%eu , oxi svBxa %gyiia xav oxcovv av oxaovv vxtyQtxoi'
xovxo Se ov xakov. xaxd xov ctvzbv 6r/ luyov xav el ug ®g aya&m
jragvSafUvos xai oevxos wg dfidvcav toofuvo g Sia X rjv epiHav xov
tQaOzov i^aitazri&tlT} , dvcupavevxos Ixdvov xaxov xal B ov
XExxijfiivov ccQtzijV, oncas xcdtj rj dxaxtj. doxei ydg mula xav
ei, av particulam ad alterum post ei verbum perti- nere, Igitur
recte dici Batt- mannos ait xal, ei xovxo itoioirjv, ev av
itoioirjv et 6oxco jiot xav t ei xovxo noioirjv , ev itoieiv ,
Inter- dum praecedente xav, quod od apodosin refertur, verbo in
apo- dosi posito av superadditur, ut recte dicatur Graece
tioxm jxoi , xav, ei tovro itoioirjv, ev av Ttoieiv . Nostro loco
quo- niam apodosin uon habes, ad quam av particulam referas,
ca- put enuntiati esse xai ei i£- ait axrj $ eirj censendum
est. Et quoniam xal el conditionem exprimit , qua revera
fieri posse significatur illud, quod in couditione continetis, haud
abs re visum est scriptoribus av particulae in hoc dicendi
genere additamentum , quo possibilitatis , notio in
verisimilitudinis notio- nem immutetur, Sensus est: Anf- dieselbc
Weise nun, wenu einer, indem er einem sich ergiebt, ais einem guten
, um selbst. besser eu wenlen, getcuscht wird (and das kann gar
leicht ge- scliehen and ist schon oft geichehen), s. Gesetzt
nun, es wiirde einer wirklich be- tfogeu, indem er cett.
6ia rrjv qnXiav xov l pati tov. Deerat olimroti ar-
ticulus, quem ex octo codicibus addiderunt interpretes. In an-
notatione Riickertus habet : s u am caritatem erga amatorem,
Schleiermacherns : d u r c h die Freuudscliaft 'seines Lieb-
habers. Scbulthessius: durcli seine Fren,ndschaft. Ama- sius, qui AMATORI
sededtrrat, quem bonum putaverat, ubi frustra id se fecisse videt,
non caritate erga amatorem deceptus est, sed malo amdre
amatoris. Verba 6ia xrjv <piMav xov ipa- tixov prorsus repuguare
videntur iis, quae de (piXiaS notione supra annotavimus p. 69.
Neque tameu illic non recte iudicare nobis vi- demur, et
commodissime huius loci verba explicantur. Satis notum est, viros,
quarum igna- via notunda sit, feminas interdum appellari. Exemplo
est huius usus notissimam Homeri dictum 'jixatdeS ovx ix* *Axcuol.
Nou minore, ut videtur, cum acerbi- tate virorum ignavia notatur
ad- dito , quod solis feminis laudi est. Quis feminas dou
laudet in nendo subtemine diligentes? at Herculem colo assidentem
quis uon vituperet atque derideat? tpiXiav Achillis, Patrocli
amasii, summis laudibus eilert Phaedrus p. 180, B. Alcestidis
laudat p. 179. C., nam et amasiis et mu- lieribus propria
<pi\ia\ vide an- ai xal ovzog t o xa& avrov StStj Xaxtvai, on
uQEtijg y svExa xal tov jleXztav yEVE<S#ai ndv av navtl tzqo-
%vfi7]&ehj ' zovzo Sb av nuvzav xakhdzov. ovzco itav- rog ys xaXov
dpiZTjg ivexa %uqI%e<5%(U. ovzog Idriv 6 tijg OvgcivLag &eov
"Eqoq xal OvQaviog xal noXXov utjiog xal xoXei xal USuircug, xoXXijv
tx^iXetav, dvay- not. p. 69., nostro loco amatoris
<pi\ia ita commemoratur, ut ma- lam, effocminatum, turpem amo-
rem siguificet. Similiter feminis a serioribus praecipue scriptori-
bus ipcoS nomen attribnitur adhaerente ignominiae notione. Caute igitur
Phaedrus, Alcestidis laudans in amore virtutem , non 8i ipeaxa
dixit, quo verbo omnis laudatio misere periret in licen- tiae
crimen conversa, sed (pi~ "kicLY commemorat, qua pa- rentes
superarit mulier fortissima 8 ia x6v*EpGJxa* xal o v x
exxTjpiv ov dpexrjv. Prorsus eodem modo supra dictum est p. 185. A,
i£- anazTjSehj xal prj Xaftot XPV~ / iaxa , ad quae verba vide
uunot. Adde p. 185. C; apexijS y £v£- xa xal xov fieXxiaov
yevitiSaz X. t. A. In sequentibus o/idoS xdAjJ tj anati} verba
conver- tenda sunt: tamen non igno- miniosa fraudatio est,
ignominia cum frauda- tione amasii non coniun- cta est. Sic p. 184.
E. ini tovto) xal i%aitat?]$jjvai ovdlv aidxpov. Soxez
yap av xal ov- toS*. Kai scriptor posuisse cen- seri potest ita, ut
ad praecedens 8oxet yap 6 toiovxos — Im- 8tlB,at x, T. A.
respexerit. Ha- bet tamen haec dictio , quod mihi quidem admodum
displicet. Quid, si scripsit Plato Soxel yap av xal ovz gjS? h. e.
videtur eoim etiam hac conditione i. e. etiam si hoc ei contigerit,
nt ab amatore deciperetur, quantum in ipsius potestate est,
declarasse satis et q. seqq. ndvrcos: ye xaXov ape -
xij$ ivexa h. e. Hac igitur ratione in universum pul- crum virtutis
ergo ama- toribus gratificari. In permultis codd. yi legitur
post dpetrfi, quam particulam recentiores editores delerunt
Riickerto excepto, qui eandem in textum recepit. Particulam non
exhibent Bodl., Vatie. Vindob., quorum librorum tanta auctoritas est , ut
recipienda particula sit, si hi eandem exhiberent contra ceterorum
auctoritatem. Ut res nunc se habet, particula delenda est.
ovroS’ l6tivot ijSOvpa- v ia$ $ eoi)”Ep gdS. Ut ovxa haud
raro significat: hac ra - tione, qua dixi, ita ovtoS h. 1.
convertere possis: Ecce ta- lis est, qualem descripsi, Uraniae
Eros, Quod sequitur OvpavioS nomen maiuscula littera scribendum curavimus
, nomen enim revera est, non adiectivum. Minus apte Schleier-
maclierus verba convertit : Dieses Ist der Eros der himmlischen
Guttin und scibst himmlisch. v t£iki xatov, MlBltS&ai 3CQ0 S
ttQEtifV TOV TS Iq 10VTU‘ ttVTOV C ctvrov xal tov igcoftevov' oi 6’
ersgoi navus T ^S Bti- qus, rijjs ITavSrftiov. Tama <joi, iipij, cog
ix tov nu- Qu%Qrj[ia, (o <PaiSQB, nsgii "Egenos OvfifSuklofiai.
TlavOctviov Se navGafiivov — didatSxovSi yag fis Ida Xtyuv ovtadl
ot Oocpot — Igpjj 6 ^QiOzodrjfios Alia ratio ndvSjjfiof verbi,
qnod supra p. 181. B. ut adiectivum positam est : d fib' ovv t
ljs Ilcevdtjftov 'AfppodhijS coS a\?/~ itctv Si] fxo S idziv
x.t.X. Perfacile autem fieri potuit, ut aliquis cum ovpavioS
littera mi- nuscula scriptum exstaretin codd., xat adderet, quo
orationem, quam censeret mutilatam, expleret. In codd, nullum
vestigium deprava- tionis est, igitur ne uncis quidem voculam inclusimus,
nimiae audaciae crimen fugientes. tov te ipcovta — xa\
tov' i poS fievov . Post roV ipco/ievov rursus iutelligas
avzdv avtov. Frustra Bastius et Astius tov ipcopkvov scribendum
putarunt: quod si ab ipso Platone esset profectam , ordo verborum
hic, opinor, foret: tok ipajvxct avtov te avtov xal tov ipoo -
pkvov. Nunc sententia liaec est: Eros Uranius utrumqae, et amatorem et
eum, qui amatur, impellit et cogit, ut omnem coram ponat in
studio virtutis et sapientiae. Stallb. Eodem modo verba
intellexit Scbleiermacherus in convers. p. 405. *. indem er den
Liebenden nothiget viel Sorgfalt auf seine eigene Tugeud zu weuden,
und auch den Geliebten. coS ix tov itctpaxpT/ fia. Schol.
habet:, ix tov avxopa- toVf ix tov itpoxeipov. Appo- site
Stallbaumius ad h. 1. Xenoph, laudat Hell. I. 1. 21. A £- yeiv ta p\y anu
tov nctpaxprj- pof, ta 6h fiov\ev6atp£voi'S* Non dubiam est autem,
quin additis his verbis Pausauias ex- cusare voluerit orationem
suam, quam elegantiorcm atque poli- tiorem edere potuisset , si
ad eam rem aliquid otii datum fuisset. Ilavdaviov 8e
tfavda- pkvov. De sophistarum irri- sione hic agi, qui similes
sonos verborum studiose quaesiverint, iisque orationem suam
exornaverint, conseutiens iudiciom est interpretum omnium. 9ed non
verisimile est, Apollodorum TIavdavlov 81 7Cav6af.ie.vov verbis ita usum
esse, ut ad Pausaniae orationem non respiceret, in qua illius studii
sophistici nullum vestigium reperitur. Praecellit autem haec oratio
prae ceteris verbositate, ut non videam equi- dem , quid obstet,
quominus in hanc verbositatem Tlavdavlov navdapkvov verba directa
esse censeamus. Fuerunt, ut ipse Apollodorus indicat
sequentibus verbis, magistri dicendi , qui si- militudines verborum
discipulis commendarent. Sed commenda- runt eas ita , ut quibus
aliquid efficeretur, quod modo indicatum est esse h. 1. iuanis
cuiusdam verbositatis satis acerbum vita- 6'siv fiiv Agiarorpccvij
Xiyuv, t v%dv 8e avta uva rj vno srAijfffiov^s rj vito rivos allov A vyya
liaitmra- xvlav xal ov% olov re elvat Xiyuv , aAA’ tliteiv av- ii
tbv — iv z)j xarto yag avrov rov laxgbv ’E(>v!;!pa%ov xcaccxeia&ai
— r £l ’EQv%l(ia%s , d mulos d ij itavOai pcriiim. Non igitur illos
dicendi magistros Apollodorus carpere voluisse censendus est, ad quorum
praeceptum ipse verba sua composuit, sed eos commemoravit tantummodo, ut
eorum auctoritate dictionis iusolentiara excusat et. Restat, ut de
conver- sione verborum Tlavdavlov Sl navdapivov dicamus:
Schleier- mucherus exhibet; Ais nun Pau- sanias ausgesugt hatte.
Schult- hessius habet: Nachdem ntm Pausanias pausirt hatte.
Astius verba reddidit: Nachdem Pausanias eudlich geendet, quae couversio
Orellio displicet, quod ni- mis longa oratione Pausanias usus esse
dicatur. Sed ea ipsa de caussa Astiaua illa conversio r.obis
magnopere placet. Est ta- men nobis, qnod Graecis verbis mugis
respondeat, quod si durias videbitur atque minus elegans, non
magnopere dolebimus, quippe exhibituri, quod revera excu- satione
indigeret tg ov dotp&vx Ais Pausanias nuu ansposaunt
hatte, ovTGodl oi do <pol . TovS tiocpouS dicendi
magistros esse, supra indicatum est. vide quae de docplaS notione
annotata sunt p. $4. SI avrcp riva — ii vyya.
Scbol, ad h. 1. varias singultus caussas laudat eiuaque sanandi
modos studiosissime re- fert, quos hic repetere longum est. Unum hoc ex
eius annotatione depromam, quo prndentiores de Aristophanis voluntate
certiores fieri possunt : zo rov A vypov dvpnzcopa irtiylvezat tgj
dtopaxoo Sta 7t\ij pojdtv rj xiv od div r) if>v % iv, iviote xal
dia 8rj£,iv Spipe arv vypo)V xal (pappaxoaS&v zalS noidztdiv.
Pluribus de Aristo- phanico singultu dicturi sumus in Commeut. de
Symp. Platonis, ad quam lectores ablegamus, iv x y xdteo.
Haec est lectio codicum plurimorum. Vulgo iyyvtdzcD legitur, quam
lectionem Astius retinendam censuit. Frustra. Non enim de
vicinitate hic agitor, sed de ordine seden- tium; quandoquidem
Eryxima- chus praecepit: Zxadrov \6yov eltceiv hcaivov "EpcjroS
ini 8e- £,id. Saepissime autem ivzoS, iyyvS , iv x\j xdra> ,
iyyvrdzco, similia, commutata reperiuntor in libris, ut non
defuerint, qui etiam Lachetis loco ditficiliimo p. 187* $• 13.
iyyvzata vocem mutan- dam censerent. Beue tamen id habet eo loco.
Verba sunt haec: ov poi Saxeis elSivai , dzi ds dv iyyvzata
2a)xpdzovS y A oya>, c Zsnep yivet , xal n\r/— Qid^y
SiaXeyopevoS, quae verba quoniam nullo modo explicari possunt, in
hunc modum emen- danda suut: ut; poi SoxeiS eiSi- rai, ori ds av'
iyyvzata 2iu- xpdzovS ift A oyoj, &snep yv- vatxl nXrjdid^et
SiaXeydpevoS, fis xijg Ivyyog, q liysw vxig Itiov, smg av iyd xav-
Cafiai. Kal xov ’Egv£liia%ov slntiv, 'Alia xoiqe a dfitpoTSQa tavxa. iyd
fiiv ycig igd iv xd <5(5 fiigsi, 6v 6’ insUlav xavtiy, iv r a ifid' iv
a S’ av iyd liyca, idv fi iv <Soi iftihj dxvtvOxi l%ovxi aolvv
%go- xa\ dvdyxij av ro3 x.r.X, Agi- tnr autem satis lepide
de mulieribus , qui severissime in virorum suorum vitam inquirunt, ne-
que prius ab interrogando atque explorando desistunt, quam omnem
vitam , quomodo gesta sit gera - turque, cognoverint. Verba con-
vertenda sunt : Du scheinst mir nicht zu wissen , dass wer dem
Socrates zu Leibe geht ,« der gleichsam mit einem eifersuch- tigeo
Weibe anbindet, und er muss , wenn er auch vorher -von etwas ganz
andcrm zu reden^begonnen hat, ohne Aufhdren sich von ihm im Zirkel
herumfiihren lassen, bis er sich endlich vervrickelt, und gesteht, wie er
ietzt lebt und wie er geiebt hat. dixaio? el rj navtial
pe x. r. X. De SlxaioS vocis si- gnificatu supra dictum est p.
6, Male Ficinus in conver», exhibet: O Eryximache, tua tunc
(nunc?) iuterest. Ceterum dixaio? h, 1, Eryximachus dicitur
duabus de caussis. Nam medicus erat, ut siugultui mederi posset
atque a dextra sedebat, ut ad eum per- veniret dicendi munus, si
Aristophanes, quominus ipse loqueretur, singultu prohiberetur. Quae
sequuntur verba, eoo? av iyco itavdoofiai abundantia quadam laborare
videntur, quandoquidem personali prouoraine facillime carueris. Cave
tamen id mutandum censeas aut delendum. Dicturus Aristophanes erat; Dicere tnte
debes, donec ego possim. Sed inter dicendum factum est et hic et
alias haud raro, ut, cum stru- ctura verborum ad verbnm comparata sit,
qnod scriptor iu mente habuisset, pro illo verbo subito aliud
poneretur, quod cum incepta structura verborum mions Cfcuveniret.
Optime igitur se ha- beret scriptura haec: 7/ Xlyetv vnlp ijiiov 7
Eoo? av iyoo Xiyeiv dvvoopai, sed non minus bene dicitur Ego? av
iyoo — rfau- (S oo fica. idv ftiv 6o i i$iXp — el /i
r/. idv fiiv praecedente scriptum exspectaveris idv 8i y ut legitur
iu Piat, Protag. p. 848. A. idv fisv fiovXy Exi epoo - rav ,
Etoipo? elpi 6ot napi- Xeiv anoxpivopevo ? • idv fiovXy, 6v Ipol
ndpa6x£y nepl co v petaS,v inctv6ape$a 6ie - B,wvxe? , rovroxs’
reWtf iniSel- vai. Passim annotatura est ab interpretibus, el
interdum poni idv praecedente, eiusque rei caussam indicare studuit
Engelhardtus ad Piat. Menex. p. 237, ed. non satis, ut videtur, veterum
scriptorum voluntatem assecutus: particulae idv , inquit, inest notio
exspectationis manifestum fore, sitne id, tjuod hypothetice ponimus , necne. Si
ergo duae res hypothetice opponuntur , iam tufjicit , semel hanc
notionem additan¥ esse , et quidem priori membro , quia id prius po
- vov ituviGftai v) Avyl' tl 51 (ilj , vScezi uvaxoyxvlla- E Oov. d
S’ aga itavv lo%vga Idziv, avaXujiijv zi zoi- ovzov, oim xivfacus av zqv
(uva , itzagt' xal lav zovzo nere solemus , quod nostra
magis interest ; superflua haec notio in altero membro est.* Nos sic
sta- tuimus. Ubi idv phy — idv 6e ponitur, duae enuntiationes
hypotheticae sibi aequiparantur, in quibus , quod fieri ponitur,
idem facile fieri posse certis qui- busdam de caussis exprimitur.
In aequiparandis enuntiatis veteres te — T £ particulis saepius utuntur,
quam fiiv — - 8£ t igitur saepius idv TE — idv te repe- rias, quam
idv phv — idv 8£. Exemplum habes Symp. p. 184. B, init. Pro altero
iav veteres scriptores etiam si posuere. Sic legitur no- atro loco idv
phv — sl Si, nusquam cutem £dv te — eX te reperias. Colligitur
inde, el post idv po- situm non eiusdem potestatis esse atque iav
praecedentem particulam, sed alius, quae cum 8£ adver- sativo commode
consocietur, non item cum te vocula, de cuius potestate supra
diximus, conveniat. Ut paucis dicam, iav poni aliquid
signiiicat,H|uod fieri posse cogitatur certis quibusdam de caussis, el cum
adversativa particula coniunctum exprimit id poni, quod contra
exspectationem revera contigerit. Ad nostrum lo- cum ut revertamur, dicit
Eryxi- machus : Vide , an tibi ditvtv - Cz l ixovTi h. e.
animum reprimenti aliquod tempus singultus abeat, (et credo, fore, ut
ab- iturus sit, experientia edoctus) sin vero minus h. e.
wenn dcrSchlucken aber gegen ali es Erwarten wirklich nicht
weiclit..cf.Plat*derep, VII. p. 540. C. pvypeta 5*
avTOlf XOLL Svtiiotf TJ/V Tt6\lV 8ypo6la jtoieiv, idv xal ?}
TIv- $ia B,vvavaipy (neque dubito, quin id factura sit Pythia)
coS daipodiv’ ei 8h py (&z.£,vvai- vaipEi h. e. contra
exspectatio- nem non, revera non) eoS’ EvSat- poCi te xal SeoTZ,
Hoc dicendi genus quid diflerat ab eI — eI oh pi/ sponte
intelligitnr. cf. Piat. Churmid. c, 14. Heind. ed. p. 190. eI ovv Coi
<pt\ov, i$£X co Cxoieeiv pera Cov • ti d£ p ?/, idv. Adde quem
Stall— baumius laudat ad PJat. Piiacd. p v JB8. ed. Isocrat.
Archid. 44. p. #11. ed. Lang. idv phv yap iSiXcopEv djtoSvjjCxEiv
vithp t&v dixalcov — aCtpaXdjS yplv iZtCTai r,ijv m tl 6h
<pofiySyCo- pe$a tovS xivbvvovs x. T. A, Ceterum post y Xvy%
supplen- dum censent ev %X £t Minus no- bis placet hoc explicandi
genus; meliorem explicationem iu con- versione huius loci
dedimus. v 8 aTt av axo yxvXla- dov. Schol. habet: dvaxoyx
v- XiuCai t 6 xXvtiai ryr cpdpvy- ya } d Xiyopsv avayapyapiCat
. oXoo x ivyC aiS dv Tyv piva ♦ Vulgatum xivyCaiS ,
quod codd. omnes exhibent, et Athenaeus servat V. 2. p. 187* iv 8h
Tofis xnto&yxaiS tov xap - tpovS > tva Tyv piva xivy6a$
TtTapy , itapiypt % mutatum in xvyCaiS apud Stob., Florii. Tit. 98.
p. 542. reperitur. Eam lectionem cum aptiorem censerent Wyttenbachius,
Creuz. ad Plot. 2 noirj6]iS «Jfal ij 5lg, xal sl itaw 1 <S%vqu t<Sn,
3iav~ (Sectu. Ovx av cp&avois liyav , cpavai xov ’A QKScocpavi
j' ly w di Tttvra noti^a. Einuv 6rj tov ’Eqv!-!iikxov' de palent,»,
Astius , alii, nemo luit excepto Riickerto,. qui vulgatam lectionem
defendere atque in textum revocare auderet, Riickerto autem tutius visum
est retiuere, quod libri darent, a a t- que nisi bonum, at. non
absurdum esset. Aliud no- bis de vulgatae lectionis prae- stautia
iudiciutn est. Kivei v ni- mirum nou significat solum movere, sed movere
ita ali- quid, ut id se moveat. Sic iu amore verbum
usitatissimum, adhibeturque, ubi aliquis ad nequitias allicitur, Pari modo
in pro- verbiali dictione dicitur pijxiVEiv, tov ev 'heIjievov
videlicet, ne is, qui moveatur, ubi motum se sen- serit, moventi
molestias paret» Iam vides xiveiv r?/V f)lva esse, movere nasum
atque -excitare ita, ut se moveat h. e. ut orian- tur nxappoi,
Bekkerus xvjfdaio habet, quod apud Stobaeum le- gitur 1, 1.
Sternutatione mota pelli singultum probatur Mippocr* Aphor. VI. 13-
t; 7to Xvypov £*o- pivaj ittapfiol iitiyEvopEvoi Au- ov6i xov
Xvypov. xal eI 7tavv l6xvpa idxiv . De xal el et eI xai
part. ita disputavit Heind, ad Platon. Gorg. p, 509. A. , ut
negaret, couditionulis enuntiati seutentiam mutari, sive xal eI
sive ti xai scripseris. Consentit cum Heindorfio Matth. Gr, ampl. T, II.
p. 1252. Nostra verba etiam t um, si vel ma- xime pervicax sit,
cessabit Eugelhardtus interpretator 5 rectissime idem de xal el et
el xal purticularnm discrimine dis- serit ad Apol. Socr. pag.
edit. 196. Ex eius annotatione haec laudare iuvat: el xai rem
aut ponit, aut indicat fieri posse, ut ait, ita ut latiue reddendum
sit quamquam, etsi vel quamquam fortasse. Kal eI sem- per de
incerta hypothesi usurpatur, quam sive ponit ali- quis sive non
ponit, tamen id fieri oportet, quod in apodosi ponitor.
ovx av q> 5 av o tG Xiyoov. Schol. habet: ini ccor eIg 5
T$- paG ayovTGJV aZioatilv tivoG //>/- 7 tcj nipas iiei^EvxoS
avx\j. Pro- prie verba significant: Mit dem Reden kannst du nicht
zu frxih komme^ h. e. quin statim loquere. Haec annotavi, ut liqueret,
interrogandi signum ab hac dicendi formula non abesse non posse,
quod in Phaedone positura est apud Stallb. p, 100. C. akXa prjv ,
l(pr\ o KifirfG, coG 8 i86vtoG 601 ovx av cpSavoiG itepaivav ;
eIkeiv 8\ tov 9 Epv%l- / iaxov . Eryximachus medicus, qui
nunc dicturas est, Acumeni medici filius, Hippiae auditor ana cum
Phaedro aliisque fuisse tra- ditur Piat. Protag. p. 315. C.,
Phaedro AMICUM fuisse discas e Piat. Phaedr. p. 268. A. , ubi
Socrates cum Phaedro colloquens el xiG , inquit, 7tpoGE A- $qjv t (3
kraipfp 6ov ’Epv%i- fjiaxcp V ‘&^ 7tar P' t &VXQV ! 'Ahqv -
/.ievco tircW x.t. A. Cap. xn. AoxeZ roivw fio i ccvayxcaov tivca,
timSi/ Tlav- 186 6avlag OQ^rfias htl rov kbyov xabag ov% txuvas
aite- teXeGe, 6 s Zv ifis XEigaGftai teAos htifrElmn rc5 Aoj/gj. tb
fisv yag Saikovv tlvai xbv "Egara SoxeZ [ioi xa- xaXco ? ov x
Inavco?. Ex Eryximachi sententia Pausanias rectissime disseruit de
duplici Erote atque de utriusque dei na- tura , minus recte de
erotica vi locutus est, quae vis latius pa- teat, nec solum in
animis mor- talium, sed etiam ia universa re- rum natura
eillcacissima conspi- cietur. Respicit autem , Stall- ba umius ait,
Eryximachus haud dubie ad nobilissimam illam et inultis, ut
videtur, posteris temporibus probatam sententiam vetferum quomndam
philosophorum, qui statuerunt elementa totius rerum universitatis
inter se pugnantia per concordiam et amicitiam ( tpiXiav ) esse inter se
conciliata et in ordinem redacta, vid. Arist. Metaphys. I. 4. et quos
laudant interpp. ad Aristopli. Avv. v. 695. seqq. zcAo?
iniSslvai rc3 Ad- ' y<*>» * EitiSEivcti ex artificum
officinis depromtura est, qni eam reliquum corpus sive
hominis sive animalis arte elaborassent, capite ad postremum
elaborato caput imposuisse dicantur simul atque opus ad finem
perduxisse. IJaec formula iam apud Homerum reperitur II. r, 107.
tfjEv6xrj6Ei? ovd* av re xiX o? /iv$cp imSfoeiS. Adde Piat. Alcib.
I. p. l^D. xov - Tccv yap Ooi arfJthov xcov Siaro?/juarGjy x
JX o? inite^r/vat avev i/iov advvaxov. Cratyl. p. S95. A.
xivSvvEvei yap xoi- ovroS xi? tlvai 6 'Ayapkpvcav, olo?, a av
dcZeiev avufj 6ia- 7iov£i6$cn xal jtapTEpEtv, riXo? inniStl? xol?
SoZatii di’ a pEtrjv. oxi < 5 £ ov /iovov &6xlv seqq.
Schleiermacherus conver- tit: dass er aber nicht a I- lein iiber
die Seelen der “Menschen w altet in Be- ziehung auf die
schonen, sondern auch auf vieles Andere and auch in allen
andern Dingen Quaeri potest primum, quid sit id, ad quod, praeter
pulcros homines Eros in animis hominum insitas pertineat. Deinde si
Schleiermacherianae conversionis sensum Eryximachus exprimere
voluisset, haud dubium esse potest, quin dicere debuisset ov /iovov
idrlv in\ tat? Tpvxai? xcov av^peo- Ttcov — ctXXd yioct iv xol?
aX~ Xoi? Quoquo modo verba specte*, distorti quid enuntiationi
huic inesse senties, quod deleto xai post rtoXXa posito optime
removeri potest. Verba nimirum per chiasmum explicanda censeas, nt
non solum in animis ho- minum formosae iuven— tutis, sed etiam
aliarum rerum multarum Eros in aliis rebus habitare
dicatur. kag SicXla&KL' on 8s ov (tovov Ifiriv ini taig cjiv- ya
lg tav av&Qconav jrpog rov$ xcdovs, dii-cc xal tiqos «AAa 3Coi-i.cc
xal iv tolg ai.i. 0 tg, rolg re Oci^aGL tui/ ndvrav %d>uv xcd tols iv
ry yy tpvofievois, xal, mg fjtog tlntlv, iv nccGc tols ovGl,
xa&toQuxtvaL ycoi 8oxa ix vfjs luTQLxrjs, rijs ryitxiQag TeyvySt wg
(dyas xal &av{ia<St6$ xcd ini ndv 6 fttog ttLvu xal xaz’ B
Posses etiam hac ratione verba emendare: ort ov [IOVOV ini
x aiS ifwxcfis tgjv txvSfjQQitoav xaz 7 tpos xov? JutXuvS' , a XX
a xal npo? aXXa noXXa xal iv toiS aXXoiS x. r. X. Haec olim
scripseram. Sed neutra mutandi ratio nunc placet et omrfSa bene
habent, modo Moi post itoX Xa positum non und sed aach in-
terpreteris. / co? Eno? elneiv, vide annot* p. 63- Schol. ' autem
haec verba explicat: gg? maivExai, cbs iv Xoycp sinetv, addmjue:
xovxo dxVM ar ^ £taz Kapa xois na - A aioi? xal cJ s e in st v
EnoS xal eo? inoS einetv xal co? ino? (pavai xal guS’ opavai
inoS, Exi dfc xal Sia pia? Xi~ %egoS ixtpcoveixai , olor goS
<pa- vai xal as slneiv. drpial - vei 81 x 6 avxo . ol 8s
<pa(5iv av xi xov co ? <p aiv ex ai xei- C$ai i f avxl xov
ooS iv A oycp e in Eiv . Converterim verba : in den Korpern aller 1
ebenden Wesen und in den Erzeugnissen der Erde, und, ich vage es zu
be - haupten, in alleu Dingen, Adhibentur nimirum verba ilia,
ubi aliquis aliquid dicturus est, quod fidem hominum superare, ipse
sentit, go? ftiyaS xal 6x 6 5. Stallbaumius in his,
in- quit, ~co? significat nam, quip- pe, usu haudquaquom
infrequenti. Male. Praecedenti protasi, cui apodosin Eryximnchus
praemisit, altera apodosis additur, alterius potestatemquae
amplificat et auget. Haec verborum structura ex oratorio genere
dicendi de- promta est. cfr. Apol. Socr. p, 20. C. o t; y ce p 8 rj
nov dov- ye ov8ev xgov a XXgov n e- ptxx ox e pov np ay /xax
ev o- pivov, ixetra xo6avx?j (pqprj te xal Xdyo? yiyovtv , e i
/ir/ xi Enpaxxs? aXXotov rj ol noXXoL Compara cum his verbis
Symp. p. 211. E. xi 8i)xa , iq>7j,oio[iE§a, sl xod yivoixo avxo
x 6 xaXov i8slv eIXi - xptvE?, xa$ a pov , agt- xx ov, aXXa /n)
dvdnXeaov uap - xgov te avSpoDnivGDV xal XP&- p areor xal
dXXi)? noXXijS epXva- pia? $V7]T7] ?, a A A* avxo xo Seiov xaXov
Svvaixo pov oei 81? xaxt8 Etv, Adde Cicer. Orat, pro Rose.
Amer, e. V, §. 14. Atque ut facilius intelligere possitis, ludie#*,
ca, quae facta sunt, indigniora esse, quam haec sunt, quae dicimus, vobis
exponemus, quo facilius et huius ho- minis innocentissimi mi-
serias et illorum audaciam cognoscere possitis et rei publicae
calamita- av^gajuva xal xara &na jigdyfiaza. ccq^oucu Se airo
rijg Icczgixfjg ktyuv, iva xal ngta^eva(iev zr/v zt%vi]v. 'H yag
(pvGig rcov Oafirczav zbv Sutkovv "Egena zovzov ex,ei. ro yag vyiig
tov tidfiazog xal ro vo- Covv buo7.oyoviii.vag ezegbv re xal avvftoiov
eozi. ro Se dvopoiov avofiolmv izci&vfiei xal ega. akkog fiev
ovv o eztl za vyieiva egag, akkog 6 e b tjtl ra vo- OibSei. eCzi Si ) ,
dgneg agzi JIavOaviag ekeys zoig tem. Huic loquendi generi
non adnumeranda sunt verba Alcib. II* p. 138. B. , quae sunt,
qui corrupta censeant ; sed ut clarius videas, corruptelae indicia
ipsis nulla inesse, hoc modo disponenda sunt : ooSKEp TOV OiSlnovv
avzl- xa (padiv ev&ad$ai xoAxgj 8ie-> A sdSai rd narpifia
rovS vleiS’ l£,6v OVTCk) TC OV TZCtpOYTGDV aVTGJ xaxoov anozpomjv
riva tv£,a~ ti$cu, crepa npoS roiS vitap * Xov6i xaxypdzo.
xal ini nav o5£o?. Ne forte ad SavpadxoS supplendum censeas
idriv et scribendum xal cjS ini nav , tria dei epitlieta sunt:
magnus, admirabilis, late potens. Dicitur cutem ini nav — xeivet
pro ini nav teIvov — idriv vid. annot. p. 87. Sensus est totius
enuntia- tionis: Dass er aber uicht blosden See1en der Menschen in
Beziehung auf das Schonc, sonderu auch i u Beziehung auf
vules indere auch den anaeren Dingen einwohnt, sowohl den
Leibern der gesamm- ten Thierwelt ais den Erderzeugniss e n and,
ich wage es z u sagen, a 11 en nur vorhandenen Dingen, glaube
ich aus der Medi- cin, meiner angestamm- ten Kunst, ersehen
zu ha- ben, dass ^ros s nnd wunderbarund ei n flus s reich auf
alles der Gott ist, so in mgnschlichen, so in gottlichen Ange1eg en
h eiten. Ut n(#tro loco ab hominibus ad animalia, ab anima- libus ad mineralia
transitur, haec tria autem verbis comprehendun- tur : ndvra z d
ovra , eodem modo in Riaedon. p. 70. D. le- gitur : prj
toivvv xar avSpGo- ncov dxonei povov rovro , aWa xal nara Zwgdv
navrojv xal <pv - tgov xal BtvWiffidrjv. odanep ix& yivediv,
nept navtcov idea- fiev , ap ovzojdl yiyvetat ndvra.
iva xal n p ed fiev gdjjlev . Explicat Schol. ad h. 1. npe—
dfiEvcopev npozipeopev , peya- XvYGOpEV. npEdfieveiv riva est
aliquem ut senem venerari, ali- cui ut seni primum locum attri- buere.
Non iniuria Phaedrus dixit Symp. p. 178. B. zo yap iv rols
npedfivrarov slvai — [ov] rifiiov ; Eryximachus autem di- cit: ut
simul primi loci hono- rem nostrae arti attribuamus. Kai enim ita
explicandum est, ut proprie verba audire dicantur: iva xal A
eycopsv nepl xovzcdv xal npEdfie.voDfj.Ev x. z. A. (i\v clyadoig zcdov
xaQl&Gftai rtdv kv&qcojt av, roig c di axolaOtoig alOxgov, ovra
xal Iv avroig roig GcS- ftadi roig fiiv dyadoig exkGtov tov Ga fiarog xai
vym- voig xcdov yaol^iGxTui xai dii, xai rovro iGnv a fivo/ta r 6
iatQixov, rois di xaxoig xai voGadiGiv alGxQov r e xai dii dxaQiGrtiv, it
iiii.Xu ng nxvixog tivai. tori yctQ latQixtj , tag Iv xiipaXaia ilmiv,
ixiGr^i] rav rov Otoiiurog igamxav nQog xXtjGfiovTjv xai xivuOiv,
Itepor re xal avopotov. Rectissime annotatum est ab Astio et
Stallbaumio, Thierschium fru- stra scribendum coniecisse PrzpoY ti
xal avopoiov. Nimirum Zxzpov h. 1, non alind sed diversum est, quae
verbi signi' ficatio non rara apud Platonem, cfr. Alcib. I. p. 11
4. B. xorzpoy 81 ravrd i6ri 8lxaia rz xal <Svp<pkpovra , y
erzpa. Adde Piat. Protag. p. 833. A. note- pov — Xvdcopev rcJ v
Xoycoy; ro fy M juoror Ivavtiov zlvai, y ixetvov , iv cp iXkytro at
ep ov etvai daxppotivvyC do<pia — : xal irpoS rep trzpov
zlvai xal avopoia x. r. X. xaXov x a pineti Sai tgoy
txvS pant oo y. Verba rdov ay - SpconcoY seiuncta snnt ab iis
rerbis, e quibus pendet rolS p\v ayaSoiS, ut pondere augerentur.
Huius exemplum structurae verba aunt p. 178. C. o ydp XPV av~
$pG07toiS yytZ6$ai nayroS rov piov rolS pkXXovdi xaXcuS pia$-
<5e<5$ai x.r.X. Urgendum autem prounntiando est tgjy
dySpeoTteoY ideo , quod, cum Pausanias in hominnm tantummodo
animis dixisset Erotem versari, Eryxixnachus contra etiam in corpo-
ribus habitare deum narret, indicandum erat atque demonstrandum auditori,
quibus modis ab illius oratione medici oratio , diflerret.
xal rovro Idrtv gj uvo- pa ro larptxdv h. c. und darin
besteht das Wesen dessen, was wir das Medicinischo nennen. Prorsus
eodem modo p. 185. B ovrco nccynoS yz xa- Xoy apztyS y Zyejicc
xapiZe- 6$ at. Ovr 6 S itirtY 6 fijs OvpctvictS SzoxPEpaoS xal Ovpd
- YtoS X . T. A.’ Ad ea, quae insequuntur, apte laudatur ub
interpp. Hippocr. De morbo sacro sub Cu. Xpy — py avZziy r d
vov6y- para , aXXa <5 iczv8ziy rpvxztv , 7rpoS<pzpovtaS ry
yovCco to' ito- Xepicoraroy kxatfry, pt) r 6 epi- Xoy xal 6vvySZS *
vn 6 ptv ydp T7/S' CvYijSEiaS SdXXzi xal aij&z- , rai f vito 81
rov noXzplov <p$l- vzi xal apavpovrai . %6rt ydp larpixy.
Hippocr. de flatibus : r d IvavricL rc oy irarrloav itiriy
Irjpara. larpixy ydp i<Sn xpoCSeCif xal d(pa{pz(itS‘
dg>aipzOiS plv rooY v 7f zppaXX oYroyy , 7tpo6$f6iZ dlroor
iXXzin ovrco v' o Ss xdX- Xidra rovro noizcov apitiroS lyrpoS.
Articulum ne desideres, omittitur, ubi per se positum spectatur
nomen, cfr. Piat. Lach. p. 191. c. 18. rovro r oiyvv alriov iXeyoY
, das also 9 130 riAAT&NOZ xui
6 Siayiyvmoxav iv zovzoig zov xakov re xal D aioxQov " Egaza , ovzog
lottv 6 lazgixdzazog' xai 6 jit- rajidlkuv noicdv, dgze dvri zov tzigov
"Egeor og zov tre- gov xzrjOtta&cu, xal ot<j [irj bveOuv
"Egcog , dii <5’ lyyt- viafrcu, IxiOzo^itvog i/XTeoiijOai xai
ivovra ifcksiv, aya- meinte icli mit dem Worte altiov.
Alcib. I. p. 133. c. 57* o 87 } xal xo pijv xaXovjtev : Was
wir auch mit dem Worte xop7j bezeichnen ; Symp. p. 196* C*
civai ydp opoXoyEitai 6a>- <pp 0 6VY7J tO XpOLTElY IjdoVGJY
xal iirt^vjiuav , dcun unter der Be/.eichnnng: 6coq>po6v V7j
wird allgemein yerstaaden Itaque hoc Eryximachus dicit: Es
ist namlich, was wir * iatpi - X 7/ » neunen, der Hauptsache n a c
h cet* xal o diaytyvcSdxcov iv tovtoif. Difficillimam
esse atque gravissimam morborum e symptomatis petitam cognitionem, quam
diagnosin medici vocant, iutelligunt etiam ii, qui artis medicae
imperiti sunt* xal 6 yi Et a ft aXXeiv not djv. sc. td i
porrixa tcov (jayiaTCJV j hinc post cJsre sup- plendum est td
tioopata. Caven- dum est enim, ne quis tov £T£- pov subiectum esse
censeat enuntiationis» Quae sequuntur verba a xai incipientia,
praecedentium verborum explicationem eflicinut. Sensus est : Wer die
Nei- g u « gen der Kdrper so umaodert, dass sie an- statt der
einen Neigung die andere erlangen d. h. wer es verateht,
Korpern eine Neigung einzupflan- zen, die ihnen nicht ein-
wolint, aber ihnen c i n w o hnen muss, und die einwohnende, die nicht
einwohnen darf, heraus zu trei- ben, iitidtapEvoS i/iTtoiif -
6ai xal ivovta IB,eXeiy. > Quod de duplici Erote hic dicit
Eryximachus, Socrates de morbo profert in Piat, de rep. I. p. 333*
E. ap * ovv xal vodov o6tiS 8ei- yoS <pvXatia65ai xal ptj Xa~
$etv , ovtoS deivotatoS xal iyutoirj6ai , quem locum inter- pretes
propter xal jutj XaSeiv verba vario modo sollicitarunt. AaSeiv,
quae vulgata lectio est, rectissime e duorum codd. auctoritate in TtaSitv
mutaverunt. Non est autem assentiendum Stallbau- mio xai ante pnj
TtaSetv delenti. Nodov <pvXd%a6$ai positum habes propter
antecedentia : ap * ovx o natabat SeivotaroZ iv pdxy ritE nvxtixy
tltE tivl xal dXXy , ovtoS xai <pvXa- B,aOSai , quae si non
praecederent, pro <pvXd£,a6$ai Socrates alio verbo usus esset, quod
cum YOtioS nomine melius consociaretur, Veritus autem, ne quis
yotiov tpvXdgatiSai non satis iutelligeret, accuratiorem explica-
tionem verborum statifei addidit, quae in verbis xal yirj
TCo&EtY continetur. Kai igitur explica- tivum est, atque hoc
est, id est, significat. a y aS 6 Z dr 8 tj p tov py 6
i. Ad 8 yfiiovpyoS Stallbaumius i .e. ttog 'Sv rft] drjiaovQyos.
SsT yag Si/ rn SjftuSut mna iv tcj Softari fpD.a olov t ilvcn noteiv xal
Igiiv akfo)- >.av. ?< ito lybiOta tcc Ivavxudtara' 4 'vzqov itio
fio), zixgdv ykvxtl, $>]quv vyQtjj zavra rcc roiccvra. roinoig •
ime uj9elg "Egma iyzoiijeai xal oydvoiav d TjfikcQog E inquit,
iarpof. Sed /admodum haec verba languerent, si prae- cedente
superlativo sequeretur dyaSoS larpof. Eryximachus ab artis medicae
theoria ad pra- xin transit ita, ut, cum larpt- xuraror appellasset
eum , qui malum et bonum Erotem in cor- poribus dignoscere posset,
aya - J3oV drjpiovpyor practicum medicum vocet, qui medicina
adhibita malum Erotem e corpore removere, bonum in corpus immittere
possit. <pi\a olovr elvai not- at v xal i par aWijX&v
. Sublatum discrimen vides in Eryxi- machi oratione, quod intef
(piXt~ir t <piMa f q>i\o$ et Spei S*, ipdr ex- stare supra
annotavimus p.69 ,quibuscumcf.annot p.lS2. Docemur autem hoc exemplo, qui
Hat, ut vocabulorum significationes vergente aetate saepius immutatae
sint. Verba nimirum quasi alSaXa sunt cogitaudi rationis, quae
ratio ubi mutatur, corrumpi necesse est atque perverti verborum
significationes. narra rar otavr a. Wol- fiu* asyndeto
offensus xai ante narra ponendum coniecit. Possumus nos quidem in
eiusmodi dictionibus copula non carere, qua propter
Schleiermachenis ia conversione und a lies der- gleichen exhibuit.
Verum non solum Graeci sed etiam Romaui copulam omisere,
quippe efficatius eo indicantes, verba narra ra rotavra
eiusdem potestatis et iuris esse, atque praecedentia, quae dOvrSercjS
enu- merantur, exempla, cfr. Gorg, 503* E. olor tl fiovhet
idatr rovS ZwypaqjovZf rovS oixodo - povS f rods* ravnrjyovS ,
rov£ dXXovS ndrraS SrjpiovpyovS or- tiva fiovXai avrdUr.
Demosth. Orat, pro corona c. 74. , quem locum Stallbaumianae
industriae debeo: para ravra dvdrdvroov olf ?}r impeXlS iph
xax&S notetv , xal ypacpds , tvSvva?, tlsayytXlaS , narra
rotavra inayovrt&r x. r. A.Verba mxpur yXvxti a sciolo
quodam addita censent, praesertim quum in nostri loci repetitione
non reperiantur p. 188. A., Astiua Stallbaumius , Riickertus.
Atque Riickertus quidem, quatuor haec , inquit, frigidum, calidum ,
siccum et humidum t saepius in corpore esse diversasque eius
mutationes procreare dicuntur : at ntxpoV et y Xvxv in corpore
huntano quid sibi Velint , non intell igitur. Accedit , quod injra
p, 188. A. ipse E ryx irn achus repetens huius loci dicta caetera
enumerat , haec omittit . Cavendum est, ne quia his assentiatur.
Nimirum p. 188. A., ubi nixpor yXvxal verba non reponuntur , ne
poterant quidem apte poni, quoniam anui muta- tionibus, de quibus
illic sermo est, neque cum acerbo neque cum dulci qnicqunm
commercii XQoyovos 'Aoxkijjuoe t <Zg <pa6tv oTSe o i
xoiijtcu xal iyu mi&ouat , 0vvt<Sti]6E rr/v ijfUztQav
ze%vt)v. est. Nostro contra loco verba i['t'Xf)6v Seppry, itmpov
yXvxtt, Bypov vypcp, Ttavxa rd xoiavxa nou corporis conditioni
describendae, sed explicando inserviunt praecedente verbo xa
ivavxiao- xctxa. Sensus est totius enun- tiationis ! Er muss
namlich das Feindlichste ira K d r- per sich befreunden las-
se n u n d zu gegenseitiger Neigung umstimmeu kdn- nen. I c h
verstehe ab er «n ter dem Worte iv av - xt cjxaxa (ride anno't. p.
129.) dic reinen Gegensiitze: kalt und warm, bitter nud suss,
trockan und feucht, und alles dergleichen* Ceterum ne quis forte
putet itavxa xa xoiavxa verba rectius poni , ubi duo exempla aliata
sint, quam ubi tria posita repe- nantur: legitur in Piat* Gorg.,
quem locum Heiudorfius laudat, p. 517. D. ixitopi&w, iar plv
xeivy xa doipata yjpcov, dixia — idv di fnyco, Ipaxia , dxpGo- paxa
, vxoStjpaxa , aXXa , gjv epxsxai CoSpaxa eis imSvpiav. Dubito
autem, num reperiatur locus, in quo duobus tantum exemplis laudatis
zdvxa xa xoiavxa, dXXa t simileve sit po- situm*
zovxoiS Itci dxtjS e/f seqq. xovroiS ad tu ivavxtcdxaxa re-
ferendum est, non ad singula xoov iyavxiooxdxcDV exempla , quae non
nisi ad explicandam vocem xa ivavxuoTaxa apposita sunt. E p coxa i
pno irj d ai xal 6 pov oiav . Supra iam anno- tatum est ad verba
cptXa olov x iivaixal ipdv dWr/Xcjv, signi» beatum verborum
(ptXelv et €pav t <piXia et £poj£, similium, in Ery- ximachi
oratione prorsus mutari, "EpeoS igitur nostro loco nihil alind
siguificat , qn <m rerum sibi repugnantium concordiam. Huius nominis
vim ipse Eryximachus additis xal 6 povoiav verbis declarat,
ubi xai rursus explicativum est: Liebe d. h. Einklang. Si
quaeris autem, cur amandi verbis •> nominibusque Eryximachus uta-
tur, memineris velim, laudandi Erotis cQUssa orationem ab Ery-
ximacho haberi, atqna eundem statim ab initio orationis suae ita
censuisse, ut etiam artes ab Erote regi atque per cum esse
contenderet, cfr. infra p. 187* C. xi]v 81 opoXoyiav nadi xov -
zoiS, GjS7tEp ix£i rj ieexpim }, lv- zav$a j/ povdix? } IvxiSrjdiv,
*EpGDxa xal 6 povoiav aXXijXoav ipxon'/dada. o?8e ol
TtoiTjtai dicitur propterea, quod adfuerunt Agatho et Aristophanes
: wie die Dic h- terzunft da behauptet» Testantur autem poetae,
Aescula- pium medicorum npoyovov esse: artem medicam euudem
constituisse , ut qui res in corpore contrarias sibi conciliant,
non testantur. Igitur minus apte verba Schleiermacherus convertit
: Dass diesen Liebe und Wolwollca unser A h n - herr
Asclepios einzuflos- sen verstand, dadurch hat er, wie die Dichter
hier sageu und ich es glaube, unser e Lunst
gegriindet. ”H te ovv laxQMTj, <og itEQ liya, ituOa dut TOV
9eov tovtov 'xvfiegvutai , agavrag 6'e xai yvfxvaOttxlj 7f' t s ov
v lar pixr} , o)S - 71 £ p Xiy cd seqq. Si scriptam exstaret rj x e
ovv latpvkr}, cofnep Xiyoa, nuda. dia xov $eov tov- tov xvfiepvaxai
xai yvpva- titiXT] xai yeoDpyia, nihil esset, quod lectorem
olleuderet. Nam et medica ars, et gymn.<stice di- cerentur atque
agricultura dei ope gubernari. Accedentibus verbis coSccvxcdS di,
manente Te parti- cula , dicendi genus eilicitur, quod certe minus
usitatum est. Non nescimus quidem, xe — di sibi respondere saepeuumero,
sed tum scriptum exspectamus : i/ xe ovv iaxpixi] .... xvpepvaxai
, yvptatixixi) xai yeoipyia GjSavTGoS. Huc accedit, quod post
xi Graeci scriptores di «on admittunt nisi in rei, quae prae-
cedentem gravitate superat, com- memoratione, ut Lutiue conver-
tendum sit: et vero, et vero etiam. Ea gravitas nostri loci verbis
convenire frustra docet Stallbaumius ad Piat, de rep. II, p. 367.
C. Cave tamen, quic- quam mutarum censeas. Ery- ximachus in^Hae structurae
obli- tus , quasi dixissset ?/ /ikv ovv principio enuntiationis,
coSaiixcoS di dixit. Vide de piv ovv — di voculis annot, p. 23.
Alia ratio verborum est Piat, de rep. III. p. 494. C. iv xe xy
xmv &K& v x oirjdei itoXAaxov de xai a\Ao$i, ubi plus
ponderis in altera] enuntiati parte est, quam in altera , ut ti * —
di apprime respondeat Latinorum cum — tum. Adde Piat, de rep. VI.
p. 489. C. ix di xoivvv tovxqov xai iv xovxoiS ov fiadiov
evdo- mpelv — TtoXv dfc peyidxy xai Idxvpoxdxtf dtafioXrf
yiyvexat xy tpi\o6ocpioc x. t, A. wSitep A iy<a.
Praesens tempus A iyeiv verbi de senten- tia loquentis valet ,
praeteritum ad praecedentia eius verba le- ctorem revocat cfr.
Apol. Socr. p. 17. B. ovxoi piv ovv, cofnep iyco Ai^or^ut mihi
videtur) y xi y oidlv aXySl* elpi]xa6iv. Adde Symp, p. 221. D. ei ^
prf apa oh iy oj A iyoo diteixa^oi TiS avxpv . yv
pvatix ix?} xai yecop - yia . Articulum haud raro omitti in artium
nominibus, Schaeferus, Ileindorfius, alii do- cuerunt. Nostro
quidem loco eum omitti eo magis etiam mirum, quod antecedit fj TE
ovv iaxpixi] . Si quid video, non piomiscue veteres artium
nominibus aut addiderunt articulum aut dem- serunt. Addidisse
videntur, ubi de re sermo est, quae omnibus nota est, vel qbae
definitione prae- missa nunc innotuit. Demseruut articulum , ubi de
re nondum explicata, aut in universum de aliqua re dixerunt. Nostro
loco artis medicae definitionem Ery- ximachus dederat in
superioribus, ut de huius artis natura certio- res facti auditores
intelligerent, quomodo per Erotem ars medica dicatur gubernari.
Hinc iaxpixi ] verbum articulo insignitum est utpote definitum
atque notura, non insignitae sunt yvpvadtixif et yecopyia , quotam
uon ex- plicatae sunt atque accuratius de-- finitae: Die
Arzncikunst nua wird mei ner Ansiclit nacli gunz dur ch diesen
Gott 187 xul yeagyiu. fiovGix!/ de xal navxi xurciSijAog ra xcd
Gfuxoov oJtqogtypvti zov vovv, ori xazct zavza lyei zov- tois, ogneQ
iGcog xal 'IlguxXei zog (iovXerca Xtyiiv, g f 1 e i t e t , ani gleiche
Wcise auch das, vas Gy- mnastike und Georgia g e- n u n n t
wird. Ceteram Syden- liainium audi laudatum a WolGo; Per E u d z w
e c k der Arz- lieikuust i s t Gesundheit, und der
GymnastikStarke des Korpers. Ab er in deu Mitteln, lvodurch b e i d
e K u n s t e ihren Ziveck zu erreiclien suchen, indem sie
der g u t e u korperli- cheu Anlage uachgeben, und der schlechten e
n t - gegen liandeln und sie verbessern, sind sie ei nan- de
i- ganz aualog. So hat auch die Eigenschaft des Bodens Analogie mit
dem Tempcrament des Kdr- pers und die vershiede*? lien
Gattungen von D ii n - gung mit deu Nahrungi- und Anzueimittelu*
Eia guter Boden gewinnt durch eine homogene B e - handlung,
ein schjechter wird durch eine entgegenr gcsetzto Bchandluugsart
bosser, und iindert se i ne Icatur. Was iibrigens die M etaphcr von
der L i e b e lietfifit, so brauclit mao diese in d e r Land
wirth-r" scliaft auch h e u t zu Tage* Auch wir sagenreinBaum,
einePflanze liebtdiesen, - 1 i e b t j e n Boden. naxa tavxa
£xet xov- XoiS h. e, arti medicae et iis, (|uae gymnastice et
georgia ap- pellantur. Pe xaxpc praepositionis significatu vide annot. p.
41. Paullo infra eodem modo p. 187. E. xal iv pov6ix\ \j 6t) xal
iv iaxpixy Xal iv xoiS p:AA oiS itd6i sc. artium nominibus
sive terrestrium sive divinarum. cjSirep iticoS xal
'Hpa~ x\f ix o S. Heraclitus Ephesius Ut morum asperitate, ita
orationis dura quadam obscuritate insignis, Schol. ad Piat, de rep.
VI. habet 'HpdxXeiroS , BaSiurvoS, 9 Ecpe- OioSy pef'QtA.p<ppGDV
yeyovwS xal v7tepo7txrjS Ttctp oyxiyovy. Orationis obscuritas cum ex
brevi- tate quadam dicendi, tum e ne- glecta singularum orationis
partium iunctura orta est, ut Ari- stoteles narrat Rhet. III. 6. Videtur
ea ipsa de caussa Heracliti oratio cum maris fluctuatione comparata
esse, qnae cum innu- merabiles undas exhibeat, ut sen- tentiolas
illa, neqoe finem neque initium undarum discerni pati- tur. Lectorem
igitur Heracliti, ne mole seutentianyn quasi fluctu undarum immergatur
( fl? xd p?} (tnojtviyfjvai iv avfcS), djjXiov XoXvpfit/TTfv esse
debere Socrates censuit, Ut quqsi brachiis validis, fi. e.
interpunctione posita, con- tinuum tenorem discerneret ac
disiuugeret verborum, jJtjAioi XoXvpfirjxai celeberrimi erant
plurimumque natando pollebant, vide Wachsmuths Alterthumsk.
II. 1. p, 404. , qui laudat piog. Laert. %y 22. 9, 11,
Ipterpun- ctionem omissam, nop verba ipsa obscuritatem illam
effecisse , ut clarius appareat, fragmeptum lau- dabo Heracliti,
quod in dissert. txel tois ys QTrj/iuatv ov xaAw? Atyfi. ro Sv y«P,
qn]al, StawEQo^ov avrb «fap tvficpiQSO&ai, &&*<)
««f/ V iav roiov re x«l fi»» S'e ™AA>7 aAoyt'« «r de Samo
-Thraces nnminibns ex- plicare studnit Schellingios: iV to dorpov povvov
MyedSai ovx tiitet xal i&fAtt Z)/ro? ovopa. ro i \y
yap, <pi]di, Statpe- p&pevov seqq. Caute distinguendum est, quid
Heraclitus o CxuzilvoS his verbis exprimere voluerit, et quomodo
Kryximachus eius verba explicaverit. Medicus nimirum de musica
loquens verba illa laudat ita, ut non nisi de re musica dicta
intelligeret, i. q. ex additamento perspicitur, quo Siatpcpd piva
explicat p. 187. B. rov o Sio s xal ftapioS atque e subiecti
mutatione. Ap- poviav nimirum reo ivi Eryxi- machus substituit.
Heracliti autem voluntas haec videtur esse: Das Eins ist in sich
selbst entgcgengesetzt Eins , wie die Eiuheit des Bogens und der Lyra h.
e. das Eins ist nicht absolut Eins, sondern momeutan
zusamraenge- seut aus Gegensatzeu, wie die Eine Kraft des Bogens
(Schuss) momentane Verschmelzung ist xwreier Gegensiitze,
oder der Eine Klang (Accord) der Lyra momentane Verschmelzung
mehrerer Uissouanzen. Non recte autem, ut videtur, 'interpretes to
fV totam rerum univer- sitatem significare censucruut, neque recte
Simplicii testimonio ntuutur ad Aristot. Pbys. p. 11» A. iveSeixwxo
Si (sc. HpaxXti- roS') ti}v iv ty ytvidu ivap- fioviov piSiv tuiv
ivavuurv, quae senteutia ex enuntiato illo derivata est, atque
eidem, tan- quam in basi, innititor. Proba- tur hoc
Plutarchi testimonio Do animi procreat, p. 1026. ^B. 'IIpdxteiToS
SixaUvxponov ap- povhjv xodpov, oxgdS xep Av- pijS xal ToSov.
Erostra autem in dicto Heracliteo aliquid mu- tandum censuerunt
Astius , Ba- stius, alii. Ad Hcracliteae dictio- nis exemplum supra
laudatum ut revertamur, videtur Schellingio interpunctio ponenda
esse post ovxiSiXei; nobis haec verborum dispositio placet: ir 10
dotpov povvov AiyedSai ovx ISitei xal l$i\n ZtjyoS ovopa. Absolut
Eins ist nur das W e i s e , Absoluta unitas nostrae rationi repugnat,
eam repugnantiam ita expressit Heraclitus, ut diceret: es will
nicht und will Eins genannt sein der Name des Zeus. Audi Goe-
thii nobilissima verba, quae si- milem rationis repugnantiam fe-
licissime describunt - AVer darf ihn nennen? Und wer
bekenncn: Ich glaub’ ihn? Wer empfinden Und
sich unterwindcn Zu sagen; ich glaub’ ihn rycliU.
yiyovcv V7t d TrjS pOV- dtxijS tixrV*- Vulgo addi- tur V
dppovia, quod addita- mentum per se spectatum non_ habet, quo
offendat. Saepius enim subiectum e praecedentibus repetitur, non
tam augendae gra- vitatis caussa, quam perspicuita- tis. Sed non
agnoscunt nostro loco XXI. codd. 7/ dppovia verba, fioviav ipdvca
SiaiptQfGftai jJ ix dtatptgofilvav $n tlvcu. aX£ 1'aag toSe ipovksto
Xiyuv , on ix diacpt- B gofiivav xgotegov, rov 6 |eog xal ftagtog ,
1'xuru vOteqov onoXoyrjedvrcov yiyovev vito zijg (lovaixrj g xi-
%vrfi, ov yag 8g xov Ix Siaq>sgo[iEvav ye izi tov oj-iog xal fiagiog agfiovla
av ity. rj yag agfiovla evfupavla lari, Cvfupuvla ds ofioXoyla zig'
f>(ioXoyiav ds Ix Sux,- <pego[isvav , sag av Siacpigavzai, advvarov
tlvai' dta- (ptgoiitvov ds av xal firj ofioXoyovv advvaxov uQuoOai.
igitnr cnm Bekkero, Stallbaamio, Rukkerto delenda curavimus.
De verbis insequentibus ov yap 8tf nov vide annot. p, 85 et
98« rj yap ap povia* Bene Schleiermacherus in
conversione: Denn Harmonie ist Zu- sammenstimmuug, Zusam-
mcnstimmang aber Ein- tracht; Eintracht aber kann unter
entzweitem, solange es entzweit ist, nnmoglich s e i n ; und
das entzweitenicht e i n t r a c h- tige kann wieder unmog-
lich ausammeiutimmen, dZfnep ye xal 6 fivSpof* 8ensus est
verborum : quemad- modum, ut hoc unum exem- plum commemorem,
rythmns , . . Indicat igitur yk particula, plura exempla afferri
potuisse, quibus res probari posset, unum sufficere, vid. annot, p,
88. 8ievrjvey pkv wy xtpoxe- pov. Ante 8 levrfveypkvoov
omnes \ fere codices ix praepositionem habent, quam cum tacide
omisis- sent interpretes, Riickertus solus exstitit, qui in
verborum ordinem revocaret. Sed dubito, num ali- quo modo excusari
possit. Aut repugnandum est codicum aucto- ritati, atque ix e
verborum or- $ \ a dine tanquam inutile
additamen- tum expellendum, aut scriben- dum est ojsxep ye xal 6
/5uS- poS 6 ix tov rorato?? xal fipa* 8 ioS, ix 8 iEV 7 ]ytypkvojv
itpoxe- pov , vtixepov 61 6po\oyrj0dv toov ykyovev. In
sequentibus codd. non pauci habent "Epasta xal opovoiav
aAA^Aozf , quae lectio unde orta sit, haud diffi- cile est ad
intelligendum. Ni- mirum scribae seducti sunt vi- cino ipnoieiv
verbo, ut dativum pfo genitivo exhiberent, quem nunc novem
tantummodo codd* exhibent. tyAozf autem, ut et Riickertus vidit,
non satis commode explicari potest; aut igitur «AAr/Aiwv scribendum
est, quod in textum recepimus (de ipnoieiv vid, annot, p.
102.) aut exhibendum avxoiS y cuius vocis ne unum quidem in
codi- cibus vestigium apparet. xal iv pkv ye ctvty ty
6v6x a 6 et x, r. A, Stallbau- mius ad h. 1. annotat: Jn ipsi*
rationibus musicis , h, a. in har- monia et rhythmo t nullo negotio
ait cognosci et animadverti posse X a i p a) x ix d , h. e, quae
sint consona et congruentia : simplices enim illas esse et quae non
pa- tiantur discrepantiam aut diver- t s itate m ullam i sed in usu
et ex- r —a' / &gitzg ys xal o
$v&[wg ex zov ta% zog xal (fgadzos dievtjVCyfiBvoiv itgoxzgov, v6zsg
ov 5 e of loloyrjOdvzav yt- c yovs. rrjv SI ofiokoylav ituOi zovzoig,
agxf g IxeI fj latQLxrj , lvzav%a y (lovtSixrj EvrlftrjGLv, "Egazu
xal 6fto- voiav akkrjkav l(i]tou]Oa<Sa' xal lazw av fiovtSixt]
nzgl agfioviav xal gv&jj-bv Igertixcav Imazyfirj. xal Iv fitv
ys avxy rjj tivOzadEt. agfiovias te xal gv&fiov ovdev Xakenov ra
iganixa Siayiyvbi6xuv , ov Se 6 SiTtXovg 'Egag ivzccv&u ncog ttinv’
ak£ inziSuv Sky itgog z oi>s dv&gw- ercitatione musices -plurimum
in - ter esse , quo modo illis utaris , atque hic cerni vim
duplicis il- lius Amoris , coelestis et vulgi- vagi* Mira est
sententia , fateor : sed non sine caussa Eryximacho tributa*
Ineptit enim nunc acer- rimus iste Heracliti cavillator adeo , ut
propter inanem illam sophistarum imitationem misere vapulet .
Perperam igitur Schiitzius haec : ovSh 6 $iit\ov S *E p oo S ivi av$ a
irtuf idtiv delenda iudicavit. Isimirum non intellexit vir
acutissimus homi- nis ineptias. Non rectius Plato- nis verba
Schleicrmacherus inter- pretatas est io eonvers. p. 408. Und in dem
Aufstellen des Wol- lautes und des Zeitmaasses selbst ist es wol
nicht schwer, die Liebesregungen zu erkennen, noch findet sich
hierin jener zwcifache Eros. Hoc si dixisset Eryximachus,
merito vituperaretur» at vituperandus est Riickertus ad h. 1,
annotans: Ego nescio, quo hic stupore tenear, cui, ut ineptias videam,
plane non contingat. Nihil mutaudum est, neque quicquam e
verborum ordine expellendum, sed rectiore explicatione opus est
enuntiati, quam a nemine hucusqde repertam esse miror. Verba
nimirum ovSh o 8in\ovs"Epoo$ iviccvSci yrooS 1 idtiv
elliptice posita 'sunt, atque supplendum e praecedenti- bus est
£tfA£7roV. Mens Eryxi- machi haec est: In derblos schematischen
Aufstel1ung der Harmonie und des Rhythmus ist es nicht schwer, die
erotischen Elcmente zu erkennen, noch macht der zwiefache Eros
'hier irgend Beschwerden. Quae sequuntur, optime cum hac verborum explicatione
conveniunt. a\X' iiteidav 6iy itpoS rotis 1 ctv$ ptortovS x.
r. X. Schleiermacherus exhibet in conversione: Allein wenn man vor
den Menschen Wollaut und Zeitmaass in Anwendung brin- gen soli;
quae si mens fuisset Eryximachi, scripsisset haud dubie iv
dvSpooitoiS. Ficinus non sa- tis explicate, sed Schleiermachero
rectius, ut videtur, verba inter- pretatur: sed tunc demum, cum ad
alios rhythmo et harmonia est utendum. Nobis Eryximachus de
rhythmi' atque harmoniae usu eo loqui videtur, qui hominum
utilitati inserviat. Rectissime Matth. Gramm. plen. J. 591- p.
1180. seqq, ita de ifpoS praepo- sitionis potestate disputat, ut D
jrovg xara-/Q^<S^ca Qv&fiai te xal ccq/iovm tj noiovvtu, o &rj
fuloTtouav xcdovtiiv, rj %qc!>hsvov 6q&(5$ roig 7ie- jro»;fi£votg
( uiketii re xal fierpoig, 3 bi) ncudeia Ixlq&rj, Ivrav&cc dt]
xal %oAenhv xal dyct&ov SrjfuovQyov dei ncihv yuQ ijxei 6 aviog
loyog, o« rofg n'tv xodfiioig plerumque dxoftEiv verbi notio- nem
loquentia animo obversari diceret. Possis igitnr nostro loco 7 t
poS TovS avSpodirovS Graece explicare: itpoS ti/V xgjv av-
Spamwv utpiXeiav dxoitovvtfc. o 81 } peXoit oit a v x a -
Xov 6 iv . His verbis exemplo usas est Mattii. Grarom. plcn. §.
475. C. p, 891», quo probaret, pronomina relativa iu explicativis
enuntiatis haud raro ad praece- dentium nominum genus confor- mari.
Interdum ad sequentis nominis genus effingi pronomen, notissimum est.
Utroque dicendi genere, quorum alterum accuratius, alteram elegantius est,
Latini quoque usi sunt Vide sis Kriiger, de Attractione Lat. Liug.
$. 56. p. 129. o Si) TtaiSeia cfr. Piat, de rep. If. p. 376.
E. c. XVII. TiS ovv ?} naiStla ; T/ x a Xt7t6v evpeiv piXtico
ryS vito tov noXXov xpovov Evpij- pEvrjS; i.6tt Se 7tov 7 } p\v
ini yv/tvcttitix?/, ij 8 ini vxf/ povdVHjj. Adde de
7tai- StiaS notione verba Waclismuthii in libro; Hellenische
Alterthuras- kunde Th. II. Abth, II. p. 4. Recte ad h. 1.
Riickcrtos, Omnis, inquit , institutio liberalis apud Graecos duas
habebat partes, y v- /iv adnxijv et povdixijv, quarum illa ad
corpus pertine- bat, haec ad animi culturam , at- que in poetarum
maxime carmi- nibus legendis ediscendisque versabatur, addita
sonorum modorumque arte . Ceterum ne offen- das in temporis mutatione,
cum supra o 81 } xaXovgev , nostro loco o 81 } ixXy&rj dicatur:
illud est: vias man nennt; hoc signi- ficat: was man gewohnlich
nennt s, Mas man zu nenuen pflegt. ivT otv 5 a 87 } xotl £aA£-
7 t o y x. r. A. se. ta ipootixa 8 iayiyvoS 6 xeiv. Scriptum exspectabam
equidem ivxavSa 81 } xat goAaroV, ut ad verba respiceretur ou<$£ o
SiicXovS EpoiS ivravSa ncoS itirtv. Nam ro SiayiyvGjdxEiv theoriae,
quam vocant, ut medicae (vid. p. 186. D. init,} ita poeticae artis
cou- venit. Nostro autem loco non de theoria poeseos sermo
est, quam Eryximachns tetigit verbis iv piv ys avty ry
dvdraCEi X. T, A., sed de eius usu hominum utilitati accommodato,
ut haud sciam, an non et aliis probabilis videatur verborum conversio
haec: Aber weun man Rhythmus und Harmonie zum Nutzen der
Men&chen in Anwen- dung bringt, — da macht der zwiefache Eros
grosse Beschwerde, und es bedarf eines tuclitigcu Pruktikers.
naXtr yap yxei 6 avroS X oyoS, Riickertus ad Pausa- niae
verba liic respici docet, quibus praecipiatur: iis tantum AMATORIBUS
obsequium praestan- ziov av&Qwxmv, xal ag ccv xoafueyzeQOz ylyvoivro
oi (hjjtm ovze g, Sei xaQifea&cu xal (pvXctzzuv zov zovtav
"E(iaxtt, xal ovzog i6ztv b xaXbg, b Ovquvios, b rijg OiiQavlag
MovOrjg "Egcog 6 Se Ilokvfiviag , b IlccuSt]- E ( tog , ov Sei
evkaflov[ievov TZQOgtptguv otg «v TtgogqiiQij, dum esse ab
amasiis, qui et ipsi virtutem colaut, et ad eam co- lcudam amasios
adhorteutur. Hioc factum, ut Eryximachi contortiorem censeret et obscuram
et subineptam orationem. Certis- simum est autem , praeceptum
medicorum ab Eryxiraacho tangi, quod legitur p, 186. C. lv ctvrolS
tols 6oopaoi, rols ply dyaSol? ixddrov tov dooparoS xal vyut- roiS
xaXov x a ptfe6$ ai *dl xal tovtq Idxiy y co ovopa tu laxpixuy ,
%oiS 61 xaxols xal YodcoSedty fddxPOY re xal 6ti dx<xpidT£iv>
ei yeXXei ris texyi- xoS. elvai. Mens Eryxituaclii haec est- ut
illic medicus corpori , ita nunc poeta sive magister consulere debet animo ADOLESCENTIUM,
atque bene moratis, et quo liant meliores , ita prospicere, ut nulla res,
cuius laude corrumpi possent, laudetur, o trjs Ov parias
Mov-r 6t]S "E paS . Haec verba cave ad praecedens
"Ep&ta verbum referas. Pertinent potius ad ro
Xapi&dSat et x 6 cpvXdtTEiv, quae nomina e praegressis facillime
eruuntur. Ov%oS autem e generis haud rara assimilatione, de ‘qua
vide annot. p. 129. positum est. Sensus est : Gutgearteteliing-
linge zu beriicksichtigen und ihre naturliche Neigqng zu bewahre»,
darin besteht das Wesen des Eros der Urania* Vide etiam au- uot. p.
126. o' Sfc TloXvpviaS. Poly- , hymniam Musam cum
Pandemo Aphrodite comparari ab Eiyxima- cho nemo non videt. Iam
quaeritur, quo iore id fiat. Polyhymnia vulgo cantuom multitudinem
si- li i fica t; possis igitur ea de caussa illam comparationem
institutam putare, ut cum AMASIORUM multitudine, quae a Pandemi
asseclis ametur, illa carmiuum multitudo comparetur. Possis etiam,
quae Riickerti sententia est, ita judicare, ut numero abunda ntiora
rarioribus viliora censeas. Neutra explicandi ratio nobis nunc placet,
neque credimus, Polyhy- mniam nostro loco carminum mul- titudinem
denotare. Agitur de Jiarmoniae atque rhythmi mota- tione, quae
iusto saepius in car- minibus admissa TloXvpviaS nomine insignitur. Ut
igitur Ilar- 6)jpov asseclae ab uno amusio ad alterum transeunt, non
virtutis, sed LIBIDINIS ergo, quae e varietate amatorum oritor ,
ita poiitae, asseclae llav6i)pov , qui HoXvpviaS £,vvtpy6$ est,
sigui- ficautur harmoniae atque rhythmi varietatem captare, aurium,
non animi oblectamenta. npoScpipEiv oU dv 7tpos~
(pepXJ. Vulgo male olS ar TtpoSiplpoi. Minus accurate haec verba
Ficinus reddidit ! cui summa cautione indulgendum est , ut
voluptatem quidem homines hau- riant , incontinentiam vero devi-
tent, , Sensus est: quem, qui*? 1 twreg av zyv /xev ySovyv
avzov xagjtd<S7]zai , dxolu- clav 6e (lyStfiiav tftsronjtf}/ , tog xtg
iv ry yy, triga xi%vy fiiya 1'gyov raig jitgl z yv oiponouxyv ri%vyv
im- ftvfitaLS xaXtag XQyOScu, togr’ ctvtv voOov zyv ydovijv
xagnddao&a*. xal iv yovOr/.y Sy xal iv lazgixy xal iv rotg ctlXoig
ndai xal roig dv&gaittiotg xal _ toig &tiotg, xu\r' ot Sov
Jtagdxti, tpvXaxztov ixdztgov xbv’'Egcoxa’ 188 ivtazov yug. bus
adhibetur cunque, magna cum cantione adhiberi oportet, nt suavi-
tate quidem eius fruatur, qui eo ntitnr vel poeta, vel lector, sed
turbas devitet atque ordini* cor- ruptionem. Harmoniae autem
atque rhythmi commutationes le- gibus artis poeticae probantur ita,
ut paucis quibusdam in locis, quibus conducere possint, modice
admittantur v. c. in exprimendis animi allectibus. Iu sequentibus ad
xapjtGjdrjxat pronomen indefiuitnm subintelligendum est, qnod et ad
poetas et ad lectores referatur. Ad poetas refertur ita, ut artis
poeticae opera componendo, ad lectores, ut eadem legeudo sibi cavere
moneantur, ue rhythmorum atqne harmoniae ordinem concinnitatemque
turbent, vel non satis recte agno- scant. Clarior res fit exemplo,
quod Eryximachus statim addit. Nimirum artis coqninuriae deli- cias
medicis in universum pro- bari negat. Interdum tamen li- cere ait
eas delicias hominibus commendare, quae et delectent et damni nihil
aderant. xa& o6ov itapeixei. Convertit haec verba Stallbaumius:
quoad eius fieri potest. Recte. Laudat idem nostrum locum in annot. ad
Piat. Polit. II. , p. 574. E. 6p 6* uvx anobtiTaatkov, o6oy y
av bvvapiS irapeixq. Ceterum verba sunt non pauca, quae
omisso subiecto suo transitivam vim amittunt, atque ut verba
imper- soualiu adhibentur. Quem usum huius verbi cqm non notum
ha- berent librarii, factam est, ut in eius scriptura libri non
consen- tirent. Bodl. enim aliique codd, itapijxEt exhibent.
Ceterum con- ferri iubet Riickertus ad h. 1. Thucyd. III, 1,
TCpoSfioXcA iyl - yvovxo TG7Y * A^i}v cxxqdv inithov , onxf
icapeixoi. Soph. Philoct. 1048. ic6\X av Xiynv ix ol M l TCpoS ta
xovd’ hcr\ eE, pot ita- peixot. xa\ rj tcov eo p cov tov
Ivi- avxov 6v6x adiS, Schleier- macherus exhibet in convers.
p. 409. Die Anordnung der Iahres— zeiten und der Witterung.
Fici- nus verba convertit ; Anni tem- porum constitutio. Neutra
6v- OxadiS nominis conversio nobis nunc placet satis ; verbum
desi- deramus potius, qno significantius exprimatur , de finibus
atque de initiis anni temporum hio agi. Nimirum consentiunt medici
, nihil perniciosius esse corpori hu- mano animalibusque et
plantis, quam subitas coeli mutationes, Cap. xm. '/Sarti
arcti rj twv wQiav tov Iviaircov OvtSraOig /is- 6tf) laziv IXtUpOtfQUV
TOVTCOV, 5 tttl ixSlSaV fllv ICQOg a IX>;?. a tov xoOfiLov tv%\)
"EQcnog 8 vvv St] lyu tk tyov, za re &EQ(itc xal tu
ilrv%Qcc xal |i;p« xul vyga, xal cp- l toviav xal xqkClv AajSy CwcpQovu,
jjjactc yigovTu tvetij- v. c. si frigus acerbissimum se-
quatur subito aestus ferventissimus. Patet igitur, Eryxiinucbum .medicum
non tum / de ipsis anui temporibus, quam de eorum finibus iuitiisque apte
coniungendis agere, ut tivtiratiiS nomen convertendum sit: Verkuiipfung,
Ver- biudung. xal dppovLav xal x pa- ti iv. Vulgo
omittitur xal ante apporiar positum , quo omisso atque commate post
vypa deleto sententia verborum haec evadit : Si calida et frigida
houesto amore consociantur, porro si sicca et humida harmoniam et
mix- turam aptam admittunt.*. Haec quominus probemus, vetant
a rvr 8tf iXeyov verba , quibus t d re Seppa xal rd ipvxpd
xai £,r}pu xal vypa arctius couiun- genda esse docemur.
Ceterum ad ea haec comparata sunt, quae de musica arte supra
dicuntur. Ut illic xo dS,v xal fiapv, tq tax v xal fipadv com-
memorantur, uostro loco habes rd Seppa xal rd if/vxpa t rd £rjpa
xal rd vypa. Kpatiif tiojippoov autem in re rhytii mica evpv^plar
gignit, quae eodem modo iuvenum moribus erudiendis inservit, quo, modo
sanitatem generis humani auimalium- que et plantaram progignit eve-
rrjpia. Apte Stallbaumius comparari iubet Piat. Phileb. p. 26* B.
ovxovr ix rovrcov copai re xal otia xaXd narra rjptv yi- yove ,
rcor re dnelpcjv xal rcbv nepas ixorroav £,vppi- XSerrar ;
tico cppova. Substantiva haud raro a verbis, e quibus pen-
deant, seiungi, ut gravitate ex- hibeantur auctiora* supra indicavimus p.
59. et p. 66. Pari modo a substantivis adiectiva disjunguntur,
cuius usus noster locus exemplum est. Sensus est: Wenn das Warme and
das Kalte, Trocknes und Feuchtes gegensei- tig des geordneten Eros
sicli er- freut, und es einer Harmonia und einer Mischung, namlich
einer ganz zweckmdssigen , theilhaft wird ... xal ovSlr
?jdixtjtiev. Aoristicum tempus praecedente tempore praesente i/xei
ne quem offendat, habet praeteriti fere potestatem yxeiv verbum,
cfr* Piat. Crit. p. 43* A. apri 6h jJxeiS 7f naXai ; kamst da
eben erst oder schou lange? Igi- tur ijxei epepovta idem fere est
atque ijve^xev. Proprium aotem aoristicum tempus in rebus, quas
experientia docuit, recteque praecipiunt grammatici , haud raro giav TE
xai vyiuav av&Qcoicoig xai xoig aklotg tcootg te xai cpvxoig y xcd
oijScv xjStxijdEV" oxav Ss o uncc xijg vPgsiog "Egag
byxQaxiexEQog ntgi xag xov Iviavxov agag B ysvtjrai , 6d(p&EiQS x e
xokka xcd •fjdtxrjtlEV. oi! xe yag koiftoi gidovOi ylyvEO^ca 1% xav
xocovxav xcd ak£ uvojioitt 7to?J.a [vo<3>juaxa ] xai xoig fhjgloig
xai tofcf aoristum usurpari, ubi indicetur, aliquid fieri
solere. Eodera modo explicanda verba sunt, quae paullo infra
leguntur; 8 i e cp$ e i- pe v, 7f8 ixrj6ev . Alia ra- tio est Piat.
Phaedon, p. 84. D. xai Ss 1 axovdaS iyeXa6i re 7 jpepa xcd qn\6iv
.. etenim ab aoristico tempore ad praesens subito transitur,
quoniam nunc non narratur, quid Socrates dixerit, sed ipsa eius verba
af- feruntur: Hoc audito ille cum subrisisset: Vae, in-
quit, o Sim mi a. Adde Piat, de rep. VI* p. 508. D. otav per, ov
xataXapnei ab/ $ eia. re xai ro ov, tls rovto dne- peior/rai (ac.
?j if> vx/f) evoi\6e re xai Eyveo avxd xai vovv If^erv (paLverat
. Quo loco quid anima facere soleat , aoristo, lo- qucntis de
animae conditione iudicium praesente tempore exprimitur. Ne plura huiusmodi
exempla afferam, lioc in universum tenendum est, aoristo et praebente
in eadem enuntiatione positis non eandem potestatem esse, sed
ao- ristum quod fieri soleat, aut quod factum * sit indicare ,
praesens tempus vel facti veritatem ex- primere, vel aliquod
iudicium loquenti? in se continere. xai d XX dv 6 pota TtoX*
\u v o pax a 4 Haec verba Corrtipta esse multi fuerunt, qui
annotarunt eademque emendaro studuerunt, Ficiuus habet: Testes siquidem ex
/iis oriri con- sueverunt, aliique morbi permulti et vani brutis ac
plantis infia - sci. Igitur legisse eum Stall- bunmius censet xa\
aXXa noXXa )xal nocytola vodijpara* Schii- tzius scribendum
couiecit xai aXX’ opota, Orellius ad Isoctf. do Antid. p. 330. :
ciXX’ dv opoia. Astius aXX * axr opoia , quod Stallbaumio probari
video. Fa- teor, harum mutationum nullam mihi placere. Olim
scribendum putabam xai aXX * dvopa noXXci [ vo6rj pacta .] Ac v 067
) para qui- dem etiam nunc persuasum habeo glossema esse eius, qui,
cum recte intellexisset avopoia t ut et alii intelligerent, verbi
expli- cationem margini adseripserit* Memor autem Eryximachus
ver- borum erat p* 186. B. ro 81 dvopotov dvopoloDV huSvpei
xai ipa, ad quae respiciens avopoia dixit, ut simul ad in tGDV X
OtovTGOV supplendum sit avopoioov xov iviavx6v (opcSv . xai
tols $tjpiotf' t xai toiS epVtolS . Eryximachus cum supra dixisset
dv^pcbnoii xai xoli aXXoiS ZgjoiS re xai cpxnoiS, humani generis
nunc videtur esse oblitus* Verum licet medicis de re medica loquentibus
homines animalibus adnumerare : den thierischen und vegetabilischen
Korpern, xai ipvdifiat» Timaeus iu L, V, Pl. : ipvtiifiai piXxoa -
cpvrolg * xal yag ita%vat xal %aXat,ai xal iQVtiSfiai ix Tckeovs^lag xal
axodplag Jtsgl aXXijXa zwv zolovzuv yi~ yvezca sp&zixcov , av
iitufziyfiq adzgav re q)ogag xal IvLavztiv agag adzgovopta
xaXzlzai. %xi roivvv xal ftvdiai itadai xal olg [lavuxij htidrazel —
zavza 69 l6zlv rj negl fteovg ze xal dv^gtbnovg jcgog t&XXiqXovg
C drfS Spodos • itax y V SpodoS XiovqoStjS. Hesych.
ipvdiftrf. vo - 6oS riS aepoS iitiyevopivT} toiS cpvtotS xa i
xapnoiS. Pro yi~ yverai pluralem numerum exhi- bet Stobaeus, quem
numerum Fischerus et Wolfius reposuerunt. Frustra. Naturae phae-
nomena quoniam verbis impersonalibus exprimi atque describi solent,
substantiva etiam, quae cum his cohaerent, ut infinitivi, quibus
deest subiectum certum, tractantur. Vide Astii annot. ad Flat»
Polit» p. 400. Adde Matth. Gramm. plen. $. 303- p. 603* ojv ire
tdnj p.7j xaXetr at. Fuerunt, qui haec verba delenda censerent; alii
eadem coniecturis teutarunt» Primus Astios monuit, meteorologiam et
astrolo-giam veteribus astronomiam appellatam, neque meteorologiam
antiquitus ab astronomia disiun- ctam fuisse» Id factum ideo, quod
astrologorum non solum erat, sidera observare, sed etiam
tempestatis mutationes, quae si- derum indicari solent vel ortu vel
obitu , praedicere. Quod autem, Stallbaumius ait, Eryxi- jnachus
hanc defiuitionem astro- nomiae addit, atque mox etiam defiuitionem
pavrixi}S\ id nemo inepte aut temere fieri arbitrabitur, qui reputaverit,
hominem sophistarum artibus assuefactum ridicule captare inanem
quandam doctrinae speciem atque umbram. Aliter nobis videtur de his
verbis iudicandum esse. Solebat vulgo astronomia definiri ita, ut
imdri/prf adrpu>v re {popoiv xal iviavtcov copcov vocetur. Hanc
definitionem veram esse Eryximachus negat, astronomiam inidtTjfirjy
ip GJtixoJV ite- pl adrpav re q>opaS xal ivi avt air copaS esse
contendens. iri roivvv xal Svdiai TCadai . Haec est
xneliornm codd. lectio, quorum iu numero primus est Clarkianus.
Probatur ea lectio fiekkero , Astio, Stallbaumio. Alii habent xal al
SvdLai aitadai ; minus apte, ut videtur» Non enim ita de
sacrificiis loquitur Eryximachus, ut singula quaeque sacrificia significet
intel- ligcnda esse, sed in universum sacrificiorum mentionem
facit» Convertenda verba sunt : Ferner auch alie Arten von Opfern
und das, woriiber die Mantik gesetzt ist. Memorabilis hic locus
est, quo veterum de religione iudi- cium continetur. Dupliciter
cum diis agi Graeci censuerunt, eorumque numina aut sacrificiis
adhi- bitis placare studuerunt propter vitae anteactae scelus , aut
pav- tixg usi sunt, cuius auxilio de deorum voluntate
certiores fierent, futurainque viam ad ean- dem dirigerent» Vide
Wachsmuthium, qui nostrum locum lau- davit ia libro; Helleniiche
Al** xoivavta — ov xepl «AAo xi lotiv tj xeqI "Egcrtog tpv-
Xaxyv te y.cd TaOiv. tcccGcc yciQ ij aGtfiua tpiktZ ylyvE- Gfrai, tuv
fiTj tls toj xoGpla ”Equti ittQltfiTcu (irjdh ripa tcrtliumslunde P. II.
T. II. p. 222. In sequentibus xavxa non solum ad verba pertinet ols
pavxixi } iitidxaxel , sed cliam ad Svdiai itadat. Recte igitur
Schleiermacherus in conversione: denn dies insgesammt ist die Ge-
meinschaft der Gotter und Mcn- schen unter einonder. Ceterum ut
melius intelligas, verba X avxa 6* idxlv i } nepl $eov* xe xal
dvSpcJnovS npoS dXXTfXovS xoi - VGQvtac immerito a Schiitzio in
suspicionem vocari : Eryximachi mens haec est: Ferner sind pun auch
alie Opferungen und das, wortiber die Mantik gesetzt ist dies zosatmnen aber
ist nach der gewohnlichen Meinung fiir' den vrecbselseitigen
Verkehr zwi- schen Gottern und Menschen cigentlich nichts anderes,
ais die Bewahrung und Htilung des Eros, Epi*Epa>xoS
tpvXa- xrjy xe xal tadiY. "EpcjS hoc loco generaliter positum
significat et malos et bonos affectus- Pluralem numerum paullo infra liabes p.
188. C. fin. a 61 } nposHxaxxai xfi /tavxixp ini - Cxoniiv x ovi
" EpcoxaS xal la- rpeveiv. Adde p, 188. D. ubi 6 naS *EpG>$
legitur. nuda ydp 1 } adi fi eia. Nihil in his verbis comparet
le- ctionis varietatis. Mallem tamen abesset articulus, ut de
impietate in universum, non de impietate in certis quibusdam
actionibus Eryximachus loqueretur, cfr, p* 188 . D, fidXXov 61
nddav 6v - ra/nv fyei x. x. X. Paullo in- fra nadccv ij/itY
eVdaipoviaY. Restat, ut de cpiXeiv verbi potestate dicamus, qtfam vulgo
non satis accurate interpretantur docti homines. Annotant enim,
Grae- corum (piXetY atque Latinorum amare haud raro rebus actioni-
busque ita apponi, ut quibus esse fierive solere res actionesque
indicentur. Merito autem quae- ritur, quid differat hic qnXeiv
verbi significatus ab aoristorum temporum usu, de quo p. 142«
diximus, et quibus itidem so- lere aliquid fieri significatur. cfr.
Eugelliardtus ad Piat. Menex. p. 240. ed., Stallbaumius ad Plat, de
rep. VIII, p. 650. B., ed. p. 183. Matth. Gramm. plen. J. 602. 3
> p. 954. Aori- stum poni adhaerente notione s o- Iere verbi,
ubi de actionibus sermo ait, quae iam saepius factae sint, satis
notum. $iXeIy contra ad- hiberi solet de rebus, quae non tam factae
sunt iam saepius, sed quibus vim quandam inesso indicatur, qua
necessario fiant. Et quoniam quae necessario fiunt, saepias iam facta
esso possunt, multis in locis perindo est, utrnm aoristicum tempus,
an tpiXeiY cum praesentis temporia infinitivo coniunctum
posueris» Sic nostro loco, quoniam pestis Atticam terram saepius
invasit, Eryximachus etiam dicere pot- erat: ol xe ydp Xotjiol iyi
- rOYXO ix T(k)Y TOIOVXCDV x.r. A, Adhibito 9»iAeiV verbo haec
eius voluntas est: Nam pestis ea natura est, nt quae facillime ex
hie zs tevrov xal TCQEBpEvy Iv Ttavr l fpy», «Ala rov eteqov, xal
7tEQi yoviag xal t,avtag xal xtTtltvzrjxbtag xal xeqI foovg. a 6 tj
TtQogxiraxtai zy (uxvuxrj inuSxontlv zovg exoriri possit et
qaae seqq. Con- ferri potest cum hoc <ptXeir verbi usus iStXeiv
et fiovXedSat ver- borum in rebus inanimatis ; sic v. c. legitur in
Piat. Phaed. p.74. D. ovxovv opoXoyovpEv, oxar x iS xi idcjy ivroijdy,
oxt fiovXexai plv xovxo, o vvr iydo opcj , elvai olov dAAo xi
XGQV OVXQDY , Mei 8h XCtl OV dvvaxai xoiovxor elvai x. x. A.,
quo loco non dubium est, quin eadem rerum natura, quam cum
instincta animalium comparari licet, tangatur, ad quam etiam
cpiXeiv verbum referendum est. iav fiif x iS seqq. Notabis
hic usum Graecorum in collo- canda negatione a nostro disce-
dentem. Nos enim, cum non ipsam sententiam negamus, sed partem
aliquam sententiae, curam agimus diligentissime, ne negatio- ni»
particulam collocemus ita, ut cum verbo possit coniungi, recte
facientes, ut opinor. Sic nostro loco non x 6 x a P^ £ ^ at negatur, sed
asseritur aliquis X a P^ m c>ed$ai quidem, at non ta xo- d/iioo
sed fc3 hxepa "Epcoxi. Id nos sic exprimimus: Wenn Ie- mand
nicht dem gesitteten Eros folgt, sondern dem andern. Con- tra
Graeci ita amant negandi particulam cum coniunctiouibus ei, iav,
oitGDS aliis, arte coniungere, nt perspicuitatis illa lego neglecta
breves certe voculas, ante illam ponendas, post eam reii- ciant. Quod in
pronomine indef. xis maxime fit. cfr. Crat. p. 453* C. ei jirj xi
xaXaS ixe&q dictum pro et n firj xoXgjS Xenoph. Hell. VI. 4. % ei pij
xiS iaorj avtovopovS xaS noXeiS elvai. Non negatur ibi ro id
v riva, sed affirmatur xo prj iav. Pariter ante xal Tbucjrd. VI,
60. collocat: hceidev avxov cuf XPV el jxjj xal 6e6paxev x.x.X.
pro ei xal prj didpaxer. Quin etiam ante ipsam coniunctionem ib.
VI. 18. xov yap xpovxovxa ov jiovoY iitiovxa xis
ayvvexai, a?iAd xal prj oitaS iiteidi itpo - xazahafifidvei.
Riickert. d XXa xov Zxepov. Vulgo aAXct nepl xov ixepor, quod
ferri potest nullo modo. Illud in Vin- dob. 2. et apud Stobaenm
repe- ritur Ecl. phys. p. 24. Memo- rabile exemplum, quo
probatur, interdum falsum esse, quod codd. fere omnium consensu
exhibetur. d 6 r) 7tpo Sxlxaxrai. Schulthessios: Desshalb ist
es eben das Amt der Wahrsagekunst. Astius habet: qua in
caussa. Schleiermacherus : w o r i n eben der Wahrsagekunst
obliegt. Care * scribendum censeas, quod olim mihi in mentem venit:
d dij icpoSxhaxxai xy pavxixy ini- dxoiceiv xal xovS *Ep coxas ia
- rpevei >o. d enim est: in welcher Beziehung s. und in dieser
Be- ziehung liegt es der Mantik ob, die Neigungen zu betrachten
und Heilung anzuwenden. xal idxtv av i ) fiiavxixj}* Spectat
av 'ad p. 188. C, xavxct o idxlv ?} Titpl $eovS te xal dvSpooTtovS
izpoi aAXyXovS xoi - varia. Definitur autem 7 f yar- Zixrj nane
ita, ut dicatur conci- 10 $ Ega zag xal largtvuv , xal
%6nv ccv f\ (mvzzxrj tpMag I) ftttZv xal dv&gnxav 8t](uovgyog za
htiGzuGfrai za xazu av&ga>7tovg igaztxa , o6u ztivu ngog depiv xal
a<St- jleiav. orto xokXrjv xal (isydX rjv, fiaMov 81 naGciv
8vvu(uv %vM.rjf}8tiv (itv 6 xag "Egcog, 6 81 sr egi tcc «ya&d atra
<Saq>go<3vvr]g xal Sixai oGvvqg caioze- Aovptvos xal xag xal
itagd. &solg, ovzog zrjv (liyiazrjv 6vva[uv iysi xal xaOocv
‘tjixiv tvSaifiovlav itagadxeva&i, xal «AA>]Aotg Sirvafilvovg
ojuXelv xal (pllovg uvai xal zoZg xgelzzoGiv ijfiuv &eoZg. —
"iGag E utv ovv xal lya zov * 'Egaza txaivcov xoXXce naga-kdxa, ov
(itvzot, kxav yf liatrix esse amicitiae inter deo* et
homines eo» qaod sciat, quid ad procreandam et pietatem et
impietatem habeant in homines Krotes potestatis. Auctor definitionum p.
4l4. B. habet: par- XIX}], iltltiTljuTJ $EG)ptjTtxf/ tOV OVTOS XOtl
ptXXoYTOS Zgjgj $V7]- tgo. Yerior haec definitio illa, quam
Eryximachus profert, quae ad duplicis Erotis naturam hominibus
inhabitantem comparata est. ovtu 7 Co\\t}y xal pe- yaAljn' seqq.
Convertit Schleier- xnachcrus : So vielfache and grosse oder
vielmehr alie Kraft besitzt Eros iiberhaupt... Errat iisdem paene
verbis usus Schulthessius» Ovtgj seiungendum est a verbis
insequentibus et ad totam enun- tiationem referendum : Hac ra-
tione multam habet ma- gna m q u e potestatem Eros» vide ad p* 58.
Sequentia verba ZvXXrjfidrjV p\v 6 7taS "EpuS clare docent,
Eryximachum, quoad eius fieri posset, se accommodare Phaedri
proposito voluisse: iyxco - pia&iv " Epcata . Idem
Pausaniam fecisse annotavimus ad p» 180» akX (X tt i^sXuiov , Oov
£q~ E. htaivnv ptv ovv dei tcolv- x aS SeovS.
xal aXXrjXot^ dvvapik- vovS opiXeir, vid, adp.4l., ubi
dvvaplvovS pro SvvatiScti rjpaS dictum esse censuimus. Igi- tur
participii accusativam accom- datum censeas ad ?}pdS prono- men,
quod ad opiXeiv supplendam est. Non assentimur autem Buckerto, qui xai
ante tolS xpeitto6iv rfpeov SeoiS expun- gendum putat. Cohaerent
inter se xal aXXrjXoiS — xal xoiS xpeitrodtY tjjic&v SeolS ,
atque ea cohaerentia horam verborum ut, emineret magis,
dwapevovS a Platone scriptam est, non 6v- vapkvoit. xal
iyco. Ut Pausanias, ita fortasse etiam ego multa intacta relinquo. Tempore
praesente Eryximachus ntitnr, ut ad audi- torum sententias oratio
compa- rata sit magis, qui forte cen- seant, oxi noXXa
itapaXeixet ’Epv%ipaxoS, De insequendum verborum explicatione
liteidq xal rjjs Xvyyos xatavCai audias Fi- yov , c S
'AgiGtocpctVES, avaxXr]Q<3(Sai' Jj ll stas alias iv va %xns
lyxaftid&iv rov 8eov, lyxa/iltt&, Insidr/ xal rtjs Ivyyos ninavaca.
jExfcfaftEi/ov ovv £q»] shniv rov 'AQiGToyttvt] on 180 Kal {iaX
htu.v6u.to , oi5 fihvtot scyfo ys rov straQ/iov stQOSEvtx&rjvai avry,
agts fie &avfia£uv, el r 6 xo- <S[uov rov amfiaxos htfovfiil rotovrcov
s^ocpav xal yuy- ycch6[iuv, olov xal 6 straQfios ItSti. stavv yay
ev9vs istavGato , htEtZSrj avra rov strayfiov stgosrjvEyxa.
Kal rov 'Eqv^iiuxov , r £l 'ya&E, cpavat, 'JyiGzocpuvEg, oya tl
stottlg ; yElarostouis (isllav liytiv, xal tpv- laxa (te rov loyov
avayxatfivs yiyvEG&ai rov esavrov, scherum: Particula xal a Stephano
ciici non debebat . Nam Eryximachus ostendit, partes disserendi iam
Aristophani susciiendas esse non modo propter ordinis rationem, sed etiam
propter ea, quod singultibus non impediretur, quibus sedatis promisisset se
verba esse 'de Amore facturum . Prorsus eodem modo dicitur paullo
infra olov xal 6 7trappoS idrtv, ubi xai addito indicatur
manifesto, non solum sternutationem hic tangi, sed cetera etiam,
quae Eryximachus praescripsit, remedia singultus, ov fisvtoi itpiv
ys itpof ev ex$V v ai ccvtji i. Dixerat Eryximachus p. 185.
E. tl d’ apa itavv Itiyvpd idnv, dvaXaftdv n toiovrov, oVfp
xi- vijoaiS av rijv f)iva , nrdpe. Vides igitur, cur articulum
Aristophanes adhibuerit rov ittap- fiov . h. e. sternutationem
eatn, quam praecepisti. (3sre pe £ avfidd,szv . Haec est lectio
codd, omnium. Bekkeros, Astius , alii, ia textum receperunt
«stf lp\ SccvftaZetv ea opinor de caussa, quod prae- cipi solet,
particulas non pati iuxta se positam encliticara for- mam
pronominum. Huius regulae rationem quoniam neque nos perspicimus, neque
ab aliis satia explicatam reperimos , codicum auctoritati, quam
mutandi libidini obedire maluimus. Sententiam quod attinet, Stallbaoinias
ad h.l. ridet , inquit , quae Eryximachus disputavit supra p. 187. D. et
E, Audi Riickerti annotat, ad h. 1,: habet etiam Eryximachus,
quod respondeat, non r 6 xod fiiov illud appetere, verum r d
axo— 6fiov hac ratione expellendum esse. Id non facit respondentem
Eryximachum , ne urbanitatem violaret i lectori reliquit inveniendum , erant
que inventuri f qui mores hominis nossent, facillime, nec potest latere
attentum lectorem, qui totum hoc episodium de Aristophanis singultu
quorsum spectet , secum reputa- verit » Vide Comment. de Sympos.
Platonis, ijtstdq avrdi . Ia aliquot 10 iav n yeXoiov
tixys , ll,ov Ooi Iv tlffrjvy Xlytiv. Kal tov ’ AQiOtoipavr] ytXcKSavta
tlntiv, Ev Xiyug, a ’Egv- £l(ia%£ , v-al fiot, t6ta aggr/tu tu
fifnjfiLva. aXXa fir/ fis tpvXatts' tog fy 0 * (pofiovfiat ntgl twv
fisXXovtav QjjftijOttSfrcu, ov n, fiij ysXoZa sYxa, tovto fisv yag
av xigdos tfij xal tijg r/fistsgag MovOrjs truxagiov, clXXa fir/
xatayiXuGui. BaXav y£, giavai , a ’Agi<Sto<pa- codd. avnj repentur,
quae le- ctio 'eorum sedulitati debetur, qui pronomen ad trjv Xvyya
re- ferendum censuerunt, Riickertus ad h. 1.: Non habet, iuquit,
neu- trum hoc, ad quod reteratur. Nolim avtdj neutrum putare.
Quamquam enim Eryximachus r ijS A vyyoS nomine usus est, tamen hoc
loco quasi tov Xvy/iov dixisset , pOSUit CtVTGJ. iav ti yiXoiov
etayS, Sensus est: Vide v , quid agas. Rides sententiam meam,
qui ijiso nunc dicturus es, meque custodem esse iubes orationis
tuae, ai quid ridiculum forte proferas, cum tamen liceret tibi
securo tutoque orationem habere. i£,ov 601 iv elprfvy
Xi- ysiv Grammatici in i&ov, 6iov, aliis participiis
nominati- vam absolutam agnoscant. Haec participia, quoquo modo
explicaveris, nam certa explicandi ratio non reperietur in dicendi
formis, quae quotidiano usu loquendi quasi sancitae cum linguae
legi- bus minus conveniunt, recte cum nostratium formulis
comparantur: vorausgesetzt, dass; angenommen, dass. ov ti ,
ilt} yeXoia efarm. Stalibanmius ad h. 1. rectissime: Hoc ov 1 1 ,
inquit, connectas cum cpofiov fiat. Nam sen- tentia haec est : Noli
me custodire: nam ego vereor de iis, quae nunc dicturus sum, non
quidem, ne ridicula proferam — hoc enim lucrum foret et comicae
Musae nostrae consentaneum, sed ne de- ridenda. Revocandum est
ov Ti — aXXa ad notissimam formulam loqudbdi ov Xiyco oti aXXa, de
qua vide annot. p. 66. Verba convertenda sunt: Gieb auf mich uur
nicht so genau Aclit, dena ich iiirchte mich, liber die gestellte
Aufgabe spre- chen zu miissen, nicht etwa, dass ich durch meiue
Worte Laclien erregto, sondern dass ich Thd- rigtes vorbringen
konnte, ^ ytXoxa xaray
iXa- 6ra* a Dicitur yeXoia ex mente Aristophanis, qui narrat de
aliis, quae risum moveant, vel omnioo res alienas in partem profert
ri- diculam. Qua in rp quum non- nihil sit artificii positum,
tota- quc comici professio in co ver- tatur, ut moveat risum
audien- tibus , non timet hoc , immo in lucro .ponit, si
contigerit. At ‘KaxaykXa6xa qui dicit, sui in- genii fatuitatem
prodit, sunt enim deridenda. Est igitur verum discrimen, quod hic a
poeta ponitur, in ipsaque fundatum ety- vf g, o Xsi htxpsvfcsaftcu; nXXa
TtQogsys tov vovv xcci ovtGf$ Isye dos dcoOcov loyov. iGas (isvtol> av
86 C ffOt, U(pTj(JCO as. Cap. XIV. Kal \Lrp>>
iS *Eqv%Iim%s > slittlv tov 'jiQUStoyavrj, SXly yk ity Iv vtp Ikyuv y
y Cv re xal JlavGa- mologia , at vulgari in usu non
observatam, cai xaxaykXadra quidem semper sunt deridenda, cfr,
infra p. 198. C. ivEVorjda tote apa xaxaykXatfxoS c ov. Apol. p.
28. D. tva pi) iv$a8e pkvco xataykXadxoS icapct vrjvdl xopcovidi.
Ibid. p. S5. B, xa- 9ykXadxov xrjv noXxv noiovv - teS ; ysXolov
vero est quodcun- que risum movet, sive consilio eius, qui facit
dicitve, sive im- prudentia. cfr. iufra p. 199. D. yeXoiov
ipcoxijpa i. c. xaxayk - Xadxov p. 213. C. ubi Aristophanes yeXoioS
dicitur h. e. dedita opera risum excitans.» Haec Iliickerti verba sunt
optimo de discrimine yeXoiof ct xaxa- ykXadxo? verborum
disserentis. Minus bene V. D. addit: Itaque, et quum minime sit
huius loci vocum discrimina explicare , ne- minem esse puto, quin
Prodici in his agnoscat disciplinam, modo sit memor eorum, qnae de
hoc homine discimus e Protag. p. 337. A., p. 341. A., Crat. p.
384. B. , Euthyd. p. 277. E» , Lacii, p. 197. B.Vide Conuncnt.
de Piat. Symposio. fiaXcov y e — oZei kxcp e v~
B,e6%ai; Suidas Tom. I. p. 414. ed. Kiist. ftaXcov tpEvgsdSai oZei
; itpoS tovS xctxov xi 8pa - davtaS xol\ olopkvovS lx(psv- yetv.
IIoc proverbium e rc militari petitum est, uh! aliquis misso in hostes
telo tela hostilia vitaturus recedit. Riickertus proverbium hoc modo
reddendam censet: Ia, nachdem du ab- gcschloss en, denkst du
davou zu kommen. av 8 6 B,xi po t. Si videbi- 0 tur h. e. si
rationem reddideris, qnae' satis mihi et sufficiens esse
videbitur. xal /u}r >elxeiv tov 9 Api6r o cp dvtj.
Aristophanem intelligi comicum poetam, comoediarum lepidissimarum
auctorem, extra dubitationem positum est. Eius oratione
recreabuntur, qui Pausaniae Eryximachique ora- tiones legerint. Nam
et a di- ctionis elegantia pulcherrima est, et ad rem si respicis,
tanta referta venustato, ut dubitari ne- queat, quin multam studii in
ea conscribenda Plato consumserit. Orditor autem Aristophanes
a praedicanda Erotis laude , cuius naturam non cognoscere possit,
nisi qui prius in hnmauam na- turam inqnisiverit atque in 7ta -
$i}f.ictTa eius. Aliam, atque nunc sit, olim fuisse narrat,
quatenus quidem non duplex fuerit, sed triplex antiquissimis temporibus
genus humanum *Av8p6ywov enim , cuius non nisi nomen re- liquam sit
idque ia igaominia 150 IIAATSINOE vias
tlnirriv. i/iol yag 8oxov6lv av&Qcoitoi it avraitatSt rtjv rov ’
'Eqozos Svvafuv ovx ijO&fjti&ai., litti cdoftav 6-
positam, tertiam genas exstitisse viribas pollens, felicissima
inte- gritate gaudens atque tanto ani- morum superbia praeditum,
ut ipsos deos aggrederetur. Iovcra autem ceterosque deos dia
haesisse inopes consilii, neque, quomodo eius superbiam infringe- rent, habuisse.
Tandem lori in mentem venisse Androgyni dis- sectionem, qua eftecta
Androgy- num periisse, neque remansisse nisi segmenta hominum,
quae amissae integritatis desiderio ve- hementissimo agerentur.
Huic desiderio AMOREM nomen, eiusque tantam vim esse, ut, ubi partem suam
pars repererit, ab eodem nunquam discedat. Igitur summorum bonorum
hominibus auctorem Erotem esse, ntpote qui ad pristinae integritatis
felicitatem homines perducat. xal /i 7} y 9 co ’Epv Zlfiaxe*
Male ad h. i. Ruckertus : Videntur , inquit, ad Eryximachi verba
respicere xal prjv particulae , ut oppositionem contineant . Quum
enim spem faciat Eryximachus , fore , ut dimittat Aristophanem, hic
tale quid videtur dicere : Cupio equidem me dimitti, sed tamen
vereor ut fiat, sam enim aliam viam a vestra diversam ingressuras*
cfr. Menex. p. 234. cap. 2. init, xal prjv , co IMevIUeve, TtohXaxv
xivSvvevei X. t. A., quem locum laudo, ut lectores tutius de
Ruckerti ex- plicatione 7tal pijv vocularum iudicent. Ut nostro loco,
ita ia Menexeno xal pjjv nihil nisi gra- vem affirmationem
exprimit. Astios habet: ac nimirum, quod nullo modo probari
potest. Unice rectam particularum interpretationem Schleiermacherus
exhibet in conversione: Allerdings. KaL expletivum est; vide annot. p. 6.
et p. 38, elrtitTjv. Bekkerns, quem secutus est Astius ,
eliterov edi- dit. Stallbaamius cum audaciam eorum non probaret,
qui secan- dam personam dualem nunquam a tertia diversam fuisse
docerent (Elmsl. ad Arist. Acharn. v. 773» ad Eurip. Med. v. 104
1., Monk. ad Eur. Alcest. v. 282. ) , hrc certum esse annotat: apud
sciW ptores veteris dialecti Atticae se- cundam personam
saepenumero in — ttjv terminari. Schaeferas, quem laudat
Stallbaamius ad Schol. Apoll. Rh. p. 146. anno- tat: prisca
graecitas dua- lpm certe activi in his temporibus videtor bifariam
flexiss e etoy, et ov et kxr\Y , itrjy , sed poste- riorum usus
temporum, grammatica subtilius an argutius exculta, termi-
nationem in oy assignasse secundae personae, in tjv tertiae.
Secundae personae in Ttjv terminatio saepius reperitur apud
Platonem, exempla collegit Stallbaamius ad h. 1. cfr. praeterea Duttm.
Oraram, plen. Vol* II, p. 417. Matth. Gramm. T.I. $. 195. n. 1. p.
347. itavt anadt — ovx y 6$ij- at. Negat Aristophanes, Erotis
vim hominibus satis notam esse, atque aperte indicat, pror- sus
aliter, atque Phaedrus, Pau-i. i (itvol ys (liyiOz av avtov lega
xmttGMvaOtti xul (ta )- (lovgy xai &v<Ji<x$ av sioiuv
(ityiorus, ov% agnig vvv sanias, Eryximachus dixerint, de
deo sese dicturam esse. Idem paullo supra disertis verbis ex-
pressum est : &AAy yk Tty , in quibus verbis nou urbanitate, ut
Hiickerto videtur, sed ironia At- tica factum est, ut aAAu verbi
austeritas addita 7ty voce miti- garetur? ejn weuig anders. Hac
ironia Socrates haud raro usus est, ut summam rem tan- quam minutam
exilemquc profer- ret. Exemplo est PJat. Prot. p. 828. E. vvv
itkitttdpat, 7tfo/v (Spixpov ri jnoi ijixoSaoy, d 8ij- Aov , oti
tlpooxayopas fiqtSkoS I7cex8i8d£,et f iiteidr} xai td noX- Aa xavxa
i%E$ida%Ev, ipol ydp 6 oxov div ctv-. SpooTtoi. Haec est
codd. le- ctio plurimorum, Wolfius e tribus ol dv^pcJ7COi in textum
recepit, ©e gerere in universum hic ar- poortoi dictum putari
senten- tiae ratio non patitur, neque vero cum contemtu homines commemorantur
h, 1. Nihil igitur esse vides , quo possis articuli defectum
explicare. Fortasse scribendum est dv^pco7toi eodem modo, ut
avSpcDTCoi nunc haud raro apud Platonem reperitur. cfr, Symp. p, 206.
A. ooS ovSkv ye aXAo i6x\v f ov ipdUtitv avSpco- jcoi, ad quae
verba Stallbaumius annotat; Non opns articulo, cuius omissio admodum
usitata est in eiasmodi vocabulis, qualia sunt avjjp, adeAtpos,
yvvrj, yij , aliis, quum de genere posita sunt. Vi- giuti codd.
articulum addunt. Fortasse et 1». 1., quoniam dege- nero humano
verba non puta- mus accipi posse, av$p<*)itoi scri-
bendum est. De formae huius veritate vide Apollonium iu Bekkeri Anecd»
gr. II. p. 495. 24. apeivov ovv. itapa8k%a6$ot.i dto- ptxrjv
peraSEtiiv xov J eis xo a , xal gjS' 6 avijp dvrjp y o «y* $pGD7TOS
aV$pG)7COS 9 OVXCJS XO ixepov Sdxspov idxiv. ixel altiSavd
fiev ol ys. Aptissimus hic locus, ad quem de ItieI vocis natura et
potestate, quid videatur, dicamus. Satis notum est, atque exemplis
ubivis obviis probatur, etCel nou solum consequentiae, verum etiam
caussae notionem habere. Eius notio- nis origo est liteita vox ,
quae loquendi usu, ut fit, iu breviorem formam mutata ita adhiberi
so- let, ut temporis notio cum con- sequentiae caussacve
notioue commutetur. Iu vernaculo sermone eodem modo e temporali-
bus daun et wann factum est caussale d e n n , et coqditionalo nv e
u n . Sic cap. XIII, initio ijtsl XOLl 7} TGJV GOpcZv XOV iviavxov
6v6ta6iS jtE6tij idxiv dpfporkpcov xovtoav x, x. A,, quo loco eadem
ixei vocis po- testas est, atque iitEixa . Ery- ximachus nimirum
cum dixisset, in arte musica et in medica du- plicem Erotem
reperiri, ita pergit : Hernach ist auch die Yerknupfung der Iahreszeiten
voli von diesca beiden. Non repugnabimus autem si quis verterit;
Denu auch die Verkniipfung cet. , quoniam in omnibus artibus et
re- bus duplicem Erotem reperiri dictam erat, quibus verbis
procedentibus efficitur, ut quod po- stea sequi dicatur, idem
illius 152 HAA TS&N02 tovtcov
ovdtv ylyveua itsgl avtov, Siov itavtav (laAidta D ylyvs<S&ai.
€<fn yug &Eav tfnlav^ganotatos , Ixlxovgog te uv tav avftganmv xal
largos tovttov, av la&iv- tcov (isylOTTj av Ev6cu[iovla rei av^gamla
ytvEi eitj. lyto ovv xugaOouai vytlv ElsrjytjOaO&ai tyv 8vvay.iv
avtov, v(itls 8s rav aXkav 8i8d<SxaXoi ttiEC&E. 8eI Se itgatov
vyag fia&elv tffP dv&gazivjjv qwOiv xal ta xa~ ftrjyazu
avTjjg. dicti veritatem, ut caussam veri- tatis, comprobet, cfr.
Apol. Socr. p. 26. D. jua At , c5 av8peS 6ixa6ta \ , inel rov p\v
t/Xior XiSov (prj6\v etvai , r i}v 8\ d£- A rjvrjv yifv. In Alcib.
II. p. 143. C. ixeidr) ovtoa 6ot 8oxti 6<po - 8pa Seirov Elrai
ro jtpaypa, Ssre x, r. A., imi pro litEi8r\ scribendum est; scribae
enim inei vocis significatum non per- cipientes 6jj addidisse
videntor. Battm. ad h. 1. bteiSij 86 scribendum censuit» Dubito,
num recte. Adde Prot. 334. B. ei 6 f i$6\oiS hti xovS mopSovS
xal tovff viovS TcXtavaS InifiaKkeiv (sc. TTjY 'H07tp0V) TtOVXCL
dnoX- A v6iv iitel xal r d iXaioy roiS plv <pvxoiS anadiv
Itixi ituyxccKOV x. r. A. Adde p. 181. C. d St rfjs OvpccriaS
rtpdSxov f-tlv ov pexexovdtfS StjA-eoS, aAA* dfifieroS fiovov — xat
idnv ovxoS 6 rcor TtalScov " EpcoS— in e ix a izpetifivxipaS ,
vfipEGDS dpolpov , quo loco iittira con- sequentiae notionem habere
vi- detor. Dieser aber gehort zur Urania, welche zuvorderst
nicht Theil hat am Weiblichen, son- dern bloss am Manolichen
— welche folglich die Aeltere und ohne Uebermuth ist. Antiquissimis
eoim temporibus illis masculum genas exstitit tantummodo, non item
femininam» Adde p. 180. A. S! r\v xdWiov ov povov JlaxpoxXov aA\’
apa xal xoay rjpcdcjv dnavXGtv, xal iri ayivEiof, ineixa
vecotEpoS Ttohv , <2s (p7]6iv n OpiipoS. Ad nostram locum nt
revertamur, litei temporalem potestatem ha- bet, quo simul effectum
est, at sequentes infinitivi e praecedente finito verbo 8oxov6iv
exaptaren- rentor. Sensus est: Denn mir scheint, dass die Menschen
durch- aus des Eros Bedeotung nicht ver- standen haben, hernach,
dass sie, wenn sie dieselbe verstanden hatten — die grossten
Heiligthiimer erbaut haben wiirden... Simillimus nostro loco est
Xe- nophontis , quem Stallbaumias laudat, Hell. VII. 1. 38» 7 tpoS
dfe rovroiS xal ro rcor XPV~ lid.XGov7t\i}$oS dXaZoveiar avxcp
doxEiv slyai iqnj, in si xal rijy vfivovpbrqv av xpv6rjr itXdxa-
vov ovx Ixavrjv elrai rkxnyt tfxtccv napix^y* fitiy t6r av
avrov lepa. Wolfius ad h. 1. annotat: Schoo aus diesen Worten
hatten manche Sammler von Mythologien ler- nen konnen , dass Amor
keine Gottheit war, die der Volksglaube zu cincm Gegenstaud der
einge- fiilirten Religion gemacht, son- 'H yuQ xaXai yficov cpvOig ov%
avtrj rjv Sjiteg vvv, dXX’ dXXoia. xqiBtov [ilv yuQ rgla fjV ta yevrj
ta. TtZv dv&QUXMV , OVI «S**0 vvv 8vo , u$Qtv xal frijlv, ctXXa
xcd tqItov xgogijv xoivov ov d[icpottQow tovtarv, E ov vvv ovofia Xoatov,
avto 81 ^tpavuStai. dvdgoyv- vov yciQ tv tore [ilv ryv xal sidog [xal
Svo[ia ] , au- tpotegav xoivov, tov te ccQQevog xal frqXeog, vvv 8’
ovx Sotiv aXX’ y iv oveidei ovo[ia xeljxtvov. exeircc ilern mehr
ein Abstractam , das den Dichtern seinen Platz im 01} rap zu danken
hatte. Ceteram xaxadxev adai aoristicum tempus positam est sequente
itottlv imperfecti infinitivo, at actio praeteriens, qualis est
templorum aedificatio, a sacrorum fe- rendorum consuetudine discer-
neretur. Vide Engelhardtum ad Meocx. pag. 234. c. 2. xal yap
tacpf/S xaXrjS xe xal fie- yaXonpeitovS rvy^ayn, xal iav rtivrjS
xiS uiv xeJLevxrfdp, xal iitaivov av itvxe, xal idv <pav\oS j}
x. x. A. ovx vSrtsp' vid. ad p. 179. E. annotat. Oratio
plenior foret «AA* ovx av litoiow , usitep vvv , o xi xovrarv ovSlv
yl- y vexat. Nvv autem Tocula non solum de praeaente tempore intelligenda
est, sed etiam de ve- ritate rei. De verbis insequen- tibus 6 eov 7
tavTGDV paXidxa yi- yvedSai, vid. ad p. 131. i%ov doi iv elpyvy A
kyeiv. litlxov poS x £ &v. Addito elvat verbi participio
epitheti veritas indicatur, ut convertenda verba sint: denn er ist
unter den Gdttern des menschenfreund- lichste and der
walirhaftige llclfer der Menschen and Arzt der Uebel , deren
Heilung dem Menschengeschlechte zur grossten Gliickseligkeit
gereichen miisste. vjjieiS 61 xoHvdXXcDV 8i- ' 8a6xaXoi
i&edSe, Haec verba vario modo explicari pos- sunt. Fortasse
Aristophanes vulta ad serenitatem composito , tan- quam summae veritatis
rem probaturas satis festive, ut comicum decet, doctoris formam
imitatus Vobis, inquit, ego, vos ce- teris praeceptores eritis.
ovx avxrj rjv, rjitep vvv. Bekkerus, quem secuti sunt
Astius et Reyudersius ex Euscbii Prae- par. Evang. XII. p. 585. C.
i) avxrj in textum recepit. Fiemus habet: neque enim, qualis
nunc est, olim erat, sed longe diversa. Nihil mu- tandum est. Verba
proprie au- diunt generis assimilatione omissa: 7} ydp Ttakai
rjpcov cpvdiS ov tovto ijv , Zizep vvv, aAA* aA- A owv xt. Sed
minus adamatum hoc dicendi genus fuit Graecis; quamquam enira
rectius censeri potest, atque exprimendae sen- tentiae
convenientius, tamen minus elegans est atque durius. Hinc factum, ut
generis assimi- latione adhibita scriberetur ovx avtrj — tjxEp — .
Diximus de hoc genere dicendi p. 139. «Aov rjv hiouSt ov tov
&v9q<6xov to slSog, GtQoyyvA ov, vojtov y.al kXevqus xvxXa %ov.
%HQas Si xtrtaQas tljE, xui Gxibi tu %6u tuis X e Q^' *«* Xqosuzu
Svo avdpoyvvovydp e v r o- te y\v rjv xal eido S [xal
ovo/ia.] Ficinus Tcrba con- vertit: Androgynum quippe tunc erat et
specie et nomine, ex maris et feminae sexu commix- tum. Eum secutus
est in conversione Schultliessius: Deuu dazumal war das Mannweib wirk-
lich wie im Namen, so in der Gestalt vorhatiden. Stallbaumius od h.
1. deest, inquit, ev in mul- tis codicibus, itidem apud Sto- baeum
ct Eusebium. Quod vide, ne omittendum sit. Riickertus %v verbo
servato verba conver- tit : Androgynum enim tunc unum erat non
minus genus quam no- men , ex utroque conflatum , vi- rili et
muliebri ; nunc non est nisi nomen opprobrii caussa inditum, Displicet
haec conversio eo nomine, quod repetitionem iuutilem continet
praecedentium verborum : crAAoc xal rpixov (sc. yivoS) itposijv
xoivov « 7 / 90 - xipCDv rovx&v x. t. A. Porro caussam frustra
quaesiveris, qui fiat, ut commemorato in prueee-» dentibus yevo$
verbo nunc elSoS idem significet atque yivoS. Po- stremo male se
habet: Tore h. e. tum temporis unum fuisse et ge- nus et nomen
avdpoyvvov , quasi non et Platonis aetate unum nomen avdpoyvvov
fuisset. Ev voce deleta sententia haec est verborum: Mannweib war
damals in Beziehung auf Gestalt uud Numen aus beiden, dem
Mann- Jichen. u. Weiblicheu ausatnmen - gesetat. Sed rursnm
quaeras, nuin Aristophanis aetate Androgyni nomen ex
ntriusqne generis no- mine non compositum fuerit? Si qnid video ,
ineptum scioli additamentum est xal ovo/ia , quod praecedentibus
verbis ov vvv ovofia A ontov nullo modo explicari potest. Deleto eo
optime huius loci verba se habent. Ari- stophanis mens haec est :
sed et tertium genus insuper erat utrios- que generis et masculi et
femi- nini particeps , cuius nunc no- men superstes , ipsum t
periit* Videlicet androgynum (ut nunc nomen, ita) tum temporis
nnum erat etiam eldoS utriusque par- ticeps generis , masculi
femi- neiqne. v v v d’ ovx tdxiv aAA* rj i v 6 v eide t
ovo y a xeiy e- vov. Ietzidagegen istes (das An- drogynum) niclits
auderes, ais ein schimpflicher Name. Scripsi aAA pro vulgato aAA*.
* Vide Engel- liardtum ad Piat, Apol. . ed. p. 207. Similiter
scribendum est Gorg. p. 447. A. trAA*, 7/, xo Xeyoyevov, xaxomv
hopxijS rfxo - pev xal vdxepovjiEV \ Non ubi- vis autem scribendum
<*A A ?/ esse, Phaedonis Jocus docet p. 81. B. goSte yt/dlv dAXo
doxelv BLVCLi aAijSlZ aAA* ij xo dcojia- X oeideis x. t. A,, ad
quem lo- cum Stallbaumius rectissime: Orta est,' inquit, haec
locutio ex coniunctione duarum loqnendx formularum , , quarum
altera op- positionem altera comparationem indicat. Hcrmannus
disiungendas esso has particulas iocet atque 7J cum altero 7/, quod in
me mbro orationis supplendo comparcat, In' av%ivi xvxXoteqcT,
ouoicc itavty xscpceXrjv 8 ' In 190 aiKpoxiaous rovg ngoganoig ivavxloig
nEx/ihoig [ilav, xai coxa xlxxaQa , y.al alSola 8vo, xal talla navxa
ug iungen xal talla navxa ug iungendura. Nimiram
expletiorem orationem esse, ut v. c. nostram locum ad Hermanni
praeceptum exornemus: vvy 8 ’ ovx l 6 xiv d\\’ V & v dvelSei
oyopa xei/isvov r) ovx ol 8 a iv ct xsixai. Sed falsam esse,
Ed. Haenischius ait in annot. ad Amat. p.45., hanc explicandi
rationem, hinc maxime apparet, quod, si yera esset, nemo sic
diceret, nisi qui aut ipse se rem suam pa- rum compertam habere
profiteretur, aut id, quod certo sciret et eloqueretur, ita afiirmaret,
ut, si non verum id esset, se de suo ipsius indicio desperaturum
esse significaret. — Pro dXX ?/ inter- dum 7 tX?}v r/ reperitur,
neque ra- rum Tt\f\v olK X ?/, quibus for- mulis similes sunt
formulae no- stratium ausserals, uls nur, ausser ais nur. De
xsi- G$at verbi potestate dictum est ad p. 100. Ut de legibus
civi- tatis , ita de usu loquendi re- cepto saepissime apud
scriptores reperitur. Ceterum Riickerto non assentimur, ovopa iv ov
sidet xsiuevov eodem modo dictum censenti, atque Xafislv iv
cpipvy ^Svpiav y Syriam dotis loco accipere. Ut Homerico J
SsgUv iv yovvadt xsixai fatura infle- xibile significatur, ut iv
ftop” popeo xsidSai in Phaedon, p. 69. B. de aeternitate vitae
miserrimae dicitur, sic ovopa iv oveiSst xsipsvov usus recepti
constan- tiam exprimit. — dvdpoyvvov . v. Suid. s. r*
dvdpoyvvoS et Muson. Fragm. p« 208. ed* Peerlk* Alter habet:
6 xa avdpoS rtoiGov X&l xd ywcnxwv TzaoxGDv. Alter: ol ys
dvkxovxat avdpoyvvoi xal yvvaiXG) 8 etS opatiSai ovxe ? 9 onsp s 8
ei (pevysiv iB, anavxoS, si 87 ) roi> dvxi avdpss 7/tiav,
Urtsixa. Praecedente irp<a- tov psv, quod male Ficinus
con- vertit a principio,» htsixa 8 s scri- ptum exspectaveris.
Sexcenties autem iizsixa reperitur omissa 8 i particula, quoniam
htsita tantae gravitatis est, ut ipsum pos- sit, hoc est, non adhibita
dfc par- ticula , oppositionis pondus su- stinere. Unum e multis
exem- plum ut laudem, p. 194. E. le- gitur! iy<d 81 87 }
(iovXopai xtpooxov p\v tlittiv , y XPV M e elrtEtv , IneiXOL shtsiv
. In se- quentibus Ruckerti annotatione factum est, ut post
xo EiduS comma poneremus. Riickertus autem. Me oppositio, inquit,
quae hic adest pristinae integritatis et insecutae postea
dissectionis admonuit, ut oXov praedicatum esse censerem, quam
interpre- tationem haud scio an commen- det etiam vocis locus ante
7/v y quem vix teneret, si cum sldoS esset conuectenda. Dicit
igitur hoc: Deinde iutegra erat hominis figura, rotunda,
dor- sum et latera circa habens (non,* ut nunc, dorsum, latera et
pe- ctus.} xEEpaXrfY 8 * — plav. Quis non Iani
meminerit, Latinorum dei antiquissimi, quem uno capite, facie duplici
insignem venerabantur? Erat autem Ianus dito rovtcov &v rig tlxdaniv.
litoQtveto 51 6q9ov, agitSQ vvv, oitoztQaOs fiovXq&ilt] ’ xal ditor e
xu%v oq- (itjGut &siv, iSgittQ ot xvfiiatavrig slg oq&ov tcc
Oxalrj itsQitpsQOfisvot xv)3 MJtiutft xvxha, oxuo Tore ov<5t tolg
fitXs~ Civ aitEQEid6[iEvoi xa^v Itpiqov to xvxlco o yv da Sia
taura pacis dens, nt verba Aristophanis iu Erotem directa et Iano
con- veniant: l6xi Seoov cpiXotv^pco- TtQTCtTOS, $7tlxOVp6f TE G$V
XGOV dvSpdiccdv 7 (ai laxpoS xovxgdy, cor IocSevxcjv psyidrr/ av
ev- Saipovioc rc5 dv^pcjTteiw ykvEi fi?;. Adde p. 191. D. $6xi 6?}
— 17/ f dpxalaS q>v6£GDS 0vvayco- yevf, xal inixEipivv
7Xoiijdai 'ev lx Svotv xal latiadSai xrpr tpvtiiv x tjv
dvSpGDTtivTjv. Quid, quod ipsum nomen Iani aliquam haberevidetur cum
{aivco verbo cohaerentiam? Romaui bellorum quam amoris intentiores
rixis, concordiae amantium pacem pacisque conditiones videntur
substituisse. ijtOpEVEXO OpSor, GjSrXEp rvr. Koti vulgo
ante vpSov positum deest in codd. non paucis, Bekkerus vocem
in textum recepit, uncis Stallbau» mitis et Dindorfius
incluserunt. Ficini conversio haec est: Incedebat hoc tunc et
rectus, ut nunc, in utram vellet partem. Kai vocis tuemluc
provinciam suscepit Ruckertus his verbis usus: Duplex
incessus pristinorum hominum narratur, erectus, quem nunc etiam
habent, eo tantum ab hodierno diversus, quod tum , utram in partem
vel- lent, pariter praecedebant , /z. e, prorsum et retrorsum ,
alter ro- tationi quam meatui similior • Sequentia igitur verba hoc
modo exhibere voluit : Jtal, dxots xaxv oppyjdEie $Etv,
ooSTtEp ol 7wfh- CxdvreS x, X. X., nam in eius editione comma post
Ttai non comparet. Sensos est: Er ging aber aufrecht, wie jetzt,
nach welober Seite hin er wollte, und, wenu der eine oder der
andere schneller sich bewegen wollte ete. Vulgo pro opfiJjdeu
legitnr opprf- Cei pro %eiy verbo IXSeiy, Male. <k)S7XEp
ol XVfildXGOYXES* Derivatur hoc verbum a xv(bj > quod idem
aotiquitus significasse perhibetur, atque XEqjaXij. Igi- tur
primaria xvfit6xdv verbi si- gnificatio videtur esse: capite
insistere, se praecipitem dare, cfr. Hom. II. 21. 554.
XElpOYX lyx^Xvk? x e hclI Ix^veS, , o*l xotra Sivaf ol
xotra xaXa fissSpa xvfiidxcor $v$a xcii $vSa. Erat autem apud
Graecos salta- tionis genus, quo qui utebantur, caput deorsum,
pedes sursum proiicere solebant, non nisi pe- dibus solum
attacturi. Summa corporis atque inprimis spinae mobilitate opus
erat saltantibus, quare Patroclus Kebriouc, Hectoris auriga, iuterfecto,
satis acerbe II. 16* 745. haec profert <L nbxoi> r\ pdX
9 iXatppoZ dvrjp, fisla xvfhtixd et v. 749. <6$ vvv Iv
txeSIgj IB, itctcoov pEta xvptdxd r) fia xal iv TpdedCi xv(h6xq-
rr/peS iadiv.tqlcc ra ylvr) xal roiavta, on r 6 fitv kqqiv rjv r ov rjXtov
B t rjv «QXV V Pxyovov, to Se %rjXv Trjs yijs, to Se aiupo- TSQC3V
iitzs%ov vfjs OiXrjvrjs , ori xal rj Gelrjvtj a[i<pore- QatK yiEzl%u.
TtEQirptQrj Se Sr) yv xal avrcc xal rj noQsia avrav Sia zo rotg yovevOiv
ofioia elvai. rjv ovv xrjv Tangit fortasse hoc saltandi ge- nos
Herodotus 6, 129. — 6'bt- izoxAeiSyS — ixiAevdi oi riva tpanaZav
iSevEtxai * iASovtiyS 8h ryS rpaTtE&jS n patra plv in avrijs
oopxyoaro Aaxaovtxd &XV~ paria’ pera. 81 a\Aa *Arnxd • to
rpirov t ?/ v xecpaArjv ipeidaS ini r rjv rpane- %av roidi
6xiXe6i ix «i- povopyde. Schol, ad nostrum locum iusto brevius :
xvfiidryp 6 opxydryS xal xvfiidtav to op- XsiGSai. eis
opSov ra dxiAy n. Ante eiS in plerisque codd,, qua- tuor exceptis,
xai legitur, quae depravatio textus est manifesta. Omiserunt
voculam editt. omnes. Orta ea lectio est e mala intel- ligentia
praecedentium verborum, quae intellexit, quisquis fuit, qui xai
interposuit, hoc modo : ino - pevsro 81 opSov (3snep vvv , xal, sc.
(inopsvero) ditare tax t) opprjdeie Seiv, ooSnep ol xvfti- dravrsS
’ xal eis opSov x. r. A. oxtgj tore ovdi. Vulgo legitor rore oxrcJ
x. r, A. Trans- posuit verba , qui putaret , rore ad praecedens
onore pertinere. Probari posset vulgatus verborum ordo, si scriptum
exstaret: rore rolS uxtgd piAediv anepEiSope - voi x.t. A. Sed non
addito Ar- ticulo, ovdiv autem participio adhibito, cur is ordo
verbornm unice probandus sit, quem cdd, omnes probarunt, facile
iutelli- gitur. 7/v dk Sia Tavta Tpla Ta yivy xal
toiavra. Ad certam quandam philosophiam comicum poetam respexisse,
quam- quam a multis annotatum est, tamen ut credamus, animum
in- ducere non possumus. Vulgatum euim hoc erat , et vero
etiam nominum terminatione firmatum, TfXiov, solem, virili
potestate esse, yyv , tellurem, feminea, qua propter etiam rerum
ma- ter vocata est. Fieri igitur facillime potuit, ut philosophia
ad- vocata nulla, mera vulgi opinione nixus solis prolem masculum
genus vocaret, terrae femineum Aristophanes. Restat ut de Androgyni
origine dicamus, quod cur Lunae prolem dixerit, disertis verbis indicatum
est; ori xal ?} dsAyvy dptporipoov perixei. Atque ipso nomioe
deXyvyS haec coniunctio terrae ac solis indi- cata est. Dorica forma
est (?£- A avaia, quam convertere pos- sis Glauzerde.
Solebant autem veteres novam quandam in huiusmodi rebus
opinionem prolaturi, argumentorum loco er ipsa rerum natura
petitorum, alias res conquirere, quibus illam pro- barent, Sic Pausanias,
ut du- plicem Erotem esse probaret, ad duplicis Aphrodites
mentionem confugit, quarum suum utrique Erotem assignaret,
n epitpepij 8h 8?) yv. Non gkreisformig,» quod in Astii et S
chleier macheri Itfrvv 8 uva xal xijv qcoiiijv, xal xa tpQovrniWK
(itycda tl%ov, lnt%dqvfiav de zoig &eolg, xal o kiyu
"OfitjQos 3 csqI Ecpiccltov xs xal ”ilrov, jtejh Ixdvav Xeyixai,
xo C ds tow ovgavov dvafiaGiv im%UQelv noielv , ag Ixi&iy
Gofiivav xoiig tteois. versionibns legimus (adde etiam Schulthessii
conversionem p. 88. ed. Orellii,) quis enim circuli formam
corpori tribuat, sed kugclformig. Riickert. In sequentibus
8ia to — opoia eivai verba Schleier- macheros convertit: um
ibren Erzeugern ahnlich zu sein. Rectius Ficinus: quia parentum
similia. xal ta (ppovrfiiaT a pe* ya\a elxov.
Schleiermache- rus: nnd hatten auch grosse Gedanken. Minus
accurate. Ar- ticulo enim addito efficitur, ut sensus sit: und der
Hochmuth, den sie hatten, ging ins Un* geheuere. vide annot. p. 12.
Articulo non addito supra legitur p. 182. C. ov yap, olpai, dvp-
tpipei toiS apxovdi tppowjpara peyaXa lyyiyvedSai, quem laudo
locum, ut de nostri loci articulo facilius certiusque iudicari
possit a lectore. MeyaXa <pporj}para dicuntur autem habere, qui
con- tra dominos conspirant, cfr. p. 182. C. ov, yap, olfiat,
dvpq>e- pei toiS apxovdi (ppovrjpata fieydXa lyyiyvedSat tgjv
dp- XoiUvoov ad quem locum ' vide annot*. p. 102.
Comparativum exspectaveris, non positivum ; ille tameu in hac
formula solennis. o Xkyei "O prj poS. Od. 11. Sl4.
"Oddav iic OvXvjiitto pe* padav SepEY, avtap £tz
"Oddy JlrfXiov elv o diq>v\\ov,lv* ov pavos
apfiaxoS etr/. ooS litiSr] 6 o pkv gjy roiS SeoiS. Riickertus
iungenda haec, inquit, cum Ttepl ixeivGOV , quae structura propter
interiectum membrum to — tcoieiy , in quo avxovS subiectum est ,
aliquid incommoditatis habet. — Ad l7Ci$t]6op£vcjv supplendum
est potius avTCDY. Exhibetur autem genitivus participii cum
gjS, ubi aliquis refert quod aut ex alio- rum opinione depromtum
est, ant quod ab aliis vult cogitari , ut in Piat. Apol. Socr. p.
30. B. itpoS lavra , (pocbpr av, cJ av— 8 pes *A%r]vaioi , rj
nelSedSs *Avvxcp rj pjj — oj S ipov ovk av itoiijdovroS «AAo
x, T. A., h, e. de me ita cogitate, me nunquam quicquam
facturum esse aliud. *0 ovy Z evS xal ol a A- Aot $ 80
i. Omnem hanc narrationem de deorum consultatione et quid facerent,
dubitatione, nt cupierint quidem punitam humani generis
protervitatem, sed nec severitate uti ausi fuerint, quam laesa
maiestas exigere rideretur, nec aliud invenerint remedium, quo et
illi poenas darent et suus honor salvus maneret, donec ad postremum
Iapiter aegre aliquid excogitaverit, hanc,, inquam, a d deorum
derision em com- Cap. XV. 'O ovv Zevg xa l ol «A Aoi
9iol Ijiovltvovto o « %(M} avtovg 'MHrjtScu xal TjXoQow. ovte yag onag
axo- positam esse neminem poto non videre. Riickert.
Male; vide Comm. de Piat. Symposio» oti XPV ctvtovS
rtOtij- 6 at. Ne quis pro indicativo optativum reponendum censeat,
quod Astius olim fecit, post infectum, voluit: Graeci ingenii tanta
est vivacitas, ut structuras verborum doas, quarum ntraque suam
quan- dem iucunditatem habet, confun- derent atque commiscerent,
videlicet ne, cum alteram prae- tulissent alteri , alterius gratias
simul amitterent. Igitur oxi XPV avtovS rtoii}6ai compositum est ex
oratione obliqua oti XP E ty avtovS it. et ex oratione recte ti XPV
ocvtovS Xotijtica xal ojSitep, rovS ylyav - taS xepavrccHj
arreS. Stall- ' baumius , intellige, inquit, post yiyavtaS
tfq>avi6otv ex proximo ctqxxvldEiEV , cuius breviloquen- tiae
exempla collegit Wyttenbachius od Selecta Princip. Hi- ator. p. 364.
Riickertns verba sic inngenda esse censuit : ovte yap eIxov ortcoS drtoxTEtvcaev
(sc. avtovS) xal ro ylvoS dtpa . - vldaiEv , XEpavvGotiavtES GDinep
rovS yiyavtaS . Neutra expli- candi ratio nobis placet. cuV itep h.
1, non similitudinem indicat, sed agendi rationem describit, yl-
yavteS autem homines vocantor illi ipsi, qui e masculo et fenri-
neo genere compositi viribus freti ac robore, elatiores animos ale-
bant. Sensus est: Sie wuss- ten iiberhaupt weder ei-
nenRath, dass sie sie tod- teten, und besonders w i e sie, nach
Erlegung der Riesen durch den B 1 i t z das ganze Geschlecht
verdiir- b e n . Disertis verbis ylyavtES commemorantur, ut esset,
quod sequenti ykvoS opponeretur. Quo- niam autem homines nondum
dis- secti erant, fieri non potuit, quin caesis hominibus illis
totum ge- nus hominum misere periret, at- que nemo remaneret, qui
deos veneraretur. ai tipal yap avtolS — 7/ <p
avi$£t o. cfr. Symp. 198. C. vit ai6xvvr]S oXiyov arto- dpaS
<px^PV v ? KV MX 0V - Nemo Stallbaumio melius de in- dicativo
huius loci explicando disseruit. Eius verba haec sunt: * Aoi istas
et imperfectum sine av particula positum in talibus si- gnificat
certo et haud dubie aliquid fuisse futurum , pr opter ea quod
habeat obiectivam , quam dicunt , necessitateniy ut Lat^ fu- turum
erat: accedente autem av particula etsi paene idem significatur , tamen
conditionis et mudalitatis , quam vocant philo- sophi , accedit
notatio , ab hoc loco, paene prorsus aliena . Quocirca non tantum XPV V
> £5 Et, npoSijxEV , ut Lat , oportebat , decebat , debebam , ita
usurpatum est, sed multa alia verba , irtpri- m slvaiEV ii%ov xal
'cos it£Q, tovg ylyavzag xsgawdeav- reg, to ytvog oxpavLaaitv , al rifial
yag avroig xal rcc tfQcc ra naga rwv av&Qamov rjtpavl&ro —
ov& oitag latv aCilyaivuv. fioytg 8rj 6 Zsvg IworjtSag Xlyu,
ore zloxd fioi , %<pi], %%uv iiTjiavijv, wg av iliv te
uv&gaicoi D xal xavOaivro t ijg axoAaOlag aG&tvtGztQoc
ycvofuvou vvv (iiv yag axnovg, £cprj mis ea, quae
natura sua conti- nent aliquam obiectiuae necessi- tatis
significationem. Indicativo in hypothetica enuntiatione Latini osi sunt plerumque ita
, ut non tam obiectivae ne- cessitatis, qoam temporis ratio- nem
haberent, quo tempore ali- quid, quominus fieret, impedi- tum
esset, cfr. Tac. Histor. II. 46. iamquo castra legio-^ dum
exscindere parabant, ni Mucianus sextam legionem opposuisset, h. e.
achon waren sie daran, das La- ger der Legiouen zu veruichten,
hatte niclit zur rechten Zeit noch Mucianus die sechste Le- gion
entgegen geworfeu. Adde notissimum Horatii locum Od. II. 17* 28. Me
truncus illa- psus cerebro sustulerat, nisi Faunus ictum
dextra levasset h. e. Mich hatte der auf mein Haupt
stiirzende Stamm getodtet, hatte niciit noch zur rechten Zeit
Faunus durch seine llechte die Kraft der Wucht gebrocheu. Temporis
hanc notionem quando assequi volunt Graeci scriptores, eodem
dicendi geuere utuntur quidem, sed non nisi addita iv3v$ particula
temporali, cfr. Thucyd. VIII. 86., quem locum Stallbaumins laudavit
iv gj da- tpidxaxa 'looviav neti 'i&U?/- dtarenco $i%a exadtov,
xal difovtov evSvS’ eTxov ol ito - TUfiioi,
doxdj fioi, £<PVt Quod supra annotavimus p. 159. ad verba
o n XPV olvtovS itoitj- dai y id iis vehementer displice- bit, qui
omnino duas verborum structuras confundi atque com- misceri neguut.
Negant autem, qui non intelligunt structurae originem. Etenim rem
animo suo ita informant, ut censeant, scriptores positis dnabus
verborum structuris artificiose ex utriusque quibusdam fragmentis tertiam
composuisse. Nobis persuasum est, hoc structurae genus non e scriptorum
officina prodiisse, sed e quotidianae vitae sermone iu scriptorum libros
im- migrasse. Pertinet huc noster locus, ubi praemisso ott,
quod indicium est orationis obliquae, ipsa alicuius verba
laudantur. Pa- tet autem, proprie dicendum fu- isse Aristophani :
\iyet, ori do- mi ol Ixew prjx ay yv r. A. Factum autem Graeci
ingenii fa- cilitatemne dicas an felicitatem, ut servato obliquae
orationis indicio rectam orationem retinerent, atque orationis suspensae
continuitatem cum rectae orationis vigore coninngerent. De hac
structura vide etiam Mattii. Gramm. plen. $. 623. 2. b. p*
1270. a «pa fiev &0&svl<3teQOi $<Sovzai 9 apia
%Q7]diu6TEQoi Tjfilv dia ro irXEtovg tov dgi&ndv ysyovEvai' xal fia-
* diovvtai O 0 #oi liti dvoiv dxsXoiv. lav d 9 Htt, doxaCiv
aGzXyuivEiv xal firj e$eXco0iv i]0v%iav ayeiv, itdXiv 'av, %(pr] 9 refiu
dl%a, wgz’ Ecp kvdg xoQEvdovzai OxtXovg doxcoXia^orreg. ravza thtcov
Sze^vs rovg dv^Qunovg di%a, &g%EQ oi za da zipivovzEg xal (isXXovzEg
zapixsvsiv, ij E xal ajia n'ev adSeri- 6tepoi idovz ai. Sensas
est: nane eos dividam bifariam, at et debiliores homines sint et
utiliores nobis, quippe nam ero auctiores. Amant Graeci, quae
de certissimo eventa actionis praecedentis dicantur, ea xal addito
superioribus annectere. Paullo infra legitur naXiv av te/ico 8ixa ,
Sst iq> kvoS no- psvdovtai x.T.X., ubi bene ha- beret xai pro
gjSte positum ; hoc tamen scriptor praetulit, quod reiterata
divisio cogitatur tantummodo , non tanqaam actio, quae hat aliquando
certissime, proponitur. 7tdA.iv av t Zcptf, teji c 3
Sixa. Rursum exemplum habes verbi, quod casu suo spoliatum ita
exhibetur, ut notio verbi pre- matur magis, quam vis actionis,
Minus recte Schleiermacherus iu conversione: So will ich sie,
sprach er, noch einmal zerschneiden. Rectior conversio liaec est:
So wiederhole ich die Theilung noch einmal. Atque obiter ut hoc
moneam, ut Graeci naXiv av, ita nos nochmals wiederliolen,
pleonastice loqui solemus. txdxcoXt ccZoyteS. Schol; ad h. 1
. a<jKG)\id?,Eiv xvpicoS filv tu ini tovS adxovS aAA«-
d$an dXrfXippkvovS , iq>* ovS in7fdc.iv yaXoiov ivsxa • TivlS
xal ini tcoy Cvf.tnE(pvx6<5i zotS dxkXEdiv dXXo/ikvcDV. . ?fdrf
61 TiSkadi xal ini tov aAAe- 69 ai to YEvpov (Bekk. legen- dum
censet roV Sr Epov ) took noddUv avkxovTa^ rj a>S vvv ini
OxkXovS kvoS fiaivovTa. %6ti 61 xal to x^XatYEiv. E Schol.' ad
Aristophan. Plut 1130., ubi complures ddXGoXtdgEtv verbi
explicationes reperiuntur, male autem adxcoXia vocatur iopTtj tov
Jiovvdov , nisi fortasse latiore significatu accipiendum est hopTif
verbum, ex huius, in- quam , Schol. annotatione se- legi haec :
xvpioS ddxciXid- Zbiy iXEyov to ini tciy ddxoov aXXEdSai ZvExa tov
yk Aco- ro: noiEtv • iv /ikti& 61 tov $sdrpov ZtISeyto adxovS
ns- (pvdifpkvovS xal aAijXififikvovS , fis ovS ivaXXufiEvoi
ivaXiOSai- vov xaSansp EvftovXoS cpifdi • xal npoS ys tovto ctdxov
elS fikdov xazaSkvTES , EtsdXXedSa xal xayxd&Te ini rols
xarafi- fikovdtv . — ddxooXia^Eiv 'eXe- yov To ivdXXsdSai tois
doxols, ?/ to ini ivds nodos dXXedSat. Haec satis de significatu
adxcj- Xia&iY verbi. Non dubium est autem, quin h. 1.
doxa>XutP,EiY uno pede saltare significet» Ut, cum humanum genus
primi- 11 162 II AA TSINOE wgmo ot
tu (bu xaTg ovrtvu fie rifioi, rov 'Aitbkha ExtktVE T 6 TE TtQO
gtOJCOV flETU0TQEtpElV XUt TO TOV ClVyi- vog ijfiiGv tcqos Ttjv rofiijv,
tvu &Etbfiivog rtjv avxov TfirjGiv xoC/ucoTEgog d'rj 6 av&Qmnog ,
xal tukka ia6&at IxiklVE V. O 61 TO TE KQogUltOV liETEtiTQEqiE , XUt
GVVtkxaV tos nvfiuStav dicatur, post ln\ Svoiv dHeXoiv
fiaUiZEiv, futoro tempore ddxooXiddEtv dicatur. Uno pede etiam
hodie saltari in Helvetia, Italia, Graecia, satis notum est.
&S 7t ep ol r d da xkpy ov- tf? nal pkXXoy x eS xapi-
Xeveiv. Lectio vulgata est c oa, quam merito interpretes recen-
tiores improbarunt. Nimirum legitur in L. V. PJ. Timaei: da dxpodpvojy
eldoS pr/XotS pi- xpois iptpepis. Colligitur inde, Platonem hoc
verbum commemorasse in scriptis. Ilaud facile autem locum Platonis
invenias, cui vox illa magis conveniat. Interpretantur, qui harum
rerum periti sunt, da sorba (Arlesbeeren , quae condita esse, nt diutias
conservarentur, non pauci sunt, qui tradidere; cftvVarr. de re
rust. I, 69. ( Putant manere) sorba quidam dissecta et in sole macerata,
ut pira, et sorba per se ubicunque sint posita, in arido facile
manere. Quae sequuntur verba, spuria censuerunt Sydenhamius,
Bastins, Astius. Frustra. Quamquam enim prorsus nescimus , cur in
ovis dissecandis crinibus usi sint ve- teres, hoc certum est:
duobus allatis exemplis Aristophanem et facilitatem et
artificium dissectionis indicare voluisse: ao Jexcbt, wie man
Arlesbeeren zum Einmachen spaltet, so fein und kunstlich, wie man
Eier mit Ilaaren theilt. Eodem modo explicanda sunt verba
Plut. Amat, p. 770. B. ojSittp cdov avrtdv Tpify Siaip&tiSai t
rjv cpikiav. Male igitur Rtickertus ad h. 1. Hoc quidem, inquit,
concedimus, languidiusculam esse alteram com- parationem, concedimus,
fieri potuisse, ut ab alio adderetur; sed additam esse tantum abest,
ut contendamus, ut facetiarum captatori Aristophani recte tributam esse
censeamus. Ceterum coniicio equidem, ovornm per crines dissectionem
ludi genus fuisse; fortasse ex ovorum dissectione per crines facta
convivae futura praedicere solebant. 7t p o 5 xr)y xoprjv. Ut
in praecedd. ad xa cJa supplendum est e proximis xiproyxeZ, ita h.
1. psxa6xpl<peiy recte repetieris. Toprf significat proprie 'id,
quod ex aliqua re abscissum est ; no- stro loco corporis eam
partem denotat, quae dissectionem passa est. Similiter topi j apud
Hom. II. a , 234. positum repentur: va\-pa rode dxijnxpov, To
p\y ov%ot e (pvXXa xa\ d £ov? $>vdei, iiteidr} TCpddxa t
o- pijy iy opeddt XeXoi7tev, quo loco truncum denotat , ex
quo sceptrum abscissum erat. In sequentibus pro Trjy avxov xpij-
diy , quod recentiores editores omnes habent, plurimi codd. avxov
exhibent. Non male , si 3 iuvtct%ofttv r 6 SsQjia Ixl xrjv yaCtiga vvv
xaXov(ik- vi]v, SgntQ ta eioxaUxa (iaXavtuc, tv 0 x 6 ( 1 « xoicov ank-
Sh xaxce (ii(St]V xrjv yaOxtQa, .0 Srj vvv 6 (upcd 6 v xaXovOi. xal rag
(iiv aXXag Qvxldag xag xoXXag igtlLcuve, xcd xa 191 Gzrforj dujp&QOv
, ijrcw n xoiovxov ogyavov, olov ol Cxv- avrov pro avxoSi positum
ac- cipius ; melius tamen illud habet. xalraAAa ladSai
ixe- A evev. Schleicrmacherus ia conversione habet ; u n d
das ubrige beiahl er ihm auch zu hei 1 en. Scriptum quidem
exspectaveris xa\ navxa iadSai ixiXcvEv ; addita auch particula
insolentia verborum non mitigatur. Ficinus verba convertit:
reliquis autem mederi iussit. Alia nobis explicandi ratio placet.
xaXXa a sequente infinitivo seiungendnm est, iddSai absolute
positum est : und iibrigens befahl er ihm Hei- lung an. De hoc usu
verborum saepius iam annotavimus , vide anuot. p. 22. , 27* al.
Paullo \ v infra eodem modo 8ioatavEd$ai positum, ut non actio, sed
notio verbi exprimatur tva — ittoj- dpovi) yovv yiyvoiTo xi}$
6w- ovdiaS xal dianavoivro h. e. ut satietas esset amplexandi
et quies. ln\ xr)v — yadrepa vvv xaXov pivrjv.
Schlciermache- rus : tiber das, was wir jetzt deu Bauch
nennen. Non satis accommodate, ut vide- tur. Cum vi pronnutiandum
est yadripa, ut ne vernaculo qui- dem sermone articulus recte
addi possit. Structura verborum pri- maria haec est: ItzI to
yadz?'fp vvv xaXovpsvov , quam structu- ram ut minus elegantem
incom- tioremque aetas Graecorum ex- cultior nou tulit.
<3 Sirsp ra dvdnadxa fta- Xavxia. Poli. V. Si. in recen-
sendo venatorio apparatu xv» vovxof, inquit, 8ipya podx^ov t lis o
brciSexai ro Sixxvov , rcJ 6XVP<* XI TCHlOnjpbvOV , (3 Sit E
p xa dvdnadxa ftaXavzia. Ficinus convertit: tanquam
contracta marsupia. Ar- ticulo addito effici videtur, ut
sententia sit: in Form von zu- sammengezogenen Beutcln, -wio ihr
sio ja kennet. o 6 7 vvv o ptpaXov xa- A ovdi. Codd. omnes
habent o 8i) xov u/i<paXov xocXovdi , idque editores in ordinem
ver- borum receperunt. Male ; urgenda est vox ojutpaXof, atque vi qua-
dam pronuntianda, quae vis ad- dito articulo funditus perit. Si-
militer Sjrmp. p. 180. E. ov 8?} ndvdtjfiov xaXovpev, de rep. I. p.
332. C. r) xidiv ovv xi dito8i8ovda — xixyrj iarpixj) xaXEixai p.
191. B. o 8?} vvv yvyaixa xaXovpev. Menon, p. 81- B. o 8tj
artoSvyjdxEiv xaXovdiv. Alcib. II. p. 140. B, ovS 8ij xaXovpEv
iaxpovS. ib« p; 187. D. o 8jf pEXonottav xaXovdiv., Ibid. *L p.
382. D. yj x idi x i ano8i8ovda — xixrv payEipixrj xaXtixai.
vide annot. p. 129 et 130. xi xoiovxov op - yavov. De
indefinito pronomine supra dictum est p. 28. ad verba £3 o r yap xi xovx
£*«. 11 * IUAT&N02 rotofiOi, xiqI rov
xaXccnoda Xeatv ovreg rag tav dxvrmv QvrlSccg' b Xlyag 6 e xaxlXmi , rag
mqI avrrjv n)v yaStega mu rov ofitpaXov , (m/ftaov dvca rov nctXcaov xa&ovg.
'Enubi] ovv r; (pviiig Sixa no&Ovv exaGrov ro t}fu6v ro
avrov tvvfai, xai neo^aXXovre.g rag %UQug xal £v[inXex6/i£V0i uXXt/Xoig,
em&vfiovvrsg Ovfirpvvai, ane- to 9 tn] 6 xov vnb Xiuo v xai rrjg
aXXijg agyiag dea ro (iTjdev e&iXuv %w@ls aXXijXtov noielv. xai onore
ri ano%avoi Quibus verbis ut respondere an- notavimus
nostratium J d as so sfeine Art, ita verba no- stra convertenda
videntur esse: indeift er etwa ein soK- chesWerkzeug hatte,
wie die Lederschneider, Creu- zerus Lect. Piat* p. 525.
censet, ut p. 185. E. dicatur dvaXaftobv xi roiovtov, ita h. 1*
satis esse l 'x&v n roiovtov. F rastra* nepl rov
xaXditodot XsaivovtsS. Pes ligneus vide- tur fuisse, super quem
coria ex- tendebantur, quo facilius et explicarentur et ad pedis
formam adaptarentur. Etym. habet xa- AoVovV XvplooS o ZvXivoS
itovS* xaXov ydp xd B,vXov. Suid. s. v. xdXaf xaXov ydp rd B,vXoy
% ig ov xai xctXoTrovS, 6 gvXivoS itovS. E Pollucis auctoritate,
qui habet X. l4l. rd dxvrord- pov dxevij — uaXd/tovS, iv rc J
dvpitodicp y Bckkerus, Stallbaumius , alii dederunt xaXditoda, codd. non
pauci xctXo7Co8ec ex- hibent. Fortasse utra^ue forma Graecis
scriptoribus usitata fuit* rov itctXaiov itdSovS . h, e.
rjLitfacjf, ?/v titaSsv o dv~ SpGoitoS iv r<ji TtdXaicp xpovoo.
cfr, p* 189* D. insidi) ovv 7} tpvdiS. Annotat Riickertus ad
h* I. : Offendit Astium nude positum vocabulum , post quod avrdov vel
rjfi&v excidisse putat. Of- fendit nos quoque $ sed putamus
ipsius Platonis peccatum esse posse . Etiam Stallbaumius ad h. 1.
avt&v supplendum esse censet. Aliter nos statuimus de hoc loco;
Articulum exhibuere veteres scriptores haud raro , ut ’ indicarent,
de re sermonem esse, quam in praecedentibus iam te- tigerant. cf.
p. 189. D. ?/ ydp TtdXai ij/tcov <pv6i$ ovx avnj 7jv rjitsp vvv
x. r. X. Mens Aristophanis est; Da non die urspriingliche Einheit
der Kor- per, vou der oben gesproclien worden ist, gelosst war cet.
Exem* pia si quaeris huius usus articuli, vide anuot. p. 12.
, vito Xipov xai rrjs aX- Xt}S apyiaS. Vulgo vito rov
Xiuov legitur, quae lectio cur ferri nequeat , e praegressa annotatione
colligitur. Ceterum aX - AoS 1 rebus apponi, quae genere non
differant, specie dis- crepent, supra annotatum est p. 116. Restat,
ut dicamus, quo iure id fiat. Riickertus ad h. 1. Videtur, inquit,
aXXrf alia verti non posse, neque negare licet aAAo? non nunquam
ita dictum esse graece, ut propriam hanc vim neutiquam exerceret, de
qua ffi>v yfiteeav, t 6 81 lutp^sit], zo letcp&ev aXko IfiJ
tu xai avvmkixezo v eize yvvcuxog tijg o ki/g hrcv%oi Jjfiian, o
Sr/ vvv yyvcuxu xakovfi sv, iit’ avSgog' xai ovroig attiiiXkvvto.
ekerjSag Se 6 Z evg cckhjv [ij]%avt}v xogltexai, ■ xai fuzazt&rjtiiv
avzuv tu aldoia elg ro jtgoO&ev zeag yag xai zavza exzog (l%ov, xai
lylvvcov xai Izixxov ovx elg akkijkovg, akk’ elg yfjv, agxsg ol zexziyeg.
fiezi&rjxt C re ovv ouzag avta elg ro XQod&ev] xai Sta
zovxav re non est, cor hic pium dicam, qui nostrum locum, ex
hoc numero excipiendum esse censeam. Nam cxpyla non segnitia est,
sed cessatio, vacatio a re quacunque, sicut ager dicitur <£pyo$
t dum cessat a cultura. Jam igitur Ai- fivv in genere xfjf ctpyiaS
esse apparet, est enim cessatio a capiendo cibo , licuitque dicere,
homines illos, cessantes et a cibo capiendo et ab omni opere su-
scipiendo emortuos esse. — Ridiculi aliquid inest his verbis; quis enim
ferat cibi capiendi cum ipyoo comparationem? Deinde male Ruckertus
posteriori nomini tantam vim tribuit, ut ad id di- rigeretur prius.
"AAAoS semper ita adbibetur in huiusmodi dicendi genere, ut priori
nomini addatur, quod cura eodem cohaereat, quod ex eodem
genere sit, quod cognatum sit cum eodem. Primitus autem dixisse arbitror
vete- res, ut ad nostrum locum rever- tar, vito Aipov xai tov
dAAov, li. e, fame et ceteris, quao cum ea cohaerent. Acce-
dente autem appositione ad verba tov dAAov, ne incomtius existeret
atque inelegantius dicendi genus, tov aAA.ov, apyiaS , admissa ge-
neris assimilatione xrjs dAAi]S, apyiaS edictum eat. Sic com-
mode explicatur Piat. Gorg. p. 473. C. etyAcoxoS tov xai
evbai- povi?,6fuvoS vito t<Sv icoAixgjv xai xgov dAA.Gov (sc. )
HevQov. Alia exempla, quibus nostram explicandi rationem probare
pos- sis, laudavimus iu aunot, p. 116, ooSitep ol xixxiy eS.
Audi Wolfti ad h. 1. annot. : Sie thun dieses vermittelst eines
Stacbels, den das Weibchen aui Hinter- theile luit, and der eiu
Dritttbeil der Langte des gauzen Thieres Husmacht. Damit bohren sie
in die E«de, dDnen ihu und lasseu die Kier in deu Sand fallen,
wo sie vou der Sonne ansgebriitet werden. cfr. Aelian. H. A. II,
22, tals acpvaiS o* itijAoG yiveais id xi' bi aAAi/Acov 61 ov
xt- xxovdiv avbh iniyivovxai x.x.A. f.t£T i ^ TJX i X E OVV OVtGOf
avxtov elS xo it. OvtgjS iu multis codd. non comparet, quare id uncis
inclusit Dindorfius, Reyn- dersius expunxit. Idem Stall- baumius
servandum censet rectis- sime, Plerumque enim haec vox ita adhiberi
solet , ut ad aliquid respici significetur, quod in prae-
cedentibus est conteuturo. Spe- ctat autem nostro loco ovtcoS ad
verba iXEijdaS bl 6 ZsvS, et convertendam est: hac ratio- ne» qua
dixi, vide annot. p. i ryv yhvtOiv iv aXXyhnq IxolyGB, dia
rov UQQtvos Iv Tqj ftrjXei, tuvSi tvBxa , iva Iv ry GvfixXoxy afia fiiv
ei avrjQ yvvaixl ivzvioi, yivvaiv xal yiyvouzo to ytvog, 63-
et p. 146. Deinde qninqae melioris notae libri pro avtcov exhibent
avta, quod a Stallbau- roio, Astio, aliis io verborum or- dinem
receptum est. Audacias fortasse quam rectius. Avta verbi avToov
correctio est, avxdov autem scribae alicuius sedulitate e
praegressis olvtgjv ta al8ola eis to izpoCSev huc translatum est.
llectissime, ut videtur, Ru- ckertus ad h. 1.: Mihi , inquit ,
Plato videtur scripsisse: fi £T £- te ovv ovtcoS eis to
itpodSev. Ficinus verba con- vertit : cum vero ad ante- riora
transposuisset, ut legisse eum censeas, quod Rii- ckertus dedit, e(
nos unice pro- bamus. Ceterum verba fisti- 2yxe te ovtGoS eis to
itpodSev repetiit Aristophanes , ut cum sequentibus artias
coniuugerentur: 8ux tovtoov trjv yevediv Iv aXXyXoiS irtolydev,
quae couiunctio per ti — xal particulas instituta quam vim habeat,
nunc dicendum est. Coniunguntur duae hae actiones ita, ut eo-
dem fere tempore gestae esse dicantur: Simul atque ea ad
anteriora transposuit, per da tyv yevediv effecit. cfr. Flat.
Phaedon. 73. D. , qui lo- cus huius significatas luculentissimum exemplum
est: iyvoo- dav te trjv Xvpocv xal iv trj Siavolqt iXaftov to eldoS
tov iraiSoSj ov tjv rj A vpa. Ad haec verba Stallbaumius aoristi ,
in- quit, indicant, rem identidem fieri solitam. Essent ex hoc
prae- cepto verba convertenda: Sie pflegen die Lyra ru
erkennen und das Bild des Geliebten, dem die Lyra gehorte, in der
Seele aufzufasseu» Verum tenendum* est accurate, quod in superioribus
Cebes dixit: Reminisci non solum eius esse, qui aliquid agnoscat, sed qui
aliud, ab illo diversum , mente simul complectatur , ut hoc non ex eadem
perceptione animi h. e. e perceptione animi praesente, sed ex alia eaque
priore ( ov y v y Xvpa) pendeat. Probatur haec sententia imagine amasii,
quae AMATORIS animo statim obversetur, simul atque hic lyram conspexerit,
quam amasii esse iam dudura observaverat. Non ingratum lectoribus erit exemplum
e Taciti Hist. petitum I. 76 , quo doceatar, quomodo illam
dicendi normam Romani sint imitati: Primus Othoni fiduciam addidit
ex Illyrico nuntius, iurasse in eum Dalmatiae ac Pannoniae et
Moe- siae legiones. Idem ex Hispania allatam : laudatusque
per edictum Cluvius Rufus et statim cognitam est, con- versam
ad Vitellium Hispaniam., nal ylyvoito to yivoS. In his verbis Riickertus
haesit non immerito; Iovem enim fe- cisse, quae fecisse narratur,
nt nasceretur genas huma- num, (Astius habet: ct progenies
existeret) quis probet? Schleier- macherus in conversione exhibuit»
und Nachkommenschaft entstiind e. Id dicturus vide- licet erat
Aristophanes. Fortasse afia 6’ tl xal u^qy/v ilpoivt, , itl^apovij yovv
yiyvoiro rrjg GwovOtus, xal diaitavoivzo xal htl rd fpya rps-
Ttoivto xal xov dXXov /3i'ov tmiiiXoivro. 'idn drj ovv ix aliquid
vitii verba contraxerunt, lluckerto scribendum videtur xal iti
yiyvovto to yivoS. Faci- lior, ut videtor haec coniectura est :
holI yiyvoiro yovoS. Facillime nutem demonstrari potest, qui factum sit,
ut manus Platonis corrumperetur. Incuria ni- mirum scribarum syllaba
finali yiyvoiro verbi dupliciter posita erat: yiyvoiro r 6 yovoS,
Quod cum seriore tempore alii men- dosum esse intelligerent, ro ye
- voS scribendo locum emendare atque sanare
stndueruut. a // a 8 9 ei n a l a /3 f>tjv afifievi.
In quatuor codd. Flor, ct apud Stobaeum afjjiev legitur pro
afifajv, quod plurimi libri habent. Illud Stallbaumius in textum
recepit ut exquisitius. Masculinum genas neutro praetulimus propter
praecedens et avijp yvvaixi. Reddidit verba Schleiermacherus : Wenn
aber ein Mann dem andern.,., omissa xai particula, de cuius
significatu interpretes ad h. 1. nihil anno- tarunt. Schulthessius
habet: zu- gleich aber , wenn Mann und Weib sich einten . ...
vitio, ut videtor, typothetarum. Sententia est totius loci: damit
in der Umarmung, wenrf dem Weibe ein Mann zu Theii wiirde,
sie der Zeugung sich ergiiben und Nachkommenschaft entstiinde
, -wenn aber dem Manne auch (h. e. wieder) ein Mann,
wenigstens et quae seqq, 7t\ij <$ p ovr} yovv . Postquam
dissecta corpora fuerunt, parte» dimidiae amplexari se adhuc non
desierant, immo mutuis in amplexibus deperibant. Ut igi- tur plane
abstinerent a complexa, non potuit Iupiter efficere, ni- mium enim
urgebat vis naturae. Itaque quum totum consequi non posset, novo
instituto, quantum potuit assequi, molitus est, ut satietate
caperentur coeundi intervallaque facerent. Hinc yovv cnr positum sit, intelligitur,
Riickert, na\ Siartavoivto. Haec codicum est lectio. Vulgo
8ux— vcntcivoivxo , quod unde ortum sit, facile intelligitur.
^Margini enim interpres aliquis avoc7tccv~ oivxo .adseripsit, ut
8ia.7t<xvb6%oii verbi raritatem explicaret. Post alius nimia
sedulitate ductus in ava textq posuit 8icc7tavoivxo t
ex quo factum est 8iavanavoivxo. Ceterum non opus est ad 8iol
— Ttavoivxo suppleas avtijS. Verbum absolute positum est: und sie
Ruhefanden und sich der Arbcit zuwendeten und Sorgo triigen fur
ibren weiteren Un- terhalt, ini rd ipya. Haec verba de
agricultura intelligcnda sunt noa minus, quam quod supra legitur p.
191 . B. vno Xipov xal ttjs aXXr/S dpyiaS. O ftioS in se res omnes
complecti- tur, quae ad vitam sustentandam necessariae sunt. De
scriptura imytXolYTo cfr. Thomas M.: impiXopai xaXXtoy >j
inipe- Xovpai. Adde Buttm. Gramm. ampl. T. II. P. I- P. 187. :
Die C DtoOov o "Eqcxs tyywos aXXrjXav xolg
ccv&qkmois xcd rijg agyaiag cpvGmg Gvvayayevs, xal Imysigav xoiijacu.
'iv ix dvolv xal laGaoftcu zljv tpvOiV trjv txv&gaxivqv. Cap.
XVI. "ExaG rog ovv rjfiwv iGzlv kv&qq irtov fcvfijioXov ,
are Formen des Compositi imjJEX?}- Copai etc. werden
gewohnlich za i7ti/i£\ei6$ai gestcllt, welches eiue ganz
gleichbedeutende Ne- beulbrm von iitiftiXedSca ist, die aber von
den Atticisteo fiir xninder gut erkliirt wird. Bei- de Formen sind
iudessen in nn- sern fiucliern so haufig , dass wenigstens an den
einzclnen Stel- ' len sicli nicht entscheiden lasst, ob wirklich
der Schriftsteller so geschrieben. Doch ist kein Zwei- fcl, dass
lnifi£\E6$cti das altere ist, ond die Flexion von faipe- Xijdopai
urspjiinglich dazu ge- hurt. wSitEp al Tpijttai.
Piscium genus iprjrtai Graecis notissimum, quandoquidem Callonice
in Aristoph, Lysistr. v. 116. dicit: ' fyo$ 6i y <* v >
uSitEpeX tprjt- rav 8ox65 dovrat av ipaxrcfjs
xapra/tovdoc Srjpidv ad quem locum male Schol. iprjr-
tot, inquit, opYEOv rerprjpEvov nata ro pidov cJ S oi 6q>ij - x
e S. XeyEi ovv , ori xav dvpfifi ripvE6$ai ro ijju6v jiov ftov-
Tiopoci. Rectius Schol. ad no- strum iocnm annotat: ix$v8iov
n rcov irXocriw 7 } ipijrra £x Svo $ Ep parco v 6vyxEi6$ai
rrjv idEav doxovv , o rives davSd- Taov uaXovdWf oi 6'e
fiovyXGod- <Sov, xaxooS 8 e. dXXa yap idti ravta. Colligitor px
bis verbis, Tfxrjrrav cum in altera corporis parte os, oculos ,
nares posita habere, tum ca corporis figura esse, ut dissecta censeri
queat, atque non integra nisi cum altera couiungatur. Facit igitur
nostro loco ifxrjrrta v mentio ad descri- bendam figuram androgyni
dis- secti, contra ' ZvpfioXov nomen nataram et conditionem eins
expri- mit. &vpfioXov nimirum tessera hospitalitatis est,
annuli, astragali, alius cuiusvis rei pars al- tera, quam hospes hospiti
conr credere solebat, ut alter ad al- terum veniens haberet, qno
agno- sceretur familiariterque excipere- tnr. Hoc facto uterqne a
fraude tutus erat. Nam si quis pere- grinus ficticia hospitalitatis
tes- sera prolata sibi exposceret, quae non nisi amicis amici
praestare solebant, receptaculum, cibi ac potus facultatem, alia
hoc genus, tessera admota tesserae rem ve- ram aperiebat.
Zr/ret 8?) ro avtov %xa- 6roS £,v p$ oXov. In aliquot
codicibus 8£ legitur pro 8t}. Il- lud, minus aptum hoc loco, ut ia
sententia communi; nam d?j apud nostrum ceterosqne prosae ora-
tionis scriptores haud raro eius- dem potestatis est, atque r oi
particula apud tragicos poetas, quamquam etiam huius particulao
frequens est apud illos usus. cfr. Matth. Gr. plen. $. 627. p.
1281. " ExatitoS cum Bekkero et Stoll- tBT{it]iilvog mgxEQ at
i’rjrrai , i£ e vos Svo. Srj ad 1 6 avrov exaiSTog £vti(iokov. ooot
(iiv ovv r tov dvSgcov tov xoivov t fiij/xa sltSiv , o di] tore avSgoywov
ixa- Aelto, (piXoyvvaixtg te eIoI xal ot sroAAot rcov fioi%tav ex tovtov
rov yivovg ytydvaOt • xal oOat av yvvalxig £ rpikav&Qoi te xal
(ioi%EvtQiat, Ix tovtov tov ytvovg yt~ baumio ex codicum
auctoritate in textu posuimus pro vulgato 2xa6xov, quod Iluckertus
frustra reposuit. Ficinus verba conver- tit: quaerit autem sui
quis- que dimidium. Nam ut mit- tam geuus masculinum, quod et
praecedit et insequitur, ut exa- 6xov vix ferri posse videatur:
etiam ambiguitas quaedam exoritur vulgata scriptura admissa, cuius vitandae
Graeci studiosissimi erant. Certum est enim, verba non hoc modo
intelligenda esse: ixa6xov £,vfi(joXov etyXEt a e i To ccutov.
Sententiam quod attinet, homines dissecti cum peA egrinis comparantur*
qui habent tesseram hospitalitatis, sed hospitem reperire non possunt,
illam qui agnoscat, ipsosque comiter excipiat, eaque, quibus opus
sit, ipsis suppeditet, o 6 t} tore av 8 p 6 yvv ov
ixaXsixo , h. e. quod tum temporis androgynum vo- cari diximus. De
genere neu- tro relativi pronomiuis vide an- notat. p. 138. Ceterum
dicendi, indicandi, similia verba in huiusmodi enuntiatis saepissime
reticentur ita, ut infinitivi, qui ex iisdem penderent, id tempus
assumant, quo tempore dicendi verba proterenda erant. Exempla huius usus
permulta repe- riuntur. cfr. Piat. Alcib, I. p. 106, D, ovxovr
xavxa povov ottiSa, a Ttap’ aXXcov £fia$eG t V ovtqS
l&Evpe£ ; nbi oldSa dictum est pro eldivai XiysiS. Ibid. p,
111. E. Ti 8* eI pov- XtjSdrjfUv Eivat jjt} povov noioi avSponol
Eidiv , aXX* onotoi vytEivol rj voGc&dsiS, apa \xa- vol jxv
rjfj.lv tfCav (pro i-cptjfisv av Eivat ) 8i8d(jxaXoi ol itoX- Xoi;
Adde Piat. Crit. p. 47. D. cp eI ftrj axoXovSrjdofiEV , 8ia -
<p$ EpovjJEY ixEtvo xal Xajfiij- dojJESa , o tg3 Sixaitp
fiiXrtov iyiyvsxo, xcp 81 d8lx(p a- 7tGoXXvr o , Vide praeterea
En- gelhardtura ad Piat. Lachetem p. 185. ed. p. 28., qui ad
lo- cum modo laudatum verissime haec annotat: Quamvis
disertis verbis haec sententia nondum sit dicta, continetur tamen
quo- dammodo in praecedentibus. Post- quam enim recta exercendi
ra- tione corpus melius reddi, prava perdi ostendit, sic pergit
Socra- tes : ovxovv xal xaXXa, co Kpl - zooVf ovtgjZ, Iva prf
itavxa 8ii - Qjfjtv , xal 8 j) xal nEpl rcov Sixaie&v xal
adlxcav x. t. A., ubi verbis xal xaXXa TCavxot omnia complexns iam
id sibi concedi vult Socrates, animam iniustitia et pravitate
perdi; quare pergere licuit: o tgj jj\v 8ixaicp fieXxiov
iyiyvsxo , rc3 ddiHoo anaXXvxo. Eodem modo , h. e. supplendo
dicendi verbo explicandus versus est Me* leagri in epigr. XII, 5«
T* 1» p. 6, ed. Iacobsii. yvovzca. odae di zcbv yvvcax&v yvvccixog
Z(irj(id sidiv, ov 7tdvv avzai zolg avdQadc zov vovv itQogiyovdiv,
dXXa pdXAov itpbg zag yvvalxag zErpappivca tldi, xai ?/ taxet
xovvop’ %x £t tavxov povov , ipya 81 xpedd cov, ubi Ixet
positum est pro ixetv XeyeiS* Malimi tamen ix 01 le- gere, quod
positum esset pro. ?/ taxet tpairjS. xai bdai av
yvvaixeS — yiyvovtai. Av plerum- que ita ponitur, ut eadem
ali- cuius actionis reive conditio in- dicetur, quae in praegressis
re- peritur» Hinc fit, ut av posito saepissime verba omittantur,
qui- bus conditio illa exprimatur. Expletior oratio haec foret: xai
odai yvvaixeS tov xoivov xpij- pa eldiv % 6 8tj tote avdpoyv- rov
ixacXetto, tpiXavSpol t* ei- di xai al noXXoil xgjv jioixsv -
tpicbv ix tovtov tov ytvovS yeyovadiv. Sed nemo non vi- det, e
nimia verbositate haec verba laborare ; quapropter av vocula
adhibita, qua ea, quae in praecedentibus continentur, suppiendaque esse
siguificantur, no- stro loco omissa sunt. Et quoniam praecedit ix
tovtov tov yivovS yeyovadiv , haud scio, an non insiticia verba
sint ix tovtov tov yevovS yiyvovtai ; quibus omissis neque
sententiae vigor minuitur et comtior fit elegan- tiorque oratio.
Sed nihil mutau- dum contra codicum auctoritatem , qui ad unum omues
verba illa exhibent, EaMem etiam Fi- cini conversio probat:
Rursus quae cunque mulieres virorum cupidae moechaeque sunt, hac
stirpe nascuntur, ov navv — ciXXd paX- Xov.
Dictam supra est de ov navv vocularum significatu io an- notat. p.
49* Recte ibi contra Engelhardtum monuisse nobis videmur, ov navv non
esse plane non, sed non magnopere, non sane. Exemplorum, quae illic laudavimus,
nul- lum esse puto, quod probandae huic sententiae magis
inserviat, quam nostrum locum. Addito nimirum paXXov
comparativo statim intelligitur, Aristophanem dubitanter loqui,
atque illarum mulierum erga viros amorem non prorsus
negare. xai al htaip idtptai. Timaeus p. 123.
Itaipidtpiai' al xaXovpevai xpifiadeS , ubi Bnhnkenius : tales
crissantes, in- ™it, mulieres, quae aliis nomi- nibus Lesbiades ,
tribades, frictrices et subagitatrices vocantur, in telligi t Clemens
Alex. Puedag, II, p. 264. yvvaixeS avSpi%ov- teS napd. <pvdiv.
Stallb, Te- tigit nostrum locum Wachsmu- thius in libro:
Hellenische Alter- thumskunde T, II. Abth. H, p. 48 et 49,
bdoi 8h dflpevoS tpij- pa. Ut concinnitati singula- rum
partiam orationis cousoleret, Bastius scribendum coniecit odoi
afifreveS afifaevoS tpijpa el - dtv. Recte fortasse, neque
au- dacior haec coniectura censenda est. Factam est enim scribarum
incuria haud raro, ut, ubi scriptor duo verba iuxta posuit, quae
inter se aut plane non differ- rent aut non multum, alterum at
iTaigldTQiai Ix tovtov tov ytvovg yiyvovrca. oGoc iis k$qsvos tfirjiia
d<St, rcc a§§iva SuoxovGi , xal Tiag fihv av accidis u<Hv, are
Tcicu%ca orna tov aggivog. chartae mandarent, alteram omit- terent.
Hoc modo depravatas est v* c. locus pulcherrimus Platonis, Crit.
p.45 A et B.; verba haec sunt: 2. apri 81 Tjxet S 7 ) TtakcLi; Kp.
iniExxooS itdXai. 2. sita 7tdo? ovx evBrvS iitjjyeipaS pe, aXXd
diyy itcrpaxdSjjtiou ; Kp. ov,pd tov di\ <0 2ojxpattS i ov8* dv
avToS ?/3eAov iv to~ davrp te ay pv it vi at xal Xi >7ty elvai •
aXXa xal dov naXai $av pa^Go al- .dSavopevoS, co? t/SegoS xa$
£V 6 EiS . Faoit Stallbaumius in annot. ad h. 1, ed. p» 102. Critonem
loquentem : Ne ipse quidem vellem in tanta insomnia tantoque
moerore versari, in' quo revera sum, tibi autem, * cui tam gravis imminet
calamitas, haec tua quies non videbatur turbanda esse. Cur Socratem
e somno non excitaverit Crito, caussam justissimam habes *
placidissima quies non videbatur turbanda esse. Cur tacide consederit
(diyjf 7ta- paxaSt/dat), ei quaestioni quid respondeat in Critonis
responso, frustra quaeras. Tantum enim abest, ut verba; ne ipse
qui- dem vellem in tanta insomnia tantoque moero- re versari aliquo
modo cum Socratis quaestione illa conciliari possint, silentiumque
excusent, ut potius ipsa inepti quid ha- beant atque excusatione
indigeant* Verba Critonis depravata sunt* atqne eo modo, quo
Bastius nostrum Symposii locum emendare studuit, corrigenda. Satis
notum est, summam animi anxietatem eam esse, quae silentium
non patiatur. Quid multis? Scripsit Plato: ov pd tov di*, oi*S*
av avTvft avav8o? iSeXor x. t. X. Haec verba scribarum
incuria in hunc modum depravata sunt: Ov8 9 dv avroS avavToS , ut
scripserunt Symp. p. 174. D. itpo o8ov pro t tpo o rov ; post alii,
cum dv avroS verba male repe- tita esse putarent, pro dv av - ToS
avavroS scripserunt dr av - toS, Sensus est totius loci ; Socr.
Warum wecktest du dann (quae vox quomodo cum d e n n cogna- ta sit,
dixi p. 151 .) mich nicht sogleich auf, soudern setztest dich
schweigend ' neben lier? Krit. Ceim Zeus , o Socrates, ich selbst
vermochte es bei so grosser Unruhe and Traner nicht uber mich
2 u bringen (vide, quae de iSeXsiV verbi potestate dicta sunt ia
annot. p. 44.) ganz- lich lauti os zu sein; und doch bewundere ich
dich schon lange, indem ich bemerke, wie sanft du schlafst.
Emendatione nostra quantum gratiarum Crito- nis responso accedat,
prudentio- res persentiscent. .1 xal TiajS plv dv itat
- 8 e? G)di. Memorabilis hic lo- cas, quo relativa potestate
tegjS positum est. Astius praeter no- strum locum cum nullum in
Pla- tonicis scriptis reperisset, qui eadem potestate exhiberet
tIgoS vocem usurpatam , egoS scribeudum coniecit. Tego? in
textu tpilovOi xovg av$QKg xal %aiQovGi dvyxcttcixtlfiivoi 192 xal avpKtxltyulvot
roig dvdQccGt • xal d6iv ovroi (itX- ttOrot tau nalScov xal [itigaxCcov ,
uve dvdQuozaroL ovrtg tpvOU’ tpaol 6 'e dy rivtg ainovg
dvaiOyvvrovg Eivai, . ipEvdouEvoi ' oi5 yccQ vit dvatOyvvxlag zovro
dgwOtv, dXX’ vito &<x$Qovg xal dvdQtiag xal ccQQEva- posuit
prudentissime Stallbau- mius, cuius silentium aliter, at- que
Riickcrtum fecisse video, ego interpretor. Ipsum Riickcrtum audit
Tacet, inquit, de h. I. Stallbaumius , sed mallem dixisset, si quid
haberet , quo defenderet T iooS relative usurpatum. Si repcritur in
veterum libris, quod contra consuetum dicendi usum est, codd. autem
auctoritute probatur, a mutando abstinendum notauduque est, si eo opus
•it, novitas rei. Nostro loco T tcoS non idem atque MgoS esse, quem
lateat? sed quo id defendat, quis habeat? cpiXovtil to v 5 d v 8 p
a S — x ots avS patii v . $iXttv verbum feminis amasiisque
ple- rumque convenire supra annota- tum est p* 69. Ceterum
prae- cedente XOvS dvSpaS in sequentibus scriptum exspectaveris fortasse
pro xoiS avdpatii prono- men avroif, quod cur non posuerit Aristophanes,
caussa in prompta est. Solent enim inter- dum veteres praecedente
aliquo nomine non pronomen exhibere, sed ipsum illud nomen
repetere, nt id significantius emineret le- ctorumque animis maiore
cum gravitate insinuaretur. Igitur nostro loco pueri, quatenus
segmen- ta sunt integrorum VIRORUM, VIROS AMARE dicuntur, atque cum VIRIS
lubentissime congredi, ut io universum significetur, PUEROS illos non nisi
VIRORUM societate delectari. In sequentibus pro xai tltiiv ovroi
fUXtitiroi scribendum coniioio na i tltiiv ovroi oi (iiXntiroi.
Articulus fi- nali syllaba ovroi verbi absorptus est, ut factum est
haud raro. Unum depravationis huius exemplum ut laudem, in
plerisque codd, male exhibetur p. 179. B. ov ftovov ori avSptX,
aXXd xal yv- vaixtS. Alio loco de superlativo vel cum articnlo vel
sine eo exhibendo dicemus, quam rem nemo Grammaticus, quautum
scimus, adhuc satis accurate tetigit. ars avSptiotar oS ov-
XtS (pvtitl. Alludit Aristo- phanes lioc loco ad avSptioX nominis
ambiguitatem. Signifi- cat enim et fortem ct eum, qui cum VIRIS aliquid
habet coniunctiouis, similitudinis, commercii. Neque dubium est, quin
Aristophanes illam nominis significationem ex hac derivatam esse
censuerit. Verba couvertenda sunt: Et sunt hi quidem OPTIMI PUERORUM ET
IUVENUM, quo AD MASCULO SEXU DELECTANTUR MAXIME ideoque natura fortissimi
sunt* tpatil St} tivsS x. x. A, Eandem rem Pausanias tetigit
p. 182. A. his verbis: ovroi ydp tltiiv ol xal to ovtidoS
ntitoi- rjxottS , cafr e xivaS roXpav Xt- ytiv , o)S* altixpov x a
P^ etiSai ipatitouS, Ceterum etiam hoc xi 'as to fifiotov cnrroig
acsxa^o/iivoi. (liyct di te x/iiigiov xal ydg xckEa&svxsg fiovot
ccxopatvovGiv clg xu ito- hxtxd avdgs g oi xoiovzoi' enstdav de
avdgca&aiGi, mudegaOxovOi xal itgog ydgovg xal itutdoitouag ov
B itgogi%ov6t rdv vovv cpvtiu, dk).d vnb xov vu { uov dvay-
xu^ovxui ' ulk’ tgagxsi avxotg ft£t’ dkkrjkav xaxagijv loco
Riickerti sententia de Grae- corom saper paederustia iudicio, quam
supra exposuimus iu anno- tat* p. 98 . 9 satis reprobatur. TiveS
enim h. 1., ut illic x iva$, quamquam de populi quodam ru- more
accipiendum est, tamen non omnium Graecorum constans de paederastia
indicium exprimit* 3 d fi fi ovS xal dvSpstaG xal dfifiEvaitiaS»
Opponuntur haec tria nomina praecedenti avat 6 xvrtiaS nomini ora- torie»
ut indicetur» quantum nu- mero superent praecedens no- men haec
tria nomina» tantum etiam ei praevalere significatus potestate*
Tantum enim abest» ut pudore illi pueri careant» ut ' potius virili
sua indole ducti ad viros se convertant. Ceterum illa nomina haud
multum inter se "differunt siguificatu. 'AfifiercD- itia enim
virilem indolem 'significat non minus quam dv - 8 peia t cuius
indicium est Sctfi- fiu$ h. e. fiducia» audacia; animi fortitudo*
Laudat Fischerus E- tym. M., in quo d fi fiev coniaS no- tio sic
explicatur: afifievcDitds ix x ov ufifiijv dfifi&voS xal r
ov d)if> oonoS, o tiijpaivti rd itpoSco- 7 ior, dfifisvcojtds 6
afifievoS jtpoS- coitov 8 x ojy > xaxd dvVExSoxi / y . yyovv o
dvdpelo S xal idxvpdf xal dvvdpevoS it poS cx$pdv dv- Tvrax$fiyai.
idxi xaxd 6vv- exSoxy v ano pipovs rd oXov. xal yap xe\e&%evxeS
—avS pES ol xotovtoi, Pi- cinus verba convertit: Iluius evidens argumentum
est , quod » cum adoleverint , soli ad civilem administrat ionem
conversi , viri praestantes evadunt. Nou rectius Schleiermacherus in
con- versione: dass » wenn sie voll- kommen ausgebildet sind,
solclie Manner vorziiglich fur die An- gelegenheiten des Staats
gedei- hen. Unice vera Orellii explica- tio yerborum est in
Scbulthessii convers. p. 92. : Deutlich eihel- let dies daraus »
dass solchc al- lein » wenn sie heran wacbseu» in den
Angelegenheiten des Staa- tes sich ais Mauner beweiscn. Eodem modo
verba intelligenda esse docuit Rtickertus ad h. 1. vito xov
vdpov av ay - xagortai * Apud Stohacum Serm. 65. p. 4 10. legitur:
*Znap- riatav rd/ioS rdxxEi ZypiaZ, ryv ptv npcdxyv dyaptov
xfiv SevXEpav uiptyaplov xyv rpi- xyv 8 \xaxoyapiov. Utrum
apud Athenienses ayapiov lex exstite- rit, necne, in incerto est*
Vide Wuch&muthii librum: Hellenische Altcrthumskunde T. II.
Abth. I* §. 98. p. 266., Meier u. Schom. Att. Proc. £87. Cuvendum
est autem, ne quis forte nostro io- co probari ceuseat, legem dya
- piov Athenis latam fuisse. Nam vdfioS ambigua significatione
apud Platonem adhiberi solet, ut et legem, et morem
receptum» ccyafiotg. stuvTug fitv ovv 6 toiovtog 3tai$SQcc6r>']g
re xcd <pt2cga<STt)g yiyvtrat, au r 6 igvyytvtg
aO}ttt^6[icvog. orctv fitv ovv xai avrtp Ixdvcct Ivtv%iq tu ccvtov
y/ilttu xcd 6 naLSegaOtrig xal cckkog xag, rore xcd 9av(ia0td C
lx7tfo'iTTOvrcu cpckict re xcd olxuoTrytc xcd Hquti, ovx i&D.ovttg ,
ug Enog tbteiv , %UQi&6&ac aAAjjAov ovSb consuetudinem,
exemplum significet. Vide annotat, p. 100. nai8epa6xr}S xe
xal <pi- Xepadxi/S. Non de pueris hic sermo est, sed de viris,
qui in- tegri viri segraeuta sunt. Me- rito igitur roirere it ai8 £
patiit/ S verbi cum cpiXtpatiTtjS coniuu- ctionem. Interpretes
verba convertunt: Knabenliebhaber und LiebhabertVeund, ut alterum
ver- bum ad viros, alterum ad ama- sios pertineat» Sed fac,
hanc Aristophanis mentem fuisse, quae- ritur, cur ordinem verborum
in- verterit, adraiseritque vdxepov itpuxepov, quod rectissime
etiam a Riickerto not.itur. Sed quam hic verborum illorum
explicatio- nem exhibuit, eam fateor mihi neutiquam probari. Eam ,
inquit, rationem inii , ut tpiXepaOxj/v dictum hoc loco putarem
amicorum amatorem ad analogiam naiSt patir/fS, quasi non a cplXeco , sed
a (piXoS petita esset pars prior nominis. Jam idem est , ac si
dicat it a i 8 cov X £ xal cpiXoov i padxi/v. Sen- sus hic est: Ex
hoc genere qui est , js semper amator est , sive pueri sunt ,
quos amat , sire AMICI Quos enim PUEROS AMAVIT, eosdem amicos habet ,
postquam adulti sunt, ita ut horum etiam AMATOR magis, quam AMICUS sit ,
Displicet haec explica- tio duabus de caussis. Pueri enim, qui
amantur, non minus amasii sunt quam amici amatorum. Deinde non dicitur
Graece cplXoov ipadxqS sed posito ipadxijS no- mine itaideS s.
itaiSixa adiungautor necesse est, coutra cpiXcov ubi ponitur, non
ipadxrfv sed qiiXov adiungi usus loquendi fla- gitat. Possis
itai8epa6x?}s xe xal qnXepa6tr}s: ita explicare, ut yirum inlelligi
censeas, qui neque alios vituperet AMATORES puerorum, et ipse pueros amet.
Dubito tamen, num haec significa- tio cum tptXepadxtj S verbo
satis conveniat. Supra annotavimus p» 144. cpiXeiv adhiberi haud
raro, ubi de actione sermo sit, cui vis quaedam, qua
necessario fiant, inesse indicetur. Eadem significatio interdum in
iis nomi- nibus obtinere videtur, quae cum cpiXeiv verbo composita
sunt. Sic in Alcib. I. p. 122. C nod dubium est, quin de indole
Lacedaemoniorum jfrmo sit, qua ad labores suscipiendos , ad ae-
mulationem summam et ad ho^ nores consequendos ferantur. Verba sunt: ei
8* av iSeXt/tieiS elS (ScjippodvvTjv xe xa\xo6piu>ri]ict
aitofiXeifiai — xal (piXonoriav xal (piXoveixiav xal tpiXoxipiaS
xaS AaxeSaipoviaiv x. x. A. Eo- dem modo verba p. 189. D. intelligenda
sunt: l6xi yap Secor tpiXavSpGHioxaroS quae ita de Erote dicuntur,
ut deus sua natura perhibeatur homines maxime AMARE. Adde verba p.
191. Giuy.qov xquvov. xccl ot SucraiovvTtg fiiz’ dlXylav Sm .fiiov
ovzol tlOiv , ot ovS’ av %%oitv dmiv , o zi (3ow- Xovzai 6<pl<5i 7
ta</ ccV.t) Xav ylyvt6&ai. ovdh yctQ av So^hb tovz’ ilvai r/ zav
utpQO&iolav tivvovoia, tog ciga tovtov iviy.a. ezegog iztQca %aigu
‘gvvcov ovz ag ini fuyaXzjg 6mvdijg' «AA’ SXXo zi flovAofitvi] tua-
C. (piXoyvvaixe? , p. 191. E. qxiXavdpoi, quae de naturali
quo- dam instinctu dicta esse, etiam e verbis paullo infra positis
colli- gitur: aXXa paXXov npos raS yvvaixat t et p a ppkv a i
el- tflvy quibus verbis qnXoyvvaixeS nomen manifesto explicatur.
Ad nostrum locum ut revertar, <pzAe- padr/jS idem est, atque
ipadn}S tpvdet , quo nomine supra utitur Aristophanes p. 192. B. itat
- depadtovdi xal itpoS yctpovS xal 7tai8o7ZoitaS ov tc
poSexovdt tov vovv cpvdti Igitur Aristo- phanis mens haec est :
Omnino igitur talis puerorum AMATOR est atque naturali
quodam infctinctu, quippe integri viri segmentum, ad pueros AMANDOS fertur.
xal aXXoS it ai. Valet, quod hic do solis iis dicit, qui ex
integro viro dissecti suut, de ceteris quoque, mulierum et an-
drogynorum segmentis } de qui- bus quum nolit copiosius dicere,
solis hisce verbis additis ad hos quoque id pertinere significat,
Riickert . tpiXia te xal olxeiotiftt xal i p coti.
Exspectabas ordinem nominum inversum, quoniam priori loco positus est itat
depadrr/i, ad quem Ipcoi nomen referendum est. Vide annotat, p. 69.
Sed minus veteres in huiusmodi rebus accurati fuisse videntur.
Ceterum olxeiotqS Ad androgynum referri possit, ad integram feminam
cpiXia. Sed du- bito, num id recte fint. Tria potius nomina
Aristophanes adhibuit amoris, ut esset, quod cum praecedentibus verbis
Sav/iadta ixTcXrjttovtai conciliaretur, atque recuperatae
integritatis gaudio re- sponderet, xal ol SiateXovvr ei
— ovtoi e id iv , oi x.t.X. Pi- cinus verba convertit : jitque
hi sunt , qui per omnem vitam ama- re pergunt: neque quid
potissi~ mum a se vicissim expetant , exprimere possunt. In
conversione Schleiermacheri exstat: und die ilir gunzes Leben lang
mit einauder verbunden bleiben , diese sind es, welche auch nicht
ein- mal zu sagen wiissten, was sie von einander wollen. Non
aliter Schulthessius verba convertit» Sed admodum languent j si
quid video, probata hac verborum explicatione ovtol eldiVy oX
verba, Aristophanes hoc potius dicturus erat: Mirum esse in
amore hoc, quod amantes, cum veliut per totam vitam conioncti
esse, i id em hu- ius voluntatis ne caussam quidem habeant satis
gra- vem, quippe nescientes, quid alter ab altero sibi fieri
velit. Est igitur, quod fugisse VV. DD. miror, diate- X ovvtei non
praesentis, sed futuri temporis participium. D ztQov y 4>v%r] StjXri
idziv, o oi3 Svvarcci tlnuv, aJUa f lavztvtzai o fiovkezai , xa i
ulvizztzcu. xca tl avtoig iv zm avrcj xcetdcxtifuvoie imazag 6
”H<pui<Stos , lyav zd OQyavcc , Iqolzo ' „TL £o&’ o
(SovkiQ&E , o av&gco- moi, vfilv na(i’ dkb'jXwv y« >la&cu;
n xal tl anoqovv- gJ ? a pa rov
rov Uvexa. Tovtov pronomen generis neutrius ad praecedentia verba
tg3k d<ppo8i<jlcov 6vvov6iot referen- dum est. Soiet autem
neutrum genus pronominis relativi et demonstrativi jexhiberi, si
praecedit v tota enuntiatio, ad quam prono- men pertinet, vel si
praecedens nomen e pluribus verbis compo- situm est, velut nostro
loco rj tgjv cteppo8i6icov 6wov6ict . La- tini eodem modo neutro
genere pronominis interdum utuntur;' saepius aliquod nomen
latissimi significatus pronomini ad- dunt: quae res* Adde Piat, de
rep, I. p. 329. C. it&S, £q>n, <J ^otpoxXeiS , fyetS’ itp&S
za- (ppodloia — xai oS, JEiv<pTjfi£t y to avSpvne'
dtipavaizazac pivzoi avzo diticpvyov x . r. A., ad quem locum
rectissime Stall- baumius monet, pronomine singularis numeri etiam
contemtum rerum Venerearum exprimi, ut gd£ dpec tovtov Zvaxa
convertendum sit: dass dieser Armseligkeit hal- ber cet. In
sequentibus ovzcoS, latioris significatus verbum accuratiori deliuitioni,
uti solet, prae- mittitur. cfr. p. 192. E. ixal av iv AiSov. Adde
Alcib. I. p. 105. c. 4. dzt ocvtov 6e 8el 8vva- 6zevtiv iv zf/
Evpojxy. Vide anuot. p. 43- Censet Riickertus ad li, 1. ovrooS ix\
payaXijS' <Sxov8fj$ pro l<p’ ovtcj paydXrjS tfxovdi/S positum
esse. Eam me- tathesin verborum Graeci admit- ty
* tuntin verbis xaw, xoXXv, aliis; num in ovzcoS verbo admiserint,
vehementer dubito. o o v dvvazai sixelv x. T. X . Vis amoris
haec est, ut amantes impellat ad aliquid, quod quid sit, ipsi f qui
amaut, pror- sus ignorant. Quod autem petv- ravec 1$ai atque
alvizzefBai di- cuntur, hoc est, diviuare atque caeco quodam animi
praesagio sentire id, quod sibi fieri velint, idem Margarethae
verbis notis- simis in Faustio Goethii pulcherrime expressum est.
ixidz as o "Hpatdz o f, rdopyavax.x.X. Si germina duo
salicis aliusve ar- boris, aut fructus 4uo mali, piri, pruni, filo
adhibito ita colligantur, ut alterius latus cum alterius lateri .firmissime
connexum sit, fieri solet haud raro, ut e duobus germinibus
fructibusve prodeat unum. Haec res, nostris temporibus PUERIS satis
nota, non dubium est, quin et Graecis in- notuerit. Ad eandem
Aristopha- nes fortasse allusit. Iam iutel- liges, za opyava verbis
cuius generis instrumenta significantur. Vincula sunt et compages,
quibus adhibitis duo homines ita colligantur, ut germinum frnctuumve
instar firmissime connexi alter ab altero discedere nequeat atque duo in
unum concrescant. Minus apte Riickertus ad h. 1. Semper mihi , inquit,
vi— sus est Elato his, qu-ac de Fui - rag ccvrovg staXiv Zqoito'
-J-Aqu ys tovSs Ixi&vpu- xe, Iv tc 5 avuS ytviG&ca ou (icchti tu
txXXyXoig, wgxs xal vvxra xal rjutQav fii) rxxofainMS&ai alhjkav ;
sl yccQ tovtov ixt&vfieiTE , tQiXa vaag Ovvrjj^ai. xal E
<Svpcpv6ttt, tlg xo avxo, ugxs 6v bvtag sva ysyovivav,
£ cano dicentem facit Aristopha- nem, Homericam fabulam
respicere de Martis ac Veneris amoribus , Odyss . VIII , 266. seqq.
maxime propter Mercurii verba } quibus ille , etiam si ter tan- tis
vinculis constringi debeat, omnesque deos deasque spectatores haberi,
tamen se Veneris fructum vel hoc pretio emtu - rum fore profitetur
. apa y e xovSs irtiSv- pstx e. *Apa peponi solet,
quando is, qui interrogat, veram esse opi- natur, quam rem
sciscitatur, cfr. Piat. Polit. 1 , 328. A. xal o USeipavToS , Apa
ye, rj 8 oS, ov 8 9 Xdxs , ori XapitaS idxai rtpoS kdnkpav acp 9
Initoov xjj 5c<y; Nescire revera Socratem ceterosquo Adimantus
suspicatur r ij£ Xapzd 8 o? celebrationem, quod abitum parantes
conspicie- bat. Adde Piat. Crit. p. 44. E. apa ye pr/ ipov
npop-q^et xal rcbv dXXcoY ijCiX 7 j 8 eia)Y ; ubi sup- plendum est:
aliam certe recu- sationis caussam non reperio* Alcib. II. p. 138.
A. apa. ye xpoS rov Seov 7 tpo<rev£ 6 pevof Tcopevei ; ubi verba
quaedam omissa sunt, ad quae yk parti- cula referenda est :
Coronatum te certe conspicio sacrificantium ri- tu. Nostro loco
Vulcanus cum animadvertisset, SxepoY hxkpqo Xaipeiv B,vv 6 vxa ini
peydXTjS ditov 8 ijS , yk particula usus lianc cogitationem
interrogationi ad- miscet; Videmini certe velle al- ter
alteri se artissime adiun- gere. ' dvvr rjZat xal
dvptpv- dai, 'ZwxrpiEiv verbo Plato supra usus est p. 183* E. o
8h rov rjSovS xPV^ t0 ^ ovroS ipa - dtrjs Sia fiiov pkvei axe povl
- pqu dvvxaxeis. Proprium est do fabri ferrarii arte, qui
metalla colliquefacit, ut ca artissime couiungat. Vide Ruhukenii
an— not. ad Tim. L. V. Pl. p. 139« Pro dvptpvdai codd. non
pauci 6vp<pv6ijdai exhibent, quorum in numero sunt Bodleianus,
Va- ticani duo, alii. Hinc non mi- reris, dvptpvdrjdai a
Reyndersio atque Riickerto in ordinem verborum receptum esse,
praesertim cum fabri ferrarii opificio ver- bum apprime conveniat.
Nobis cur unice probetur, quod Bek- kerus et Slallbauraius dederunt,
dvp<pv(ftxi , ex annotatione im- dxaS 6 r 'H(pai6toS f Ix&v ta
op- yava verbis subiecta patebit. Sio in Piat. Epist. VI. p. 323.
C. le- gitur: oipott yap 8ixxi xe xal al8oi xovS itap 9 fjpdoY
ivxev- $ev iXSovxaS XoyovS, el pr\ xt r 6 XvSlv pkya xvxoi yev
ope- ror, inqoSr/S xjsxivosovv pdXXM dv dvptpv 6ai xal
dvP&tf- 6 at TtaXiv elS njv itpotitidp^ Xovdav tpiXotrjxd xe
xal xot- YGQviaY. Ad nostrum locum Ari- stoteles videtur respicere
De rep* II, 4.; xaSanep iv toiS ipoo- rixoiS Idpev XkyoYta roV
*Api- dxoqxivrjv, ooStuv ipwvxGOv 8id 12 xal eco$ t av ZijtSy
wg evoe ovtet, xoivtj dfitpmsQovg £rjv, xal httidav dno^avrjtB , IxeZ av
iv "Aiiov dvtl dvslv tvet tlvai XOtvfj TE&VEWTE. cUA’ OQatE, M
TOV - tov eqccze xal e^ccqxel vpiv , av rovtov TvyrpiE ravta
dxcvOag ttifiEv, on ovd’ av tlg i&Qvq&Eit] , ovd’ &XXo ,tt
1 6 (SepuSpee (piXtiv i7Ci$vpx>vr- rcor 6vptpvvai xal
yeveOBat ix 5t;o ovtg>v dpcpoxepovS ira, cjS ira arra.
Valgo pro ovxa igitur brraS , qoae lectio non nisi tribas Belkeri
libris confirmatur. Non dubium est, quin brraS in textum
irrepserit scribarum errore, quj, qum paullo supra legerint
&Sxe 8v * ortas, etiam hoc loco pluralem numerum admiseruut. Quamquam
au- tem non falsum est c bs ira ur- raCy tamen ipsa oppositionis
ra- tio , quae inter o oSxe 8v uvxaS ct cdS ira orta manifesta
re- peritur, singularem numerum exi- gere videtur. ixei
av iv Aidov — era elrai. De verbis ixei — iv Aidov supra dictum est
p. 43* " Era elrai e praecedente <3ffre particula pendet,
quae non opus est, ut hoc loco repetatur. Quae- ritur autem, qui
possit "HcpcatiToS ix&v X( * opyara corpora aman- tium ita
coninngerc atque colli- gare, ut et in Orco manes cod- iuncti
maneant. Explicanda haec res est e veterum de animorum post mortem
conditione* Man^s enim quasi umbrae erant ad si- militudinem
hominum mortuorum accuratissime conformatae, qua- propter apud
Homerum haud ra- ro fipoTOJV efScoXa vocantur, cfr. Odyss. 11. 475.
Adde II. 23. 65. yXSe 8' in\ ipvxp TlaxpoxXrjoS
SeiXoio itarx* avxcj, piyeSbs te xal bpuara xaX* elxvta
-v xal tpannjr , xal xola nepi xpot ei pax a e6xo. Ex
veterum igitur opinione qui in vita breviorem alterum pe- dem
liubebat, etiam in Orco so- lebat claudicare, monocolos non nisi
unius oculi lumine gaudere. Sequitur inde, qui in vita ita
colligati fuerint u Vulcano, ut in unum corpus concreverint, eosdem etiam
in Orco coniunctissi- mos esse. — Pro arxl Svoir / quae lectio
vulgata est , arxl Sveir edidimus cum Bekkero et StallFaumio,
Bodleiani codicis au- ctoritatem secuti. Jvoir prae- ter Riickertum
etiam Matth. ve- rum habet in Gramm, f. 138. p. 262. Annotat tamen
ille ad nostrum locum: minime , inquit, dubium nobis est , quin a Platone
usurpata fuerit haec forma ( 'Sveir ) , cuius sat multa vestigia in codd .
reliqua . el tovtov i pax e. Ilaec brevius dicta sunt;
expletior oratio audiret: orAA* opaxe, et tov - to idxir , ov ipdte ..
Sequentibus verbis tavxa axovCaS Io per dxi ovS * av eis x. r. X.
apodo- sis efficitur ad verba p. 192. E. init, xal ei ecvToiS ir
tqH av - toj xaxaxeipiroiS exi6tds x. r. A. Annotant autem
interpretes, Aristophanem avTolS pronominis in protasi positi non
amplius memorem , simularem numerum ia uv cpavett) povXiftsvos, &XX’
axt%vag olo it’ ccv axtjxo Lvtxi tovto, S icaXai ccqu 6vvtX\nltv xal
Ovvzaxtl $ zu iQMjjLtVtp IX dvELV EIS yEVtO&al.
Tovro yaQ ttfr i zo alziov, ozi r] &Q%aia cpvOi g f/iuov i]v
Kvzrj xal yixtv oXou tov oXov ovv ztj lici- apodosi posuisse,
atque eum pro- ximo ov8 av efc accommodasse. - ov8* av eIs. Ov8h
sis ita differt ab av8ets, ut hoc nul- lum significet, illud,
quoniam interposita av vocula vis nega- tionis augetor
incredibiliter, ne- minem denotet ne uno qui- dem excepto. Unum
exemplum huius usus ut laudem, Piat. Hiaed. p. 100. C. cpaivExai ydp
pot, eX tL Itiriv aXXo xaXov nXrjv aveo x 6 xaXov, ov8e 8* ev
dXXo xaXov elvai rj 8 l6xi JdETEXtl ZxeLvOV TOV TioXoV. l J iura
exempla Stallbanmius congessit in aonot. ad Piat, de rep. I. p. 353. D.
«AA* 'Atexv&S verbum apud Platonem saepissime
reperitur, ibique vario modo ex- plicandum est. Primaria verbi
significatio est, ut etymologia do- cet, anXadrcji?, aSoXcoS , a
qua reliquae verbi significationes fa- cili negotio derivantnr.
Nara quae sine artificio dicuntur aguuturve , ea clare a per te
que, certissime, ad<paXco£ 9 lucidissime, tpavspmS , simplicissime,
anXcoS j s u m -n matim, naScinat, pronuntiantur. Nosftro loco possis
etiam de tempore voculam dictam intelligere, ut conversio audiat verborum
: und ieder wird so- gleich, oh ne Weiteres das gehort zu
habeu vermeinen, woruach cben er lange schon streb- te. Scboliasta ad
Eutyphronem habet apud Bekkerum, Comment, critt. in Platonem
T: II p. 325. atEx y d>S‘ xavreXcoS' ? axXcoj tj xaStarraZ,
IfavpCDS, rj teXIgdS. ol 81 iv l6(p xgj ovxi, xal aXrj- $eiqc* ol
81 SrfXovv xo itapa - xav xal xaSoXov , xax * aXtj - Ssiav.
oloi x* av axi} xokv cti + Ad ofozr’ av ex praecedento ovdfc
eU intellige Zxa6xoS. De rep, II. p. 366. D. xojv ye «A- Xcov
ov8e\s Ixcov 8ixcnoS, aAA* rxo avavSpiaS — ifriyet xo aSixEiv,
aSwaxcov avxo 8pdv. Horatii Serm. I. 1, 1, Qui fit, Maecenas, ut
nemo, quam sibi sortem Seu ratio dederit, seu fors obie-
cerit, illa Contentus vivat, laudet di- versa sequentes
h. e. sed quisque laudet cet. Stallb . Comparari potest cum hoc
dicendi genere ea verborum structura, qua haud raro e praecedente verbo negativo
affirma- tivum repetendum est; eam in- dicatam reperies iu
Indicibus, Ceterum Riickertus censet non ZxatixoS sed 6 dxovoaS
sub- intelligendum esse. tovto yap xo alxiov. FICINUS
verba convertit: Huius caussa est, quia prisca hominum natura haec erat
inte- grique eramus. Eodem modo Sclileiermacherus : Hie v o n
ist sun dies die Ursache. Neque 12 * 193 dvfita xal tficog u
"Eqos ovofia. xal xqo tov, SgJtCQ liya, tv tjfLiv • wvi Swc rrjv
adixltxv diaxtofhjfuv ixb tov &eov, xa&aTtcQ 'AqxccSe $ vito
AaxEdcafiovUov. defuerunt , qui tovtov pro rot>- to in verborum
ordinem infer- rent. Si pro yap legeretur Si particula, ut in Piat.
Apol. Socr. p. 31. C„ ipsi tovtov scribendum censeremus: yap part.
genitivam pronominis non admit- tit. Referenda autem canssalis
particula est ad praecedens idjuv: Scimus ne unum quidem eorum, qui
haec audirent, ea recusaturos esse in caussa enim h/ic est,
quod natura nostra primitus talis erat integrique eramus.
"Epeo S ovopa. Erotis nomen maiore cum vi hoc loco
pronuntiandum est; igitur, quo validius emineat, articulo caret.
Exempla si quaeris nominum sine articulo positorum, vide annotat, p.
129. Fortasse etiam eadem de caussa in Piat. Gorg. p. 448. E.
lectio vulgata vera est, quam codd. lectioni posthabuerant in-
terpretes. ov yap azExpivd- prjv , ori sXrj xaXXidrij.
Codd* plerique articulum exhibent 7} xaXkidTT}. Ceterum hoc loco
interrogandi signum in punctum mutandum censemus, quod iro- nicae
dictioni convenit apprime. Polus enim hoc dicit; Videli- cet non
respondebam eam xa\ XidTJjv esse. — Quae sequuntur verba , xal Ttpo
tov ev qptv, meram repetitionem sen- tiae supra probatae continent,
ut uemo ea desideraret, si abessent. Hanc repetitionem
perspicuitatis caussa admisSam ne quis aegrius ferat , <2faep Xiyco
verba addita sunt, de quibus diximus in annot. p. 133. ad
verba 7/ re ovv laTpiHt), doSiup Xiyco, icada x. T. X. '
xa$ ait s p 'Apxa&eS vxo AaitsSa ipor Igov , Ad quam rem
Aristophanes Arcadum Lacedaemonumque laudato exemplo alluserit, notum est atque
ab in- terpretibus satis indicatum. Lau- dant Xenoph. Hell. V. 2.
7. ix 81 tovtov xa^xfpV^V J&v to teixoS , SiajxldSrf 8 "k
7} MavTi- veu TEtpaxv • Aristid, Orat. T. II. p. 287. ed. Iebb.
SiaoxidSTj- dav Si ye MamvEiS vno Aa- XESaipovicov rjSrj rijs
eipt/vjjS opoopodpivrjS, Alios Riickertus laudat ad h, 1. Adde
Wachs- muths HeUeniscbe Alterthnms- kunde I, 2. p. 420. : Vor
alleu war Mantinea eiutrachtig und kriiftig. Aber auch gegen
diese Stadt machte Sparta mit em- poreuder Ge wa 1 1 die
Sat/ung des Friedens geltend; sie wurde Olymp. 98. 3 , 386 v. Chr ,
in Ortschaften aufgelbst, aus denen sie vor etwa einem
Iahrhundert entstanden war. Constat autem, eo tempore, quo Mantinea
a Lacedaemoniis eversa est, plcrosque convivas symposii, quod et
ipsam celebratum est Olymp. XCVIII* 4. h. e. 386. a Chrt n. ,
iam fuisse morfruos, Anachronismum igitur h. 1. Platonem admisisse
interpretes annotant simulque Symposium post Olymp. XCVIII. 4.
conscriptum docent. Comparationem ipsam quod attinet, frustra tertium,
quod vo- tpojlo s ovv Iotlv, lav ftij xoOfiioi tj/isr xgdg rovg deoiig,
vTCag (irj xai av&ig xca xe- ql ifiev £’z°vzes wsxeq ot Iv tulg
etijla tg xctta yQcccprjV ca»t, comparationis quaesivi. Vel-
lem annotasset aliquis interpre- tum , quo iure hominum dissectionem cum
Mantineae eversione comparatam putet. Non dubitarem equidem, xc&aitep
ApxdSef vno AaxtSoupovicav insiticia putare, nisi praecederet
dtooxi - < iSijfisv verbum, quod aperte ad haec verba comparatum
est. Prae- tervidit hoc Cornarias, qui di£- 6xi6^Tffi£V scribendum
coniecit. Sed nec hoc nos prohibet , quominus certe depravationis
aliquid verbis, inesse censeamus ; vide Excors., ubi fusius de hoc
loco disputabimus. <poftoS ovv $6xiv, Vulgo ivetixiv
legitur, quod ne Graecum qoidem censuerim in huiusmodi enuntiatione.
Sequentibus verbis xo6f.no ? icpoS xovS SeovS ad primaevum hominum
genus respicitur, quod iu ipsos deos im- petum fecit. Ex quo genere
quoniam , qui nunc vivunt, homines orti sunt, cavendum est, ne forte
natura ad impietatem ducente illis similes sint, eandemque, quam illi,
corporis dissectionem experiantur» GjSnep ol iv rctiS 6x?j-
XcCtS — IxXEtVTtGDflk V O l. Annotat Stallbaumius ad h. 1. : Locus
videtur hoc modo expli- candus esse. Veteres -artifices vasa,
signa, alia, ita caelabant, ut ea ostenderent figuras extra
prominentes, interdum totas, in- terdum dimidiatas. Et hae qui- dem
vocabantur itpoSxvica, illae vero nepupavij et ixtpavij. v.
Salinas, ad Solin. p. 736. Quum igitur ixxvjc ovv omnino sit caelare
adeoque de figuris utriusque generis dici soleat, perspi- cuitatis caussa
additur xaxii ypa- cpjjv , picturae s. tabulae pictae modo, quo
additamen- to efficitur , ut cogitandum sit necessario de
xpoSxvicoiSs. crustis.Hanc verborum xaxu ypaqnjv
explicationem fateor mihi noli placere, neque omnino video ,
quomodo clariua fiat illis verbis additis , de c rastis sermouem esse.
Schleiermacherus verba xaxd ypcupffV plane non expressit: Dass wir
nicht noch cinmal zer- spaltet werden und so herurngehen miissen,
wio die auf den Grabsteineu ausgeschnittenen,die m i t ten
durch die Nase ge- spalten sind. Atque fortasse interpres
doctissimus de figuris cogitavit ab impia incultae ple- beculae
manu violatis. Quis enim alias unquam de dissectis figurarum naribus
in veterum monumentis quicquam audivit ? # Al- tera explicatio est, qua
dicuntur homines in monumentis non a facie tota, sed a parte faciei
al- tera efiormati esse atque ideo dissecti vocari. Si hoc
modo rem animo suo informarunt VV» DD. : potuisse cuiquam huiusmodi
artificia intuenti dissectionis cogitationem in mentem venire, constanter
negamus. Quid enim? Rem quamque ut in ope- ribus caelatis,
picturis, aliis, ita in rerum natura ex altera
tan- Ixrervmofilvoi, SunXE7CQi6fiivoi xuru rus &vag, yeyo-
votss SsitEQ Xlanui. akku rovrav svtxa nuirc’ uvSgu tummodo parto
conspicimus, totam uno obtutu non comprehendimus. Nara cuiquam in mentem venit
de dimidiatis vel monte, vel domo, vel alia quavis re cogitare? Ut in
rerum natura al- teram tantummodo rei cuiusvis partem conspicimus,
alteram supplemus meute , ita etiam in ar- tis operibus ex altera parte
ef- fictis , quae uon videmus , mente supplere solemus. Alia
verbo- rum explicatione opus est, atque, si quid video, litterulae
unios mutatione. Vulgo legitur xccxa- ypciupijv , quod primus
Ruhnke- nius vidit in annot. ad Timaei L. V. Pl. p. 175. in xaxa
ypa.~ (pyjv mutandum esse. Ortum nobis illud est ex xocxctjfyatpiiv,
scri- psit autem Plato xccxa fiatprjv . Haec scriptara quam bene
conveniat Aristophanis sententiae, iam vide. 2x7/\7j est Suida
teste lapis in altum erectas, figura quadrata, idemque figuris
haud raro exornatns. K Pa(pr\ compages est laterum duorum , angulum
efficientium. Iam patere opinor, figuras in statuis quadratis xaxa
fitCL<pvv IxxEXvnwpiva^ non aliter intelligi posse, quam in ipsa
duorum luterum compa- gine positae. Eo loco dissectione figurae
opus erat, ut altera eius pars iu altero, altera in altero latere
poneretur. Uckermanni, viri humanissimi industria fa- ctum est, ut
quadri effigies tabulae lapideae incisa apponi posset, qua clarius redderetur
lectoribus, quid Aristophaues verbis xaxa jbcupijv adhibiti*
intelligi voluerit. XQrj taucvtu xagaxtievsa&ai tvatfitlv xegi
btovg, iva B rct itiv ixqwyea(iev, rmv di rt faca/uv, tov 6 "Eqcos
qfiiv Habes duornm virorum segmenta duo, quorum alterae partes non
conspiciuntur quippe positae in statuae lateribus, quae cum hoc latere
cohaerent, sed ab hac parte statuae non comparent* Vide autem, quam
bene haec segmenta conveniant cum verbis supra lectis p. 190. D.
idv 6 * Mxi 8 o?tGo(5 iv doEXyctivtiv — ndXtv av x ejxai dixct ,
gqSx' i<p hvoS no pevtiovr at 6xi\o vS ddKGoXidZovT
eS. Adde dissectarum narium narrationem, quam optime repraesentatam habes
jiorum segmentorum effigie; Ne autem de veritate figurarum xaxa fiatpi/v
effictarum dubites, ipsi veterum monumenta sepulcralia vidimus, in
quibus huiusmodi dissectiones admissae erant. Eas admisisse
videntur artifices ea de caussa, ut fabulae, quam figuris describerent,
continuitatem, continuo figurarum ordine certius assequerentur. Quod autem
artifices plastici sibi licere arbitrati sunt, figuras ut
dissecarent, idem haud raro poetae in versuum finibus imitati sunt»
Nullus enim dubito, quin verba , quae et ipsa sunt figurae
artificiosae et quasi imagines rerum, in versuum finibus recte dissecari
possint. 8ianen pi6 fiivot xaxd tds fitvetS. Ne qnem offen- dat hoc
loco 8iaKE7Epi6fxivot verbum, depromptum est e comparatione sequente
dfertep A Idnai, Tali enim serra dissecari solebant. Prorsus eodem
modo p. 193. A. de hominum dissectione dicitur dtuJxltfStfftfv ,
quo' loco CSrjfLEY Cornarium frustra coniccisse supra monuimus.
Aitiltott autem vocem Schol. ad b. 1. explicat : al A eiat xai
bctsxpt/i- - pivai xai dnvyot A lar, xai ol diaizEnpuSfdvoi
d6xpdyaXoi . ol te *A5i/vaioi Xitinoi xaXovrrat Teo £JC Ttjs iv TGJ
XGOXTjXctTElY - dwEXovS iepidpaS avzovS aito - yXovxovS elvat,
Stallbaumios ad li, 1. oi 8ian£npi6fUvot, in- quit, aCxpdyaXoi quid
sibi velit, inlelligitur e Scholiis Euripideis ad Medeam v, 610.: ol t
imB,EYOVfiEYoi xi6tv , adxpaya- A ov xaxocxipvovxES , SaxepoY jur
ocvroi xocxeixov pipoS, $a- TEpor 8h TCaXtXipTtOCVOY TOlS
vno&E%apkvoiZ, Iva , si 8ioi na- Xiv avrovS jj T ovS IxeIyqoy
.irtiZtruvuSai npds dXXtf\ovj> 9 inayofuvoi to fjju6v adxpaya- X
tov, dvaviolvxo Ttjv Zeviav. EvflovXoS &ov$oir x i not idxiv
azavxa 8iartEitpi<Sptva 7}pi6EQoS , dypifio jS nep ete xa
CvpfioXa. ovxooS 'EXX d8ioS. Non dubium quidem est, quin Aristophanes ad
hospitalitatis tes- seras respexerit, quae A i(5nai vocabautur, verum, ni
fallor, ea- dem tessera etiam modus disse- ctionis indicatur. Tali
enim non in medio dissecari solere con- sentaneum est, sed ab imo
an- gulo - ad alteram versus. [ cjy o"EpcoS 7 } fity
ifye- ft oo y , Vulgo legitur oaS pro tiov, quod in ordiuem
verborum recipiendum esse primus vidit H. Stephanus. Eum secuti
sunt Bekherus, Stallbaumius, alii. Riik- kertus ooS reposuit motus
codicum auctoritate, qnortun exiguus numerus oov exhibeat. Sed no-
ijyEfiwv vml aTQttvriyos- « ftijfielg Ivuvrta jtQcmtra' jtQccttu 6 ’
Ivavtia, ogTis &tolg rpUtu yaQ yEvofiivoi xcu SiaXXayivtEs zcy
&tta igtVQyGo^iEV ' «• lait dicere Aristophanes,
facien- dum esse, ut eo modo, quem Eros indigitet, pristinae
integri- tatis participes fieri studeamus ; (alio enim modo eam
nemo assequi potest); sed ut eorum compotes fieri studeamus, ad quae Eros
ducat. Necessario autem b)V ponendum est etiam ideo, quod x&v
8i t cum ra pkv satis explicetur praecedentibus, non eatis
explicatum est atque defi- nitum. Ceterum TjyEjuoov xal GxpaxyyoS
abundanter dictum est ornatus gratia, quod moneo, ne quis forte
maiorem ipsis vim tribuat, quam qua Aristophanes eadem exhibere
Voluit, /iTjSelf ivCLVtlct ItpCLX* texo). Haec verba prorsus
ea- dem gravitate dicta sunt atque verba p, 189. D,; iyoa ovv
Ttti- padouai vffiv ElSyyydocdSai xyv dvvapiv avxov y vjaeiS
8h - x eo v a A Xayv 6 1 5 d d xaXo i %ded$£. Vide anuot. p,
153. iZevpy dopkv xe xa\ Ivxev&,6jme% a, Latinis
non licet diversae etrnetarae verba ita coniungere, ut sequentis
nomi- nis terminatio tantummodo accommodetur ad unius verbi
naturam. Neque Graece licet, accurate si rem spectas, huiusmodi
structuras verborum adhibere. Nam nostro loco re xad particularum
ea vis est atque potestas, ut prio- ris verbi finiti pondus
imminuant, posterioris adaugeant, quasi si dixisset Aristophanes
IB,ev- p y d oyxeS ivx£vB,6 p.£% a.. Haud raro etiam nominibus,
quae a verbis diversae structurae derivantur, conjungendis, re xa\
particulae solent apponi, v, c. p. 147. E. icapadxaxyS xe xal
doozyp' In nominibus quidem harum particularum non constans usus ,
ac facile quidem iisdem, ubi non comparent, caremus, nul- lum autem
apud veteres scripto- res locum repereris, ubi verba diversae
structurae adiuuctoque aliquo nomine per simplex noci coniuncta
sint. XolS y jaex e p oiS avz&Yt Ingeniosa quidem est,
sed mi- nime probauda Bastii coniectura : xoiS yfiitojioiS avz65r .
Exem- pla non rara sunt, quae avxoS pronomen cum possessivo
pronomine coniunctum exhibeant. Idem usus iam apud Homerum
obvaluit, v. c. Odyss.1. v. 7. avxoov yap dq>£xkpydiv axa-
CSaXiydiY oAovro* Alia exempla Motth. congessit in Gramm. plen. §,
466. Verba no- stra convertenda sunt: unsern eigensten
Lieblingen. o XG)V vvy oXiyoi noi - OvdiY h. e. quod eorum,
qui nunc vivunt, faciunt pauci. IToieiy interdum, ut
Latinorum facere , non actionem describit, sed vitae conditionem,
quare recte Schleiermacherus verba convertit : Was ietzt nur w c -
nigen begegnet. Invaluit hic 7COIEIV verbi usus ideo,
quod vitae conditio talis plerumque esse solet , quales fuerunt
actio- nes praecedentes. ib xal ivttv£6(iB&a rolg xca8t,xo Tg
toig ^fwtlpotg av- rav, S rav vvv 6Uyoi noiovoi, xt£ (ir/ (ioi vno-
i.d(ig ’Eqv^ax og xoficoScov tov koyov, cog IlavGavluv xal jirj
pol vitoXa ftp . Haec est Bodleiani aliorumque nonnullorum lectio,
quam receperunt Bekkerus Slallbuumius, alii. Vulgo legitur xal Jiu} / iov
vito - \ctfiy, quod unice probans Riik- kertus : Reposuerunt ,
inquit, dativum casum recentiores editores omnes , Cuius rei necessita-
tem ego nullam me confiteor videre . Est enim hyperbaton pov ad roV
Xoyov referendum , sicut haud raro Graeci prono- minis casum
obliquum in prin- cipio ponunt sententiae ita t ut 9 regens
vocabulum in fine demum sequatur. Speciosa hac annotatione cave seduci te
patiaris. Non negamus quidem, pronomina alius- que generis verba
interpositis quibusdam voculis ab iis verbis saepissime seiungi, ad quae
proprie pertineant, tenendum autem est, huiustnodi verborum
disiunctio- nem non admitti a scriptoribus, nisi ita, ut vi quadam
augeatur vel prbnomen vel aliud quivis verbum a verbis suis
disiunctum. Igitur nostro loco si scribitur 7 ta\ prj fiov vnoXafty
9 EpvB,i- jtaxoS xcopipScov tov Xoy ov , sententia existit naec ;
Ac ne meam suspicetur Eryximachus orationem ridens, me
Pausaniam et Agathonern tangere ; sed hoc neque potuit neque voluit
Aristophanes dicere. .Unice verus dativus casus est, quem ethicum
grammatici vocant; explicatur is commodissime hac I Ne mihi accidat
1 ximaclius orationem meam ridens suspicetur, me Pausanian!
atqae conversione^ )c, s ut Ery- Agathonem hic
tangere. Exem- pla dativi ethici Matth. congessit Gramm. pleu. $.
389. p. 713. XG>p.u)Sd)V tov Xoyov. Stull- baumius ad
Piat. Apol, Socr. p. 31. D.: oxi pot Selov r i xal Saupdvtov
yiyvtrctif o hi) xal iv ry ypoupy iitixcopcodcov Mf- \?}ToS
dypaxfwtTO , Fischeri an- notationem laudat hanc, ed. p. 61»:
ln:iHU>pcjdu.v est ridere, notare, nt HopooSeiv et 6ia-
xcoftcaSelv idem valent, quod dux- ' dvp&0r, dUCOTtTElY , X^ £v<
x% aiy » v. Poll> IX. 148. Caussa est, quia in comoedia vetere
vitia hominum describebantur et ho- mines quasi notabantur. Quid
igitur de Aristophanico Socrate iudicabis in Nubibus? Num ibi vitia
hominis sanctissimi notan- tur? Non credo, neque milii sa- tisfacit
Fischeriana xcopooSetY verbi explicatio. KopcpdEtv non eius solum
est, qui vitia notat, sed etiam, qui res serias in ridiculam partem '
interpretatur. Quo consilio ct modo id Aristophanes in Nubibus fecerit,
alio loco explicabimus. Nostro autem loco, quoniam Eryximachus
medicus censorem se fore minitatus erat orationis p. 189. B. ,
Aristophanes vereri se simulat, ne forte ea , quae hucusque dicta
essent, in ridiculam partem in- terpretaretur atque in Pausaniam
Agatlionemque orationem directam explicaret. Ida $ plv yap —
apjtB- veS. Quod fortasse dicantor bonoram illorum b* e. pri- y.ctl
Ayafrava llya ' Xaog ' [ikv , yctg xal ovzot rovzav Cxvy%uvov6cv ovzeg
xal tlalv dficpuzEgoi rrjv cpvSiv ct$- $ivtq , Ityu 8e ovv iycoyE
xe.&' citavrav xal dvSgiov xal yvvaixav, uzi ovzag civ fjtiwv zo
yevog tvdcdfiov yivoizo, ii ixztltGaitxiv zov Igaza xal zcov naiScxav
zcov auzov exaOzog xv%oi elg zrjv ag%aiav dxEi&ov cpvGiv. ii 81
iovzo agiGxov, avctyxa tov xal zcov vvv nagovzav zo rovzov lyyvzdzco
dgiGzov ilvai. zovzo 8 ’ iGzl mu8i- xcov zvyeiv xazci vovv avza
xscpvxoxcov. ov 8t) tov ac- U zcov &eov vfivovvzig Scxaiag dv
vfivoifisv "Egcoza , og ev te tcp xagdvzt y[idg xteiGza ovlvyGcv elg
zo oIxelov stinae felicitatis integritatisque participes cssc, id
satis spinosum Fortasse alterius figura altero procerior erat, ut ne
cogitari quidem potuisset, alterum alte- rius partem esse. De
altera parte huius enuntiati xai eldiv d/upu- TSfJOL Ti)v cpvfSiv
afifieveS vario modo interpretes iudicarnnt. Ba- stius pro dppeve G
scribendum coniecit dfjpevoG , Orellius ad Isocr, p, 330. loco
mederi cen» suit scriptura afifitvoS kvo G, Stalihaumius ad h. 1.
appevtG idem esse censet atque dfifievoS bvuS. Videtur appeveG
cum emphasi positum esse, ut supra p. 192, A. dvdpeG nomen,
Moi- titiein autem utriusque poetae notat .Aristophanes, atque
ad porum nomina respicit, ut, cum Fausaniam et Agathoncm summorum
bonorum compotes atque revera viriles dicat, 3 laixSapivovG rcov
dyaSav in- telligi velit, h. e. homines parum virilitate gaudentes,
sed elumbes, «nominatos, enervatos. Probatur haec nostra verborum
explicatio verbis sequeutibus : ei txrekidai- /tev tov £ parta.
Tetigimus hunc locum in Gemment, de Sympos. Platonis. rcov vvv
7t apo vrcov. Td vvv napovra sunt, quae in prae- senti nostra conditione
fieri pos- sunt, nostraque sunt in potestate. Quum enim illud assequi
non possimus, ut plaue coalescat na- tura nostra, cum altera
nostri parte, sicut omnino in rebus Jiumauis, ita bac quoque iu re optimum
illud est habendum, quod ad idealcm illum, in quo olim fuimus,
statum quam proxime ac- cedat. Riiclcer.t* naxa vovv avt gj.
Iu per- multis codicibus pro avrcp legi- tur avtGJf quae lectio ab
iis re- perta est, qui frustra quaererent, ad quod avr<o
referrent. Sub- tectum cum alias haud raro oroit-- titur, tum boc
loco omissum fa- cillime feras, quod praecedit : xal rcov
7caidixoov r gov avrov 2xa6r oG rvx°i A. Cete- rum xara vovv avrco
it. appri- me respondet nostratium; seiuem Gesclimack entsprechend,
9 eli ro olxeiov &yoov . Do thyeiv verbi usu absoluto
su- ctymv, xal ilg *<> bttvta etotftag /icylazag ituQtytxai,
Tjuiov nttQixofdvcov XQog 8tov g tvtskfiticcv , xazccdzi/aag ffflag tlg
zt/v doyalav q>vGt,v xal luadfievo g f taxuQwvg xai evSalfiovag
xoiijeau Cap. XVII. Ovtog, ?yt/, ta ’Egvl!na%E, 6 iftog Xbyog
i<su xbqi Effatos , tMolog »; o Oog, xaficpdr/dyg avzbv ,
Tva xal exaozog (qu, (uxkXov 5e r l ZaxQa rtjg XolxoI.
pra diximus annot. p. 22. Quid significet x 6 obedor , frustra
io Ficiui conversione quaeras: dum in suum igniculum quemque conducit.
Recte Schleiermacheras verba convertit: indem er uns zu dem
verwandten hinfuhrt. Ne qais autem scribendum censeat eis Xov
olxtiov, quo significen- tur 7tai8ixd xara rovv izetpv- : xota : AMANTgenus
neutrum seri- 1 ptores adhibere in sententiis» quae in universam
proferantur. l\7ti8aS jieyltiraS Ttap- iXBtai — xax a6xr\ daS
— rtoiij 6 ctl. Participium xaxa - 0xr^6aS post iXxiSaS p.
7tapi- Xtxai ponitor, quia/AjrfdaS’ izap- &X& eiusdem fere
significatus est atque dtixvvpi , SrjXoGD , quae verba participium
adsciscunt. Vide de hac verborum structura Mattii. Gramm. plen.
549* 6. p. 1077. De 7C0iij<Scti aori- sti infinitivo vide
Heindorfium nd Piat. Phaed. p. 48. , Stall- baumium ad Piat. Phileb.
p. 204« Ceterum eodem verbo Aristopha- nes usus est in couditionali
enun- tiato xapexexcu , ypcov «rap- wgjciQ ovv ISeifotjv
Gov, /ii/ zav Xoixaiv dxov6<o/uv zl lxdzsQ 0 $ • ’Aya%av yccQ
xal E exo/tivar nt efficacior ev«- derct via conditionis.
ovtoS , ttprj, c v ’Epv£i- M a X e i d d/jo s XdyoSx. r.X.
Respicit Aristophanes ad verba p. 189. C. xal fti/r, <« ’Epv£l-
fiaxe — &XXr) y£ it; £r va> Xiysiv i) y 6v te xal Tlav-
OaviaS ilntnjv. — OvtoS hic SsixttxiuS positam est. at verba
convertenda sint: Ecce talis est oratio mea. cfr. Mattii. Gramm.
plen, p. 471. 12. p. 875. 'O ifioi autem cnra vi pro- nuntiandam
est. significat enim : oratio, quam habere de- bni.
firj xa> fiu>8r/<Sij S uvtdv. vide annotat, p. 185-
"ClSxep — £8e7/$z/v uov verba spectant ad p, . 189. B. aXXa
fu/ fis tpvXazts, tds iycv ipofjoviiai iccpl xoov. fieXXdvtwv
fyi/ST/iSsd^ai x. t. X, et p. 19S. B. xai ftij fioi vito- Xcifl’,1
’Epv£ifiaxoS xcofttaStiv roV Xoyov, tvS llaviaviav xal 'jiyaScova
Xsyu. De verborum fidXXov 8s significatu vide an- uot. p. 15.
Alia neldoftal 601, l'<pij tpavai rov ’Eqv%1(iccxov' nui j mq uoi 6
loyo s Jjdl ag 9 '?#'?• xal el fir) gwjj- Seiv Zmjxqutu te xal
Aya&ave Seivoig ovdi negl ta egcotixa, na w av icpoftovfiijv , [i/tj
anogydadi loyav Sia xa\ yap poi 6 \6yoS yj 8 i gdC i fi
fi7j,$7j. Spectant haec verba ad p. 189. C. idcoS p&vTOt dv
8oB>xf yoi, a<p?}da> de. Eryximachus igitur vel ipsa Aristo-
phanis oratione pacatus vel motus verbis Iva xal tgov Xoindov
thiOvdoDjxEv , nolle se iam pro- mittit iuiuriam sibi illatam p.
189. C. ulscisci. ’Efifij/$?j scri- pturam quod attinet, vulgo
ififii- $7} legitur, quam formam Butt- roannns in Gramm. plen. p,
121. iis scriptoribus tribuendam cen- set, qui non sint attici.
Anno- tat enim: Aus den Werken alte- rer Sr.hriftsteller ist diese
Form durch die Autoritiit der Hand- schrifteu ietzt vielfaltig
entfernt. vide Lob. ad Phryn. p. 447. Bekk, ad Aesch. 2. 34,
124. ISicht selten steht sie aber auch grade in den bessern
Ilaud- schriften. ei pn} %vvy 8 etv Sei - voiS
ovdiv . Rariore usu dvv- eLSevai rivi ri ponitur hic pro uliquid de
aliquo scire» Isocr. Archidam. p. 229. dvvei- Sozef *A$rjvaioiS
IxXiicovdi rrjv %cdpav vitkp x t}$ ru )v uXX.gov — i\ev$epiaS. Id.
Arcopagit. p. 257* dvvoiSa re r otS xXeltixoiS avrvv ?padra x a ^P
ox) 8iv. Piat. Phaedon, p. 92. D. lyuid^roiS — Xoyoifv B,vvoi8a
ovdiv a\a?,d- Civ. Stallb. Alia huius stru-* cturae exempla Matth.
laudat in Gramm. plen. 548. 2. p. 1075., quibus adde, quem
Riickertus lo- cum laudat Piat. Protag, p. $48. B. aXX*
rftoi SiaAeyedSco rj ehcerao, ori ovx iStlei 8 1 aXi- yedSai , iva
r ovraj ptv rocvta dvveiSdopev, prj a.7t o p ?/ d co 6 1 .
Coniun- ctivi modi post praeteritum po- siti exemplum habes p. 174.
A. fio. ravra 8rj ixaXXGoniddfxyv, fva — i'co , ad quae verba
vide unnot. p. 16. Nostro loco ar- tificio quodam dicendi et
non timere se significat Eryximachus, ne non habeant, quippe
maxime erotici, Socrates et Agatho, quod dicant , et rursus timere
propter ingentem praecedentium senten- tiarum a convivis prolatarum
co- piam , ne oratione sua uterque et philosophus et poeta
indigeat, Possis haec verba etiam hoc mo- do interpretari: nitvv av
£<po~ fiovprjv (aXX* ov cpofiovpai vv- vl f pi) dicoprfOGo6i, ut
magis ad sententiae efficaciam dicatur scri- ptor orationem
direxisse, quam ad verborum grammaticam con- formationem. Eam
explicationem verba, quae insequuntur, probare videntur vvv 8 ’
op&S Safipai, Sed non dubito equidem , quin liaec verba etiam
cum priori stru- turae explicatione conciliari pos- sint.
naXcdS yap avroS yy co- ndar, Schleiermacherus verba convertit
: l)u hast eben deine Sache gut bestanden. Schult- liessius: da hast
deine Rolle gliick licii nusgespielt. Ruk- kertus jtaXaS riihmlich
con- vertendum censet. Ficiuus in zo itoU.cc xal jtavtodana dQijo&ai'
vvv df ofiag ^aggco. Tov ovv ZaxQurr] tlxuv, Kalag yccQ avtbs
TjycovL- Octt , a ’EQvi-![itt%s. d 6s ytvoio ov vvv lyco dui, fial-
lov ds lOtog ov t do ficu, hcudav xal 'Aya&av drtij, iv conversione
exhibet: strenne et ipse certasti. Aliud quid So- crates xa\ds
verbo adhibi- to videtur exprimere voluisse, quod quid sit, e
praecedentibus et insequentibus facillime colli- gitur. In
praecedentibus enim Eryximachus vereri se dixerat summopere, ne non
habeant Socrates et Agatho, quod pro- ferant, quoniam a plerisque
iam multis modis de Erote dictum esset, non vereri se dixerat, ne
non bene uterque locuturus sit. In sequentibus Socrates non
dubium est, quin verbis ov vvv lyd elfiiiy ftaXXov 5k IdcjS ov
Ido- jicti x, x. A. ordiuem sedentium significaverit, quo factum
sit, nt sibi de Erote dicturo nihil, quod proferret, relictum sit.
Sequitur inde, Socratem Eryximacho non dixisse: bene enim ipse
di- xisti. Hinc verba ita dispo- nenda esse censebam : xaXds yap
t (sc. SafifSEi?) avxoS ijydvidai, G) EpvB,lfiax& h. e. Du
kannst ganz guten Muthes seiu: deine Rede ist vorviber. Sed
scripsisset, si hoc voluisset exprimere. Flato: xaXds ydp , cj
’EpvB>t- /iaxe‘ avxoS tjyojvidai. Igitur nunc xaXaS de tempore
acci- piendum esse autumo, ut idem haec vox significet atque slS
xa- X6v y de quo diximus annotat, p. 24. Socrates hoc dicit: Du
hast gut von Muth reden, (vide de supplenda enuntiatione qua-
dam ante ydp particulam quae annotata sunt p. 14.) zu guter Zeit
hast du deine Rede gehalten, warest du aher wo ich ietzt bin
oder vielmehr wo ich nach Agathons Rede sein werde cet. Ceterum iam
supra sedis inopportunitatem notatam habes a Socrate p. 177. E.
xal r ot ovx Zdov ylyvExai i)filv xo'iS vdxdxoiS xaxaxuf.ii.voiS
• «AA* idv ol xpodSev ixavcoS xal xaXcoS tincodiv . , lUapxi-
Gei 1/f.ilv. Ceterum patet, Socratem Eryximachi verba aliter interpretari, quum
medicus ea intelligi voluit. Dicturus enim erat: nunc non metuo, ne non
habeaut Socrates et Agatho , quod pro- ferant. Socrates contra ita
re- spondit, qua^i ille dixis,set: Nunc mihi securo esse licet, ne,
quod proferam, nOn habeam. Sed so- lent, qui cum acerbitate
loquuntur, interdum non ad sententias re- spicere, sed singula
verba captare iisque ad suam sententiam coutorsis responsa
accommodare. el ykvoio , ov vvv lydi e i fit . Eandem fere
sen- tentiam hoc modo expressit Terentius in Andr. Act. II. S. 1.
9. Facile omnes cum valemus recta consilia aegrotis damas» Tu si
hic sis, aliter cen- seas. De insequentibus verbis xal Iv icavxl e1lr)S
vide an- notat. p. 62. Recte ea Stullbau- mius interpretatur: in
summa consilii inopia, in summo timore versari. Deinde ev xal
fidXa rarior dicendi formu- la est, pro consuetiore ev fidXa .
Addiderant interdum veteres seri- xal fiaJ.’ av cpofioZo, y.al Iv mxvrt
tcqs, Sgmg lyco vvv. (PagfictTTHV fiovAei fis, co Ikoxgcatg, tlntiv rov
’Aya- ftava, iva Qtogvjiri&m dtcc ro ohti&ca r 6 ftiargov ngogSo-
xi av neyukr t v i%uv , tog sv igovvrog luov, 'EniXtfiimv fdvt’ av
tl'tjv, w ’Aya%uv, tlntiv r bv Zwxgdry, d id uv ptorcs Taxi particulam,
qua significarent, cum vi maiore et ev et puXct pronuntiandum esse.
Non mate Riickertos ad h. 1, Ttai addito effici censet, ut
eadem fere cogitatio bis ad animum af- feratur. Huic dicendi generi
apprime respondet nostratium gat und g e r r» , quibus verbis utun-
tur, qui animi sui sedulitatem ostensuri sunt. cpappatteiv fi
ovX st jus. tpappaxrEiv fascinare significat herbarum adhibito
succo, deiude etiam de aliis remediis valet, in- primis autem de
magniloquen- tia, qua aliquis ita sui impos reddi posse credebatur,
ut nihil eorum, quae vellet, neque facere posset nec dicere. Sic in
Piat. Phaedon, p. 95. B. legitur: IA ’ya$l t Utpi/ 6 2?cjHpdxr/S^,
pi/ piya A iye, p)} xt? Tjp&v fia- < ixaviot 7tfpiTpeip?j
rov Xdyov xov plXXovxa XiysdSai. Cete- rum nihil aliud voluit
Socrates laudato Agatliouis nomine efficere, quam ut accuratius
locus definiretur, quo sibi esset dicendum. Poterat enim iud«
loquendi difficultas expendi. Igitur notabis, quain manifesto Plato
hic carpit, vanitatem Agathonis verba Socratica in suam virtutem
dicoudique artem directu censentis. ro Siarpov — ev £
puvvroS ipov. ro rpov h. 1. de convivis intelligendum est. Eius vocabuli
insolentiam ne mireris, adhibitum est t Platone, recte monente Wolfio
? ad h. 1. , ut sceuicum poetam hic loqni lectores ^oneantur.
De gdS cum genitivo participii con- iuncto vide anuot. p. 158.
EiiiXi) 6 pcav pkvx* av siijv. Recte monet Riickertus ad. h,
1., pivTift interdum nnd adversandi , sed asseverandi po- testate
adhiberi. Eandem signi- ficationem xai xoi habet, quod disiunctim
scribendum esse supra monuimus p. 51. Fortasse etiam pivxoi, ubi
asseverandi vi posi- tum est, scribendum est piv xoi t neque
dubito, quin Graeci, quos studiosissimos fuisse constat ver- borum
recte pronuntiandorum, pronuntiando discreverint •ptvx dv et piv r*
av. 'EitiXijtipeov verbum quod attinet, senum de- crepitorum
constans epitheton est, »ut et oblivionis atque ridi- culae
stultitiae significationem habeat» Schleiermacherus in con-
versione exhibet: Sehr vergess- lich miisste ich dann sein. Eo- dem
modo Ficinus verba reddi- dit: Nimis, o Agatlion , oblivio- sus
essem. Neutra nobis ItxiXij- tipGDV . ^ocis explicatio arridet,
seque tamen facile verbum re- pertum iri concedimus, quod ilii
vocabnlo satis respondeat. T7/v 6i) v dv $ p tiav — dv a
fiaiv ov x o S n. x. A. Laudat hunc locum Mutth. in Gramm. ampl. J.
466. 1. p. 864., t))v cijv uvSqsmv mu nsyaXoqiQoavvrjv avctfialv ovtos hd
11 tbv vxQifitxvta (liza tcSv vitoxQLuav i tal (tttipavrog ivcivcla
toSovtu (liXXovzog esudEi^ttj&ai Cav- um kuyovg, xul ovd’
bnagnovv IxTcXaytvzog , vvv o lr r Stlrjv oe %oQv(irj9>;OtG&ao
evExa i/fubv, oXiyav uvftQcaxwv. ub i complura Innas structurae ex-
empla congesta sunt. e. c. Arist. Ach.93. ixuoipeii ye xopaB,
itaza- ZaS tov yt 6 ov (ocpSaXpov') tov n p i 6 (i e cjS . Ceterum
du- bitari nequit, quin Socrates Aga- tlionis virtutem
animositatemque praedicet ironia consueta usus; pauli o infra enim
ipsum pugnare secum ostendit, ut, ni Phaedrus eius pudori
succurrisset, hominem misere turbatum eiusque animum elatiorem
prostratum humi cerneres. Hoc ironiae artificium, quo eximia laudatio
acerrimae notae praemittitur, videlicet ut elatiores cadant
miserius, ex epi- corum arte depromptum est, qui heroum solent,
quorum caedes narranda est, ipsi huic narrationi summam laudationem
virtutis, ma- gnanimitatis , pulcritudiuis prae- mittere.
x iitt tov oxpift Civ x a . Schol. ad h. 1. oxpifiavxa , in-/
quit, r 6 Xoytiov , i<p ov ol xpaycoSol jjyoovi^ovxo’ tivt ? Se
xiXXifiavxa tpidxeXrj (padiv, i<p’ ov iCtavxai ol vxoxpixal xai
xa ix peteojpov Xeyovdiv. Adde Fhotii verba : oxpifiaS ’ to X
oytiov , i<p’ cj ol xpaya)8ol tfy<k)vi£ovto. xcti nXdteov 6
tpiXo6o<poS Svpitodioo x£XPV rca T ai ovopaxi. Timaeus haec ha-
bet : oxpipaS' nijypa to lv xa 5 $e axpeo TiSipevov , iq> 9 ov
idxavto ol xa Sr/podia Ac- yovteS * SvpiXy yap ovSinos tjv.
Hesychios exhibet; fi&Xtwv tpavat to Xoytiov , £<p*
ov i&xavxo ol tpaycpSol i/ ol, vno- xpixoLl ix pexeoSpov
xal iXe- yov. fiXirJ; avxoS ivavxia to - 6ovtcj $ e at
pco . 9 EvavtUt > fiXiittiv de bellatoribus dicitur, qui intrepidi
hostem adventantem intuentur. Pro TOdovTCJ Searptpy quae plurimorum
opti- morumque codicum lectio est, vulgo rodovxov Scarpov
lege- batur, id quod in hac loquendi formula usitatum fuisse
Stall- baumius rectissime negat. Iu sequentibus davxov A oyovS
ne quis articulum desideret, quem, si in codicibus exstaret ,
nemo non probaret: Socrates hoc dicturas est: iudem du im Bpgriif
standest, eigene Compositioueu bekaunt zu macheu. T L Sal. Codicum
baud exi- guus numerus ti Se exhibet. Multis in locis, nbi xt Sai
scri- ptum reperitur, de lectionis ,ve- ritate dubitari potest.
Nostro loco nihil certius est, quam tl Sai bene se habere.
Miratur enim, Riickertus inquit, quem consentire nobiscum gaudemus,
Agatho Socratis orationem, qui multitudinis se nimio studio te-
neri insimulet; verissimum au- tem illud est, quod Stallbaumius ad
Fhilebum p. 6. notavit, xi Sai locum habere, ubi admiratio quaedam esset
exprimenda. Quoniam autem admiratio ulicu- Ti dal, to ZdxQccTBS, tov 'Aya&avcc
<puvca, ov tfij itov fit ovra StaTQOv (itOtbv fjyu, dgts xa\ ayvotlv,
oti vovv i'%ovu oXlyoi %nq>QOVES xolXdv dipQovuv (poftlQUtcgoi'
C Ov fiivT av xa/.dg itoioltjv, tpdvai tov ZaxQdrrj , ol ’Ayudav , xbqI
Oov ti iyd aygoixov do^utuv. ciV.’ tv olScc , uti, ti tiOiv Iv xv%oig,
ovg yy oio Cotp ovg, (idXXov ins re! hand raro cum quadam
indignatione coniuncta est, quae e rei alicuius insolentia , quam
dtoniav vocant Graeci, enasci- tur, zl 8aL plerumque ita exhi-
betur, ut rem aliquam veram esse neget is, qui illis voculis
utatur. Exemplo est Piat. Gorg. p. 461. B. zi Sal, 2 cox p dzrj S ;
ovzoo xcti dv xepl zij ? pijtopixfjs 8o- B,a?>EiS,
&S7tEp vvv XtytiS ; ov 8 y 7COV/.IEOVTG3 seqq. Haec est
codicum lectio, quam Themistius confirmare videtur Orat. XXXVI. p.
Sil- B. , qui nostra verba imitatus est: ov 8r} Ttov pe za
Siazpa ovzooS dyandv i/ysid^E, qjSze ayvotlv, ozi oXlyoi lyuppovES
noXXcov aqjpuvcjv rc5 A kyovzi cpofjtpcJ- TEpot . H. Stephanus
scribendum coniecit dv 8? ) itov jxe x. r. A., quam scripturam
verissimam c«nserem, si iu sequeutibus scriptum exstaret: ozi vovv
^xovxi oAiyoi itoXX&v (popepootEpoi. Hidiculum enim foret, si
Agatho quaereret de re, quae Socratico dicto pro certa iam posita
esset. Dixerat nimirum Socrates, fieri noa posse, ut Agatho
paucorum homiuum praesentiam extimesceret, cum coram ingenti multitudine
animatum se ostenderit at- que intrepidum. Ad quae verba pessime
responderetur ab Aga- thone: Profecto non ita me spe- ctatornm
applausu elatum indi- cabis, ut qui nesciam, prudenti
paucorum hominum, quam mul- titudinis iudicia timenda esse magis.
Additis autem verbi* ipqypovE? et cttppov av nihil certius est,
quam Platonem ov Srj itov pE scripsisse. De 5 ? / 7tov verborum
siguificatu vide annot. p. 98. Verba convertenda sunt: Da wirst
micli doch olTeubac vvohl nicht so vom Lobe der Zuscliauer
eingenommen halten, dass ich nicht wusste-, dass das Urtheil weniger
Besonneuer weit melir zu furchten ist, ais der Uuverstnnd der
Mengef iCEp\ dov ti iyco. Nota vim pronominum 1 , quorum
ordine hoc exprimitur} de te, viro tanto tamque insigni ego, homo
vilis. Ceterum Ruckertum audi, annotantem ad h* 1. : aypoi - xov.
fcSic dedi cum edd. rec. inde a Wolfio, vehementer licet dubitans
de Grammaticorum illo praecepto, quod inter aypoixoS et aypoixoS
hoc discrimen poni iubet, ut dypoixoS eam denotet, qui rusticis
moribus sit, aypoixoS t qui ruri habitet. Timaens : dypoixoS
dxXrjpoS xal anai** SevzoS, rj 6 iv aypoi xatoixcov* Esse accentuum
discrimen nolumus negare, sed utrum idem etiam significationis sit, an
po- tius dialectorum aut aetatum, dubitamus, « A A a
p?} ovx ovrot ijpels cjfiev Alio loco di- cturi sumas de usu prj ov
ne- av tt&rav (pQOvd^oig y xwv noXlav. ulla f ti? oi% ov- T 01
tjflSLS 10UEV. TjlUlS y-EV yCiQ XCtl IxtL TtUofjfltV XCil jjfuv rdv
xoXXiSv. el Si ailoig lvTv%oig 6o(poig, xk% itv alOyvvow avrovg , t” ti
16 cos o toto alaygov ov noiiiv. rj Ttcog kiyi ig; 'AXrftry tiyug,'
cpavca. Tov g Si xollovg ovx av alo%vvoco , t" rt oioco
aldygov D gationura* Nuperrime de iis egit Bellermannns ia
Commeat, de graeca verborum timendi structura, censetque esse apud Graecos
eandem et cavendi et timendi verborum structuram, qua, quicquid molesti
instare sibi arbitrentur , praemissa indicent fxrj particula, cui alteram
insuper addant negationem ov , si quod exspectent malum , in eo
conti- neri dicant, quod quid non sit eventurum. Haec sententia
cur nobis non probetur prorsus, alibi dicemus. Ad nostrum locum
ut revertar, convivas ex ordine tgov i/Kppovcov esse, Socrates non
ne- gat quidem disertis verbis, sed vereri se tantummodo ait,
ne non aint tales, quales esse ab Agathone perhibeantur. si
aWotS ivtvxoiS doepotS. 2o<poiS nomen a verbo, ad quod pertinet
, sejun- ctum est, ut sensus sit: si aliis iidnne sapientibus, de
qoo vernorum dispositione saepius iam diximus ; vide aunot. p.
59* p. 129* al. Ne autem scriptum exspectes pro doq>otS verbo
do- cpGOtepoiS rjfiaov: Socrates et se et ceteros convivas
multitudinis imprudentiae prorsas aequiparat, ixl quod etiam
colligitur V ver- bis : 7 plv neti ixel napjj- fXEV TCCti
7Jfl£V T(OV TtoXkwv* e£ rt tdeoS oloio al - dxpor ov
rtoieiv. Stallbau- mius ad hunc locum , non est, inquit, quod ov
participium cum Astio delendum putes, si quidem sententia haec est:
si quid facere te putares, quum ta- men turpe esset , sc.
tcoteiv . Participium revera in Stallbauxniana textus recensione
omissum miror. Ceterum ponderosior est eius explicatio ov
participii. Si abesset, nemo, opinor, id desideraret. Addito eo nihil
nisi rei veritas exprimitur, ut verba con- vertenda sint: si qnid
forte facere te opineris, quod revera sit turpe. na\
tov $ a 18 p o v , £ q> 77 , VTtoXafiovx a. Supra iam dictum
est, Agathonem, cum non haberet, quo se posset Socraticis retibus
extricare, pudore suffusum obmutuisse, Phaedrum autem miserrimae eius
conditionis miseritum , atque ut finis esset silentii ingratissimi,
<pt\e *Aya$GOV et quae sequuntur verba protulisse» Ut
igitur esset, quo etiam oculis legentium illa Aga- thonis
reticentia indicaretur, post aidxpov iroieiv lineolam ponendam
curavimus* lav (X7tOKpivv ^co repa- ret h, e. si pergas
respondere. Amant enim Graeci) ut vim augeant verborum, ipsa verba
ponere pro eorum infinitivis cum aliquo finito verbo
13 noiiiv; — Kal t dv &aid(>ov I tpr} vitolajiovTa
timiv, r Si cpli Ie 'Ayuft ov, lav anoxglv]) ZkoxQaru, ovdlv eu
dwiGei avra, dxrjovv tov ivdude otlovv yiyveaftta, lav fiovov h'%y ora
diaXtytjTaz, cilkag te xal xakcii. iya de ydeco s (itv ccx ova ZJaxQaTovs
d caley ofievov, dvayxalov de fiot eMfuhj&yvat tov iyxafiCov za
"Egau, xal uTCodt^aG&ae nag’ evds txuGzov vumv tov coniunctis.
Diximus de hoc ge- nere dicendi in aunot. p. 169« Sic in Piat.
Phaedr. p. 230. A. legitur axap, <J Ixaipe, petaZv ta)Y Xdyarv 9
ap* ov rode i\v tu 8/v6pov , i<p’ uitep yyeS i)fict9 } quo loco
ijyeS cum vi positum est pro ayeiv IflovXov. Adde Engelhardtum ad
Platonis Lachetem ed. p. 29* Meus au- tem Phaedri haec est :
Cave Socrati respondere per- gas» nam ubi perrexeris»
nihil ipsius intererit, quomodo ea, de quibus dicere constituimus,
per- agantur, dummodo ipse habeat, quocum colloqua- tur.
Magnam fuisse constat Socrati aviditatem colloquendi, quae haud
raro apud Platonem descripta reperitur. cfr. Apol. Socr. p. 38. A.
idv x* av Xiyco 9 oxi xal xvyxavei piyi6xov dyaSov ov avS pedit (p
xovxo, kxdtixtjf ijpipaS itepl dpexijs xovS XoyovS noieuSSat xal
xcov dXX cov x . r. A. Adde Phaed. p. 61. E. xi yap av xi9
xal Ttoiot dXXo iv r&5 pexpi ijXlov 8v6pdov XP° V( ? 8C * V
poSoXo- ydv te xoCl diadxoiteiv nepl x. r. A. De more Socratico
a^- tem abeundi a proposito atque alips ab eo abducendi vidp Piat.
Lachetem p. 187* p. 13* ov poy foxeif eldiyai , Zxt o? av ly. r
yvxaxa ZEooxpaxovS Xy A oya 9 $Snep yvvaixi Tc\r\6idZ,ii 8ia
- A eyopevoS xal dyayxrj avx<p 9 idv dpa xal itepl aWov X
ov it potepov d p Ztjx a i SiaXiyedSai , prj i tavetSSrat vito
xovxov nepiayopevov tg j A oyaj 9 itplv dv ipnitiy eis x d didovai
itepl avxov Xoyov x, X. A., ad quem locum vide quae annotata sunt
p. 122. d AAgj> te xal xaX(S. De his verbis, quae cave
falso in- terpreteris, vide Commeat» de Sympos. Platonis, xal
ano SigatiSai itap* kvo9 kxatixov. Dixerat Ery- ximachus p. 177. D.
Soxel yap poi XPV V at adtovijpGov Xoyov eineiv inaivov ”
EpcoxoS ini SeZtd cj 9 dv bvvrjxai xaX- Xidxovx. x. A., quod dictum
cum probassent convivae ad unum omnes, unumquemque Erotis laudatione
habenda obstrictum recte censeas. Igitur non mirum, quod Phaedrus hoc
loco anoSe- XetiSai verbo utitur; id enipi de debito accipiendo
solenne. Cum vi autem Phaedrus anodeB,ct- 6$ai et paullo infra
anoSovS verba adhibet , ut commoneatur, Socrates, super alia re non
dis- putandum esse prius, quam debita Erotis laudatio exsoluta sit.
Apposite Stallbaumius ad h* 1. «t Zoyov. dnodoiig ovv
txdrtQog ra fhu oikag r\8rj dia- Zeyc69a. AUm v.ahZg kiyug , d
<H>cci8qs, tptcva i rov E 'Aya&avcc, xal avdtv fie xaZvu
Ztyecv' 2axQuzu yut> xal av&ig tOxat, nolldxi g
&ux).tyt(Sft<u. Cap. XVIII. ’Eyd de < 5 >}
(Sovkoficu tcqwtov (iiv einelv, r) %q>] laudat Piat. Politic,
p. 173* B. xa - \coS xal xa$ ait e p eI xpz&S ditidcoxaS poi
rov Adyov, ovtcjS ?/8 7} diaXeye6$a). Ovzcd haud raro ita in
veterum scriptis positum reperiri, ut ali- quam conditionem in
universum insigniat verbisque insequentibus accuratius definiatur,
supra indi- cavimus p, 43Contra ubi ac- curate descriptae actioni
postpo- nitur, illam vim prorsus amittit; ridiculum enim foret
atque inutile, si quis iu universum id describeret, quod accurate
descriptum praemiserit, Aliam igi- tur vim habet, de qua solertis-
sime, uti solet, disseruit Engel- hardtus ad Piat. Lachetem ed. p.
52-: Ovrcj, inquit, repe- tit notionem participii tanquam cum
sequente actione (h, 1* SiaAeyetiSai) caussae, conditionis,
ra- tionis ineundae similiqne notione coniunctam, Exempla si quaeris
huius stru- cturae, cf. Piat, Apol, Socr. p, 29. B. xal ei 8ij
ra> (Sopare- pos rov <pait)V slvat , rovrco dv 9 ori ovk
el8coS IxavcoS it epi raiv iv n Ai8ov ovrco xal oiopai ovk sldivai.
Piat. Phaed p, 61. D. xal apa Asycov ravra xaSrjxe ra 6xiArf ano
rijS xAivrj? iitl Trjv yijr, xal TiaSeZopevoS ou- rcoS ?j8?] ra
Aonta 8iEAEyEZo> Piat. Protag, p. 314, C. tv* ovv
pi} drsXifS ysvoiro ( sc, d Ao- yo?) a A Ad dianepavdpEvot
ov- tgjS’ elsioiptv x. r. A. Piat, do rep. IX. p. 576. E,
xaradvvreS eis diradav (r rjv itoAiv) xal iSovref ov ra 8o£av
anocpai- veops^a. xal ovSiv pe xcdAvei A kysiv. Atytiv
h. 1, est oratio- nem habere atque deum laudare. Qui paullo ante
obmutuerat, cum, quod respouderet, non haberet, nunc eifugiQ
opportunissimo usus, recuperata animi audacia , So- crati, inquit,
etiam posthac saepe erit respondendi facultas, iycd d £ Si}
povAopai* Queritur in ipso orationis initio Agatbo, quod omnes, qui ante
% se dixerint, non Erotem lauda- verint, sed homines felices
prae- dicaverint ob bona, quorum ipsis Eros sit auctor. Omne
autem encoraium' pergit esse debere ita comparatum, ut priori loco
eius natura describatur, cuius enco- mium exhibendum sit,
posteriori loco bona commemorentur ^quae ab illo proficiscantur,
His^Pae- missis ad ipsam dei laudationem abit, tantosque honores in
ipsum confert, ut in Agathonem potis- simum verba Socratica directa
videantur, quae infra leguntur p. 198. D. r d 81 apa , (sc. rdArj-
$i\ AJysiv x*r. A.) toS ioixev , 13 * [is ehtuvy Inuret dnuv .
doxovGt, yctQ poi narres oi nQoGftev, elgqxoTsg ov tov %eov eyxG
vpi&fciv, alXa tovg av&Qi&novg tvdacftovl^BLV teov ayaftcov 9
av 6 &ebg « 5 - tolg aluog. onolog de ug avtog dtv ravta
edoQrjGazo, 195 ovdelg eX prjxev. elg dh tQonog oQ&og navxog
Inaivov neQi navxog > koyco diekfteiv olog oicov cuuog av xvy-
ov tovto f?v ro xa\ goS litui- veiv oxiovYy aXXa ro gjZ /ilyi
- 6xu dvaxi%Evcti r& npd/jxati xat oJs’ yidX\.i6xa > lav xe
y ovtoai ix oy xu > Idiv re pr). Nam beatissimum Erotem
vocat omnium deorum et pulcherrimum et fortissimum» Haec
epitheta tum ut firmentur, tum ut au- geantur, alia multa
accedant, quae singula enumerare nunc non labet. Altera pars
orationis, in qua dei dona recensentur, ita referta est antithetis
aliisque ornamentis orationis, ut Gorgiae discipulum invenili ardore
ex- sultantem facile agnoscas. Ut autem auditores Aguthonis
finita eius oratione hominem summo- pere admirati esse narrantur
p» 198. A», ita universis Athenien- sibus ipse Gorgias
acceptissimus erat atque iucutidissimus, ut teste OlympiocToro,
quem Stallbaumius laudat ad Piat. Gorg. p, 447» B. eos dies, quibus
artem suam pu- blice ostentabat spectandam, festos (hopxaS) et orationes
ipsas lampades vocarent. Hoc nomen quam bene conveniat
oppositio- ni bm^jipepissime repetitis, anti- thetis Captatis,
cincinnis orationis delicatulis, patere opinor. AapitabeS enim faces
intelligun- tur, quae certis quibusdam festis diebus per nocturna
spatia huc illuc -circumferebantur. Ut hae faces in Xa/maSovxiu,
quae et ipsa Xajmds vocabatur et \ujx- itaSoSpojiia, mox
hunc, mox il- lum locum campi illustrare sole- bant , ita illis
orationis artificiis adhibitis sententiae oratoris splen- didae
reddebantur atque luce clariores. X) XP 7 ? P E eliteiv. Sio
edi- tores omnes praeter Ruckcrtum, qui e codicum plurimorum
auctoritate gjS XPV ordinem verborara recepit. Addit idem, noo
minus recte habere gjS quam y , utramque enim vocem exhi- beri, ubi
quomodo quid fiat aut fieri debeat, oblique rogetur. — Interest tamen
aliquid, utrum goS an y posueris. Exem- plo ut clarior res fiat, y
XP V M E ehteiv est, qua ratione di- cendum sit 5 verbum autem XP 7
? non nisi expletivum est, ut qna ratione ego debeam dicere
nihil aliud siguificet, quam qua ratione dicendum sit. Contra cJs’
XP 7 ? M E eliteiv significo t accentu orationis in scqnens post- ea?
verbum transmisso, quo modo debeam dicere. Pari modo explicandus
est locus Piat. Eu- tbypbr. p. 4. E. xuxgoS eiSoreS ro Seiov as $x
El T °v oCiov re itkpi HCti tov dvo6iov . Adde Polit, p. 304. E. it
o\e prj - rkov htu6roiS oli av itpoe — XtopeSa icoXejiEiY»
Protag. p. 338. D. 7t£ipado/iai avrcp 6eZ— B,ai y coi iyoj (pypi XP
7 / ya 1 roxr ditoxpivopevov <x7toxpive6^at 9 Legg, VI. p. 774.
A. in srA eiaa yavti ntgl ov av 6
).oyog f/. ovta Stj zov "Egavct xal Tjfxug Slxaiov htcuviGca ngatov
avzov ol6g tGtiv, Intuta xag SoGtig. (ptjjxl ovv lya navum v &t mv
tv- Satjiov av ovxav "Egaxa, ii 9t(ug xal avtiitGtytov 1 1- ntlv,
tvdai[iovtGzazov tlvat «vxav, xaUMixov ovta xal agiGtov. ti!
av ctnoi nepii ya/uav , ai 5 Xp)} ycepslv. Quibas exemplis male ita
usus est Riickertus, ut probaret, oJ? prorsus eadem potestate atque y
usurpari» Agit autem nostro loco Agatlio cum vi de ratione dicendi,
ut rectius y scribatur, nou item, quomodo debeat dicere, indicatu- rus
est; certa enim quaedam dicendi ratio non praescripta est ab iis ,
qui Erotem laudandum convivis praeceperunt, Eryximachus et Phaedrus. De
HitEiza verbo praecedente npcoxov jxkv vide Indices.
aAAa xovS av% p(ditov$ ev8ai/.toviZEiv Urgendum est
pronuntiando EvSaipovl^eiv verbum. Sensus est: Alie, dio vorher
gesprochcn haben, scliei- nen mir nicht den Gott zu lo- ben,
sondern die Menschen den Gdttern gleich zu stellen. Sequentem
genitivum casum quod attinet, notum est, verba, quae affectum animi
exprimant, geui- tivo casu eas res adiunctas ha- bere haud raro,
quae allectus caussae nominantur. Laudat BiickertU8 ad h. 1.
Thucyd. VI. 36. xovS ayykXkovxaS roiavta xa\ itepupopovS
vjiiiz rtoiovvtaS x i)S ptv zoXprfi ov $avjidel(*>, xfjS 8$
a&i>vE(jiaSy eI fxrj olovxai £v8y\oi elvai. Piat. Crit.
p.43- B. itoWdxiS dssvSai - jxovida tov xpoicov. Adde Piat. Phaed.
p. 68. E. ev8aip.uv yctp yioi avrjp ifpaiveto — • xal tov
xpoicov xal xojY Xoycov x. r.A. Alia huius structurae exempla
Matth. congessit in Gramm. am- pl. §. 368. p. 681. Plerumque illo
casu ponuntur res inanima- tae. Dubito, num eadem stru- ctura usi
sint scriptores, ubi ho- mines affectuum auctores nar-
rantur. olo i oicjv alxioi <uv, Frequentissimum hoc genus
di- cendi est, quo adhibito et gravio- rem reddiderunt et
ornatiorem orationem Graeci. Laudat Stall— baumius Eurip. Alcest.
v. 145. oiaS oloS dpapxavEiS. Soph. Trach. v. 1047. olaiS oloS
qdv IXavvEzai . Ceterum ut recte intelligantnr iCepl icavxuS
verba, mens Agathonis haec est: Iu quavis laudatione dei
liomiuisve unam tantummodo laudandi ratio- nem esse, ut explicetur,
qualis sit et quorum bonorum auctor is, qui laudetur.
ovxcj 8y x ov " Epcota xalffpdZ. Exspectaveris scriptum ovxgj
8)j xal xov y Epcoxa. Respicit autem Agatho nunc ma- gis ad
laudandi rationem, quam, qui ante ipsum locuti sunt, ser» vaverunt,
quam ad rem laudan- dam. Hinc factum, ut advocato 7 ifxacS
pronomine xal cum pro- nomine, non cum Erotis nemiue
coniungeretur. svdaipo vkdxaxov stvat avtGJY . Apud
Stobaeum Serm. "Eeu de xaXhdzoe ov toiogSe. xgatov fuv vto- B
taxos v, m Oatdge. fteya Se texpfawv tta loyn av- %og Ttttgex neu,
cpevyav (pvyy zo yijgag, za%i) ov StjXov- LXI. p. S96., quo loco
tota Aga- thouis oratio repetita est, pro clvt&v legitur avtov.
Sed ni- hil mutandum est. Stallbaumium audi haec annotantem ad h.
1. : Sic avtoS saepius post nomen substantivum vel pronomen
per' redundantiam quandam infertur. Infra p. 200. A. XotEpov 6
£pa>S ixeivov — htiSvpEi avtov. Xe- noph Cyrop. I. 3 • 15.
itEipa - (Sopaci tcp xditn&, ayaSdjy \n- ItEGOV xpatuStoS gjv
ixXEvS, advppaxElv avt(£. Ibid. I, 4. 5. al. Ceterum Agatho
non minore, quam Pausanias providentia (v. p. 180. E. InaivEiv jiEY
ovv 6 ei xavxas SeovS) hic agit Omnes enim deos excepto nullo beatos
esse praefatur, dein- de cautione hac praemissa omnium beatissimum
vOcat, si quidem ita dicere liceat, Erotem. VECDtat o S
Segdy, gj $ai- 6 pe. Ne mireris, cur Phaedrum alloquatur Agatho,
Erotem deum nutu minimum dicens: Phaedrus Erotem iv toti
xpsdfivtatov esse dixerat p. 178. B. Igitur ad eum potissimum
oratio diri- gitur, cui maxime ab Agathone contradicitur. Apertius
paullo infra poeta iyaj 81, inquit, 8pcp TtoXXd S\Xa
opoXoycijv tovto ovx dpoXoyaj , &s"EpeoS Kpovov xa\
*Ia7tEtov apxcno- repoS iotiY, aXXct q)Tjpi veota- tatov avtov sivai
x. t. A. ep ev y gdy cpvyy ro yy — p a* h. e. summa
conten- tione, quam fieri potest maxime, fugiens senectutem.
Magnopere augetor no- tionis alicuius gravius , si dua verba
eiusdem radicis iuxta po- nuntur, ut hoc factum est nostro loco.
Quae sequuntur verba taxv ov drjXoYoti — itposkp- XEtai Bastius
delenda censuit motus, ut videtor, (jctoxla senten- tiae. Recte
autem servantur ab editoribus, quippe Agathonis in- genio, apprime
convenientia. Ceterum vulgo drjXoYOTi legitur, quam scripturam
Stallbaumius ex optimorum codd. auctoritate in df/XoY otl immutavit.
Recepi- mus nos drjXovoti Buttmanni iudicium probantes, quod in
Indicibus continetur ad Platonis Dial. IV. Berol. MDCCCXI. Servari,
inquit, forma diaiuncta solet, ubi commode et solenni modo otl vocula
sequentibus se adap- tat, scriptura autem continua ad- hibetur, ubi
pars saltem eorum, quae ex otl pendent, iam praecessit. Snut vero alia
etiam exempla, ubi integra, quae ex ort particula pendet, f)rj6LS
prae- missa est, ut in fine locatum sit dtfXoYoti. Legitimam autem
esse etiam ad antiquorum mentem scripturam coutiouam , inde
ap- paret, quod etiam in structura, quae fit per accusativum
cum iufinitivo, formula illa servatur, ubi dissolvi nequit v. c.
Alcib. II. B. tov yap $eqy ovx lav drjXovuti. ov8 *
ivtoS xoXXov xXtj- dict%EiY+ Libri ad unum omnes exhibent ov8 ovtoS
xoX- X ov itX}]6id?,EiY , quam lectionem exstiterunt, qui tueri
atque 6tt • ftdtxov yovv xov dsovzos rjfuv 7tQogEQ%etat. 8 drj
nitpvxsv "Eq&s fudstv, xal ovd’ ivxos^coAAov xAt]- Gux&iv.
[iBra 6h vicov dei fcvvetit i ts xal itizw' 6 yccQ explicare studerent,
Apud Sto- baeura legitur, ovd’ ivtoS, quod hodie ab omnibus in
verborum ordinem receptum est, atque Thucydidis loco confirmatur,
qui Astii industriae debetur, II 77. EvxoS yap itoAXov x™p{°v
xijS rtoAeuS ovx ijv iteAdtiai. Ad jtoAAoi; autem nostro loco neque
x<&ptov, neque, quod Stall- baumio placet, dia6xrpiaxoS %
supplendum est, licet id in huius- modi formulis haud raro addi-
tum reperiatur docente Lamb. Bos. de ElJips» p. 103» seqq ; non
video enim, quid obstet, quominus neutro genere positum per se
multum spatii significet. Pro itAytfia&iv in aliquot codicibus
legitur 7tAT}6id£ei f quod nullo modo probari potest. Pro- prie
dicendum erat o Si) 7ri<pv - xev"EpcoS fiidstv goSx’ ovd*
iv- xoS noAAov 7tArj6id8,eiv ; sed sn-< pra iara monuimus
saepius, Grae- cos haud raro, quae per caussae consequentiaeve
particulas proferenda essent proprie, copnla ad- dita praecedenti actioni
annectere, lam cum mens Agathonis sit*: quam natura' Eros odit,
ut ne eminus quidem accO- d a t , patere opinor et odium et
fugam senectutis cx Erotis in- dole atque natura exaptanda esse, id
quod efficitur itAi/did*- S,eiv scriptura. Ceterum Stall- baumius
ad li. 1. Ad irArfdid&iVt inquit, intelligas <xv rc5. Id
prae- ceptum cur improbemus, haud difficile est ad explicandum.
37A;/- 6id&iv absolute positum est, prorsus ut nostralpLinT
Welches Eros seiner Nator nach hasst ohne sich die entfernteste
Annalieruag zu gestatten. / n •fiExd dfc vicov
dei Hvv- edti re xal idxiv* Et in his et in praecedentibus
verbis reddendis negligentissimus fuit Ficinus: eamque (sc.
senectutem) Amor natura odit fu gitque, iuvenibus vero se miscet.
Bastius tautologia offensus verborum ZvvEdxi re xal Idxiv
scribendum censnit pexa 8's vicov B,vve6xi x b xal dei idxiv , cuius
conjecturae ipsnm postea pocnituit» Schleicrmacherus verborum quaesita
similitudine verba convertit: Mit der Iugend aber gesellt er sich
und gefallt sich* Schulthessius In conversione exhibet : Pagegen naht er
sich (?) der Iugend und weilet bei ihr. Aliud quid Agathonem
nostris verbis exprimere voluisse certissimum est. Laudat
Stallbaumius ad h» 1. Fjutarchi locum, quem cum nostris verbis
Wyttenbacliiua comparavit ad Plut. de Ser. Num. Vind, p. 5G. >
dc Is. et Osir. p. 352. A. nap’ avxij xal pex ctvxijf orta xai
Gvvovxa; quo docemur, simplicis verbi potestatem sequente composito
interdum augeri, sed ad npstri loci insolentiam mitigandam nihil
sane confert. Negamus autem, Grae- cos ita locutos esse , ut prae-
misso composito verbo simplex verbum adderent, quod cudi illo
eiusdem actionis no- tionem describeret» Nos ellipticam
enuntiationem essecen- i 4 iV xcdaiog luyog
tv £%h, ag opoiov opola dcl mXd% u. iyib SI QfalSga jroAAa ulla bpoloyav
rovro ov% opo- Xoyto, ug ’Ega g Kguvov xal ’Iccm rov dgycaurcQvs
ttSuv, C «A A« qitjpt vEtbtKt ov avzov elvca &b<op xal dii
vtov, semus, quae hoc modo supplenda est: pera 81 vicov dei
Zvredrl re xal ael veoS i&tlv h. e. ut semper cum iuventute
est, ita ipse aeterna iuventute gaudet. Ellipseos similli- mae
exemplum infra habes p. 213. C. oiao& et nS aXXoS ye- AoioS*
l6xi re xal fiovXetai sc. yeXoloS elvoci. Ceterum cum hac nostri
loci explicatione quam bene conveniat insequentis proverbii mentio, nemo
non videt. Ne autem dubites de verborum structura pera nvoS
Zwelvai, laudat Stallbaumius ad Piat, dc rep. V. p. 464. A.
ovxovv per a rovro v rov 8 6 y p a- r of re xal /)?} paroS
iq>a- fxev &vvaxo Xo vSeiv ras re ?}8ovaS xal rds XvnaS
xoivp, praeter nostrum locum Piat, de legg. I. p. 639. C. pera
xa- xcov apxovroov dvvovdav. opoiov opoicj ael ite-
Xd?,ei. Laudat versiculum Schol. quo et Plato usus est: ojS ai e l
rov 6 poiov a yez $eoS coS rov 6 poiov > quibus verbis haec
adduntur: ini rdSv rovi, tponovS napa- TtXrjtiicov xal dXXtjXoiS
ael 6vv- diayorreov, iB, 'Opijpov Xafiov- da r rjv dpxr/v.
pipvrjrai 8h avrrjS nXarcjv xal iv AvdiSi xal iv 2vpno6ioj, xal
Mivav - 8poS 2vwcovUt» Satis nota Tul- lii conversio est huius
proverbii in libello de Senectute 3. pares cum paribus ( veteri
proverbio ) facillime congregantur. coS^EpcoS Kpovov xal 9
Ianerov ap^atorepof. Ridet Agatho allatis Crooi Iape- tique
nominibus Phaedri senten- tiam censentis, omnium deorum
antiquissimum Erotem esse. Quid enim antiquius cogitari potest
Iapeto , cuius vetustate Suida et Ilesychio testibus usi sunt vete-
res ini Siativppcf ) , aut Crono, h. e. ipso tempore, cuius ille
deus esse putabatur? cfr. Moe-r ris, quem Stallbaumius laudat, p.
200. 'laneroS' dvrlrov yipojv. xal TiScovos xal KpovoS ini rejv
yepovrojv, a*H6io8oSxal Ilappe- vi8i]S, Stallbaumius ad h.
1. Nomen, inquit, Parmenidis Astius mutandum censet in 9
Enipevi8ijS propterea , quod de theogonia Parmenidea nihil memoriae
tra- ditum est. Quid vero? si Par- menides in altera carminis
parte, nunc deperdita, vulgi opiniones de diis eorumque rebus
gestis exposuerit? Quod si veram esse ponimus — nam pro vero
affir- mare nemo audeat in tanta cer- torum testimoniorum penuria
— manifestum est, Agatho- nem prae nimio doctrinae
ostentandae stadio, quid inter Hesiodi atque Par- menidis
narrationes in- 'teresset, prorsus non vi- disse adeoqne nane
dis- simillima temere inter se confundere ac miscere. Viri
doctissimi iudicio adstipu- Iflnlui Kuckertus et Schleierma- za. Ss
ctu7.tt.ia ccqdyfiara xsqi &tov$, a 'Hotodos xal IlaQ- {lividijg
UyovGiv , ’Avayxy xal ovx "Eqcotc ytyovivcu, d ixdvot d7.rj&f]
tktyov. ov yccQ av ixxofia 1 ovdh drti/ioi uX7.y7.uv lylyvovxo xccl
ci.7J.tt tcoa/.cc xcd fUaia, d "Eqwg cheras. Equidem sic
statuo: Parmenidis versiculum esse a Phaedro laudatum p. 179.
B. praeter Phaedrum etiam alii te- stantur , v» c. Aristot.
Metapli. 1. 4.; quo iure auctorem Empedoclem Goeltliugius narret ad
Hesiodi Theog. v. 120., non reperio. Ipse autem ille Parmenidis versus,
quippe theogouiae alicuius fragmentum, testis est, theogoniam
Parmenidem conscri- psisse. Utrumque autem et Hesiodi et Parmenidis
versum Phaedrus J* c. ita laudat, ut quibus probetur, Erotem deorum
antiquissimum esse , atque pareutibus carere. Recte ad eam rem
probandam versus adhibitos esse, neque, quae virorum doctorum opinio
est, Hesiodum atque Parmenidem inter se pugnare , supra demon-
stare studuimus annotat, p. 57. Sed tertiunl est , quod allatis
Hesiodi atque Parmenidis versi- bus Phaedrus videtur probare vo-
luisse. Cogitasse nimirum cen- sendus est ita: Nisi indicaturi
fuissent Hesiodus atque Parmenides, omnia, qbaccutique gesta sint usque a
principio rernm, Erotis auxilio gesta esse, Eroti non primum in
theogonia sua lo- cum concessissent. Hinc verba Phaedri recte
explicabis : itpE- OftvxaxoS cor pEyidxcov dya- Sgov rjylv ccLTioS
idxiv. Sed cani ipse sentiret, antiquis temporibus gesta esse, quae
cum Erotis natura ncutiquam conciliari possint, ad bonorum descri-
ptionem subito confugisse videtur , quae ex mutuo amore et amasio et
amatori enascantur* Ad Agathonem ut revertar, poetam non latuit Phaedri
artificium, atque ut ille autiquissimum depm vocaverat i deo que
summorum bonorum auctorem, ita hic et natu minimam laudat et
necessitati, quod fatum interpretari li- cet, adseribit, quaecunque Homerus
et Parmenides e Phaedri certo sententia per Erotem facta esse
dixerunt. Elliptico igitur dicendi genere usus est Agatho. Exple-
tior oratio audit: xd itaAata npdypaxa, d 'HdioSos neti Flap-
jjEvidr/S Aiyovdiv *EpGoxi ye- y ov kv cli , *Avdyxy xal ovx
"Epcoxi yEyovkvai. e i ixsivoi dXrj^rij ZAe- yo v.
Ficinus verba convertit: Si modo illi vera narrarunt* Exhibet
Schleiermacherus : wenn iene anders wahr erzahlt haben. Iisdem fere
verbis Schnlthessius usus est in Symposii conversione, quam
Orellias denuo edidit p. 100. Dixisset opinor Agatho, si hoc
exprimere voluisset, eI ixsi- voi dXtfStf Elpijxadi s. Akyov-i div.
Quis porro ferat hauc sen- tentiarum coniuuctionem : vetera illa
facinora Necessitati, non Eroti patrata suut, si vera illi dixe-
runt. Ut paucis fungar, aliud quid Agatho dicturus erat, quod quid
sit, quoniam tectius locutu* est atque brevius, interpre- tes non
perspexerunt. Sensus verborudi hic est: veteres deorum rixas,
quas per Erotem factas narrant iv ftvroig rjv, cpMa xal tlgrjvt],
tognt Q vvv , tfc ov "Egcog «ov &Btov (iatiitevu. Neo
s filv ovv edn, ngog Se ra vtca aitaXog. itoii]- D tov S’ k'ouv Ivdeijg,
olog r t v "Opygog itgog x 6 ImSet^cu 9eov «xcdonjra. "Onijgog
yag ”Axi]v &eov te cprfiiv Hesiodus atque Parmenides, dixissent,
opinor , si vera dicere voluissent, Necessitate non Erote fa-
ctas esse. Noluit autem di- cere Agatho a — Xiy ov 6tv , iXeyov av
'Avayxtj xal ovh * Epcon yeyovivai, ei aAr/Sr/ iXeyov, ne ter
posito Xiytiv verbo oratio incomtior fieret at- que inelegantior.
Possis etiam lianc primitivam verborum conformationem putare: ra di ita
- Xaid 7tpdypattx, a'H6io$oS xal Jlappevi&rjS AeyovtSiv
(Epcuri yeyovivai ) , 5 'Avdyxyf xal ovx E pari yeyovivcu , ( d
ixelvoi IXeyov av ,) ei dXrjSij iXeyov. i xx opal ovSh 6 e 6
fio i. Conferri iubet Stallbaumius ad li. 1. Piat. Euthypbr. c. 6.
avrol yap ol avSpanoi tvyxdvovdi voptiefav teS rov 4 ia zcov
Sfoov dpiorov xal 6ixaiozarov , xal rovrov dpoXoyovdi rov
avrov itaripa dijdcu, on tovS vieiS xarimvev ovx iv 6 lxtj,
xaxel- vov ye av rov avrov itaripa ixrepeiv 8i* irepa
roiavra; his adde, quae paullo infra le- guntur xal itdXepov apa
i/yel 6v elvai rd> dvn iv r ois SeotS itpoS aXX rjXovS xal
iffipaS ye 8eivds xal /xaxaS xal dXXa roiavra itoXXa, ola Xiyerai
re imo rc5v itoirjx&v x . r. A. cfr. Hesiod. Theog, 164
seqq. xoiyjro v 6 * idriv iv - 8 B 7) S x, t* A» Huius looi
Terb* Bekkerns et Stallbaumius ita dis- posuerunt, ut comma
ponerent post "OpijpoS, Efficitur hac in- terpunctione , nt
arctius coniungantur verba itoirjrov tdnv iv8et}s itpoS ro imdeiZai
$eov ditaXorifra , quae iunctura sane molesti quid habet atque
spinosi. Ficinus verba convertit: Opus autem est tali quodam poe-
ta , qualis Homerus exstitit , ad teneram Amoris mollitiem de-
monstrandam . Sed haec verba non satis respondent Graecis, Quis,
quaeso, probaret dicendi genus hofc : Ad demonstrandam dei
mollitiem deus poeta eget, qua- lis Ilomerus fuit? , Omnis haec
orationis difficultas removetur commate post "OpijpoS deleto,
posito post ivde )/S, quae verbo- rum dispositio etiam RLickerto
placuit. Seusus est: Tali autem poeta Eros eget, qualis Homerus
fdit ad divinam mollitiem describendam. Videtur autem se ipsum poeta
tangere, utpote qui mol- litie atque teneritate in carminibus componendis
ne Homero qui- dem cedat, tovS yovv ito8aS av -
TrjSaitaXovS elvai • Ad- didit hnec verba Agatho, ne quis aut 1
imprudentia aut fraude fa- ctum opinetur, ut * Attf ditaXij
dicatur, exemplo allato non nisi pedum mollities probetur* Fru-
stra Orellius ad Isocr. p. 330. verba TovS yovv — ft alvei cen- suit
expungenda esse. Stallbau- tlvai xul uitaXrjV * rous yovv xodag
Kvvtjs axalovg uvta, Xiycov Tijs pivS’ aitaXot xoScS' ov yap
iit’ ovSa niXvoctui, aXX ’ dpa r) yt nat ’ avSpcor npdtata fiodret.
KttXta OVV SoXEL fiot TEXtVJQLlp t»)v aXaloTTJXCt uxotpai- mius ad
h. 1. : Ista, Inquit, versuum Homericorum recitatio non indigna est
Agathonis ingenio, quem iam antea vidimus inani quadam se iactare
doctrinae ubertate atque elegantia. Vide annotat p. 200. Diximus
autem de hoc versuum recitandorum more annotat, p. 55. Cete-
ram Homerici versus leguntur II. XIX. 92. qui, ut mollissimi sunt
atque exquisita elegantia com- positi, ita Agathonis ingenio ma-
xime conveniont. Pro ov8eoS f quae plurimorum codicnm lectio est,
apud Homerum ovdtt legi- tur. Illud eorum sedulitati debetur, qui versuum
fines similiter cadentes non ferendos censuerunt. Versus similiter
cadentes veteribus mollitiei indicium fuisse videntur. Apprime igitur
convenit ovSei lectio nostro loco, ubi mollissimis versibus allatis
Agathonis ingenium describitur. Similiter cadeutium versuum exemplum,
quod apud Persium legitur , acerbissimum efleminatorum poetarum osorem, hic
laudare iuvat petitum e Sat. I. v. 98 seqq. Torva Mimalloneis
implerunt cornna bombis Et raptum vitulo caput ablatura
superbo Bassaris , et lyucem Maenas flexura corymbis Evion
ingeminat: reparabilis adsonat Echo. Qni his versibus praecedit:
Quidnam igitur tenerum, et laxa cervice legendum et qui
sequuntur: Haec fierent, si testicnli vena ulla paterni
Viveret in nobis? Persii iudicium continent, qnod idem fuit
totius antiquitatis, Alio loco Persius Sat. I, v. 93. dicit de
enervato aliquo poeta: Claudere sic versum didicit: Berecyntius
Attin Et qui caeruleum dirimebat Ne- rea Delphin TCal
7}flElS Riickertus ad h. 1. annotat: Bek- kerus, Dindorfius ,
Astius, S tali— baumius > utamur. Quos cur sequar, non video j
li- cuit enim hoc quidem Agathoni, ut semet ipse eohortabundus
conianctivum poneret ; at non minus licuit, quid facere vellet, in-
dicare: eodem igitur nos argu- mento utemur. Et coniunetivo et
futuro uti licet in huiusmodi dictionibus , neque facile digno-
scas, ubi utrumque libris commendatur, coniundtivnm an futurum scriptor
exhibuerit. Coniunctivum plurimi codices exhibent, pauciores sed optimae
notae li- bri futurum habent. Inprimia codex Bodleianus nominandus
est, ex quo rectissime Stallbaumius XpTjtiobfieSct in ordinem
verbo- rum recepit. vuv , ou ovx ini OxhjQov fiatvei, aXX ini fiaX&axov.
E xa ax ha 8>) xal ryitlg xQxjOaiie&a xcxfit]QCq) mgl ’
'Egaxa ort ccnalog. oi5 yaQ ini yijg jS aivu ovb ’ in i xqaviav, a idxuv
ov naw /icdaxa , ctkX’ iv xolg pala- xaxaxoig xav ovxcov xal ficrivu xal
olxu. Iv yaQ xj&cdi xal xpv%aig ftecov xal av&Qanav x rjv oixyaiv
idQvua, xal ovx av e£ijg iv nuGcag raig xfn>%aLg, cllV xjtlvl av
OxlrjQov xfiog l%ov<5r) lvxv%y , antQXitai , y 8’ av fictka- xov,
olxifcxai. anxoptxfov ovv ad xal noal xal navxy iv /laAaxtoxaxoig xcov
(laXaxmaxaxv , anaXuixaxov avay- 196 xrj uvai. veuxaxog (iiv oini
xpaviav, a idxtr ov naw pa\axa. Hoc loco confirmatam habes,
quod supra de ov naw vocularum potestate monuimus p. 79. Nam
prorsus non mollia virorum capita hic intelligi nullo modo possunt.
Sed et rectius expli- cata haec verba ita comparata sunt, ut non
possis non mirari inconstantiam Agathonis , qui modo laudata Homeri
in describenda divina mollitie peritia nunc eundem corrigit atque
capita virorum non admodum mollia censendo auditorum risui poetam
exponit. r xal ovx av k%i}S, Ficinus i» convertit : neque
tamen in quibuslibet animis. 'E5)}€ significat continua serie;
di- citur igitur non promiscue in omnibus animis habitare,
sed selectu facto eas tantummodo .! sibi eligere , quarum mollis
sit ac tenera indoles. xal 7todl xal itdrtfl* Fedum
mentio fit propter comparationem cum Ate homerica, cuius non nisi pedes
teneros fe- 8tj lau xal anaXaxaxog' cit poeta. Riickert.
Qnao sequantur verba, iv paXaxcatd- toiS tq5v paXaxcotdtcDV , ana
- XcJraroVf ipsius Agathonis mol- litiem describunt, quae si
audi- ret Persius Flaccus, rursus diceret : Haec fierent, si
testiculi vena ulla . paterni Viveret in nobis?
vypoS to eidoS ♦ *TypoS verbum est latissimae significa-
tionis. Primitus videtur li umi- dus, madidus significasse. Qnod
autem madidum, idem etiam lubricum est atque haud raro splendore
quodam insigue* Hinc apud Homerum sexcenties legitur vypa xiXevSa,
quod non minus de splendore undarum di- citur, quam de earnm
flexibilita- te; utramque autem notionem micandi verbo
expresserunt Latini. Qaarn notionem nostro loco habeat, e dxXrjpoS
nomine colligitor, quod paullo infra po- situm illi opponitur.
Recte Stall- baumius monet, vypoS saepe de rebus lubricis, lentis,
flexibilibus, mollibus dici atqae frequenter ngog is Tovroig vygog
ro tISog, ov yag av olog r’ rjv Ttdvzy itiQi7trv66ia%ai ovds Sia itdayg
ipv%ijs xai tigudv to ngcotov Xav&aVBiv xai i^iav, fl tSxlygdg
yv. dvfiiiiTQOv 81 xal vygag ISiag jitya ttxjirjgiov y sv- C%t]fio6vvt]
, o St/ duaptQovrag i» nuvrav djiokoyov- fiivcog "Egag %%u'
a<fp/fio<Svvy ydg xai "Egeni ngbq aU.rji.ovg «si Ttouaog. %goa
g 8s xaUog y xar’ av&y SLaira tov fteoi 5 ayfiaivH ’ avav&e i ydg
xal ihtyvfty-. xori xai (Suijiati xai ipvx\ j xai aUn oraovv ovx lvl£ei
B "Egag , ov 8’ av tvav&yg te xai tvuStig zoitog y, Iv-
rav&a xai i£ei xal (i&ve a ad Amorem transferri.
Apposite Riickertus Piat. Theaet. laudat p. 162, B. /n) SXxeiy
itpos xo yvpradiov dxXjjpov rfdrj orta (h. e. aetate provectiorem
atque corpore robustiorem) rc5 8 fc 61 } vecoxipoo re xal vypotipcp
ovxi TCaXaUiv . 6 vppixpov 8 i x&l t5 - y p aS 18
iaS. Acute vidit Astius, dvppetpoY referendum esse ad
7tepi7Ctv66E6$ai, Amor enim, quia potest itav xq itEpiitxvddE - C$ai,
recte dvppsxpoS vocatur. Itaque ne hic quidem audiendus est
Orellius, qui dvppEXpoS pro (Svjijiixpov legendum
putabat. Aristaenet. I. 1. p. 4. ed. Abr. ov xcd pivxoi dvppsxpa xal
xpv - pEpci. xrj5 Aat8oS xa plX 7, coS vypo<pvcZs avxtjf
XvyiZEdSai ta odxa ro3 7CEpi7txv66opivcu. Stallb. Ficinus habet in
con- versione: aptae vero t compositae jlexibilisque formae ,
vitio, ut videtur, typothetarum. Non du- bium enim est, quin
scripserit: apte vero compositae et quae •eqq. o 8rj
diatpepovTGoS Pronomina relativa haud raro praecedentis nominis ,
ad quod grammatice referenda sunt, genus non sequuntur, ut
indice- tur, nomen collectivum, quod vocant, ipsum illud nomen
esse, atque complures notiones in so continere , quae genere
neutro pronominis relativi consummentur. cfr. Matth. Gramm. ampl.
$• 439. p. 820., ubi et noster locos laudatur, sed addita auto
SiaqjepOYXojS vocula xai t quam ex optimorum codicum auctori- tate
Stallbaumius expunxit, Riickertns uncis inclusit. Eandem prorsus delere
Y. D. noluit, quod vim habeat h. 1., quae ad rem paene necessaria
videatur. Etiam Bekkerus xai expungendum cu- ravit, neque idem in
Ficini con- versione expressum est: qua (sc. figurae
concinnitate) Amor omnium maxime procul dubio decoratus est. ?/ xax
* aY$ij 8 ia ix a. Notabis levitatem argumentabdi, quasi non cogitari
possit, ejun, qui deformis sit, pulcra amare, turpia fugere.
Respexisse vi- detur Agatho ad proverbium, quo Cap. XEX.
IIcqI /J-lv ovv xdklovg tov &bov xal tccvru txavcc, xal l'rc
itoXka Xtfottzai. Jlcgl ds agsrijg "Egarog (X£t« similis simili
gaudere dicitur. Verum noti probatur tamen eo, quod probandum erat hoc
loco. Se- quentia verba quod attinet , ov 6* dv ivavStS te xal evo
odtjS roitot y), ivxavSa xal i£ei xal pavet, cfr. Soph. Antig. v.
781 seqq. "EpooS dvixaxE pdxctv *EpcoS y o? Iv xxypadi
niitTEiS o? iv paXaxalS napsialS r e dy id o S ivvvxzv eiS •
Adde Aristaeueti Platonicorum verborum imitationem II. 1. p. 73.
Abr. avavSet yap xal anrjv^ijxoxi dojpaxi ov netpv- xe TtpoSulavEiv
6 "EpcoS, nspl Sh dpetijS x. r. A. Laudat Agathio AMORIS virtutes ita,
ut,eius iustitiam, temperantiam, fortitudinem, prudentiam ordine celebret
j quae quidem virtutum cardiualium, quas vocant, recensio et ipsa habet
nescio quid inanis ostentatiouis atque redolet ingenium hominis, qui
praeter poesin etiam philosophorum sapientiam degustaverat , sed fortasse
nonnisi primis labris degustaverat. Observes praeterea, quam
artificiose Agatho verba composuerit, quara lepide paria paribus
retulerit et ut similiter caderent, elaboraverit, S tali b. otid’
afiixei. Prorsus repugnant haec cum aliorum poetarum sententiis, tum iis, quae
apud Sophocl. leguntur in Antig v« 191« dv xal dtxaiav
aShtovS (ppevaS napadnaS ini Xcofict dv xal zo6e veixoS
dvdpcov B,vvatpov %x £l S rapd£aS. ov te y a p avtoZ
piet 7t uCxti* xi re a <Sx £t ‘ Haec verba Schleiermacherus
convertit : Denn weder widerfahrt ihm selbst gewaltsam, weon ihm etwas
widerfahrt. In Schulthessii conversione exstat: denu er selbst leidet nie
Gewalt, es wi- ' derfalire ihm, was da woile. Ficinus verba
interpretatur: non enim ipse vi patitur, si quid patitur. AvxoS
pronomen ita explicandum est, ut oppositum 1 cogitetur verbo cuidam,
quod nunc non comparet, quoniam structuram verborum, quam in
mente habuisse videtur, Agatho immutavit. Dicturus videlicet erat :
ovxe yap avxoS pia na<Sx £l > Xl itddxsi' — ov r* d A A
o s oSxiS ovv pia nadxtt x. x. A. Structurae verborum ita mutatae,
ut cogitatam structuram singula verba sequantnr, quae cum structura
revera posita uon satis conveniant, exempla non rara sunt atque a
grammaticis ita explicantur plerumque, ut ad sententiam, non ad
verba directa esse dicantor. Verba pia icadx^i quod attinet,
quaeritur, qui fieri possit, ut aliquis patiatur aliquid, neque
tamen plexv experiatur. TlaSoS enim ne cogitari quidem potest
nisi coniuuctum cum vi quadam ex- ruvTu Aexteov. to fiiv [ityiOrov,
ou "Egag ovt’ dSixEi • oik’ udixEitai ov&’ imo 9eov ovte
&eov, ov&’ vn av- %QUitov ovte av&Qonov. ovte yaQ
avrog (Ua nuOyEi, si' n ita<S%ET m (ila yaQ "EgaTog ov% uxtetcu '
ovte xouiiv jtoiEi onag yccQ ixav "Equu ndv vji)}$eteZ' cc 6’ pv
C trinsecas illata. Ov ftitt jradxEl contradictio est in
adiecto, quam rocant, quam hic admissam esse ab Agathone admodum
dobito. Aliud quid poeta videtur expri- mere voluisse illis verbis ,
quod quid sit » e rectius explicatis et T i 7tadx £t verbis
patebit. Supra monuimus annotat, p. 169. Grae- cos haud raro , ubi
infinitivus verbi alicuius ponendus esset proprie cum finito aliquo
verbo couiunctus, omisso hoc verbo in- finitivum eo tempore
collocare, quo finitum verbum ponendum erat. Sic legitur Piat.
Alcib. I* p. 106. c. 7. ovxovv Tctvrct fiovov oldSa, a netp*
aWcov ipaSeZ rj avtoS i%evpeS , quo loco iam supra monuimus,
oidSct positum esse pro eldevat Af- yeiS, Eodem modo Agatho nostro
loco ad fubulas quasdam respiciens, in quibus rtdSrj Erotis narrantur, et
r i itauSx El posuit pro et xi itadxsiv A eye- rai. Hinc sententia verborum
existithaec: Weder er ist es, der etwas erleidet, wenn man ge-
xneinlich sagt, dass er etwas erleidet, cett. filet autem positum est ,
ut eo 7cddx £iy verbi potestas augeotur, ad utrumque autem negatio
praecedens tanquam ad notionem unam refertur. ov re itoidov Ttoiel.
In paucis quibusdam codicibus, in Vindob. uno et Paris, uno
itoidov participium non comparet, hinc Bvickertus ad h. 1.: habet,
inquit, primo adspectu speciei non- nihil haec omissio, quid enim
iucundius procedit, quam haec oratio: ovte avtoS fila Ttddxsi, ovte
itoiei ? neque tam necessa- ria est h. 1. conditionis additio, quam
altero iu membro; agere enim Amorem aliquid nemo du- bitat, utrum
patiatur an minas, incertum. Attamen non puto n Platone omissam
vocem esse, sed solam duarum similium viciniam hanc lectionem peperisse.
De hoc genera corruptionis vide quae annotavimus p. 171. Praeterea
codices nonnulli ex- hibent ovte filet noiGDV noiei, quod ab iis
additum est, qui bene sentirent, fila nostro loco e praecedentibus
repetendum esse. Sed ut clarius videas, fila non Platonis manum
esse, posita vox est in loco ineptissimo, eodemquo modo se habet,
quasi supra scri- ptnm exstaret ovte yap avroff Ttddx&f st Ti
fila Tta6x E t* naS yap kxcov. Si dixis- set poeta b<Gjy
dixovrl ye Sv- jMp, nemo eius verbis offendere- tur. 'Exgdv nude
positum mul- torum poetarum de saevitia Amo- ris querentium
refutatur exemplo. Moneo haec, ut habeas, quorsum referas verba
Socrati- ca p. 198. E. to dpa — OV TOVTO 1}V TO ■HOLXgjS
htOLl veiv ltiovv y aXXci to coS pe- yidxa dvctTiSlvcti tgj
npdypart xat oo» HaWtdTUp idv te y ixmv Ixovtt ofioAoyydy, cpadlv ot
itoAtag padiAijg vopoc dlxaia tlvca . itgog ds ry dixaiotivvy daxpgodvvyg
hAeI- tizyg iitxk%u. ilvai yag opoAoyElzae dGJtpgodvjnj r 6 xgp- r
elv ydovav xal lsu9v(uav 9 "EQCozog $6 [lydsutav ydo- vi]V xqeizzco
uvae. eI 6e ytzovg, xqozolvz’ av vtc "Ego- rog, 6 de xgaz ot.
xgarcov dh ydovtdv xal Irtidv/iuav 6 "Egeog diacpEQovrcog av
Gcocpgovoi. xal fiyv stg ys dv~ D dgsiav "Egooze ovde "Agyg
dvftlGrarai. ov yag e%el "Egeor a * 'Agyg , dAA’ "Egeog
"Agtj, 'Atpgodlryg, wg Aoyog. xgeizzcov ovtajf $xovTO£ f iav
re fiTf' el tpevSrj, ovdtv dp * tjy Ttpay - pa. Nostro loco Erotis
aequi- tas probanda erat, quod quibus fieret argumentis, verisne
au falsis, non magnopere curaba- tur. fn sequentibus verbis d 6
* dv Ixojy e paucissimorum codi- cum auctoritate tiS ante
kxcov positum servarunt Bckkerus, Stallbaumius , alii. Riickertus,
quem secuti sumus, voculam ex- punxit. Qui factum sit, ut in
ordinem verborum irrepserit, per ae intelligitur. ol noXeco?
/SadiXijS vd- poi. Haec Bodleiani codicis lectio est. Florentini
quatnor fiadiXixrjS habent, vulgo ftadi- X ilS legitur. Bastius
conferri iu- bet Arist. Rhetor. III. 5- tqdy ndXecov fiadiAelZ
vdpovS. In Piat. Gorg, p. 484. B. dictum Pindaricum laudatur: vdpoS
6 ndvTcjy ftadi\f.vS Svcctqjy te xal dSavdtGJV. elvai
yap opoXoy eit ai 6<o<p p o dv vt) . In Definitio- num
libello 'Platoni vnlgo ad- •cripto p. 412. A. legitur: do>-
tppodvvTf o perpidtrjS ttjs i>vxrf$ irepl tds iv avr?j xata
<pvdiv yiyropevccs &m$vpias te xal ySovaf.
eficep/iodrla xal eu- taB,ia ipvxyS xpds rds xatei tpvdiv ijdovd?
xal Xviraf. Adde Aristot. Rhet. I. 9. ~GD(ppodv~ vrj dpetr}y 6i'
ijv npoS taS 7/<5o- vaS tov dajpatoS ovta>S %X ov- diVy goS d
vopo£ xeXtvei. Ne- que aliter monente Stallbanmio ad h. I.
da)(ppodvv7]Y definit ipse Plato, cfr. Phaedon, p. 68. C. de rep. IV.
p. 431» A. xpat&v i}8oygjv. Fa- cta conclusione hac nemo
non videt, in dwtppodvvjjy aperte illudi ab Agathone, homine
hu- ius virtutis, ut videtur, expertis- simo eodemque Pausaniae
amasio, quem non puduit Xenophonte teste Symp. c. VIII. 32. dnoXoyeldSai
vitep tgjk dxpa- dia dvyxvXivdovpevcDY. Sed non dubium est, quin
ipse Agatho behe senserit, huiusmodi nugas sophisticas auditoribus
minimo probatum iri. Ut igitor haberet, quo posset futurae
convivarum reprehensioni sese subtrahere, in fine orationis suae
haec appo- suit: ovto? — o nap * ipov XdyoS — tca 3eoj
avaxeioSco, rd p\v Ttaidids ta 81 ditov - 8ijs petplaS —
perlxoJY. xal pyv - — eZs ye . De *
/ ds 6 ffccav rov ixofiivov. rov d 9 dvdgBioxdtov rcov
&U.C3V xgaztov stuvrav dv dvdgEiorarog sYrj. xsgl fiiv ovv dixcuoOvvrjg
xai OcocpgoOvvyjg xai dvdgelag rov fteov BiQqtca , TtEQt de Oocpiag
teliterai. o6ov ovv dvvcctov , nugaxeov f vi ) Ikteinuv. xai TtQwtov pav
, iv 9 av xai iycb x t\v fj^Exigav xeyyr\v n^6co, agneg 9 Egvlzt[ia%og
rqv iccvxov , Ttotrjrtjg 6 {#£05 6o(pog ovxcog, Sgts xai dklov E
%oii\dai % ndg yovv itoirprig yiyvEtai , xuv cl[iov6og $ ro xgiv , ov av
"Egcos aiptjtau to drj ngirtu Tjpag pug- Kai fiijv — ye
voculis vide an- notat. p. 64. Patet autem, Ho- mericam narrationem
hic taugi, quae legitur Odyss. VIII. v, 267» seqq. Ceterum non opus
est, ut ad A<ppo8ixt 7? nomen , quod fiaullo infra legitur,
nomen ap- pellativum ipaS suppleatur. Dei enim nomen saepissime
appella- tivum nomen simul exprimit. Unum exemplum ut laudem,
legitur p. 197. B. o$er 6r) xai xaxstixEvddSrj 'xeov $eojv tot
itpdypaxa "EpcoroS iyysyopi - vov 8t]\ov ori xaAAovf. it
Etp ariov ptf l\\ei- 7 tEiv. AeiitEiv verbum cum iv praepositione
compositum iis verbis adnumerandum est , quae amissa vi transitiva non
actio- nem aliquam exprimunt, sed ab- solutam verbi notionem
indicant ; iXXflitElv icitur idem significat atque iXXEiieoyra
elvai . Hinc accedente indicio rei, quam ali- quis praetermittit s.
negligit, ge- nitivus casus exhibetur, non accusativus. Vide , quae de
hoc genere verborum diximus p. 87» tv* av xai iy cJ.
Tres Bekkeri codices exhibent 7va ri xai iyoo. Non male. Sed
nihil videtur mutandum esse. Etenim av vocula
reiterationem signi- ficat actionis , quae indicata est p. 186. B.
tva xai TtpEoflevoo- fiey r tjv xtxvrjv ; xai autem pronomini
additur, ut significan- tius indicetur, aliquem olim fuisse, qui
idem fecerit. Verum inest tamen nostro loco, quod attentiorem
lectorem merito of- fendat. Nimirum notum satis est atque a nobis
commemoratum annotat, p. 5., Graecos scriptores comparationis membra
ita exhibere, ut nat iu posteriore comparationis membro
ponant, quando idem in priore positum sit, contra id illic omittant,
si in priore comparationis membro non comparuerit, Iam nostro
loco, quoniam &$7tEp vocula duae actiones indicantur inter se
comparari, Platoni scribeudum erat vel dicendum Agathoni ex prae-
cepto supra laudato : iv av xai iyoj t?/V r/jiExspav xix v V y Tl ~
ptjdco y GD^TtEp xai 9 EpvB,ipaxoS t 7}v kavxov sc. ixiprjdev.
Potuit etiam hoc modo haec enuntia- tio proferri : tr * av lyco x
tjv rjpexipav xkx v7 l v Xtptjdoo, u tS- 7Up 9 Epv£i/j.axoS xtjv
kavxov. Exemplum est xai in compara- tione dupliciter positi Piat.
Phae- don. p. 64. G. tixiipai 8ij , <3 14 ^
- A xv (fla xofi<S%ai , 3« xoiTjttjS o ”Eqg>S «yafrog lv
xecpcc- lala ituGciV noiri<5iv rt]v xaxct (lovOutrjV « yciQ ng
i} flfj ?J(El 1 J fd/ oldtv, OVt’ Sv BTEQCp SotT] OVl' CCV «AAoV
’ya$h , <fav apa xarl 601 E,vv - doxy , a«rtp wai. i/io/. Alia
huius structurae exempla Stall- baumius laudat nnnot. ad Piat.
Apol. Socr. p. 22. D. Nam praeter nostrum locum aliud ex- emplum
apud veteres scriptores reperiatur, quo in priori compa- rationis
membro xai positum, in altero omissum sit , vehementer
dnbito.i ita 5 yovv nonjxifS y i- yvEtat x. X. A. Audi
Stallbau- mium annotantem ad h. 1.: Al- ludit iudice Valckenario
Diatrib. in Eorip* Fragm. p. 207* ad versus Steneboae Euripideae
: iroiTjxtjv 8* dpa. *EpGo£ 8t8d6xei xdv apovdoS y xo
npiv . Quae sequuntur verba, aliquid vitii contraxerant, quod facta verborum
incisione duplici optime sanari videtur. Annotat Stallbaumius : Ne quid
desideres in verbis sequentibus, rtuoav noiy- 6iv X7jv xata
povtiixyv arcte connectas cum ctyaSoS. Perperam enim in vett.
editt. post ayaSof interpungitur. Addit vero xj)v naxa jiovdixtjv
propterea, quod deinde TtoirjtitZ et itoirjxyS la- tiore sensu de
cuiusvis generis procreatione et generatione dicit. Itaque nunc de poesi,
quae in carminibus pangendis cernitur, cogitari cupiens ,
commemorat jcoltjdiv rrjv xaxd povdixtjv Exhibet Schleiermacherus in
con- versione: Uml zucrst nun , damit auch ich uusere Konst ehre,
Vtie Eryximachus die seinige, ist der Gott so knnstreich
(dotpoS o vxgoS') ais Dichter, dass er uuch andere dazu macht.
Iedcr wenigstens vrird ein Dichter» war er auch den Musen
frerad vorher , den Eros triilt. Was wir also wohl koonen ais
Be- weis brauchen dafiir, dass Eros ein trefdicher Kiinstler ist (
[itotij - X7/S ayaSoS) iedes hervorzubrin- geu , was zur Konst der
Musea gehort. Ut Schleiermacherus, ita ceteri interpretes non satis
ac- curate interpretati sunt verba docpoS noiyxyS et dyaSoS noiy-
xyS , quorum verborum rectio^ explicatio viam aperit totius loci
rectius explicandi. Eryximachus medicos, ad cuins exemplum Agatho
suam artem celebraturas est, de theoretico et de practico medico
{xexyixoS, , iaxpixco- taxoS et dyaSoS SypiovpyoS) disseruit p.
186. C. et D, ; vide annotationem p. 131* Puri modo nuno Agatho de
theoretico et de practico poeta agit ita, ut docpov itoltjTljv
vocet eum, qui poeticae artis theoriam calleat, dyc&or Ttonjtyv
practicum* poetam no- minet. Mens Agathonis igitur haec est : Die
Theorie der Dicht- kunst liat der Gott so iune, dass cr auch andere
iu Dichtern macht. Ieder wenigstens wird ein Dichter , den Eros
ergreift» wenn er vorher der Dichtkunst auch nocli so fremd war.
Quae sequuntur, revocata post ayaSoS interpunctione vulgata hoc
mo- do scribenda sunt : co 8y TtpETtEt ypdS papxvplcp XPV O^ai,
oxt tcoiyxyS o^EpooS ctyaSik, lv xz~ vSida^nc. xccl [ilv di]
zijv ye rav £aa v holt]6iv nuvzmv 197 rtg lvavtt(i}<Stzai ]iij ov%i
"Eqotos tivca 0o<plav, y yiyvt- zat te xai cpvEzai navza tu £wa;
aXka zyv rav zr/vuiv qraXaioo Ttaticcv xohjdiv , rrjv , Tiarcc
povdixijv. Sensus est: Dies raag uns zum Beweise die- nen, dass
Eros practischer Dich- ter ist, wie iiberhaupt in aller Kunst, so
in der, welche sich auf Poesie bezieht. Sed ne hoc quidem modo verba
Platonis satis recte se habere videntur. Fortasse scriptor exhibuit
ordinem verborum hunc : iv xecpa- A aleo nadav noitfGiv, xata trjv
/iovtiixijv. a yap riS i} fi rj 7 ) firj ol 8 ev. Praecedentium
ver- borum explicationi favent ix £ltr et eidevai verba, quorum
alte- rum ad artis- usum, alterum ad eius theoriam refertur. Idem
ia sequentia verba cadit didovai et SiSdtixeiv. Ceterum
cavendum est, ne quis ovre dv praecedente ovte av minus elegans
iudicet aut rei exprimendae non satis conveniens , ideoque
facillima litterulae unius mutatione scri- bat ovre av:
frequentissima est, Stallbaumio annotante ad Plat. Apol. Socr. p.
81, E. in huius- modi dictionibus dv particulae repetitio. Sic in
Apol. Socr. loco laudato legitur — ndXai av anoXdoXr) xal jovt’ dv
vfidf cocptXijHTf ovSev ovr* dv ifiav- rov. Addit Stallbaumius
Piat. Fhileb. p, 43. A. SrjXov 61 } tovro ye, do Saoxpdrrff,
coS ovre ijdovj) ytyvoix* dv iv r<w xoiovrco itork, ovr* dv ns
Xv- TtT}. Xenoph. Hier. V. 3 . dvsv yap tijS tzoXeodS ovr* dv
6qjZs- 6 $ at Svvairo, ovr * av evdai- ftoveiv .xal p.\v 81} tTfv
ye. Pi- cinus in conversione: Quod uti- que per Amoris sapientiam
ani- malia cuncta gignautur atque nascantur, quis dubitet?
quod sane negligentius est interprer tandi genus, quandoquidem
xai ftlv 87 } — yk vocularum potestas delitescit. Fischerus scribendum
censuit xa\ ftijv 6?/, quae nonnullorum codicum hodie ab omnibus
editoribus improbata lectio est. Kal ftkv 8rj — yk eadem prorsus
potestate adhiberi videtur atque xal firjv — yk, do quo vide
annotat, p. 64. ; utrum- que enim ita ponitur , ut commemorari
significet, quod aut praeter exspectationem accidit, aut quod fidem
superat hominum, aut in rebus summae gravitatis. aXXa ovx — t
dfiev. Le- nis ironia htiic dicendi generi inest, quae adhiberi
solet, ubi plane fieri nequit, quin nesciant, quod nescire
confitentur, qui ita loquuntur. De aitofialveiv verbi tropico usu
vide annot. p, 88. Aoristicum autem tempus positum est de re, quam
experientia docuit, cfr. annotat, p, 144. Ceterum Hesycluus, quem
Stallbaumius laudat, habet: tpavov' '(pcorei- vox xal XafLTCpov .
Apte Schlei- crmucherus: in Ruhm und Glanz . ' %
r o&ixijv ye ft?}v. ri particula argumentatioui inservit
ita, ut indicetur, alia multa ex- empla ailerri posse , sed pauca
nunc sufficere. Diximus de hoc osu yk particulae anuot, p. 85.
14 * di/f uovpyluv ovx ttf/uv, on ov uiv av o deos ovto$
61- 6i«5xcdos ylvrjtai, iXA.6yi(ios xal (pavos axe^rj , ov 6’ av
"Epa s (irj iyayrjtai, Gxozuvog ; to\ixi { v ya f irjv xal latpixrjv
xal pavtixqv 'AxoXXaiv uvevpev, ixidv- (ilas xal "Epotos
rjyefiovevGavtos , dgte xal ovtos Ii "Epotos av iitj (la&tjtris,
xal MovOtti fiovGixrjs xal "HtpaiOtos %«A)££ia:s xal 'Adrjva
iOtovpyias xal Ztvg xvfieQvijGEos &edv te xal avdpdxov. < o&ev
61 ] xal xatsOxEvdadi] tdv de ov tu xpayiiata "Epotos eyye-
et p. 1S6, In seqnentibns ma. iuscula littera scribendum curavimus
Erotis nomen , ut alibi saepe, nal enim h. 1* explica- ti vum est,
de quo vide anuot» p. ISO. p. 132. «1, De ijyti- <53«i , verbi
absoluto usu supra dictum est annot» p. 59. nal Movtiai
ftovdinr,^. Magnopere in explicanda horum verborum structura
interpretes se torserunt. Astius eam ita expe- dire studuit, ut
nominativos ca- sus ad avevpev referendos censeret et ad pc&rjxijS av
ebj, genitivos autem casus e verbis imSvplaS nal "EpootoS
ijyepo- vavdavxoS e praecedentibus repetendis exaptaret. Annotat
Riickertus ad h. 1. : Simplicissimum hoc esse videtur, ut proxime
praecedens membrum GdfXB — fiotSrjTTjs plane negligi in seqq»
dicamus et quasi in’ parenthesi positam, de reliquis autem sic
statuamus, sensisse Agatliouem, AMOREM illum, quo duce Apolli- nem
dixisset artium inventorem exstitisse, non esse alius rei, quam
ideae artis , apud mentem couceptae et spectatae; quum igitur dicendum
esset Mov6ai pQvtiiHtfv avtvpov"EpGotos ijys-
povev6avroS 9 quia povtiinrjS ille amor esset , contrahentem omnia
haec, quae plene posuisset de Apolline, unum in membrum, subiectum
posuisse, omisisse praedicatum ex superioribus repetendum, suo cum accusativo
supplapdo illo ex genitivo, quem apposuit, quique ab ’'Epa>Ti
aptus est, quod et ipsum supplendum. Stallbaumius ad nominativos e superioribus
mente repe- tendum censet * EpcotoS av elrj- xSotv paSrjxai , ut
genitivi pov- 6ixi}S , goAxela? cet, a nomine jia^rftai peodeant. —
Et Astii et Riickerti contortior est expli- candi ratio. Quam
Stallbaumius laudat, ea proxime ad verum ac- cedit» Nollem autem,
genitivos jiovdtxf/S, xodneiaS cet. cum pa- Srftai coniungendos
ceosiiisset. Nihil certius est, quam pov6i - HfjS ceterosque
genitivos ab Ero- tis nomine regi , quod in verbis supplendis
"EpaxoS av elrj6av pa% 7 }Tcti continetur. Musica au- tem ut
xoB,vnr} 9 laxpinr}, pccvxi - Tcrf . inventa est imSvpiaS nal *
EpcotoS (sc. povtSinijS xo^tni)S f iaxpintjf, cet.)
rjyepovEvtiavxoS. Ut igitur Apollo, illarum inventor artium,
paSijXrfi vocatur Erotis, ita Musae , musicae artis inven-
tSTMnomoN. vousvov dijkov ori xakkovs' ai6yti yag ovx l'm-
driv "Egeas- n go xov 61 , togjr tg tv cegxfi tinov , jroA- la xal
duva fnois lylyvsto , tog Uyttai , dia rfjv rrjs 'Avceyxrjg pcctidttciV
Inudi) 6’ 6 &eo$ ovtog %<pv, ex rov igccv zav xcdeav navi’
aya&ct yiyove xal C ^ £0 r S xal txvftguTtois. orneas fftol 6oxu,
<J 6gs, ’ 'Egeas ngeotos avros uv xalXmos xal agi- «jtos
fj.tr et rovto tois akkois akkeov zoiovxeav ai- nos elvai.
trice», hoc loco diicipulae vo- cantor "Epatot /jovOixfjS ,
Vul- canus discipulus EpGaTOS X a ^-~ xelaS x. r. A. xa
i -ZevS xi ipepvg tSea>S. Mira lioc loco codicum varietas
repentur, cuius originem caus- samque frustra quaesivi. Unde- cim
libri Bekkeri exhibent: HV- fispvdv pro HvfiEpvi/dEGoS , tres alii
apud eundem HvfiEpvdv xa habent, in uno xvfitpvwv repentur.
xqdy S ecvv xa itpaypa- x a. Iutelliguntur rixae illae, quarum
iam supra Agatlio mentionem fecit p. 195. C. : xa S\ TtaXaia npaypaxa
nepl ScovSf et quae paallo infra verbis insigniuntur: noWa "nat
Stiva StolS iyiyvEXO. In sequentibus "EpooxoS
iyyevopivov Sijlov art TidXXovSj rursus nomen proprium ita positum
habes, ut simul appellativi nominis potestatem ob- tineat. Hinc xff AAouf
geni- tivum explicabis. aldx Y*P ovh iite- (St iv *EpoS
. In Basii, uno legitur ivEdtiv pro SltEdxiv. Unus Paris, paucissimique
ulii libri exhibent idtiv ; Porsonius Advers. p, 58. tvi scribendum
coniecit, qua coniectnra facile caremus. Ut supra dicitur p,
195. U. ovh ini dnXrjpov fialvEi aAA Ini paXSaHoi ) , ita quidni
hoc loco dicatur: aXdxti ovh inedxiv ? Neque audieudus est Astius,
qui collitis verbis p. 201. A. al - 6xpMV ydp ovh Eli] " EpGJf
scri- bendum esse ceusuit aXdxovS ydp ovh Idxiv "Epcof.
JlpdjxoS avxoS «jv ndX- \ldxoS. Ficinus habet in conversione l Ila
mihi videtur , o Ehacdre , AMOR ipse primum pulcherrimus optimusque
esse, Legisse igitur videtur npcZzov pro npoozoS. Illud etiam
apud Stobaeum reperitur, atque WolHo adeo placuit, ut in ordinem
verborum recipiendum duceret. Fru- stra. Agathonis mens haec est:
Ante natum Erotem pulcrum non erat; ille omnibus et diis et homi-
nibus pulcritudinis auctor; ipsuna igitur deum prius, quam omnes,
alios, pulcherrimum et optimum fuisse necesse est: nam quae
quis ipse nou liabet, alii haud facile largiatur (vide p,
196. E. fin.) iitlpxeta* V 01 k' *• «ubit me
dicere, valetque IxipXitiSai de ea memoria, quam no« verbo
unwillkuhrlich ’ 'E7ciQ%eTttt, SI fioL n xal lymttQOV tlneiv, ott,
ov- zog bsziv o xoicSv elprjvrjv fiev iv dvSpaSicoif, iteXdyei Sh
yaXrjvrjv, vrjvepiav dvifjoov xoizrjv , vicvov z’ ivi xijdeu
insignimus. Ceteram nt versas p. 195. D. ita laudati sunt, ut sua
mollitie, quae cum in ipsorum verborum placidissimo quasi flumine, tum in
finibus similiter ca- dentibus conspicitur, Agathonis ingenium ad
mollitiem proclire depingant, ita nostri loci versus non dubium est,
quin habeant in se, quo Agatho notetur. De qua re nemodum'
interpretum quic- quam annotavit. Notatur autem, •i quid video, in
bis versibus artificium, quo siugula verba carundem litterarum
repetitione iuter se comparantur. Sic pijvrjv ykv iv av $ p
QJitoiS positum ita habes, ut inverso ordine, quae litterae in
verbo eipijvrjv continentur p et r, easdem habeas in
dv^JScoiCoiS nomine positas ; idem cadit in sequentia verba
iceXdtyst 81 ya - %l}vijv. Idem artificium in ver- bis VTjvepiav
dvejiGDY conspicitur, sed auctius et clarius, quod verba sunt eiusdem
radicis. Restat, ut de xoIzt\v vicvov z 3 ivi xr\8ei dicamus, in quibus videmur
equidem nobis aliquid vitii deprehendisse. Lectio vulgata ivi jajSei a
Bekkero, Stallbaumio, aliis iu ordinem verborum recepta est , ac Stall-
bauraius quidem ivlxijSei ita ex- plicat, ut esse dicat iv zols
xtj- dopevoiS, Accuratius opinor verba ivi XjjSei explicantur zt6lv
ivi xr\8ei ovtfiv. Sed sire hanc, sive illam explicationem probes,
certum hoc est, hominum, maris, ventorumque praecedente men- tione
non bene commemorari zovS x?]8o/.iivov£ s. zivds iv xrj8ei 6vraS t
et cum eipijvrjv iv dv$poJ7toiS non aliter intelligi possit, quam
iv xijfiop.lv oiS, hoc loco iv x?j8ei admodum friget. Ac ne quis
cum Stallbaumio censeat, non offensurum ess^ queroquam iu
sententiae ratione parum di- ligenter expressa, qui meminerit,
Agathonem hos versiculos ludere a Platone iussum esse , ut sibi
ipse quasi illuderet: alio loco de consilio Platouis dicemus, excu-
sationem autem Stallbaumianam quod attinet, vide, ne probata ea ,
ne manifestissimum qui- dem in huiuscemodi versiculis vitium
mutando tollere possis. Quicquid euim vitiosum ibi de- prehenditur,
poetae, non scribarum negligeritiae vel ignorationi imputabitur. Magna
autem est in codicibus varietas lectionis. Ero vicvov Z 3 ivi xi/Sei
Vindob. unus habet vicvov ze vtxrj8et . Quatuor Flor, aliique non
pauci vicvov ze vrfxijSij s. vicvov ze- vijxi]8ij exhibent. Hinc
variae doctorum hominum coniecturae. Dindorfius scribendum
censuit: vijve/dav dvipoiS , xoiry vicvov vrpoj8ij.
quae coniectura verissime mo- nente Stallbaumio propter zi
alie- no loco positum improbanda est. Vix commemorandum Bastii
commentum est vicvov z 3 ivi yij^tt, Ficinus, quem veram Platonis
mu- ovtos ds rjficcg dJJoTQioTijtog fiiv xtvoi, olxetoTTjtoe D fia
nJrjQol, rag TOiagde |j woSovg (itr’ dZJ.Tjt.av natiag u&tlg £vvi
tvai, iv toQTatg , Iv %oQolg, Iv Ovoiaig yi~ yvojuvog rjyifiav ’
jrpaorijra [ilv x oql^ov , aygwTTjra nam habuisse suspicor, versiculos
sic convertit: qui pacem lar- gitur hominibus, qui mari tran-
quillitatem, qui ventis requiem, cubile viventibus omnium- que (
Stallbaumius somnum- que rectissime censuit legendum) securum.
Viventibus au- tem verbo adhibito animalia, ut videtur, exprimere
voluit, quae videtur et ipse Agatho in mente habuisse, sed more
poetarum ad- hibito unius animalis nomine expressisse, ad quod nomen
reperien- dum ultro duxit TteXayovS com- memoratio. Scripsit enim
Piata: : KoitTjvvitvov r * irlxtjte t Ut autem melius intelligas,
quam facile xtftEi in xijSst mutari po- tuerit: Hesychius xijtei affert
pro dTEprjdEif iprjpla, dicens xrjroS esse non solum «Snr-
\ol66iov ix$vv nappEye^rjy sed etiam ait o piar . Iam aliquis olim
Platonis commentator non indoctus, cum xjjtEi de fero marino non
intelligi posse opinaretur, dc ait opia verbum dictum in- tellexit,
atque, ut intelligentiae faciliori versiculorum consuleret, xffiEi
scripsit. Ut autem praecedentia verba earundem littera- rum reiteratione
inter se compa- rantur, ita nunc Sioiirjv et xrjTEt eodem ornatu
gaudent. raS roids 8 e b,vv 6 8 ov S fitz* aWijXtoy, His
verbis conventus significantur similes A- gatlionis convivio. Ilinc
uiiuus ac- curate legitur iu, Schulthessii conversione p.
105: indem er manclierlei Vereine und Zusam- menkiinfte stiftet.
Schleiennacherus verba convertit: Und dieser eben entlediget uns dea
Fremdartigen und sattiget uns mit dem Angehorigen, indem er nur
solclie Vereinigungen uns unter einander anordnet cet. Non reddidit
V. D. itddaS vocem, quae et nobis molesta est. Si quid video ,
vitium liis verbis iuest, quae hoc modo emendari viden- tur: raS
toiasSs gvvodovS juet' d\Xi}Acjy narras ti$e\s B,vv- ikvai. Ne quis
autem hanc scripturam iusto audaciorem censeat, facile fieri potuit, ut
scribarum aliquis, cum praecederet feminini generis substantivum,
ad id di- rigendum censeret itavraS ver- bum , idque in itatiaS
mutaret. Sensus est: Hic solitudinem a nobis cohibet,
familiaritatis stu- dio nos implet, quippe huiusce- modi
conventibus omnes inter se conciliari iubens. Quae sequun- tur
nopi^Go^, i&opiZooy partici- pia optime a Schleiermachero
conversa sunt : Mildheit dabei verleihend, Wildheit aber zer-
streuend. Captat enim Agatho et hoc loco et in sequentibus syl-
labarnm similes sonos. qn\o 8 <n p oS ev psr siaS x. r. A.
Haec verborum structu- ra , rarior apud prosae orationis
scriptores, propria est tragicorum poetarum , vide Matth. Gramm.
ampl. §. 339. p. 647. ubi prae- ter alia laudantur Soph. Oed. C. 6’
1!-oqI%cov' (pMSaQOS «vft tvuag, uS&qos dvgtit- vsictg’ iliag
dyaSolg , Statos 6oq>oT§, ayaot og Seoig' iijXatos dfiOiQOts, xtrjtos
tVfioiQOig ‘ TQVcprjs, afigo- TJJTOg, JjAlfljjg, JJKpfcwv, IflSQOV,
XO&OV JtaTlJjJ ’ SJU, 677 . drrfve/tos xbcvtwy xafiaj-
rcav, Eurip. Med, 671. ovx idjuby evvrjs &%vysS yapjjXiov. Eur.
Phocn. 834. axex\oS (poc- pioov . fAsca? ayctSotS.
Consen- tiant codices in scri- ptura! quam Ficinus in
conver- sione expressit: propitias , be- neficus, spectandas
sapienti- bus. Sed nemo non videt, aya - 2uS scriptura probata
singaloram huius enuntiati memborum con- cinnitatem turbari, qaam
stu- diose ab Agathone quaesitam esse supra annotavimus. Rursam
igitur exemplum habes corruptelae, quae omnium codicam consensa
tuetur. Apud Stobaeum ayc&o~i$ legitur, quod primas recepit
Wol- fias , quem ceteri editores secuti sunt. Mollities,
de- liciae. Derivatum nomen est a #1 /m verbo, calore solvo,
mollio, deliciis frango. Stallb. Timaeus habet Lex. V. P1 . x A 1 8
V * ZxXvdif yal paXocxUx. tiprytai 8 e arro rov IxkictvSai a6$tvzia
xov Sepjiov, ad quae verba vi- de annotationem Ruhnkenii p,
176 . i V 7t 6 Y6J, iy (pofiMy lv Tioyco x. t . A. Magno
iugenii acumine de his verbis egit Schu- tsias in Ltct. Platon.
Specitn. I. p. 4. Quam ibi verborum emeo- dationem profert,
quamquam ut eliis, ita nobis minas probatur, tamen ita egit V. D. ,
ut non sine fructu et delectatioue lectorum eius dissertatio repeti
videatur. Sententiarum, inquit, iuter se relatarum oppositionem
tur- batam esse, nullo negotio perspi- citur. Primum enim inter nova
et A oyoj prorsus nulla est relatio, quae inter (poficp et noSw satis
clara intercedit , deinde qnorsnm omnino hic iy A oyco pertineat,
aut quam vim habeat, intelligi vix potest; denique quatuor illi
nominativi xvfiepvijrrji, imfiaTTji , napadrdtrff xai deo- rijp
quomodo ad quatuor dati- vos iv itovGO, iy <pofiax y iv no *
£ca, iv A oyoj referantur, ut sin- gula singulis ad sententiam re-
spondeant, haud apparet. Itaque cum vix credibile ait, Agath^uis
operam in concinnitate senten- tiarum assectanda positam extrema in parte
claudicasse, librariorum culpa nonnulla hic turbata esse arbitamur. Ut
paucis defungamur, ita nobis Plato videtur scripsisse : iv (poficp,
iy itoScpy iy itovep, iv poyoo, xv- fispvT/T inifjdxifi ,
Ttapadra- rrjS xcci 6cor ijp dpi6roS . Iam primum totam imaginem e
re nautica petitam esse existimamus. Nautis eoim saepe timor
nau- fragii, desiderium terrae, 1 a- bor in difficultate
navigandi, aerumna nauseantibus, fame periclitantibus , cum tempestati-
bus conllictantibus accidere solet. In timore igitur illo quid
guberuatore, in desiderio t fitXfjS aya&av , dfieAys xaxcov' iv
nova , iv (popa, iv no&to , iv Aoyta xv^egvi/ttfg , inifiarijs ,
n«QaOta- e zrjg *s xa\ (Jot?)p aptoroc, gvfindvrav ts %ciav xal
dv&QojTcav y.udfios, t)yeiiav xdXhtito $ xal cptSroff. a quid socio
itineris et comite ( irtifidry ) , in labore quid auxiliatore (xapadxdxp)
in aerumua quid s os p i t a t o r e (Gartij pt) optabilius? Haec
igitur officia uuum Amorem omnia praestare amantibus docet. Deinde
hac unius litterae mutatione unius- que vocabuli transpositione hoc
efficitur, ut 'singula singulis ad amussim respondeant. Ut enim iv
q>of$Gp ad malorum, sic iv arJ- ad bonorum exspectationem
refertur; ut itovoS molestiam iu agendo, sic poyoS molestiam
in patiendo designat; tandem xu- fiepv?jtrj3 ad tpuflov,
ixifiarijS ad noSov ( quis enim flagrantis desiderii sensum melirfs
lenire possit, qnam socias itineris, qoi- cam colloqueudo horas
tardius euntes fallere possis?) itapadtd- T rjS ad icovoVf
similitudine a remigantibus ducta, deniqne 6co- rr/p ad poyov aptissime
refertur. Haec Schutzii ingeniosa et periucunda explicatio ideo non
pro- banda est, quod codicum lectioni adversatur, quae et ipsa com-
mode explicari potest. Neque tamen Asthma verborum explicatio placet ,
quam Stallbaumio probari video. Censet nimirum Astius, Xdyov h. 1.
bene habere, quod nouuisi inanes verborum similitudines Agatho
quaesiverit; ad negamus nos, quamvis o* fxv- $oS ICqd^tj , o XdyoS
djtajXeto apnd Platonem saepe reperiatnr. Verba iv ito vgj , iv
iv xoSgo, iv Xoyw e * j AMATORIA depromta sunt, affectusqne
ama- torum exprimunt, donec congrediendi confabulaudique cum AMATIS potestate
fruantur. JIovoS curam denotat, quam quis animo coucepit AMASIO conspecto;
tpo- ftoS timorem, quo cruciatur, qui AMAT, ne ab alio AMASIUS
sibi praeripiatur, indicat; jr 6$oS DESIDERII summi indicium est, A
J-» yoS confabulandi cum AMASIO potestatem quaesitam describit. Atque A
ofov 7iv (jEpVTjzijS Eros dicitur, ut qui ilumen orationis
largiatur idque ad optatum finem dirigat, izoSov irtifidtTjS Eroa
audit, quod cupienti se adiungit, itapadrdrrjS iv <p 6(i& , quid
si- gnificet, sponte intelligitur, dc u- x ifp autem iv itovcp nc
quis opiuetur non recte dicr: periret amans, nisi Eros accederet
ani- mosque ac spem potiundi amasii adderet» eu XPV
Sittd&ott. Haec, est codicum plurimorum lectio. Vulgo dei
tnedSai exhibetur. Recte illud recentiores editores probarunt. Non
enim de ne- cessitate quadam hic sermo est, quam propter non possit
nou sequi, quisquis est humana condi- tione natus , sed de lege
agitur, quem quisque ipse sibi imponere debeat. Vide de 6el et XPV
ver- borum significata auuot. p. 12» Recte verba Ficinus
convertit: quem profecto sectari debet praeclarisque hymnis
venerari vir quisque cantilenae illius parti- %Qrj iittG&ca nrxvTu &v8qk
itpvjivovvxcc xakag, xalrjg adi]s jiBxejjovta , ijv i xSet ndvxav
&tav te xal dvxtQbjTtcov vorj(ia. Ovzog, tcpij , o jt ag’ ifiov
/16- yog , (o 0c/.l8qb , x aj &eoi dvuxu6&(j , xd jj.lv ■
itat- 8idg, x a de 67tov8ijg jiixQLtxg, xad’ voov lyo J dvvajicu,
jiixlxav. Cap. XX. 8 Efot&v tog de xov Ayd&avo
g nuvxug l'<pt] 6 ’Aql- exoSrjjiog dvu&OQv(lijatn xovg
tcuqov xag, wg icqizov- ceps, qaam Amor ipse concinit, mentem
deorum horainumque per- mulcens. — KaXijS post xaXojS positam
permulti codices non habent. Potuit facillime, cum praecedat
xaXdoS, scribarum in- curia vel addi vel omitti xaXijS, ln textum id
receperunt Bekke- rus et Stallbanmius,. Astius scri- bendum censnit
xf/S a o8?jS /iexe- Xovta y Orellius scribere maluit nati rfjS
oodijs /iexExovxa y Rii- ckertus verbum uncis inclusit* Sed neque
uncis opus est, ne- que mutatione verbi. — ‘7fv ^stXyoov pro rjr
ddcov SeAysi positum est, de qua verborum structura vide
Indices. ta /ilv itaiSiaS. Si quae- ris, quo consilio haec
verba ab Agathone proferautur, vide an- notat. p. 208.
dv aS o pv firj <3 av. Prorsus eodem modo in Piat. Protag.
p. 334. 6. eItcovxoS ovv xavxoc avxov ol TCapovxeS aveS
opvfSij- oav goS ev Xiyot, Ut 1. 1. nu- dus optativus, ita nostro
loco genitivus participii opinionem ex- primit eorum, qui magno
cum clamore exsurrexisse narrantur, vide annot. p. 158.
fiXlty avxa EiS xov *Epv~ Zipaxov. cfr. p. 198. E.
7t(Xi El /17} B,VV7j8ElV ^GJTfpdxEl xe xal ’Ayd3covi dtivols
ov6i TtEp\ xd ipcorixd. , itdvv av i(poftov/i7jv, /n)
aitopi}<5<M)6i Ao'- ycov 8ta rti noXAd xal itavxo- Sana
eipt/CSai, vvv o/igdS $a fi ad quae verba Socratis allocutio nunc
refertur. aSs^S TtaXai 8ioS 5«- 'SiEVai. Suid. laudatus a
Stall- baumio habet T. I. p. 48. ddtlS 8e8ias 8eoS Xeyo/iEvov n
£oxi ini xgov xd /n} q>o(jEpa <pofiov - /livcov. JldXai exprimendae
praeteriti temporis notioni ita inservit, st cum perfecto tem- pore
coniunctum plusquamperfecti temporis notiouem efficiat, quae cum
praesente tempore aliquam habeat couiuuctionem : Nuni frustra
metus, quem ha- beo, fuerat meus? Conve- nit cum hac notione Ammonii
explicatio 8eoS verbi: AeqS xal q)6(ioS 8ia<pipet. AioS /itv ydp
i axi ito\i>xpovioS xaxov vico- voia , cpufioS 6 i i} napavxixa
7CX07}6iS , 8io7tep t Hpo8oxoS iv xy xexapxy • ' H/ilaS ex « cpoftoS
xe xal 8eoS. Contra nbi cum praesente tempore naXai coniongi- .
rmg tov vsavtOxov ilgrjxoTog xal ctvtcS xal r<u &Ba. Tov ovv
22axQa.Tr) ilntiv (iAhparna tlg tov 'Egv^ifia- %ov , ’Aga Ool Soxa , (pa
vca , a nal ’Axov(tevov , adiig ituAai Sto g deddvca, a AI’ ov (luvuxag,
« vvv 8rj £Ae- yov , ilrtstv , ori ’Ayd&av %avpuGTug Iqol, lya
8’ dxogqGoifu; To fiev etiqov, tpavai tov Egvli)ia%ov, HavrLxdg
Soxtlg (ioi rfgtjxiva*, on ’Ayct& av iv Igel' to di oi ajioQijOuv ,
ovx oiuat. Kal jtdg, to (laxagtE, B ' tlntlv tov 22axQurr), ov gula
ctxogeiv xal lya xal aAAog ogugovv, fitAAav Ai\uv gixd xaAov xal nuv
to- tar, perfecti notio efficitur, at in Piat. Apol. Socr. p. 18.
B. ipov yap itoXXol xaTt/yopoi yeyovatit itpds vpd$, xal nd-
Xai noXXa tjStj Itrj xal ovSlv dXrj^tS XiyovreS , quo loco iza- Xai
XiyovxeS idem est atque ei - prjxoreS . Noluit autem ipsum perfecti
temporis participium ex- hibere Plato, ut significantius et
praesenti hora accusatores me- ras nugas proferre dicantur atque
credularum anicularum inanes su- surrationes. vide aonot. p. 107 Ceterum
schol. ad h. 1. habet: dSete 8iof M tav rd prj a%ia tpofiov
SeSioxuv. opoiov xovxo xal to ijtofpoberjs avSpconos. d vvv
81 } iXeyov . Nvv 8 r} saepissime a librariis confun- ditur, neque
pauci loci exstant, ubi pro vvv 8 tj scriptum repe- ritur 6j} vvv ,
et pro 8 rf vvv vice versa vvv 8 f\. Utraque verborum compositio
propriam potestatem habet , ac 8 ?) vvv quidem in adhortatioue
soleune, atque nostratium also nun apprime respondet, aut ad
rem praesenti tempore notissimam refertur cfr. p. 191. A. o 8 /}
vvv optpaXov xaXovOiv p. 191* B. I o St} vvv yvvaixa xaXovpev, Nvv 81 }
autem de tempore ac- cipiendum est, ut signiheet nunc igitur. Vide
Boechhiuui ad Piat. Min. p. 90. et Stallbaumium ad Piat. Phileb. p.
105 seqq. on 'AydScov $ av pa- ti t cos ipoi. V ulgo legitur
ipei, quod ferri nequit propter inse- quentem modum optativum;
ac- cedit huc Bodleiani aliorumque optimae notae codicum
auctoritas, qui ipoi optativum repraeaen- taut. In sequentibus
dnopijtiai- pi vulgo edebatur. Recte Bek- kerus, Stallbaumius ,
alii , futu- rum in ordinem verborum rece- perant. ,
xal Tt&Sj cJ paxdpie . Kat h. 1. mere expletivam est, de
quo vide annot. p. 6. p. 38. ai. — MaxapioS nomen quod attinet,
haud raro apud Platouem ita reperitur, ut blaudae appella- tioni
exprimendae inserviat. Inter- dum id apud eundem, docente Stall-
baumio ad Piat, de rep. I. p. 335. E., ad ingenii sapicutiaeque
prae- stantiam refertur, cfr. Piat. Me- non* p. 70. B. xlvSwsvcj
tioi Soxeiv paxapioS xiS elvai , dpextjv yovy f site
SiSaxrov, t Sccnbv ovto Aoyov gq&ivTa ; %a\ ra piv aXla*
ovy ouolcog &avpcc<5Tu; zb de In l zetevzijg zov xaXXovg
fl'3’ oxrp xputfcp irapayiyvetai , eidevat. Adde Piat. Menex.
p. 249. D. M. N?) Ai ' , cj 2d- ■xpaxeS , paxaplav ye A eyeiS
ttjv 'A6na6i(xv , ei yvm) ov6a toiovtovS A oyovS oia z' l6x\
6vvri%ivai. xal rtOLvroS artov ovxcj. Apud Bckkerum legitur
pera xa\ov ovxco xal 7tavxo8ait6v A. /5» Uterque verborum
ordo codicum non paucorum auctoritate nititur» Equidem non du-
bito, quin ovxco vocem ei verbo Plato apposuerit, quod maiora cum
vi pronuntiandum est; igi- tur 7tavxo8a7tuv ovxco in ver- borum
ordinem recepi. Recte autem Stallbaumius ad verba xal TtavroSartov
ovxcd annotat ‘Multiplicem vocat Agathonis orationem quippe quae
videatur omnia attigisse et percurrisse, quae ad laudem Amoris
pertineant» xa\ xa p\v aWa ovx 6 poicoS $ av pa6x a\
Sic Beltkeriis et Stallbanmius omisso piv] quod post opoicoS in
omni- bus fere codicibus reperitur. lliickertus ad li. 1.: Habet
sane, inquit, quod mireris, piv parti- cula in eodem orationis
membro repetita. Attamen hoc ipsum cautionem imponit critico,
cni nihil magis est mctnendnm, quam ne librariorum vel
grammaticorum' correcturas in textam reci- piat. Quos quum multa
hic illic correxisse constet ex iis li- bris , in quibus ipsa
correctoris manus cernitur, quid est magis consentaneum, quam iis
quoque in locis, ubi insolentius dictum aliquid pars codd. non
agnoscat, omissionem ab antiquiore critico institutam in libros
receutiores receptam esse. Quam ob rem, ut ratio reddi nullo modo
possit repetitionis, servandam tamen particulam equidem existimo.
Sed vide, an possit sic defendi, ut prius pev membrorum oppositioni ,
alterum sententiae inservire dicas; et cetera quidem, non sunt illa
quidem similiter admirauda. — Si recte Riickertura intellexi , eius
explicandi ratio nullo modo pro- bari potest; non perspicio enim,
quomodo membrorum oppositio non item sententiae oppositio esse
possit. Ceterum exempla non- nulla laudavi supra ( cfr. annot. p.
21. et p. 216.), quibus pro- batur, interdum falsum esse, quod
omnium codicum consensu con- iirmetur. Nostro loco duo Bek- keri
codices piv post opoicoS positum omittant, ex quorum au- ctoritate
id recte omiserant Bekkerus et Stallbaumius. Ceterum male post SavpaOxa
punctum ponitur. Schleiermacherus verba convertit : und wemi auch
das Uebrige wol liiclit alles eben so bewundcrnswerth gewesen
ist; aber die Schonlieit der Worter und Redcnsarten am Ende,
wel- cher Horer ist nicht- uber diese erstaunt? Haec quamquam
cum oratione Agathonis apprime conveniunt, tamen quoniam vitope-
rium continent prioris partis orationis, praeter consuetudinem Socraticam sunt,
de qua vide an- not. p. 191 Signo interrogandi post $avpa6xa posito
locus sanatur. Sensus est : Et cetera qui- tiov ovoficciav xal Qijuatav tlg ovx av
it-utXcc ytf axovav; ixu syays Iv Sv[iovjisvog , on avios ov% ol6$
dem nnm non pari modo praestantissima sunt? to Sh iitl
xrjXevti) S rov ndXXov 5 . Haec verba Riickcrtns ita explicat, utro' de
vocu- las censeat cum sequeDte rov xdXXovf genitivo arctius
cooiun- geudas esse. Addit idem, genitivum nominis alicuius coniunctiim
cnm nominativo articuli genere neutro positi prorsus non differre
ab ipso nomine, quod cum suo articulo exhibeatur; perinde igitur
esse, utrum to rov xaX XovS, an to xdX- XoS scribatur. Idem
praeceptum Matthiaeus dedit in Gramm. ampl. 285. p. 574., quod ta-
, men neutiquam probari potest. Nominis periphrasis effecta
illa per articulum neutro genere positum semper aliquam nominis
adjuncti conditionem indicat, quae e verborum contextu facillime
eruitur. Posses igitur nostro loco, y scriptor ro' 6e tov xaX- XovS
arctius coniungi voluisset, verba convertere l Vim autem
pulcritudinis et verborum et di- ctionum cet. Non aliter, quam
Riickertus , verba converterant Schleiermacberus in conversione p.
427. et Schulthessius p. 106. ed. Orellii. Persuasam nobis est, to
61 irci t eXevTrjS ita positum esse, at, cum praecedentia verba Ta plv
dXXa reliquam ab initio orationem denotent, hoc nihil aliud
denotet, qqam: verba posita sub finem orationis» Tov xaXXovS autem
genitivus e verbo oi^enXdytf pendet, de quo genere structurae vide
annotat, p. 197» et Matth. Gramm. ampl. $. 868. p. 681« Sensas est;
Quod autem verbaattinet snb finem orationis posita, quis pulcritudinis
verborum dictionumqne non summa admiratione tenebatur
audiens? Ceterum aoristo tempore Plato usus est temporis rationem habens , quo
Agatbonis audita est oratio. Rarissimo verba magnum animi affectum
in- dicantia alio, quam aoristo tempore ponuntur. In caussa boo
est, quod animi commotio maior, ut subitanea , ita fugitiva est,
non dnrans, ut iam praeterierit necesse sit eo tempore, quo qnis
eius mentionem facit. Perfectura tempus infra babes«p» 211. D , ad
quem locum vide annotat. T&v ovopaxcov xa\ farf- p d T os
v . * Ptjpctxa sententiae ' sunt, ovopata singula verba» Hinc
Eryximachus non singala Heracliti verba, sed integram sententiam
vituperans male ver- bis expressam p. 187. A. dicit J coSTtep tdcoS
xal 'JIpdxXeiTof ftov - Xexat XeyeiVj inel t ois ye fir}- padiv ov
xaXwS Xeyei. Infra legitur p. 221. E. Toiavxet icotl ovo pax a. xal
fjTjpara i&<vBev itepiapnix°vTai x. r. X. Adde Piat. Apol.
Socr. p. 17. H. ov pev t ot } pa dt\ avdpeS 'ABp- vaioi,
xexaXXieTtrfpkvovS ye Ao- yovSj (Ssxep ol Tovxoovy fitjpa- 6 i Te
xal ovopadiv ovde xe- xodprjpevovS x. T. A. Piat. Cra- tyl. p. 899.
A. — otov 4il < piXoS * tovto iv a avzl fiijpa- r oS ovopa rjpiv
yhnjrai, ro te Vxepov avxoBev iooxa igiiXoper x. t. A.
ixel iycoye ivBvpov - psvoS x. r, A. Pe ixei vocis C t’
iaouca <rv8’ lyyvg rovxav ovStv xttXov elnelv, v% a.ia%vvr/g oXlyov
dxoSgdg cjj%6fit/v , sl xr/ tl%ov. xal yuQ f ib Togylov 6 loyog
dvE(ii(ivt]6xsv, agtE drejrvag rd tov 'Ofit/Qov EJiHcov&rj'
i<fojioi\u>]v , fit/ /ioi xiktv- caussali. potestate atque de
eias origine supra diximus annotat. p. 151. Ad verba, quae
sequuntur, oXlyov dnobpaS qtxoprjv Stallbaumius rectissime aunotat;
ne quis scribendum suspicetur oXi- * yov dnodpaS ar Gajfppijv, €en
~ tenti a verborum haec est : ego prae pudore paene aufugeram,
siqua potuissem. Vide praeterea annotationem p. 159. et
ny elxov. Vulgo legi- tur 71 oi pro ny» Hoc optimi plurimique
codices praebent* At- que videtur, Riickertus inquit, ny etiam
verius est; non tam enim , quem in locum fugeret, curandum Socrati
fuerat, quam quae fugiendi ratio et via esset, possetue an non. Utrumque
licet, sententiam si spectas, in ser- mone familiari, et locum,
quem versus aliquis fugam parat, et rationem , qua fugi possit ,
sine maguo sententiae discrimine commemorare, neque nostratium
vitu- peraretur, qui diceret: ich war schon halb auf der Fiucht,
vrenn ich nur wusste, wohin aut wenit ich nur wusste, wie. Sed
araatrt ' Graeci, ut supra indicavimus an- notat. p. 28., verba
motum in aliquem locum significantia cum quietis notione
coniuugere; hinc non dubium est, praesertim cum codd. optimi,
quorum in nume- ro Bodieiunus est, ny exhibeant, quin Plato Ttoi
non exhibue- rit, Ceterum dnodidpatixeiv ver- bum de servis
soleune, qui, quod hero debent, id non sol- vunt
aufugientes. Debent autem hero servitium. Apte igitur ano- 6 paS h.
1. Socrates dicit, quod claucnlum aufugiendo, quam pro- miserit,
non praestiturus esset Erotis laudationem. xal ydp pe Topy io
v o XoyoS. Gorgiae Leontini ce- leberrimi sophistae et
dicendi magistri illius aetatis, cuius omne artificium in verborum
ornatu et magnificentia (Xap.nd. 8 eS, vide an- notat, p. 196 )
constabat, id quod abunde discimus ex Phaedro Pla- tonis. Duae
declamationes, quae eius nomine feruntur, Helenae en- comium et
Palamedis defensio quibus de coussis suspectae fidei habeantur,
nescio ; id scio, pro- prietatem Gorgianae eloquentiae in iis
reperiri. Riickert* cfr. Pliilostratus de Vit. Sophist. I. xat
'AyaScov dt 6 rijs tpaya)- 6 iaS noitjzi}s , ov 77 xoipcpSla Cotpdv
re 71 al xaXXienij olde , noAXaxov tg5v lapfieicjv yop -
yidZei. in enbvSrq * Hanc formam Atticis usitatam cum parum
no- tum habuissent librarii, factum, est , nt saepe mutarent.
Vulgo legitur InenovSeiv. Bodleianus codex inenovSet exhibet,
cfr. Matth. Gramm, ampl. J. 198. 4. p. 360 Buttmanni Gramm.
uropl. T. I. p. 432. Rem extra dubita- tionem ponit Eustathius ad
Ilom. Odyss. p. 1946. ed Rom., quem Stallbaumius laudat:
napaStdcodi ydp 'HpaxXeidTjS , ori 'AttihoI tcov 6 'Aya&cov
rogytov XEcpakrjv dsivov liyuv Iv r tp Xoyca ini rov iftov koyov nipt^ocg
ccvtov pe At&ov ty atpavl-a itomtius. xal ivsvorjOa tote aget
xocrayii.a<5rog coV, 7 jvlxu ifiLV cS [toAoyovv iv rui pigti pE&’
vp& v tOVS TOlOVtOVt V7tEp6wte\lXOVi iv rui ijra
povcp icepazov6iv f TfSrj Aiyovzef xal ivero/fxrf XoA i 7t£7COirfX7f
HOLI OVZGD tprjoi llavaizios ex £ tv ypet- tpaS Ttapa
IlXdzoavi' xal &ov- xi8i8?}S 8h xixPV rat X( p toiov - zrp
*Aztix<j) cfr. Stallbau- mius ad Piat, de rep. I. p. 329*
B. ubi eadem eiusdem verbi forma in omnibus fere codicibus depravata
reperitur.in ijC£7t6v$£iY, Fopyiov he < p aXtjv 8et- v o v
Kiytiv . Annotant interpretes , ad Homeri Odyss. A. 632. respici, ubi
haec leguntur: ’Ejje 81 jkmtpov 6ioS yp£i, 'Mt/ poi ropyeujv
HEtpaXrjv 6ci- VOIO TtEXttpQV. *E% at8ov
7tijitl>£i£v ayavrj Il£p - de<p6v£ia. Gorgus adspecto
capite mortales in lapides mutari , veterum opi- nio erat» Iam
vide, quam lepide Socrates in Gorgiae Gorgusque nominibus lusit.
Tanquam conspecto Gorgus capite, audita Agathonis oratione, ue in lapidem
mutaretur h. e» lapidis instar avavSoZ sederet, veritum se esse
dicit. Ceterum quod apud Ho- merum est 8£ivolo neAcopov nunc satis
festive Seivov Aiyeiv dicitur adhaerente notione mon- struosae
dictiouis. ini rov ipov A oyov. AoyoS hoc loco orationem significat,
quam Socrates habiturus est ; igitur verba convertenda sunt : io
faturam orationem meam. Rependit autem Socrates satis
festive, quae ab Agathone dicta erant p. 194. A, qtappdxzeiv
fiovA-El /i£, cJ StOXpaztS — Uva $opvfiri$(Z. — Pro A faov zy
atpcovia consuetius dicendi genus est p?) — pl dfpaovov noi -
rjCEitv aSTTEp A i$ov, sed multo lepidius est atque praecedenti
comparationi convenientius Ai$ov zy dgxovia. xal iv ev 6 t} 6 a
zoze apa xazayiAadxoS gjv, Aoristicum tempus positum habes tempore praecedente
imperfecto, ut momentanea actio a durtua discernatur, de quo
significatu temporum vide annot. p. 36. xaxayekadxoS nominis
siguifi- catum supra tetigimus annot. p» 148. Ceterum cave zoze
cum iv£vo7fda coniuugendum censeas, pertinet enim ad sequentia
verba tempus accurate exprimens, quo tempore Socrates deum
laudare promiserit. "£lv imperfecti par* ticipium est : oratio
enim recta audiret: zoze apa xazay iAatfzoS 7)V i/vixa x. z. A.
Respicit autem Socrates ad p. 177. D. ovSeiS doi, gj *Epv£,lpaxe, —
ivavzia < pielxai . oirze ydp av itov iyoo (iizoLpaidaipt , o£
ovdiv cptpit «AAo InidxadSai i) za ipeo- zixd x . r. A.
iv reo pipet pe$’ vpdSv. Socrates sibi ridiculus videri sc
simulat, non tam , quod Ero- tem laudare promiserit , quam quod iis
promiserit, quibus nemo elegautiorem et pulcriorem Ero- D iy%(d[iucCs6ftat rov "Epota xctl
l(pr\v ilvcti dsivos tu iCQOtuccc , ovdlv Side os cepa tov npciy fiatos,
os edsi iyxa(ucc£uv btiovv. iyd (ilv ydp vit dfieXreplas (S(i?]v
detv tdXq&ij kkyuv sceql exccGtov rov lyxo(ua^0(iivov 9 nat tovio
(ilv vitdp%eiv , avxdv 81 xovxov tu xaU.i- <Sza ixktyo(iivovs &s
evxQSTt&Ctaza ttdivau xal itavv tis laudationem exhibere
possit. Vides igitur» accentum orationis in verbis ponendum esse iv
roa fxipEi vficjv, quo facto ironiae acerbitas
incredibiliter angetur. Quae sequuntor verba .xai tcpr\v eivai
betvoS xd ipeo» nxd non satis cum Socratico dicto p. 179. D.
conveniunt. Mo- destius euim illic Socrates locu- tus est. Ne
mireris igitur, quid sit, quod vehementius Socrates hic t se
vituperet : omne vituperium in convivas convertitur, qui non veriti sint,
coram Socrate, homine maxime erotico, rerum eroticarum imperitiam
suam pro sapientia vendidisse. iyd p\v ydp vn* dfte A-
repiaS x. r. A., Hi* verbis auditis verisimile est, erubuisse, qui de
Erote verba fecerunt. A(i£\xeptocS teste Stallbaumio Bodleiani codicis
lectio est aliorumque plurimorum librorum. Riickertus non nisi in
Bodleiano, Vaticano ono, Angelico uno, ct(iE\- tepiaS reperiri
annotat. Iloc certum est, codices permultos afiefarjpiaS praebere,
quae lectio unde originem duxerit, haud dif-" ficile est ad
explicandum. Li- brarii enim cura non ad etymo- logiam respicerent
df\eX.TEpia nominis , sed ad analogiam vo - cabulorum in ?jpta
desinentium, ad dfieXxrjpia lormam recipien- dam proclives
erant. KEp\ kxccOxov rov IYt xcj yidS,oy iv ov.
Ficinushaec verba convertit: Putabam equi- dem ob ruditatem meam,
do quocunque quod lauda- tur a nobis, vera oportere re-
ferri; quod si verbis exprimere voluisset Plato , scripsisset haud
dubie o iyx&judZExai. Schlei- ermacherus exhibet in conver-
sione; Ich duchte namlich in meiuer Einfalt, man miisse die
Wahrheit sagen in iedem Stiick von dem zd preis senden, quam
conversionem verborum nemo facile probaverit* Kiickertus idem esse
contendit Zxatixov x o iyxa>yiaZ6j.ievov 'at- que xo ael
iyxa>/ucu}6y£vov f sed exemplis hic loquendi usus pro- bandas
erat, quod V. D. facere omisit. Vulgo legitur : Ttipi Ixa - <Sx
ov xoov lyxooptctZofiivGDv, quae lectio Schleiermacliero pla-
cuisse videtur. Nobis ea- non est, nisi coniectura eorum, qni TCepl
bcatixov xov iyxGopiaZo- flivov explicari posse diffiderent.
Scripsit fortasse Plato : TCepzkxd- Otov iyxG>yta£o/i£rov h. e.
de omni re, si laudatur; fortas- se etiam verba xov iyxGDj.uaZo
pi- vov glossema sunt, quo facillime, si abesset, careremus. Nam
cum praecedat ovbtv eISgjS dpa xov itpdyyaxoS , cJ? ibtt
iyHGoyid- ?,Elv oxiovVf satis patere opinor, izepl kxaoxov per se
positum rem laudandam significare. dfj (ieya IqiQovovv m$ tv
Iq<ov, wg flStd g ti/v ftuuv xov ixaiveiv ouovv. xd de ccqb, cog
Houctv, 01J tovxo rjv xo xakmg htcavelv ouovv, dlXcc xd tog (ii- E
yufxa uvaxitiivtu xa Ttodyuait, xal d>s xedhaxet , iav xe y ovxag
£%ovxa iav xe (irj. ei Se 4>tvSij, ovSiv «p’ tjv XQayfia. XQOv^Qtjdy
yaQ, mg foexev, uxiog exuOtog xal tovto fitv vnap- XBtv,
Bastius paru*n perspe- cta VTtapxetv verbi potestate 7tal tovto
npdotov pkv rei pkyiStov fikv vnapx&y scribendum cou- iecit.
Frustra. Rectissime Stall- baumius xal tovto plv vnap - inquit,
est: et hoc de- bere orationi subiectum esse argumentum. Nam
verissime Scbneiderus ad Xe- noph. Oecon. XXL 11. vnap - X&iy
dicuntur a Platone quae- c ungue fundamenti loco adesse debent ,
ubi quis quid exsequi vo- luerit, to SI a, pa,
cjsHoihev, ov tovto 7/r x, t. A. De xo 6 k vocularum significatione
vide annotat, p. 111. Adde Stall- banmium ad Flat. Apol. S.
p. 23. A. " Apa conclnsivae notionis particula hoc loco
ironiae augen- dae inservit. Praeteritum tem- pus falsam opinionem
aut spem fuisse indicat, quam aliquis olim susceperit atque per
aliquod tem- plis veram habuerit. Utuntur autem hac formula satis
cum do- lore aut acrimonia ii, quos even- tus docuit, aliter atque
antea putaverint, rem se habere. Eo- dem modo paullo infra legitur
p. 199. A. aAAa ydp iyco ovx ydij apa tov tpoxov tov inai-
•vov x . T. A. Egit de hoc ge- nere dicendi Stallbaumius ad Piat.
Phaed. p* 68. B., ibique Home- rum laudat, Odyss. XVI, v. 418,
'Avtlvo', vfipiv £x gdv * xaxopkj- Xav&, xal 61 6k
tpa6iv iv Stjpoo 'l$axi]S pe$ * optjXixtxS ippev' dpidtov
fiovXy xal pvSotdi * 6v 6 * ovx apa toios hjdSa. Pro
irpporfccto interdum in hoc dicendi genere praesens tempus
reperitur, v. c. in Piat. Gorg. p. 469- E. t /2 'ScoxpaxE5 i ovtgj
pkv navtES av pkya Svvaivto , IkeI xav ipnpjjdSEirj olxla
rod- tqo ra5 tponoo rjytiv' av 6oi do - / xrjy xal ta yE
'ASrjvaicov vsa- pia xat rpii/pEiS xal ta nXoia navta xal ta
drjpotiia xal xd idta. aAA’ ovx apa rovt* l6ti xd pkya Svva6$ai, to
not - eiv d Soxei avtqj, DiiTert a praeteriti praesentis temporis
usus ita, ut illo posito evento aliquis indicet se edoctum esse,
rem aliter se habere, atque olim existi- maverit , praesente autem
tempore indicatur, indicare aliquem ita, ut iudicium eius adhuc uoa
probatum sit eventu. aAAa to goS pkyitira avatiSkv ai t&
npdypa - ti. *Avaxi$kvai verbum solenne est de donis, quae diis ab
homi- nibus consecrantur» Idem etiam eum significatum habet, quo
ali- quis alicui aliquid attribuere di- citor. Neutra verbi notio
ad nostrum locum satis quadrat. Nimirum ironia consueta
Socra- tes usus et pietatem d£ia diis 15 ijfiwv xbv
"Eqcotu lyxauiateiv dot-ei, oi>% ortas lyxa- (uaGtxai. 8ia xavxa
8i), olfiat, rtavxa kbyov xivovv- xcg avati&exs xa "Epazi, xal
ycczt avxbv xoiovxov rs 109 tivcu xal xoGovxav aixwv, orta$ av (patvtjxai
tbg xak- liOrog xal olqiCxos dijkov oxi xoig M yiyvuGxov- consecrantiam
et mentientium impudentiam notaturus est. Deest vernaculo sermoni
verbum, quod utramque notionem exprimat; nam quod mihi nunc in
mentem ve- nit, aufhiingen, de fore suspen- dendo intelligas
facilius , quam de corouis, quibus templorum parietes exornabant
veteres. Sed pone, vernaculum illud Graecorum verbo dvaxpEfxairvvvai
ap- prime respondere, alteram notionem adde, qua dicimus : i e -
mandem etwasaufhiingen, et expressum habebis avariSi- vai verbum. In
Latina liugua verbum est, quod Graecorum verbo ad unguem
respondeat: imponere alicui aliquid»
iepovf$f>i}$7}ydp,G)Sgoi- xtv. Socrates ex orationibus,
quae hucusque habitae erant, conclusionem facit ad Eryximachi medici
voluntatem p. 177. D» , eiusque verba ita interpre- tatur, ut non
veram Erotis lau- dationem, sed arbitrariam, hoc est, vel veram vel
falsam lauda- tionem exegerit. Hinc verba explicabis coS UotxsVf quae ita
pro- feruntur a Socrate, ut ad con- vivarum orationes respici
signi- ficetur. Sensus est: Deun die Aufgabe war, wie aus den ge-
haltenen Hedeu crhellt cet. iy xoo fiiaZeiv 8o%ei t ovx 0
7tQ3s: iyxooj^iiddETat. Fiemus baec verba convertit : Nihil ‘fenim
referre, faisaue an vera sint, cum propositum sit, non
quomodo Amor ipse laudetur, immo ut quisque AMOREM laudare quam
maxime videatur. Indicativo futuri rei veritas indicatur, quae arbitrio
opponitur, quo quis Erotem laudandum censent, Paullo obscurius
Socrates loquitar. Verborum sensus hic esso videtur: Convivas non Erotem,
sed se ipsos landasse ita, ut suam sententiam de Erote laudando maxime
celebraverint» xavxa Xoyov xivo-vv- xeS avaxiSe te x
&"Ep gdxi. Ruckertus ad h. 1. XoyoS 9 in- quit, utrumque
significat, oratio- nem et orationis materiam, xt- veiv Xoyov , excitare
sermonem vel excitare, de quo dicatur» Hinc sensus est, nihil, quod
dici possit ullo modoy praetermittitis, quin AMORI tribuatis.
IldvTot Xoyov xiveiv neque de ora- tione neque de materie
orationis accipiendum est, sed de genere dicendi ac de modo res
animo concipiendi; verba converterim: iedo mogliche Rede- und Be-
trachtoqgsweise auwenden. cfr. Piat, Phileb. p. 15. -E. o 8 l
xpcotov avrov yevodpevoS hxd- dTOTE XGOV VECJV tfd$ElS ttfS* XlYCt
dofpiaS EvprjHooS Sqdavpdv vq>* ijSovrjG ivBovdia te xal xavxa
mvtt Xoyov h. t. A. Adde Piat. Theaet. p. 163. A * tovxov *a- ptv
td xoXXa xal arojta rav-<Siv' ov yaQ av otov xotg ye e16o6l xal xctAag
y' £%ei %al asfivag o htatvog. uM.it yaQ lya ovk ydq figet rov x
qotcov xov BTtctLVOv , ovd’ eidas vfilv c o^oAo- yijtia otul ainog iv %
c3 hbqu ineat ve<SE6&au y yXdrta ovv viti6%ETO , fi (pgqv ov. drj.
ov yitQ ra ijiivrjdctjJTjv . Piat. de re pub. V. p. 450. A.
o6ov Aoyov ita- Aiv, QjSXEp apxy$> xivsixe zepl rijs noAixtlaS.
Ad ava- tLSeze cogitando repetendum cen- aet Riickertus navia A
ayov vel supplendum avxov , quod ad jtavxa Aoyov referatur.
Frustra, *Avazi%kvai hoc loco absolate positum est, ut idem sit
atquo txvd%i6iv itoeltiSat. t oiovtov xe elv cti xa\ r
o 6ovx av ah iov . His ver- bis indefinite positis et natura Erotis
et utilitas dei vario modo in convivarum orationibus descriptae
insigniuntur. Igitur roiov- tov talem significat, qualis a convivis
diversis modis descriptus est, lodovicjv talium auctorem
tantorumque, qualium et quantorum auctorem illi Erotem praedicaverunt.
xal xaAas y * $\eix. r.A, Eadem fere ironia Socrates utitur in Plat.
Apol. Socr. p. 20. C. xai iyco i ov Eutfvov ipa- xdpitfa, ei aS
aArjS&S lx £l T<xvrr,v xifv xix v V y Ka ' L °vxcjS cpptXdii
8i8a6xei. lyd yovv noti avios ixaAAvvo/njv te xa\ JjftpVV OflTfV
<XV y eI 7/7tl(jxdp7fY xavra * «AA* ov ydp initira- / tat , ($
uvdpES ’A$rjvdioi. Cave igitur, serio dicta censeas verba xdi
xaAd>S y ’ tx £L tepraf o Zrt aivoS. a A A d ydp iydf.
Duae co- gitationes insunt in sequentibus : Promisi me verba
facturum esso de Erote ; Ignaras eram rectao laudandi rationis,
quam vos se- cuti estis. Ad olterum cogitatio- nem yap refertur, ud
alteram aAAd. Huiusmodi cogitatione* quoniam saepius in nna
enuntia- tione comprehenduntur, aAAd ydp haud raro coninnctum
reperitur. Quod sequitur ov8 ’ e1- dtuS' Latine expressum audit r
Sed enim ego non noveram buuc modum laudationis, non scieus autem
vobis promisi, ut ceteri, ita et ego ipse dei laudationem. Positum igitur
habes ovd’ ei- do oS pro ovk e16gj£ 86. Effici- tur autem illa
scriptura, ut accentus orationis , proprie in ovh lidcoS 8i ponendus , in
sequens finitum verbum transeat. ?} y A arra ovv v it e 6 x £
- to, 7 ) 8 fe tppTrjv ov. Legitur apud Euripidem, ad quem Socrates
respicit li, 1. , Hippolyt. v. 612. 7 } yAc566 * ojjgSjjqx’,
6t tppi} v avapox oi Haud raro in Platonicis scriptis ad hunc
versum alluditur, v. c, Theaet. p. 154, D. EipiitlSeidv xi
HvpjpijdEiai' tf plv ydp yAdoxxa aviAtyxxoS ijpiv forat, 7 } cppifv
ovx avEAeyxxof. Adde etiam Cicer, de ofif, 111, 29* 108,: Nou enim
falsum iurare periurare est, sed quod ex animi tui senteutia
iuraveris, sicut ver- bis concipitur more nostro , id 15 *ftt
lyxafua£<o rovtov rov rgoxov ov yag av Swal- fiijv' ov (iknou akka ta
ye dkqdq, el fiovkte&e, non faceie periariam est. Scite
enim Euripides: Iuravi lingua, mentem iniuratam gero.
Ad Socratem nt revertamur, Eu- ripideis verbis laudatis hoc
effi- cere voluit: Promisisse sese qui- dem Erotis laudationem, sed
non talem, qualem ediderint, qui ante 6e locuti sint. Aut igitur
ta- cendum sibi esse , quippe pro- misso suo ad Erotem illa
ratio- ne laudandum non obstrictus, aut eam laudationem
proferendam esse, qualem, cum promiserit, in animo habuerit.
, ov ydp kri iyxapiaZa xovxov tov tporcov. Breviloquentia est : hae
enim sen- tentiae verbis insunt: laudaturus eram, at non amplias
lauda- turus sum , si huuc in modum laudatio instituenda est.
Riickert. *EyxoopidS,co absolute positum est, ut non tam actionem,
quam ipsam verbi notionem cum vi repraesentet : iyxcjpia^cov el/ii.
Hinc facile intelligitnr, quid sibi velit hi hoc loco.
ov ydp av dvvaiprjv . ov /jLevxoi . Admodnm dubi- tant viri
docti de horum verbo- rum iuterpunctione recte ponen- da » alii
punctum post ov f.Uvtoi ponendum, alii omnem prorsus
interpunctionem post ov fievtoi delendam censent. Atque sic
Bekkerus verba edidit, quem Riickertus secutus est annotans ad hunc
locum: tftraque verba in- terpuogendi ratio vera est gram- matice;
sensum si spectes, roi- rere, quid sibi velit tam fortis ac
vehemens negatio, qualis fa- tura sit, si ov pkvtoi cum prae-
cedentibus iungatur. Contra si iungas ov pkvtoi aXAa, multo lenior
erit oratio, sensumque praebebit hunc: Vestro isto modo AMOREM laudandi
consilium plane abieci, non possim enim, etiamsi forte velim.
Attamen hoc ita accipi nolo, quasi dicere omnino recusem, immo vera
quidem cet, Equidem non dubito, quia Ov pevtoi verba per
anadiplosin rectissime ab Stallbaumio expli- cata sint, cuius
exempla si quae- ris, adi Stallbaum. edit. Sympos. p. 97» Quod
autem scire se negat Riickertus, quid sibi fortis negatio velit h. 1.,
exprimendae veritati enuntiatiouis negativae inservit, ut verba
convertenda sint : ich konnte es auch nicht, wirklich nicht,
ei ^fiovXedSe, i$k X oj xa x 9 ifiavxov . De (5ov Af- 6%at et
kSkXeiv verborum signi- ficatu vide aunot. p. 44. — Ka - T a
praepositionem quod attinet, vide Piat. Apol. Socr. p. 17. B, el
phv ydp tovro Xiyovtiiv, opoXoyoiyv av iycoye ov nata. xovtovS
elvai jirjtcop. Piat. Prot. p, 517- A. iyd 8e tovtoiS aita6i xaxet
tovro elvai ov Hvp<pepopai t de quo loco supra diximus p. 41.
Adde praeterea an- notat. p. 134. — n Iva prj yk- Ao ota o(p\cD .
cfr. Apol. Socr. p. 17. C. ov ydp av di/ itov Ttpk - 7Toi, cj
dvdpeS, tp8e ry uda toSjzep psipaxlaj TtXatTovti A d- yovS eis vpaS
elsdvai , quem locum eo aptiorem hic censebis, l&tfaa tljteiv
xcct’ Ifiatnov, ov itqos rovg v(istigovs B koyovg, ivu (lij yikattu.
ocpfao. oga ovv, cj <X>aidQt , {I > i qno
certius est, Socratem aetate provectiorem fuisse eo tempore, quo
Agatho ItuyIxuk celebravit, h. e. 412. a, Cfi. P. Ceterum ocpXt o
cum quadam ironia in ma- lam partem dicitur, ut supra p. 183. A, a
ei xiS toXpoSrj itotetv aXX oxiovy — nXrjv tovto, za piyidxa
xotpnoiz 9 av oveidrj. Eodem modo d.7ZQXav£iv verbd Graeci utuntur,
cfy* Piat, dc legg. p. 910. B. xal itada ovtgdS f\ TtoXiS aitoXavxf
xgdv adefi&v zpoitov riva dixcdcof. opa ovv , <u
$ai8pe t ei xi xal zotovzov Xdyov 6iei 7tep\ "Epcox os .
Stall- baumius per epexegesin verba addita censet zdXifSif
Xeyopeva dxoveiv , cuius structurae per- multa exempla reperiuntur.
Unum exemplum ut laudem, cfr. Piat. Phaed. p. 103. A. cap. 51.
xal ziS eh te xdov xaporxcov dxov - 6aS — itpoS Secjv, ovx iv
roiS XpodSev r\piv XoyoiS avxo to ivavxlov xdbv vvvl
Xeyouivcov copoXoyeiro y ix xov iXaxxovoS zo pei2,ov yiyvedSai xal
ix xov pdZovoS xo tXaxxov, xal axe- Xv&$ avxTj elvai j/ yivedi?
rots ivavxioiS , ix xoov ivavxi&v; — Ceterum male rerba
dispo- sita sunt , quandoquidem comma non post diei ponendum est,
quo loco id posuerunt editores ad unum omnea, sed post
"EpGoroS. Sensus est: Vide agitur, o Phaedre, num forte
tibi etiam huiusmodi Erotis laudatione opua sit, ln e. vera,
non mendaciis cu- iusvis generis referta. ovopadi 81 xal
Sidet firf/idxGov roiavtg. *Ovo- para et fi?jpaxa quo
signifi- catu poni soleant, supra dictum est annotat, p. 221.
Sententiam quod attiuet, duo suut, quae a Socrato in orationibus
couviva- rum vituperantur : sententiarum falsitas, verborum
enuntiationum- que nimius ornatus. Igitur seri' ptura non opus est
uqius codicis Vindob. , quae magnopere placuit Schaefero (ad Dionys.
de compos, verb. p. 28.), ovopadei 81 xal Sidet fcrjpdruv
toiav- XXf* In sequentibus ditola av tiS XVXV iiteXSovda additum
reperitnr in permultis iisque pptl- mae notae codicibus di parti-
cula, quae nullo modo ferri potest. Admissa ea sententia verborum existit haec
: Vere dicta pudire, nominibus autem et positu
enuntiationum tali (b. c. vero) et qua lis cunque forte «eae obtu-
lerit loquentl. Fortuitum b. e. non exquisitum sententiarum verborumque
positam facile probes, verum positum quamquam cum veritate rei
conve- nientem interpretari possis, ta- men minus probabilem h, 1.
in- dices. Igitur di post ditola collocatum, quo efficitur, ut
zot- ctvxy ad praecedentia non ad sequentia verba referatur,
atque ut commemorata posituras veri- tate simplicitatis notio
adiunga- tur verborum atque dictionum,, ex ordine verborum
semovimus. Idem fecerunt Bekkerus, Stall- baumiua, alii. Ficinua
verba convertit: Vide itaque , Phaedre } Xi xal toiovtov Xbyov diti
'Egcotog, Talr^si] Xi- yufiwu uxovt iv, vvofiaGi 8s xai
&i<Ssi gtjfiatav roiavry, inoia &v ns hul»oS6a. Tbv ovv
QaidQov tcprj xai rov S cckkovg xtkivuv Uyuv, bny aixbg ot
'oi- ro Sstv ilnsLV, rctvry. "En roivvv, tpavuv, a
<I>aldQe, xaQig fiot Aya&mva a/iwg’ arta Igia&ca, tva ,
«vo- C fioXoynHansvoe ««?’ «vtov ovtag r/St] Uya. ’AU« TUiQiyi-u ,
tptxvca tov OcuSqov' ulk igata. Msza tavra brj rov 2axgdrg hv Lvd&vSe
xoftlv aglaGftca. utrum vobis 'placeat orationem fiuiusmodi
nunc audire , quae de Amore vera duntaxat enarret, verborum
nominumque , utcunque accidit, compositione procedens. Uri
roivvv, tpavai, <a $ai8pe, TtapeS pou Car ad Phaedrum
potissirauih et hoc loco et sapra Socratis eratio se convertat, si
quaeris, vide p. 197* D # iyco 8} rjSioos; pkv axovat ^SooxparovS
8ia\eyojitvov, dvay- ytaiov 8i poi ImipeXqSijvai rov iyxcopiov ro5
"Epcon xal amo * SeZadSai nap* bvoS txutixov vjigdv rov
Xoyov. o it q avro? olotro 8 si v elmeiv, ravty. Commode
abesse posset ravtft, quae vox e praecedente on rg suppleri so- let
alias haud raro. Posita no- stro loco est, atque in fine qui- dem
totius enuntiati collocata, ut significantias Phaedri cetero-
rumque convivarum verba red-r de ren tu r, quae obliqua oratione
liunc exhibentor. Dixerunt au- tem illi: omjf avtoS olei 8tiv
Xeyeiv, ravry elnk. ovrcoS rj8 tj Xeyco. vide annotat, p.
195* Schleiermacheras verba convertit: damit icli mit ihm eioverstanden a
1 s d n n n welter rede. Recte } displicet ta* men vocula w ei ter,
qua rectius carueris. Nam X£yco t ut XoyoS in praecedentibus sexcenties
de Erotis laude, vide annot. p. 187., de laudatione incipienda
intelli- geudum est : Damit ich, wenn ich mit ihm mich verstandigt
habe, alsdaun den Eros au loben beginne* iv$£v$e Xo%kv. Vide
an- notat. p. 15. Stndiose id agit scriptor, ut lectores seraper
ad- moneantur, orationes convivarum non accurate neque verbo tenus
referri , quod quo consilio fece- rit, in Comment* de Syrapos. Pla-
tonis indicavimus. xa\a>£ poi lt8o%a$'KCC$- TjyijtiatiSai
rov Xoyov, li, e. disputationem exor- sus esse. Deest , quod
mea culpa potius factum puto , quam quod onmino nullum sit, sed
deest mihi exemplum verbi ita usur- pati cum genitivo. Non
desunt, ubi accusativus sequatur, velat Thcaet. p. 200. E. 6
xaSrjyov- ptvos rov notapSv. Riickert* Verba transitiva haud raro
ita adhiberi, ut non tam actio, quam verbi notio urgeatur ,
saepius annotavimus, v. c,p. 22. p» 59. Cap. XXL Kal
ftijv, e» (pile 'Aya&av , xalwg fios tdofcg xadyyrjtiaB&ai zov
Ivyov , Isyav, 3« xqwzov tt£v 6'tot ccvzov iTaStL^ai vnoiog zig iotiv 6
“Encog , vBzt- qov Ss tu k'pya avzov. zavzrjv zr;v uQX>i v naw
aya- [itu. Xfh ovv uoi tcsqi "Eqsazog, insidi; xal ralla xa-
lag xal peyal07tQS7iu g 6iijl%sg olog ia ti , xal %6i$s D tizi'
jcotSQov iau zowvzog Hoias usa» ut unum tantummodo exemplum
laudem, legitur p, 178« C. o ydp xpi? dv^poonoiS?/- yeuSSai
navxoS x ov filov xcdS ptAAovdi xaXwS fiicooetiSai, quod idem
valet, atque o ydp XPV tOtS CtV%pC£> 7 tOlS &mp ffl'EyGOV
elvca navxoS x ov fiiov. Sic no- «tra verba posita sunt pro xa- Ao?
fioi £doB,aS xaSrjyijxtjs el- vat x ov Xoyov. oxt np doro v
p\v S eoi. cfr. Cic v de ofF. I. c, 2. $. 7* Placet igitur ,
quoniam omnis dis- putatio de officio futura est y ante definire , quid
sit officium, quod a Panaetio praetermissum esse miror * Omnis enim
y quae a ratione suscipitur de aliqua re institutio , debet a
definitione proficisci , ut in !el ligatur quid sit id t de quo
disputetur * Ad hanc instituendae disputationi» legem Socrates
etiam in Menone respiciens p. 77* E. docet: ante dicendum esse,
quid sit id, quod virtus appelletur, quam possit, utrum doceri
queat necne virtus, diiudicari. tavtrjv trjv apxrjv na-
vv aya pax. y Aya<S$ai verbo utuntur, qui et AMARI et laudari a
se rem aliquam indicaturi aunt. olog eivcd nvog o Egag
cfr. Piat. Protag. p. 935. D.Vl rtal 1 IititoviHOVy ct ptkv Zycoyl
tiov trjv <pi\o6oq>iav ayajiai , axap xal vvv inaivdo xal
cpiXco x. t. A. h. c. quod s em per facio, tuam sapientiam ut amem
laudemque, idem etiam nunc mihi contingit. Minus probem Stallbaumii
annotat, ed. p. 97. Haud cio, inquit, an alicui scribendum videatur
axap vvv xal btaivdr xal tpiXdo, quo clarius appareat ratio
oppositionis. Sed nihil mu- tandum, siquidem xal non cum vvv, sed
cum atdp arcte connectendum, ut significent voculae: quin etiam .
olof etvai ttvoS o "E- pcoS lp oo . Repentur hic ver-
borum ordo apud Bekkerum, Astinm, Stallboumium, qui Bod- leiani
codicis «t Vindobb. doo- rara auctoritatem seguti sunt. Eum
verborum ordinem Riicker- tus frustra impugnat, dicens, mi- nus
bene habere subiectum inter praedicatum et pendentem inde genitivum
insertum. Nam huius structurae artificium et apud Grae- cos et apud
Romanos acriptores aepennmero reperitur. Suspectum autem fit mutatione
sedfe $pa>S nomen j nam vulgo verba inverso ordine exhibentor
oloS 1 m f ovStvog; Ipcota 6’ ovx, tl {v>itq6s rivos
% noxios iou yiloiov yap av th] xo igatrjua , tl "Epias bsxlv
1’gag scapos rj [irjtQos — «AA’ to $jctp &v tl cnko tovto xcatQa
jpdrov, uqu 6 xarijp iaxt xarqp w-
ilvai nvof IpaS 6 "EptsaS, Uodecim codices ipcoS nomen prorsus
omittunt. Verbum omisimus nos, quia sive ante J *Epa)S po- natur,
sive eidem postpouatur, cum sequentibus nullo modo convenire videtur.
Etenim si scripsis- set Plato oloS elvai nvoS ipGoS 6 "EpcoS
s. rivos 6 *EpooS HpoaS, nemini auditori ac ue ipsi qui- dem
Socrati in mentem venire potuisset patris matrisve cogita- tio,
quae verbis sequentibus con- tinetur. Iam cum omisisset SpoaS
nomen, ambiguaque potestate posnisset "EpaoS nomen propriam, ne
interrogatio, ut potuit male intelligi, ita revera male intelli-
geretur, verba statim addidit: ipanco 6 * ovx, el prjrpoS t tro$ 7}
natpos idxtv, yeXoiov yap etrj to\ £ p oj r ?}/i a, Socrates
Erotis nomine ita posito in praeceden- tibus, nt non deum sed dei
vini iutelligi vellet, additoque vituperio eius, qui
interrogationem sio interpretaretur, ut de Erote deo, non de amore
sermonem esse censet, satis acerbe incu-r rium eorum vituperat, qui
dei nomine adhibito tum deum, tuut vira eius expressissent non
indicantes, utra potestate nomen proprium accipi voluerint» Ali-
ter Ruckertua de his verbis in- dicat, cuius verba haec sunt; Id
nihil, inquit, habet ridiculi, ro- gare, Amorne patrem vel matrem
habeat, id quod infra rogat ipse p. SOS, A, At ita rogare, ut
praedicatum ponas ZpcoS, ac deinde genitivi sensum velis esse
lionc, quem negat esse, id vero ridi- culum est. Ridiculum igitur
hoc quoque, si quis, quod recte in- terrogatum sit, ac ne male
accipi possit, addito praedicato ipooS praecautum, tamen ita
accipiat aut accipere simulet. Pertinet igitur hoc ad sophistarum
captio- nes fraudesque deridendas, ba- betque vim hand exiguam ad
firmandum io praecedentibus posi- tum IponS contra libros eos, qui
id omittunt* ei avto tovto itatkpet iJpojtGDV . Imperfectam
cum el particula coniuuctum in hu- jusmodi enuntiatione aliquid
sumi fieri indicat, quod revera nou fiat ; aoristus addita av
particula actionem exprimit, quae sine du- bitatione futura esset,
si fieret illud, quod fieri tantummodo sumitur. Paullo aliter
Stallbaumius ad h. 1. : Imperfectum , inquit, indicat id,
quod nunc fieret, si fieret: aoristus autem signifi- cat rem ita
esse comparatam, ut e vestigio possit perfici et ab- aolvi. Avto
tovto icatipa mi- nus recte Stallbaumius censet idem plane esse,
atque natipct avto tovto, oitep l6tw. Neque recte Schleiermacherus
verba con- vertit: Wie wenn ich nach ei nem Vater selbst fragte.
Schulthes- sius eodem fere modo: wie wenn ich grade vom Vater
ftagte. Avto tovto sequente uomine ar- ticulo tuo destituto
significat, vog, ov; tfaes av 6>'j xov (iot, d IfiovXov xa%w$
axoxQlvaO&at , , oti t&ziv visos ys V dvyccTQo s 6 xatrjQ
ittttrjQ • ij ov ; ITavu ys, tpuvca rov 'Ayafrwvtt. Ovxovv xai rf /tijtijQ
ascevras; OfwkoysiOftut xai E V verbum, quod in superioribus
commemoratum sit, nunc materiali- ter, ut verbo hoc utar, usurpari,
«t conversio audiat : Aber gleich- wie wenn ichdas Wort Ttaxrjp selbst
aufnehmend fragen woll- te cet. Plura exempla si quae- ris verborum
materialiter posito- rum, indicata reperies in Indicibus*
tlitet av Stj itov poi, el iftovXov* Ei ifiovXov po- situm
est b. e. imperfectum tem- pus fiovXe6$cn verbi, quod po- nitur
velle Agathonem respon- dere, sed revera non fieri, ut vo- luntas
illa respondendi se osten- dat proptserea, quod responderi nequit,
ubi interrogatio nulla proposita est. EhceS av rursus eodem modo
positum est, ut paullo supra, significatque, Aga- thonem haud dubie
dicturum esse, si interrogatus a Socrate respondere vellet*
xai 7) pptpp gdS avtGD$ . !i* e. Stallbaumius inquit, ovx-
ovv xai nepl pjjtpos ooSavtaS %X £L ? dubito, nam recte. Nam ut taceam
articuli ante prjxpoS ponendi omissionem, quo carere non possumus
io huiasmodi enun- tiat io ne, expletior oratio audit potius:
ovxovv xai r\ prjrrjp vlioS ye rj SpyarpoS prjtpp. o
poXoy ai6$ai xai tov - ro* Haec tredecim Bekkeri co- dicum lectio
est, mups apud eun- dem opoAoysid&a habet, tinus
&>poAoyai6$ rursum unus oi- yel<$$&
poAoyeidSaz. Editores excepto Riickerto, qui opoXoyetdSai de-
dit, vulgatum opoXoyijdai in ordinem verborum receperunt. Hiickertus
ad h. 1* aut opoXo - yEioScti scribendum esse censet aut
6fioXoyti6$G). Posterius, inquit, propterea improbandum, quia addi
debebat, si hoc Piato dedisset , <pavai vel alius dicendi verbi
infinitivus, vpoAo- yetdSai autem non habet, quod offendat, modo
passivum esse teneas: concessum esse, immo commendationis aliquid ex
eo. habet, quod in sequentibus quo- que praesentis infinitivus
opo- A oysfa- et infra p* 20 1. A* «w- poXoyat imperfectum non
aori- stus legitur, — Dedimus opo- A oyau5%at codicum
auctoritate moti, nou quod praesens tempus magis nobis placeat, quam
aoristicum tempus , neque magno- pere curamus praesentis atque
imperfecti usum in sequentibus, nam et imperfecti et floristi infinitivus
in huiasmodi enuntiatis frequentissimus est. Neque admodum probamus illud
conces- # sum esse, quod haud scio, an cuiquam satis probaturus sit
Rii- ckertus, Alia de caussa in textu posuisse opoAoyatdSai libnit,
vi- delicet quia proxime ad PJatoaia manum accedere videtur,
atque viam aperit genuinam lectionem restituendi* Etenim scripsisse
Pla- tonem arbitramur opoXoyatv nat tovto , quae scriptura quam
fa- tovto. — "En rolvvv, slnslv xov ZaxQ&xrj, dxoxgivca
oUym itltiu, Zvu fiaXXov xaxa/ice&ijg d |SovAof«a. si yuQ ipotftijv,
Ti 6i; ddsbtpbg avxb tovto oxsg %6nv, ioxi xivog a$iX<pog, ij ov; —
Oavai slvai. — Ovxovv aStlyov ij ddsAtpijg; — ' OfioXoysiv. JTugdi Si/,
cpd- vai, xal xbv”Egaxct slnslv. o "Egtog tgag ioxlv ovbsvog
SOO ij xivog ; — Tldw [isv o vv ’i<Sxiv. — Tovxo /ihv xolwv, slnslv
xbv Zu xguxrj, rpvka^ov nagd tiavztp fisg.v>]fitvog cile
potuerit xai, ut fit, incuria scribarum dupliciter posito in
opoXoyeTtiSai mutari, e verbo maiusculis litteris perscripto pa-
tebit, Scriptum nimirum olim exstabat : OMOAOrEINKAI-
KAITOTTOy ex quo factum est OMOA OrElCQAlKAI TO TTO, ei
yap ipoiprjv, ti 8e; d8e\<po $ avtu tovto oitep iZdtiv* Optativo
modo con- inucto cum ei particula iubetur boc loco Agatho sibi
cogitare ea, quae revera fiunt, tanquam si fieri possint. Utuntur
autem hoc dicendi genere ii, qui interro- gare aliquem aliquid
cupiunt, ne- que tamen interrogationem cautione adhibita nulla proferre
au- dent. Nostrates dicere solent: Denke dir einmal, ich
fruge, quibus verbis interrogationem ipsam annectunt. Hinc
vides, ipsa interrogatione posita facil- 4 lime abesse posse supplementum,
quo in huiusmodi dicendi genere opus esse interpretes passim an-
notare solent: ti av tpaitjS ; Ipsi autem interrogationi, h. e, non
suspensae ex aliis verbis, apprime convenit interrogandi si- gnnm post ti
de; Riickertus edi- dit ti dk adeXtpoS duabus de caussis , quas
nullius momenti eise existimo : quod, postquam de matre dictum sit
ovxovv ?/ pi\- trjp cjSavtGoS;' ad ea commodius adiungi videatur
interrogatio ti de a8e\(p6s ; quid porro frater , quam ti de;
d8e\g>oS , . . quid autem ? frater . , « qua novi quid, non
tertium exemplum proferri videatur, deinde, quod ea distinctio esse
videatur librorum omnium. Alterum nobis argu- mentum, quo probemus
ti 86; scripturam, hoc est, quod adeA- (poS arcte cum insequentibus
verbis coniungendumest; nam adeA- <po$ avto tovto oTtep £($tiv
no- bis est: Das Wort a8t\(pu$ in seiner absolutesten
Bedeutung. Hinc ne comma quidem post adeXfpoS posuimus , quod in
iis editionibus comparere videmus, in quibus posito
interrogandi signo, ti de; a sequentibus verbis disiunctnm est. Restat,
at de 8ad vocula dicamus, quae h. 1. et apud Bekkerum et apud
Stallbaumium in di particulae locum substituta est. Aai non
ponitur, nisi ubi maior animi commotio indicanda est, ut ad-
miratio, indignatio, ira ; vide an- notat p. 191* Merito igitur mi-
reris, duumviros criticos eandem retinuisse in tam quieto disputandi
genere, quale hoc loco est manifestissimum, codex Bod- leianus
exhibet aliique libri non otov ' roOovSe Se elice, itoregov 6 v Eg uq ixelvov,
ov $Onv 1’otog, exirtvfiel avrov, rj ov; — Tlavv yt, (pavae. Tlvtegov
iyav avro, ov iiudv/tei re xal iga, elrcc bu&vfiEL re xal iga, rj ovx
lycov; — Ovx iyav, cos- to elx og ye, tpavai. — Uxoitet S>), ebttlv
tov Zaxgar>] t avrl tov elxvrog, el dvayxq ovrag, ro liri&vfiovv
ha- &v(iecv ov ivSeeg lOnv, rj perj eici^vuilv , iav iu ) iv~
deis r]. ifiol fiiv yag &av/ia0 rug dumi, co Idya&av, B
pauci ; non dubitavimus igitur iu ordinem rerborum id recipere*
Idem Riickertus fecit. c pvXagov itotpd davrc 5 fi£ pvrjpiv
oS otov. Ilaec verba hodierni editores plane non distinguunt
interpunctione, iunguntqne Astius certe et Schlei-ermacherns sic :
<pv\a5,ov itapd 0avT(fi nefivrjfiivoS tovto otov *c. itiriv. Sed
in hac interpre- tatione displicet nimis magno intervallo a tovto
pronomine, quocum cohaeret, divulsum otov eo magis , quod , si a
/iSfivTjfie- ro$ seiungendum est, sic nude ac sine ulla vicina
voce, quacum coniungatur, vix ullus bonus scriptor collocaverit*
Addidisset Plato, si ita verba accepisset, idriv. Accedit, quod
tovto h. 1. vix ad sequens aliquid, immo ad praecedentem
concessionem, Amorem alicuius umorem esse, referendum est. Quibus
de caus- sis veterem distinctionem verbo- rum, qua ante
/.leyvipUvof com- ma ponebatur, revocavi. Est igitur sensus : hoc igitnr
apud ani- mum serva ( sc. alicuius esse,) atque cuius sit, memento.
Hanc Riickerti ad h. 1. annotationem integram perscripsi, ut mclins
possent, qui hoc libello ntuntur, de ca iudicaro. Mihi non persuasit
V. D. Optime Platonis verba convertit summus
Schleiermacherus : Dieses nun, habe Socrates gesagt, lialte
nocli bei dir fest in Gedauken, wovou sie (er) Liebe ist.
iit l$V fXEl OtVTOV. Dc pronomine repetito vide annotat* p.
198* oJs ro' elxoS y £ * Agatho finem Socraticae
institutionis at- que stragem futnram rerum sua- rum odoratus, nt
haberet, quo posset rebus perditis salvus elu-» bi, quae non
poterant non concedi, e verisimilitudine dnntaxat concedenda censuit*
Hinc ojS ro sixoS ys satis astute addit. Sequentibus docemur, quam
male ei haec res cesserit. Nam aVrl tov eIhotoS , Socrates
inquit, videamus, eI avdyxrj ovtcjS x. r. A. Ceterum verba dvx\ T
ov sixoToS brevius quidem dicta sunt, neque tamen obscurius.
Sensus est: 2xoJt£i Si) — av tI tov A iyeiv d>5 ro elxof
ys , eI avdyxij ovtco S*. Conver- tenda verba sunt accentu
orationis in dxoitet verbo posito: Un- tersuche nun lieber,
anstatt dass du sagst, «wie es den An- •chein hat,® ob
nothwendiger \Vei&c es sich so verhiilt* S av/Ltadrdjs
6oxei , cJ 'AyaZtov, wS dvdyxrj tl* «6g dvdyxt] tlvca. <Jol
dt noog; Kdftol , cpavai, doxel. — Kcd ag Xiysig. ciq’ ovv (iovXoit’ av
tig fieyag av fityccg tlvca , ij 1<>%vq6s av la%VQog ; 'ASvvmov
Ix ruv afioXoytjfiivcav. Ov yuQ xov ivdtijg av th) xovtav o yt av.
— 'Alrj&tj Xiyug. — EI yaQ xal lG%VQog av PovXolto IcJyvQo g tlvca,
cpavai t ov ZkoxQuzij, xal xa%vg av za%vg, xal vyirjg av vyujs — ,
S yaQ 3v zig tavza oItj&uij xal nuvxa tu xocavta v Oii,
Non sine ironia quadem, et quo gravius se opponeret Aga- thoni in
re apertissima gqS to eI- xoS ys dicenti^ Socrates verbis uti- tor
SavpaQtGoS Soxei, goS avdyxtj x. X. A. Ceterum Stallbaumius ad h.
I, Ne quis, inquit, mire- tur, tanto intervallo ab juaoTcoS
remotam, alia huius ge* neris exempla notavimus Piat. Phned, p. 95.
A. Bastius Spec. Crit. p. 139. $av/iadT<oSi ooS verborum
seiunctione a$eo offensus est, ut de loci veritate dubitaret. Diximus de
coS cum aliquo adverbio coniuncti stru- ctura apnotat, p. 12.,
cuius stru- cturae originem qui reputaverit apud se, is mirabitur
magis ad- verbii cum ai? artissimam con- junctionem, quae epud
Platonem veteresque scriptores Graecos sae- pissime reperitur. Unum
exem- plum ut laudem coS ab adverbio suo disiuncti, legitur in
Piat. Theaet. p, 157. D. Savpad Tt£( (paiyexai cos fynr Xdyov
. ix r&r oa poXoyrj /livar. Respicit Agatho ad verba ro
iiti - Svpovv iitiSvpelv , 'ov IvdsiS idriVy ij fi?) iittSvyeiv,
iav p?) ivdelf y. Patet igitur, prae- senti tempori
dpoXoyovpivoov hio non locum esse, quod vulgo edebatur. eI yap xal idxvpos < 3 * fi ov \oit
o . Socrates ad eum iinem tendit, ut Erotem omni ornatu privet, quo
eum, qui ante se locuti essent, donaverint. Et cum iu superioribus
esset judica- tum, Amorem alicuius rei appe- titum esse, cardinem
rei nunc in eo versari vides, ut, neminem id appetere posse, quod
possideat, atque vice versa non possidere, si quis, appetat, quod
appetat, probetur. In qua re ne sophi- stico quodam artificio circumve-
niretur, Agathoque ad indoctio- rum hominum sermonem confu- geret,
qui cum alia male, tum et- iam hoc sibi indulgeant, ut di- cant
iycj vyiaLvoav fiovXopai xal vyiaivEiv, ipsum hoc dicendi genus
Socrates nunc adit , atque quid sibi velit, exponit. Singula verba
quod attinet, anuotftt Rii- ckertus ad h, 1. rectissime: Pro- tasin
ponit auctor, cui deinde parenthesin subiungit, qua ra- tionem
reddat eorum, quae in protasi dicta sunt, atque cur liceat ea
ponere, ostendat. In qua quum plura fuissent dicen- da, ita ut
etiam periodi com- plures existerent, non potuit simpliciter
reddere protasi apo- dosin, sed novam instituit: aAA* Ztav tiS Xiyy
} quam deinde se- quitur apodosis, qua quid tali ho- zovs ovras ta
tolovtovs xai iyovxag ravta rovrov, C ancg $x ov(Sl > tTCL&v^iuv.
iv’ ovv (irj e^axart]d‘d- (uv, rovrov tvtxa Xtya. rovtovq yccQ, w
'Ayaftav, d Ivvodg , £%Uv fiiv exaOrov rovrmv Iv rai naqovri,
avctyxrj , a %ovtftv, lav re fiovXavtai tav re p 17, xai rovrov ye 6 rj
tcov rts av haftvfirjaetsv ; aXX’ orav ng Xiyy, ori ’Eya vyiuLvcov
fiovXouat xai vyialvuv, xai aXov- tav fio vXofiai xai xXo
vreiv, mini respondendam sit , demonstratur. Est autem inter
utramque protasin hoc discrimen, ut» in priore ponatnr aliquis hoc dicere
simpliciter atque sic, ut plane non quaeratur, fiatue id rerera aut
fieri possit, necne, in posteriore autem, postquam demonstratum est,
fieri posse, res pro certa' et vere eveniente perhibeatur.
rovrovS yap, 0 0 'Aya- $gjv, ei kvvoeiS. Haec est vulgata
lectio, quam praeter Riickertum omnes editores improbarunt. Pauci sed ii
optimae notae codices rovtoiS exhibent» Utrumque ferri potest atque
com- modissime explicap , sed magis placet accnsativus casus, ei
iv- YOErS Ruckertus cum nostratium formula comparat: verstehst
du wohl? quae formula cum Graeca nihil commune habet, quam verbi
finiti usum absolutum, ei iv- YoeiS potius est: si sapis, wenn du
verstandig sein willst. .xa\ rovrov y e dij itov r is av litiSv
p.rj6eiev . Sic in omnibus editionibus legitnr, neque quicquam verbis
inest, quo offendaris. Sed quaeritur, an non facillima accentus
mutatione scribendum sit: »al rovrov ye 6 r} nov us av
ixi&vjLt?j(Seiev , quo xai eni9v[ia avriav rovrov,
Scriptura orationis accentus in ijttSvpijtieiev ponitur,
significan- tiusque indicatur, ne cogitari quidem posse, ut
aliquis, quod possideat, id possidere cupiat. Ce- terum
Stallbaumius annotat ad hunc locum : Refertur rovrov ad praegressum
exadrov rovrajv, a ix.ov6tVy ita ut iu universam in- tclligendum
sit o Rectius, opinor, Mxetv suppletur, quo facto luculentior fit insania
eorum, qui et habent atque illud ipsum habere concupiscunt»
iytA vyiaiveiv (iov\o- pai jcal vyiaiveiv. Vulgo Tccci deest
ante vyiaiveiv et ante irXovreiv. Idem Ficinus in conversione non
agnoscit: At ego, sanus dum sum , volo equidem sanus esse , et dives
dum sum, esse dives. In ordinem verborum voculam recepit
Stall- baumius Bodleiani codicis aliorumque non paucorum librorum
auctoritate motus. Frustra Rii- ckertus ad h, 1. : Profecto dubi-
tare, inquit, aliquis possit, an Platonis manus xai particulam
addiderit. Kat enim ut aliquem sensum hoc loco habeat, addendi vim
habere Oportet. Iam quod additur, non potest esse to vyiaiveiv et
ro likovreiv , quis enim ferat dictum; Ego qui sa- a i%a , £xoijisv
av avta, ori Zv> to avdpmxe , n).ov- D tov xtxTTjtuvos 'Ma vytuuv xcd
l(S%vv (iovXu xal ilg rov ibici ra %qovov rubra xexrij<f&cu ' insl
Iv roJ ys VVV XttQOVTl, tltl (iouXu £LTB flT], fjJStg. (SXOXEl OVV,
OTUV tovto Xiytjg, ori Esn&v^ito rixiv naQovrcov, ei ccXXo
n Xiyus V toSe, ori BovXofiai ra vvv xaQovru y.cd tig tov Zituzu
xqovov TtccQtZvai. aXXo n ofioXoyoi av; X vp- tpavai ¥qnj rbv
Aya&ava. Ebttlv 6tj tov 2koxQutt], nos sum, copio etiam sanus
esse? Immo hoc licet: Ego qui «ura sanus, etiam cupio ut sim.
Quod igitur additur, To (iovAt6$ai est. Iam quaeritur, liceatne
sic post illam vocem , cui additur, xai particulam collocare, —
Ad- dita xai particula optime habet hoc loco, quo id agitur, ut
error eorum clarius appareat, qui hu- iusmodi dictione
utantur. aWo ri o/ioAoyol av; o ti cum vi hoc loco ponitur,
cum in praecedentibus iam eo usus sit scriptor Cxotcei ovv — ei
«AAo ti XfyetS rj tovto. Non raro autem Graeci r/ cum suis verbis
omiserunt in interrogationibus brevitatis studiosi atque nolentes, quae
facile ab auditore suppleri possent, eadem disertis verbis
commemorare. Sic nostro loco expletior oratio uudiret: «rAAo ti ?}
tovto d/*o- A oyoi av ; Factum deinde est usu loquendi, ut etiam in
eiusmodi interrogationibus aAAo ti ponerent Graeci, in quibus nihil
cogitari potest, quod cum ?] sup- plendo suppleretur* *w4AAo ti
igitur, recte annotante Matthiaeo Gramm. ampl. 487. 9. p. 914,
interrogativae particulae vices obtinuit, ut cum vi ex* pvimeretur,
rem nou aliter se habere, atque in interrogatione expressa
sit. cfr. Piat. Hipparch. p. 226. E* <rAAo ti ovv oiyi
<piXoxep8iiS <pi\ov6i to xipdoS; Piat. Charmid. p, 167. B.
aAAo ti ovv s tavta Tavra av elrj fiia TiS iitldTlj/irf ; Vide
prae- terea Hensdium Specim. Crit. in Piat. p. 59«, Stallbaumium ad
Eu- thyphr, p. 104, Paullo infra p. 200. E. aAAo ti S&etv 6
"Epcof Itp&TQV p\v TlVCJVf httlTCL TOV - tgdv,
G)v av iv8nct rtapij avtw ; ovxovv tovto y * &6x\v
ixeivov ipav. Vulgo post ovxovv 6 1 / particula additur, quae cum iu
plerisque codicibus non reperiatur, e textu semota est a EeLkero,
Astio, Stallbaumio. Btickertus, ne parum verecundus videretur
librorum auctoritatis, uncis 8 7f includendum curavit, quod nisi
codicum auctoritas ob- staret, in ordinem verborum re- cepturus
fuisset, u o viteo itoijiov avTtjj i6tiv ov8h Sanissi-
mam horum verborum distinctio- nem deleto post Zxett posito
poat &6tiv commate Kiickertus corru- pit. Negat autem V. D. ,
to iis tov hteita xpovov — tu vvv Ttapovra esse posse tovto
pronominis defiuitionem accuratiorem, quod ipav ixeivov non Ovxovv tovto
y’ l6rlv ixelvov Igdv, o ovito eroipov avrei Itiriv ovde S%u y ro elg rov
Situra %gbvov ravra tlvai cwtc 5 Oco^opsva r a vvv itagovra; — Tlaw ye,
cpa- E vai .Kal ovrog aga xal aklog itdg 6 hu&v[uov rov pr]
iroipov liudvfjLSL xal rov [irj itagovrog , xcd o /u?) Syei xal o [it]
Sdriv avzog xal ov tvderjg i<5n y roiavz arra iti tlv cov 7] hnftvpta
rs xal 6 Sgcog Itiri. — Tlaw y , elituv. *Iftt di]\ tpavat rov 2koxgazr]
y dvopoAoyrjtia- respondeat, tat elvai, sed r» fiov \s 6$ a i elvai
ravra av- rc o 6co%6fUva. Fugit autem Rii- ckertum e verbis
praecedentibus fiovXopai ra vvv itapovra xal cis rov Mneita xpovov
xapcivai nostri loci verba petita esse ita, ut, quoniam proxime
praecedat fiovXopat verbum, id ipsum e praecedentibus facillime
supplendum omitteretur. Conversio verborum haec est: Also bedeutet dies
eben, namlich ( vide annot. p. 59.) (dass auch fiir die Zu- kunft
der gegenwartige Besitz crhaltcn werde, das bcgehren, vas cincm
nicht zu Gebote steht und er nicht liat. Ceterum ut apud nostrates,
ita apud Graecos pronomen relativum et subiectum est et oblectum
enuntiatiouis, cuius rei inde petitur excusatio, quod sive
accusativum sive nominativum posueris , forma pronominis eadem manet.
xal ovtoS dpa xal aA- X.oS it a S o* i 7Ci$ v /x at v rov p
t} kzoipov IkiSv pcl x. T. A. Ne loquacitatis Socratem nccoses, qui
commemoratis rov pr) kzoipov verbis insequentes definitiones
reticere debuisset: hoc agit vir providentissimus, ut ancoras
penitus praecideret, quibus peritura Agathonis navis teneri atque servari
possit., Sy, (parat tor Sco* xparrf. Utitur nunc Socrates ad
refutandam Agathonis senten- tiam hac argumentatione: Quae cupimus,
inquit, ea nondum pos- sidemus. Amorem autem cum dixeris
pulcritudinis cupiditate teneri, necesse est, eam ille non habeat.
Alioquiu enim non cuperet. Quum autem pulcrum at- que bonum idem sit,
caret Amor etiam bono. Stallb» av opoXoyijdoops^a ra
clprj pev a h. e. repetamus, quae hucusque dicta sunt ita, ut eodem
modo, at- que hoc factum est paullo supra, de iis inter nos
conveniat. Haud raro Graeci scriptores brevitatis studio verba ita
commutant, ut pro verbo linito cum aliquo adverbio vel adiectivo
coniungendo verbum ponant eiusdem atque adverbium radicis. Sic
paullo infra 202. A. legitur prj roivvv avdytca^e, o pi) xaXov
idtiv, alCxpdv £t- vai x. r. A., ad quem locum vide annotat.
dXXo n l6nv 6 *EpfoS. De trAAo ri significata atque de jj
particula omissa vide annotat, p. 238. iit e ira rovratr* His
ver- bis accuratior continetur defini- fu &a ru dQtjjikia.
iikko n ItStiv 6 'Epos xqotov (ihv SOI TLvdv, Ibuira tovtuv, av av SvStia
rtaQy avta; — Neu, tpavui. — ’Enl Si] tovtoig dvafivrjG&Tjri, Tivav
tcpyO&a iv tiS koya tlvcu rbv ’ 'Egma . d Se fiovkti, iyd Ge
avuiivijGa. oinai yaQ <Se ovrwaL itag dntZv, ou roig &eolg xatsGxBvuG&r]
ra XQuyfiata Si "EQana xakdv’ mlo%Qav yotQ ovx Biy 'Epcog • ov%
ovtaxsi mog Hkeytsf — Ehtov yuQ , cpavai rov 'AyaQavcu Kut limixdg ys kiysig, d izaiQB ,
qtuvai tbv ZaxQazr]. xal tl tovto ovxag cikko w 6 "Eq os xalkovg av
tiij tio eornm, qnorom Amor amor i, desiderium est. Sensos est :
Erst- lich ist Eros Liebe eu etwas (vi- de p. 200. A.) uud das ist
zwei- tens das, vroran es ihm gebricht. Ceteram ne mireris, cum ia
supe- rioribus Socrates simplici verbo semper usos esset idtiv in
eius- dem sententiae efformatjone, cur nunc compositum 7tapy
exhi- beat: itapeivai hoc loco non attributum describit, sed
aliquam Erotis conditionem internam, sine qua ille ne cogitari
quidem pos- sit: ein Mangel, der ei ne fiedin- gung ist seines
Wesens, ei dfc povXei* Duplici modo consilii mutatio apud
Pla- tonem indicatur, aut enim pix A- Aok di ponitur, de quo supra
dixi- mus annotat, p* 15., aut ei Sl fiovXei. Multum interest
autem, utrum hac an illa dicendi forma utaris» MixXXov 6i poni solet,
abi res e loquentis iudicio apta est, qui vel ipse se corrigit, vel
alium, nt se corrigat aut aliquid mutet, adhortatur. El dfc fiov-
Au autem non nisi ita usurpa- tum reperies, nt loquens suum
iudicium ab re prorsus secludat, omnem alius voluntati liberrimae
subiiciat» Sic nostro loco Socra- tes, quicquid Agathoni
placuerit» id se facturum profitetur. Con- tra p. 173* r\6av roivvv
rota - de* paXXov di apxtjS vfiiv — itEipa.6op.ai
StTfyTjdad^at. Apollodorus mutato consilic re- ctius se acturum
censet, si ab initio rem narrare studeat. aidxp^y y&P ovx
elrj v EpajS, Dixerat Agatho p, 197- B. oSev 6t) xal
xaredxevddSrf tgov $egjv x a 7tpdyjiata ”EpGQ~ roS lyyevofikvov
6rjA.ov ori xaAXovS. aldXEt yap ovx ht- edriv "EpcoS. Haec
Socrates cum minus accurate repeteret, verba addidit ovteodi TtcoS,
Ceterum scriptum exspectaveris: aldxp&v yap ovx eivai
"Epcora* Opta- tivo posito scriptor aliquid in- dicare
voluisse videtur, quod ad^ missa accusativi cum infinitivo coni
aucti struetnxa prorsus pe- riret atque evanesceret. Hac nimirum
structura verborum ni- hil indicat scriptor, quam sen- tentiam
eins, qui priori tempore locutus sit, nunc referri* Opta- tivo
contra, qui praecedenti ac- cusativo cum iufinitivo conjun- cto
annectitur, etiam verba il- ?gag, ai(S%ovg d’ ov; — 'Slf/Myti. — Ovxovv
ofiolu- yijTca, ov tvdcijs t<5u xal Ifca , rovtov Iguv; — Nal ,
ihtilv. 1 'EvSsrjg &Q* xal ovx %%u 6 'Egcog B xaXXog. — ’Avdyxr},
epuvui. — Ti 8 b; to tvStlg xdX- kov e xal (iijCufiy xsxTtjfdvov xaXXog
aget XiyEig 6v xaXov tlvai ;Ov Sijra. — "Eu ovv onoXoyd g
"Ega- tcc xaXov Eivca, d reditu ovrag — Kal rbv ’Aya- &ava
dittZv, KevSvvevco, to ZXbxQareg, ovdhv sidi - T t r ~T7~ \ s . . T
f T vai ov tore euzov. n.ca prjy ’Ayuftov. alXa
tiptxQov lius referri significat , ant si haec non repetantur
revera, tan- quam talia , qualibus ille usus esset, referri. Ubi
autem ipsa verba laudantur, aut tanquam ipsa, consentaneum esse
videtnr eum, qui ita loquatur, illis verbis ma- lus, quam aliis,
pondus tribuere* Jam si reputamus, Socratem id agere, ut
ostendatur, Erotem pol- cro bonoque prorsus carere, eam potissimum
Agathonis sententiam ab eo tangi consentaneum est, qnae huic
consilio maxime offi- ceret: aldxp &Y Y<*P ovx ^7t£6riv M
EpcoS. Verba convertenda sunt: Denn ich meine, dass du ohngefahr
folgender JMaassen sprachst : dass die An- gelegenheiten der Gotter
dnrch den Eros znm Schonen vollkom- xnen in Ordnung gebracht
wor- den waren, denn des Ilass- lichen wiire kein Eros. Eadem
prorsus verborum stru- ctura apud Xenophontem repen- tur Hell. III.
2, 23. dxoxpiva- fjiivcov 6e tc3 v * HMdajy, ori ov 7tovj<Seiar
xotvra • iittXrjtS aS y a. p i xoi&v r a S tiqXeiS* <ppovpav
iqnjvav ol upopoi. Dixerunt autem, ut videtur, Eli- denses:
imXrjidaS yap Uxopev yt umg, <puvcu, o thd • rayccfta ov
udi C x aS 7Co\eiS. Adde Hell. VT*. 5. 36. o 6e itXndroS ijv
XoyoT, cJ? xara xovS upxovS fiorjSriv dioi. ov ydp ddixj/tidvTGyv
6(pd>y ijttdparevotey ol 'Apxadss xal ol ptr * avrcjy xoiS
AaxeSaipo- yiotS • Praeter hos Jocos alios nonnullos Riickertns
laudavit an- motat. ad h. 1., quam vide. ov ivSeijs idri xal
pi) Non opus est, ut ac- cusativum pronominis relativi re-
petas e praegresso ov genitivo; verba enim xal p?j ixei posita sunt
usu Graecorum liaud infrequenti pro wSre p?j Ixziv; p?} IjttV autem
absolute positum est, atque nihil nisi meram verbi ZxttY notionem
negat* xal prjy xaXco $ ye el- 7teS. Annotat Riickertus ad
b. ]*: Et tamen pulcre quidem di- xisti. Laudaverant omnes
con- vivae Agathouem, ut qui pulcre et praeclare dixisset, nec
mino- rem, ut videtur, ipse de se ha- buerat opinionem. Quare
quum postremo eo sit deductus, ut ni- hil se scire confiteatur
eorum, quae tum dixerit, haec subiicit Socrates; quibus quanta sit-
iro- nia, qua et ipsius Ag?thooi« fa- 16 f y.uMi
Soy.EL aoi ilvai; — 'E/ioiyt. — EI ccqci 6 "Eq ® g rcSv xaJhov
IvdsrjS ^OTl, tu di ayn&cc xaXu , xav tuv riyuftuv ivdltjS sttj. Eyd,
(pctvca, oJ EdxQOlig , 6oi ova av Svvcdfirjv uvrdiynv, ais.’ ovtwg ^trra,
dg Gv tiyug. Ov fiiv ovv ty dhftilu, qjavai, d tpUov/iEvs ’Ayaft av
, dvvaGat. civuliyHV Inii Ecoxqutu yc ou- div %ttkiit6v.
stus et amlitornm vani opplan- sos perstringantur , etsi nemo non
debet sentire , tamen locum plane non intellectum video a
Schleiermacliero, qui verterit : Gur recht m a g s t du daran
wohlhaben. Tmrao vertendam : Und da hast ia doch tchoo ge-
sprochen. — Socrates acerrimus haud raro eorum cavillator, qui
fasta maguiloquentiaque vanita- tem suam obtegere studebant, mitem
iis statim sesc ostendere solebat, qui errores suos confiterentur. Quod
cum praeter exspectationem subito fecisset Aga- tho, homo alioqnin
pollens inge- nio, xai fxt}v xa\wS ye elzeS verba Socrates ita
exhibuisse consentaneam est, ut id remissa omni ironia atque
cavillatione fecerit» Rectissime igitur Scblei- ermacherus verba
cepit, ad quem Riickertus recurret, quando desierit nat fitjv et tamen
interpretari. Vide annotat, p. 6» rdya$d ov xat x aXd x. r. A.
Habes syllogismum per inversionem , quo qui utantur, id agunt, ut
alterum membrum enuntiationis , quod priori loco positum atque in
conclusione re- petitum est, prae ceteris verbis extollatur vique
augeatur. Ilem quod attinet, concessa pulcri bo- nique aequalitate
Agatho gravissimam stragem suae orationi ipse intulit, eiTecitqne,
ut ne bonus quidem Eros esse diceretur. Xam mireris vel inertiam
Agathouis, qui noluerit, quod argumentis non confirmatum sit, id
itnpuguare, vel Socratis negligentiam, qua non argumentis probarit,
quod ab Agathone impugnari posset facillime: bonum idem esse atque
pulcrum» Sed monendum est, Graecos boni pulcrique notionem ita animo
conceptam habuisse, ut alteram ab altero seiuuetum non cogitarent.
Quod pulcrum, iisdem et bonum fuit, neque bonum iudicatum est ab iis,
quod nou et pulcritudine gauderet; Ilinc Socrati uon metuendum erat, ne forte
Agatho negaret, bonum idem esse atque puierum, adeoque argumentis sententiam
confirmare supersedere poterat, ut si addidisset, nimia sedulitate
id factum auditores existimaturi fuissent. i y co — do i
ovy< dv 8 v • vaiyLi}v dvxiXkyziv, U- trumque et non pulcrum et
non bonum Erotem esse, Agatho con- cessit sed diverso modo.
Non pulcrum, sincere et candide, non bonum, adhibitis sophistarum ar-
tificiis, ut non rem ita esse con- cederet, sed suam disputandi im-
becillitatem confiteretur. Igitur accentus orationis in vocalis
€yoo et doi ponendus est, quns *cri~ Cap. XXII. I
Kal fl£ n&v ye tfdrj hx<Sa> • tov 6s Xbyov rov xtfA D tov
"Eqcjtos , ov jcot’ jjxovect yvvcaxbg Mavttvtxrjg zho- tlfiag , ?}
tccvtu te <Socpr) i] v y.al aU.a aro Xla, v.al ’J%qvaloig note
dvaafUvotg arpo rov Xoifiov Stxa foj ptor, quo validius prae
ceteris verbis eminerent, ipso enuotiati initio collocavit» Sensus
est: Mea imbecillitate, non falsitate sententiae meae factum
est, ut ego a te, homine peritissimo disputandi vincerer. Verborum
conversio haec est: Ego, (homo imbecillis), tibi, (peritissimo disputandi)
(etiamsi vellero,) contradicere non possem, sed (vincerer, st
contradicerem, igitur) res se habeat, ut tute dicis. Ad verba ovx ar
bwaipjjV sup- plendam est, ut in conversione indicavimus, ei xal
fiovXoifitjri soletque haud raro in enuntiatis conditionalibus
alterum enuntiati membrum omitti; exemplum hu- ius omissionis si
quaeris, vide annotat, p, 201. Pro aXXa par- ticula aliam
exspectaveris , quae non oppositioni, sed conclusioni indicandae
inserviat. Ni fallor, brevitate quadam dicendi Aga- tho usus edt ,
quam commotiori eius animo apprime convenire arbitror. In loci
conversione indicavimus, quomodo verba expleri possint atque a\Xa
praepositionis usus excusari. ov ovv tp aXtj$ eip h. e.,
Stallbaumius inquit, imo vero cobtra veritatem non potes disputare:
nam con tra Socratem tibi facile est.
Ov f.ibr ovv voculis Socrates ita utitur, ut indicet, recte
quidem Agathonem negasse, sed non in re negationem adhi- buisse,
quae revera necanda esset. Exprimunt igitur ov fikv ovv voculae
lenem correctionem h. e. rectiorem interpretationem prae- gressae
sententiae, quae aliquid veri contineat, sed cum veritate non
prorsus conveniat. Das heisst also, lieberAga- tho, du Jcannst der
Wahrheit nichtentgegen spre- chen, deun dera Socrates ist es keine
Schwierig- keit* xai p£vyei/8y£d~ ($<o. Respicit
Socrates ad p. 199. B. Uri xoivvv — n apeS fioi ’Aya$&iva
dpi?cp * artet £p£~ 6$ai X. r. A. > ut verba nostra significent:
Ac te quidem, quem pauca quaedam in- terroga rp me velle supra
indicavi, nunc mittam. ,o rror* rjxovdaywai- xo S
MctvtivixijS. Vulgo pav- ttxr/S legitur; illud pauci sed op- timae
nolae codices commendant. Vulgatae scripturae originem solertissime
indagatus est Stallbaumius: Vocatur, inquit, Diotima Mavtixi } ut infra
p. 211. D., quum proprie deberet Mavtivif * 16 *
avu(ioXr)V Inolrfii rrjg votiov, rj drj xcd Ifie r a tga- t <x«
Ididafcev , — ov ovv Ixtivtj PXtye Xoyov , nugaOo- aude factum est
opinor, ut grammatici scriberent / lavxixijS. At enim solent nomina
possessiva liaud raro occupare locum nominum gentilium, de quo
loquendi genere vide Davis* ad Max. Tyr. \ p, 588* et Fischerum ad
Welle- ri Gramm. T* III. P. I. p. 299* — Non recte autem addit
V. D. : Neque eatis ad rem accom- modatum est , quod vu/go lege
- batur , f.tctvziH7}. Quae enim Vio - tirna de amore disputasse
nar- ratur , ea non vaticinandi arti debuit y sed ingenii sui
praestantiae ac virtutis. Eodem enim iure cogitare possis pavxiKt)
positum eaee, quo scriptum legitur paulio infra dvaftoXrjv inolyde
tijS vodov, neque necessariam est, ut, cum dicatur orationis auctor
fuisse mulier fatidica, va- ticinandi arte orationem compo- sitam
censeas. Porro mulieri eique peregrinae datam esse ora- tionem
hanc, ut convivae ridean- tur, qui, quum divinioris amoris vim et
naturam plane non ca- perent, tamen in dei laudibus celebrandis
mirifice cxsultareut, Stallbaumio non credimus. Quem enim pudeat a
femina melio- ra doceri , cuius sapientia prae- claro facinore, h.
e. dvaftoXy TtjS vodov probata sit, et quam ipsius Socratis,
sapieutissimi ho- minis, magistram fuisse, huius lo- ci verba
testantur. Num Periclem autipsum Socratem puduit Aspasiae Milesiae
praeceptis edoceri ? Ad- dit Stallbaumius: Cur Diotimae potissimum
has parte* Plato tri- buerit, neque Aspasiae aut alii chidam nobili
feminae illius aetatis , id quidem exquiri nullo modo potest propterea ,
qnod a scriptoribus aequalibus aut snp- paris aetatis de ea nihil
memoriae traditum est. Quae autem seriores scriptores de eadem nar-
rant, ea maximam partem ex hoc ipso loco hausta, aut temere con-
ficta-esse , exploratum habemos. Quae quum ita sint, hoc uuum
tenendum putamus, quod , ex hac oratione discimus , fuisse eam
mulierem prudentia et vaticinandi arte nobilem, quae quum diutias
Athenis esset aliquando commorata, magnam nacta esset sapientiae famam. Diximus
de Diotima Mantineensi in Comment. de Symp. Platonis, ubi,
curStall- baumii iudicio non adstipulemur, indicatum
reperies. xal 'AStjv aioiS 7torh $vdap£voiS repo rov X.o
t- r pL o v . Pestis Atticam terram invasit Peloponnesiaci belli
anno secundo h. e. a» 450. Impetum in eandem fecisse etiam a,
440» ex hoc loco colligi possit; cfr» Thucydidis L» II. c. 47*
p* 214. ed. Haaek. xod ovtoov av- tcjv (sc. tcov
Aaxedcujuovlcor) ov noXXds 7 Cgj rjpepaS iv xy *Axxttc\} ij vodoS
Ttpcoxov ypBfCtxo yevkd^at toiS *A$rjvaioi$ Xe- y o/t ev ov xa\
icpotE- pov it oWaxo 6'E iyxotra.- d x f/il* a i xal 7tspl
Aijpvov nai iv dXXoiS — Pro $v- dajiivoiS H. Stephanus
scriben- dum coniecit Svdapevy , videli- cet ut esset, quo
explicetur ra- tio et modus xrjS avaftoArjS. Frustra, Suspicari
licet , quo l wa vpXv dtfXfttlv l x tav dfioKoyrjfihov Ifioi xctl
'Ayaftcovt , avtog l%* ificcvtov, oncog av dvvofiat. d'ec modo retere*
pestem abigi potaisse crediderint, mutare verba eo minus licet, quo
certius est, .Platonem ipsum xijs avafioArjS modum indicare
noluisse. ov ovv ixeivrj £\eyev . Redorditur abruptum
sermonis filnm ita, ut, quae illustrationis caussa addidit , ca
nunc paucis comprehendat illata particula ovv. Nam omitti poterant
haec: ov ovv ixeivjf £A eye Aoyov. Sta11b. avxoS ix * ijiavx
ov. Vul- go legitur avxoS an* ipavxov ; illud Bastii coniectura
est, quam praeter Riickertum editores omnes iu textum receperunt.
Riicker- tus autem avxoS an* ipavxov ita explicat, ut nolle
Socratem contendat reliqua ex alio elicero per colloquium, sed quae
audie- rit, ex se ipso proferre ano jAVTjfiTjS. Sed aligd est an*
ip- avxov, aliod avroS an* ipav- rov t atque illis verbis
concedi- mus sensum, quemRuckertus ait, inesse posse, verbis contra
avxoS <x7t* ipavxov nihil aliud expri- mitur, atque mea
sponte, AvtoS in* ipavxov legitur io Piat. Alcib. I. p 114. A. el
p\v fiovAei, ipoox&v pe, Ssnep iyco 6 e , ei 61 xal avxoS ini
6av- tov , \6ycj 8ie&e A£e, quo loco ex oppositis colligitur,
avxoS ini (jctvxov esse: disputatione remissa, continua ora-
tione aliquid proferre. Probatur haec verborum signifi- catio etiam
Piat, Soph, p. 217. C. itoxepov elcoSaS fjSiov av- roS ini davxov
paxpti A oytp dteSttvai Aeyajv topro , o av iv8ei%a6$al xcp
ftovAjjSpS , rj 6t* ipcjx?f(jeaov , x. r. A. Igitur hoc loco cum
ceteris editoribus avxoS in* ipavxov in ordinem verborum posuimus.
Schleier- maeberns verba convertit: vou dem ausgehend, woriiber ich
mit Agathon iiberein gekommen bin, sonst aber ganz fiir mich
al- lein, s o gut ich eben kanu. Sensas es* potias: N&chdem ich
mit Agathon iibereingekommen bin, werde ich versnchen,
Diotimas Rede in einer zusamraenhangeu- den Darstellung euch
iviederzu- geben. Verba autem ona>S av Svvcduai excusantis sunt
oratio- nem minus elegantem atque in- cultiorem; quae verba,
quoniam Socratis dictio bona est et recta, in eorum orationes
convehun- tur, qnae nimia cura elaboratae sunt atque inutili ornatu
conde- coratae. &snep dv dirjyrjd co . cfr. p. 195.
A. ovrco 6rj z6v"EpGoxa xal ijpds dixaiov inaivedai npdoxov
avxov , olds idxiv, inni- xa xaS doOeiS. Eiepa xotavta iAeyov.
n ExepoS vocis significatio prima- ria est: alter: respicit igitur
ad alterum, qui alteri vel simi- lis est vel dissimilis. Hinc iit,
nt ixepoS diversum denotet, cuius notionis exemplum est Sp mp. p.
186. B. Zxepov xe xal pcvopoiov i6xiv . Nostro contra loco, ubi
similitudinem inter al- teram et alterum exstare com- paratio
instituta docuit, ixepoS verbum fere idem siguificat. Recte
Stallbaumius verba con- 6>), m 'Ayct&av, agntg Gv 8iryyi)&» ,
8uX%t tv ainbv jB ngatov, xlg iGuv 6 "Egeo g xal nolo g ng, Inura
xa igycc ccvtov. Soxst ovv fioi gnGxov tivai ovrca ditX- Sftlv , as
xtox' kfie rj £,tw) avaxgivovGa Snju. GytSbv yag xi xal lya ngog avrfjv
triga toutvta D.tyov, olccntg vvv ngos (fit ’Ayd9av, as &>1 w
*Egas ptyas &toS, ili) 8t zav xaXav. koyoig, olgntg iya
rovtov, vertit : itidem talia. cfV. Gorg. 482. A, vo/iige
toiwv xa l nap* ifiov xPV y0( * £xepa rotavta dxoveiv % Adde
Pro- tag. 3^6. A. Interdum compa- ratione admissa nnlla exepoS
no- vae rei accessionem denotat , at in Alcib, II. p, 138. C.
tcepot rtpoS xoiS vnapxovdi xaxijpd - ro , h. e„ nova mala
praesentibus addidit precando. Ibid. p. 149. evprjdEiS de xal nap 9
t Opijp<p &c£pa itapanXijdioc xovxoiS el- pr/pfra,
p£yaS SeoS, Sydenharaius dyctSoS $£of scribendum esso
censuit. Nisi fallor, minus est «pitheton, quo omnia continen-
tur,. quae ab Agathone Eroti at- tribuuntur, quam 5eoV substan-
tivum urgendum, Quamquam enim in proximis de epithetorum veritate agitur,
tamen de iisdem iam disputatum est in superioribus, Nunc retractantur
eadem, ut facilius ad sententiam eam aditus pateat, qua deum esse
Erotem Diotima negat. Insequentia verba rectissime Stallbaumius
interpretatus est: KaXcjv, inquit, pendet ex "Epeo? t quod etiam
hio positum est, ut p. Ip6. D. Adde praeterea p. 204. D. l<$n
/ily ydp 6tj Toiovroi nal ovtcoS yeyorwi q "Epca*, $dxt 8k
xooy rjXtyyt di) fit Tourotg rotg ag ovxt xaXog tii )
xatci xaXcSy. cfr. annot. p. 209. Verba convertenda sunt:
Dass Eros ein prosser Gott, und dass er die Liebe des Schdnen
sei. ovx ev deis . Rii- ckertus ad haec verba h. e.
in- quit; bona verba, quaeso. Du- bito, nuru recte. Bona
verba apprime respondet nostratium : Nur gemacli, nicht za liitzig,
iis- que verbis utuntur, qui iratos, minitautes, iuiuste accusantes
il- ludunt. Sic Davns in Andr. Ter. Act. I. Sc, II, v. 33. cum
herus dixisset; ubivis facilius passus sim, quam in hac re, me
delu- dier, Bona verba, quaeso, re- spondit. Cui herus rursum;
In- rides, inquit, nil me fallis. Ev- qxtjpElv verbo respondet
Latino- rum favere linguis, utrum- que autem dicitur, ut sibi
ca- veat aliquis, no mali ominis verba pronuntiet. Sic in Piat, de
rep. I. p. 329. C. f cum aliquis So- phoclem aetate provectiorem
iu- terrogasset Ixt oloS X * el yv- yaixl dvyyiyvedSat,
respondisse ille fertur; LvcpijpEt, qj avSpGD- 1 te. Adde Alcib,
II. p. 143. C. *A\x. Evipiput npoS JioS , gj 2o oxpocfEf,, JS, ot;
xoi roV A i- yovxa , gJ UXxifipadtf , goS ovx dv iS&ots: dot
xavxa TtEnpd.- XSaij Exxprjpeiv det de xeXeveiv, d\Kd pdXX ov noXv
ei xts tei ' . ETMnOEION. 24 ? tov 1/J.ov koyov
ovxs dyu^og. xul iyui, /7ws ktytig, k'(fr]v, a z/tortfta ; cda%Qo g uga 6
’Ega g loxl xcd xa- xog; Kal i/, Ovx tvtpTjyyOtis ; £<PV' V olet,
<" xi av fijj xakbv y, avuyxatov avxo uvul alaygov, — Md-
£oi h&ca ye. — *// xal dv yy <Soq>ov ctyaDig ; y ovx
yO&yOai , on latt n yuxu.lv <Soq>tae xul aua&lag; —
Ti xovxo ; — To 6 q9cc do|«£av xal civiv tov I^hv loyov Sovvai ovx
oi<J&’, irpy, on ovx e hititix aGftui ivavxla Xiyoi' iitel
(67) ov- ' toj doi Soxei (jtpoSpa 8 e iv 6 v elvai r 6 7t p a y
- fM)C f &ST 9 OUfifi f>7fTEOV tlvai ovzcdS
elxij x.x.X. 7 / xal av fxrj docpov df.ia- 3 Astios ij , qucd
vulso legitur, servandom duxit, ut quod ad praecedens tj ^ *•
1,0 tn fortasse censes, referendum sit. Frustra. Illic male
vulgo 7 £ exhibetur, uostro contra loco 7 plena interrogatio est:
Num et- iam censeas . vide annot. p* 10. Ceterum frustra huno locum
vitiosum censuerunt viri docti. Stephanus ori post 1 / inferciendum
censuit , Wolfium ossentientem habuit. Stallbaumio e superioribus
zi repetendum vi- detur. Nos deleto post do(pov commate pleniorem
orationem audire arbitramur: 7) xat av otoio ’/«/ docpov
apaSis ; vide quae dicta sunt p. 10. Probari autem vides , quae
illic de r/ et 7 / dillercntia disputavimus; num 7 / 0 U 1 cum
veritatis specie pro- fertur, quam reddere latine pos- sis
fortasse. Ea veritatis spe- cies, ut mutata particula rema- neret,
ad verbum post 7 supplendum dv additum est. xal dv£v tov ix etv ^o-
yov Sovvai. Stallb. HCCf deleto, quod ab inepto gramma- tico
additura censet, sententiam verborum ait haac esse: llccte indicare
ita ut iudiciitui non possis reddere rationem, nonne putas esse neque
scientiam neque inscientiam? Cum eo Sclileierm. consentit verba
convertens: Weun mau richtig vorstellt, ohue iedoch Ilechenschaft
davon gelren zu lednnen. Stallb. addit praeterea si xal verum
esset, reliqua haud dubie sic se habereut : xai 0*'X £xeiv Xoyov
Sovvai. Multo deterius Huchertus in explicandis his verbis versatus est :
AoB,a2,eiy u/jSa xal dvev tov %x £iv yov Sovvai h. c. : vel ita ,
ut non possit, aucli ohne Reclien- schaft gebeu zu kounen.
Qu« in sententia quum bene habeat part. xai, nolim eam deleri,
quae Stallbaumii coniecturafuit. Num fieri posse censes, ut recte
opi- netur aliquis ita , ut rationem reddere possit? Non credo
equi- dem. Quid igitur sibi vult vel ita, ut non possit
ratio- nem reddere? Aov,a apprime respondet Latinorum opinioni ,
8o&a?,eiv igitur opinari est. Diilert autem opinio a iudicioita
x ut hoc cum ratioue iudicii couiuuctum sit. Qui opinionem habet,
nationem reddere uon potest. $6uv ctioyov yctQ nguyiui nas «v eYij ;
ovtt auccxHu' t o yaQ tov ovxos x vy%uvov nas «v &1
ccfta&lu; taxe 6i 6y nov xolovxov fj uq&i) 56|a, fiexa^v
(pQovrjGtas y.cu duu^dlug. ’A?.7]&fj , xyv 6 ’ eya, Jitytig. B Mtj xoLvw
dvdyxage, o fiij xaXov laxiv, alaygov eheu, False et recte opinari
aliquis potest, ut iudicare eum crederes, si haberet sententiae
suao ratio- nem. Fieri potest autem inter- dum, ut aliquis, qui
rationem reddere non possit, tamen inter- rogatus rationem reddat
forte fortuna repertam, non mente at- que iutelligentia quaesitam.
Iam agnosce Platouis voluntatem, quae clarior fit suppleto ad
roy infioitivo \6yov 6ovvai." Sen- susest: D i e ( zu f a 1 1
i g) ri ch- tigeMeinung and d i e ( z u- fcillige) Angabe des
Gran- des, ohne eigentlich ei- nen Grund augebeu zu konnen,
das weisst du doch, sagte sie, dassman diese weder wahrhafte
Wissenschaft, nochganz- liche hn wissenheit nen- n en kaun.
d\oyov ydp ^pctypct, h, e. Denuein Gegenstand, derwirk-
lich ohne Hechenschaft ist, (wenn gleich dieselbe aus Zufall einmal
gegebeu wird) , wie kdnnte der Wissenschaft sein? Nam qui recte
opinatur aliquid, rationem interdum reddere postest, sed quae aliis
sufficiat, 1 non sibi, nt- pote quam mente atque jntelli- gentia
non teneat. ro yap tov ovroi xvy - Xdvov, To ov significat
id, quod revera est} id quoniam opponitur ei,, quod esse videatur
tantummodo, revera noo sit, factum est, ut ro ov absolutam veritatem
denotet. Recte igitur Stallbaumius ad h. ]. ro ov idem esse monet,
atqne ro' aXijSte, atque ne quis de ideis dictam accipiat, caveri
iubet. To tov bvroS r vyxctvov autem non tam eum animi habitam
describit, qui veri compos fiat, quam eius, cui forte fortuua
accidat, ut veri sit compos» £drt 61 8r} irov toiov-
tov , Convertit Schleiermache- rus : Also ist offenhar»
Astius exhibet: Est igitur ni- mirum. Riickcrtus, qui de ad-
dendo post ToiovTov o v par- ticipio cogitat : immo est, qu.um
talis sit, vera opi- nio inter scientiam et inscitiam. — aJ£ particula
neque conclusioni indicandae inservit, neque est 6)j itov immo.
Ne- scio , cur noluerint interpretes verba convertere: Es ist
aber doch offeubar wohl cet. , quae verba ita dicta sunt, ut
praecedenti ovts - i<$Tiv , — ovte — $6riv cum vi quadam
opponantur. Ac ne forte, quod Riickerto acc disse video, t i ante
toiovtov additum deside- res-, toiovtov nude positum ac-
curatissime alicuius rei notionem describit, ut prorsus tale ali-
qnid esse dicatur, quale insequen- tibus verbis esse significatur»
Ti addito pronomine indefinito vis ilia minuitur, neque
prorsas talo aliquid esse indicatur, qua- & (njSs
o (irj aya&ov, xaxov' ixtidi] avros ujiokoyug (irj (itjdiv tl
liakXov oYov dsiv rivai, aXXa n fiera^v , itprj iya , ofioXoyuTal
ye ttaQa le sit aliud, sed ita comparatum, ut fere tale esse
aestimetur, cfr* Piat, de rep. I. p. S40. E, xoiovxov ovv drj 601
xai iph VTCuXafte vvv ye drtoxpivcttiSai, quo loco falsum foret
atque Thrasymachi sententiae contrarium roiovro»' n. Adde ib. IX. p.
590. E. Jrj\oi de ye, rjv o iyoo, xai 6 vopos, oxi xoiovxov
fiovAexai, tcu 6 i xoiS iv x y no- A ei KvppaxoS gjv. y,i}
xoivvv av ayxaS,e, Supra diximus annotat, p. 239. de verbis , quae
ex adiectivo proprie cum elvat verbo aut ex adverbio cum dicendi
verbo con- iuugendo conformantur. Mrj xoi- vw avayxage igitur posi-
tum est pro prj xoivvv avay- xalov elvat A eye. Minus apte
Schleiermacherus verba convertit: Folgere also n i c h t , neque recte
Astius exhibet: Ne igitur coutendas. Possis etiam alia ratione
avayxa^etv verbum explicare, quae tamen nobis minime probatur, ut
avay - xageiv cogendi potestate rebus adhibeatur, quae cogi
ifequeunt, quasi cogi possent : Zwinge doch also Dinge nicht, die
uicht sclion sind , hasslich zu sein. Inverso ordiue Agatho, cum
neque tur- pem neque malum Erotem esse intelligeret , pulcherrimum
opti- mumque deum esse censuit. Ce- terum o prj xaAov i<$ xiv
idem fere est, atque d pij xaA.ov el- vca opoAoyovpev , de quo
di- ovtfo da xai rov "Eqcoto: rfvcu ayaftbv firjSi
xaXov, av rov aitJxQov xai xaxov tovroiv. Kal fiijv, r\v d’
ttccvzav [tsyag &ebs rivat. cendi genere vide, quae
annota- vimus p. 207. ovxcj dl xai x 6 v "E p gj -
X a. Legitur ia nonnullis libris 6 rf pro de, neque confiteri dubitamus,
illud quam hoc nobis multo magis placere. Sed rectissime ad h. 1.
Riickertus ouXoj d?f, in- quit, per se non male. Nam quum a
generali sententia nd certum et deiiuitum aliquod sub- icctum
transimus ita, ut,' <£uod ia universum valeat, ad hoc quoque
pertinere doceamus, col- ligimus aliquid et concludimus, idqne
licet conclusiva particula significare. At non est hoc ita opus, ut
tam exigua librorum au- ctoritate mutari quid liceat, immo sufhcit
etiam addidisse signum transitus ab una re ad aliam, quod fit de
particula» ceAXa xi pexaB,v, %(prj, xovx oiv . M E<prf si
abesset, nemo desideraret. Cave tamen, id otiosum censeas. Solet
enim dicendi verbum verbis apponi, quae ab eo dicta sunt,
cuius oratio refertur. Diximus de hoc usu dicendi verborum
annotat, p. 56. Hinc non mireris di- cendi verbum duplex
positam v. c. in Sympos. 177. A. <PaidpoS ydp kxddxoxe 7 tpoS
pe dyavaxx&v Akyei’ ov deivov, qjffdlv , eo ’Epv£ipaxe,
aAAotS plv et quae sequuntur Phaedri ipsa verba. Eodem modo p.
202. C. legitur xai iyoo ebtov , vcgdS t i Tia v f ii )
eldotoVj »7ravTG)v” Xtyeig /J suet tujv etdv- rcuv; Sv^avrov {liv
ovv. — Kal i) yeAdOafSa, Kcd Ttvog Sv , B(p)j , w IkixQCCTtg ,
vfioXoyoiro {ityccg fteog uvai C TtCCQGC TOVtOV , 01 (pCCOtV CCVTOV
Ovtil &EOV llVCi l \ TL~ Vtg qvtoi; y\v d’ tyfp- Elg (iiv,
t<prj, <Sv , pice d’ iycu. rovro, itptjr , XlysiS j Ac ne
forte , L r (p7 ? cet. verborum inediae oiationi immixtorum
sig- nificatum minus recte a nobis indicatum censeas, si interdiim
alicuius verba non verbotenus repetita auimadverteris, nam liuiusmodi exempla
reperiuntur, tenen- dum est, eum, qui illo genere dicendi utatur,
si revera alicuius verba non repetierit, tamen eo nnimo fuisse, ut
ipsa verba proferre voluerit idque addito di- cendi verbo
indicaverit. TGJV f.nj HSo ZGDV , e<pv, andvroov XeyeiS.
Verba ita disposita sunt, ut ex eorum or- dine facillime possis
Diotimae voluntatem agnoscere. Nimirum ( pm dixisset in proxime
praecedentibus Socrates: maguum deum Erotem vocari 7C apd itdvtGov,
Diotima istud jxdvtaiv , inquit, Citrum de iis intelligenduin est,
qui rei ,non periti sunt, au et- iam de sapientibus. Urgendum igi-
tur pronuntiando est rtavTcov, quod quo fieret facilius, ndvTGJV
«nite A iyeiS positum est. Geni- tivum autem casum Diotima retinuit non
tam propter antece- dentem irapd praepositionem, quam quod
vocabuli, quod aliquis pronuntiando urget, ea forma re- peteuda
est, quam, qui antea locutus est, exhibuit. Uiuc ne iucomtior
existeret oratio haec: rovS fir) clduTOtS y £<ptf 9 TtdvXGDV
XeyetS x. x. A„ xqvS fitj ecduras verba eodem casu posita
habes, quo lictvTCDVt ’ S,v fX7Z d vx w psv ovv . Ovv
particulam in responsione adhibent ii, qui obfirmate ali- quam rem
affirmant, quam sunt iuterrogati. Eius notionis origo haec est,
quod, qui interrogan- tur, ut fortius respondeant gra- viusque
affirment, ita statim se comparant, quasi rem negasset Ss , qui
interroget , atque huiusmodi interrogationem proposuisset; OVH OVV
%V).l7cdvtGDV fibV i Ad haec verba igitur respicien- tes, iisdemque
utentes excepta ne- gatione, non nisi mutato verborum ordiue respondent :
B,vpndv- rcov pdv ovv. Schleiermacherus verba convertit: Von allen
iusgesammt. Sed neque haec couversio Graecis verbis satis
respondet, neque scio, an oroui- no dicendi genus in vernaculo
sermone reperiatur, quo illius via responsionis commode reddatur.
x al ?/ , fi a 6 i cj S £ q> ij. h. e,, Stallbaumius inquit,
facile ac uullo negotio rem tibi explicabo. Aliter uobis de
hu- ius adverbii explicatione statuen- dum videtur. Eo docemur,
qua potestate dicta sint verba 7tdSs rovro A lyeiS. Sbcrates
nimi- rum summopere miratus Dioti- xnae sententiam, qua et ipse
Ero- tem dicatur deum negare, hacc profert: ndtS rovro A iyeiS li.
e. Wie k anu st du das sagen? Vide de hac verborum
potestate Kal iyu airov , Ilag rovro, Srptjv, liytig; Kal rj, 'Pa-
Siag, $<py. Xiye yag fiot , ov itavxag ftiovg cpijg tv- Saifiovag
tlvca xai xaXovg; y roliiyOaig ccv uva fiy tpavai xaXuv xs Kal
ivtSalaovc: &cuv elvai; Mu xli', ovx i'yay ’ , 'iyyv. — EvScdfiovug
Se Sy Xiyug ov xovg annotat, p. 169. Ad haec Dio- tiroa: perfacile,
inquit, sc. hoc dicere possum. xaXov te xal ev Saiji o-
v a. $e&v elvai, Vulgo le- gitur 3eoV, quae lectio, umle orta
sit, neminem latere potest. Nobis rectissimum videtur SeGoV t quod
Bodlcianus exhibet aliique libri non pauci, Etenim, si Seov
probaveris, riva prouoraen in- definitum mirum quantum displi- ceat
: An auderes aliquem ne- gare pulcrum atque beatum esse? Ssaiv
contra a verbo , ad quod pertinet, verbis interpositis non- nullis
disiunctum, quanta vi po- natur, ex annotatione patebit p. 59.
Sensus est: An aude- res aliquem bonum bea- tumquo negare
deorum? Respicit autem Diotima quaestione hac proposita ad vulgarem
de diis opinionem, quos nemo fuit, quin felicissimos beatissimosque
praedicaret. Eius .opiniouis et se , antequam cum Diotima dis-
putaverit, Socrates narrat parti- cipem fuisse; hinc graviorem ne-
gationem explicabis Ma di , ovm iyoayB» Veritum euim se ostendit,
ne negata re deorum iram odiumque excitaret, ev 5 a i j.i o v
aS 8 8ij Ai- yei$ x. T. A. Annotat Mattii* Gramrn. ampl. §, 610. 7.
p* 1234. Ilaud raro ov negatio- nem in interrogatione verbo
fi- nito postponi atque verbis prae- figi iis, quorum canssa
tota in- terrogatio suscepta sit. Praeter nostrum locum idem laudat
Piat, de rep. IX. p. 590. A. jj 8’ av- SaSeiec xal 8v6xo\ia ovx
urav X d 'A.eovx6o8eS te xclL o(pc(a8ES <xv%7jxai; Caussam huius
strn- cturae Riickertns censet esse, quod incepta sit enuntiatio
ita, ut nulla iuterrogundi voce opus sit. Licuisse enim dicere
evSal- jiovaS 8l 8tj A iyeis rovs — xe- xxyffiEYOvS salvo tenore
senten- tiae. Media autem iu senten- tia loquentem paullulum
substi- tisse, quasi exspectet, ut addat reliqua interlocutor; quod
quum uon fiat statim, perrexisse ov xovS xctyaSa. xal xa\d xexx
?/- fxkvovS ; — Nobis ita statuen- dum videtur. Cum in
praece- dentibus id ageret Diotima, ut dii pnlcri beatique esse
conce- derentur, in sequenti enuntiatio- ne id verbum iuitio
posuit, quod beatitudinis notionem exprime- ret, ratiocinantium
videlicet ex- emplum secuta , qui semper ab eo verbo enuntiationem
ordiri solent, de quo iu proxime prae- cedente enuntiatione ab
adver- sario concessum est. Migravit banc ratiocinandi normam
Plato p. 201. C. t quo loco cum praecederet pulcritudinis notio, Socrates
hoc modo perrexit: rnf- ya%a ov xal xa\u 8oxel 6oi elvai; Illud
verbum autem cum plerumque penderet e finito ver- bo, ut nostro
loco Ev8<xiiiovaf D tayafra xal xa?.ci xextyfiivovg ; — Tlavv
ye. — 'A).fo'< /irjv "Egesta ye wfioloyjjxag St' evSnav ttov
ayadcov xal xakav Im&vfitiv avtiov tovttov , tov tvtier/g iotiv.
— ^ijiokoytjxa yag.Ilcog S’ Sv ovv fteog ety o ye nov xaiav xal
aya&wv aftoigog; — OvSafiag, Sg y’ ioixev. — ; 'Ogag ovv , ?<p »;
, ori xal Gv "Egcrca ov frtov vo(it£eig; XkyeiS, non
mirum videri potest, si id statim assumitur negationi
praepositum. ov t ov S xdyaSa xal xaXa. Bodleianus ftalii
nonnulli codices xayaSa xal x d xaXa exhibent, quam scriptaram
Bek- kerus et Stallbaumius receperunt in ordinem verborum.
Annotat lliickertus ad h. 1. rectissime : t dya$d xal xa xaXd res
bo- nae sunt et res pulcrae, quae diversae esse declarnnturj contra
r dyaSa xal xaXa res bonae et pulcrae. cfr. p. 202, D. 6i’ £v- Setav
zaiv ayaSaiv xal xaX&v et Trois 6 * av ovv SeoS efy o ye tgov
xaXcov xal ayadcov ayoi- poS. p. 203. D, iniftovXoS idxi xols
dyaSoiS xal xoiS xaXoiS x. t. X. Aliam legem in articu- lo
nominibus substantivis prae- figendo Graeci scriptores secuti sunt,
de qua fusius disputavit Engeihardtus ad Piat. Menex, p. 237. B. $.
6. p. ed. 252. ojyo Xoyr/xd ye. Assensus Socratici vestigium
in praecedentibus reperitur nullum. Ero- tem earum rerum, quae
appete- ret, expertem esse, Agatho con- cessit p. 201. B. *Ev6er)s
ap * £dxl xal ovx k'xet o " EpcsS xccX- XoS. — 'Avdyxtj ,
tpavai. Iam cura Socrates eadem fere Diotimae se dixisse dicat p.
201. B. ( dxedoy yap ti xal iyco itpoS avtrjv £xepa xotavxa
l\t- yov , oldnEp vvv npds £/il *Ayd$GDV ) quae Agatho sibi
di- xerit, verisimile est, Socratem, eadem Diotimae concessisse,
quae Agaibo Socrati. Hinc opoXuyrf- xa positum explicabis.
ov 6 apeo S, &>S y * Eoixtv. Socrates Erotam deum non
esse' ita tantummodo concedit, ut e Diotimae ratiocinatione id
colligi posse dicat. Piuribus dis- putavimus de verbis (Ss y* £oi-
xev a Socrate hic adhibitis in Comm. de Symp. Platonis. Opds ovv,
oxt xal tft) "Epoox a ov $ e 6 v v o pi^eiS; Stallbaumius
laudat ad h. 1. Piat. Apol. Socr. p. 24. D. xov 61 6rj fieXxiovS
noiovvxa tSi eiitk xal pjjvvdov avxolS xis idxiv. opiis, oJ MiXexe,
ori dtycis xal ovx £x El $ elicelv; Piat. Menon, p. 80. E.
yavSavGo, olovflov- X et Xkyeiv , dt Mtvouv * 6paS xovxov cos
ipidnxov Xoyov xa- xayeiS ; Verissime addit: In his locis omnibus
opaS ita praemitti- tur reliquis verbis, ut alterum rei praesentis
statum et conditio- nem ipsum iam perspicere indi- cet, non sine
aliqua admirationis vel etiam irrisionis significatione. x i
ovv av, £tprjv, eirj 6 "EpmS . *Av particula a modo verbi, ad
quem pertinet, haud raro seiuncta reperitur. Scriptum Cap. XXIII.
Tt ovv clv , Sq>tjv , drj 6 "Eqcos ; &vt]t6g ; —
"HxiOra ys. — 'AXka r l firjv ; — "Slgneg za xgozega,
iuza£v tivrjxov xal d&avazov. — TL ovv, u Aiotljia ; Aciliiuv (liyag,
a Eaxgazig. xal yag itav zb Sai- autrm exspectaveris ti ovv,
Etpyv, ehf dv 6 "Ep&S. Non perfode est, ntro loco dv
particulam po- sueris, neque ti ovv dv , £<prjv> ii?f idem
prorsus siguificat atque ti ovv, iqnjv, eXrj av. Iam videamus, quid inter
se hae di- ctiones differant. Optativus modus aliquid fieri posse indicat
ita, ut non addita sit vel probabilitatis vel dubitationis notio,
"Av particula adiuncta efficitur, ut, quod fieri posse fodicatur
op- tativo modo, id certis quibusdam de caussis fieri posse
significetur adhaerente notione verisimilitudinis. Iam patere opinor, ti
ovv eXrj o "EpuS eius esse , qui de Erotis natura
incertissimus ne- sciat prorsus, utrum ait aliquid necne Eros, fieri
tamen posse opinetur, nt sit aliquid, idque nunc sciscitetur.
Contra ti ovv iXt] av 6 "EpwS eius verba sunt, qui compertum
habet, Erotem aliquid esse, idque quid sit, iam quaerit. Ad nostrum
locum ut accedamus , av positum quidem habes, sed disiuoctum ab
optativo modo, quo dicendi genere scriptor exprimere voluisse videtur
aliquid, quod medium esset inter ti eitf et ti bXtj av . Socra- tes
nimirum Diotimac argumeutatione captus necdum liberatus a popularis
superstitionis vincu- lis huc illuc vergit plenissimus
dubitationis, atque revera aliquid esse Erotem potat et rnrsnm aliquid
esse posse dubitat. Verba convertenda sunt: Wasware denti nun also
wobl, sagte icb , wenti er etwas ware, Eros. Eodem modo explicandus
est locas Piat, de rep. I, p. 333. A. ttpoS ys vnodrfpdtaiv av,
olpai, <paijjS xtijdiv, h. e. (palrjS av, ei <pair}$. Ibid.
IV, p. 438. A. quo loco cave, indicium tuum impediri patiaris verbo addito
60 x 01 : *I 6 ooS yap dv, Xcprj , 60 x 01 ti Xiyeiv 6 tavta
Xtyoov. Adde Protag. p. 312. D. X6co5 dv, i/v 6 * iyoj, dXrjSij
Xtyoipev , ov pivtoi IxavooS ye, Gj? 7 tep ta itpotepa ,
$<prj. Haec verba convertit Schleiermacherus: Wie oben , sagte
sie, zwischen dem sterblichen and nnsterblichen. Recte.
Sapplendum autem est ex praegresso ti ovv dv eXrj tempus praesens
X. 6 ti, nt verba explicatius perscripta audiant tovto , o l 6 tiv
wSitep ta 7 tpotepa (cfr. p. 202» A. % 6 tt 6) j tcov toiovtov rj
opSr) 6 o£a , pEtagv d/taSiaf xal ppovr/tieoDS ) petant)
Svijtov xal dSavatov. xal yap 7tav x 6 6 aipo - viov ♦
b. e. denn die gesammto Damouenwelt liegt zwischen Gott- heit and
Mensckheit raitten foue* Ad nostram locum multos fuisse seriores
scriptores, qui respice- r E poviov [isra^v ititi ftsov te
xal ftvrj tov. - TLva, rjv 6 i lydt^ dvvccfuv %%ov; 'Equtjvevov xal
6ia7ioQ%ptvov •O £olg ta xaQ 9 avftQconcov xal dv&Qciiioig rd
Ttccpcc 8ewv , x cov (iiv xag dEifieig xcd ftvtilag, xdjv 61 xag
faixat-Big te xccl d(ioi($ccg xav &v<2l(5v. iv piceo 61 ov
rent, Stallbaumius ad h. 1. anno- tat. Addit idera: Quid quod a
Proclo in Parmenid. ap. Rentlei. Epist. ad Millium p. 455. ed.
Lips. haec omnia e doctrina Or- phicorum repetita esse narran- tur
? Quae quidem sententia quum confirmetur quodammodo eo, quod
carminis Orphici fragmentum ap. Clem. Alcxaudr. Strom. V. p. 724.
fere eadem coutiuet, quae Diotima hoc loco Socratem do- cuisse
narratur; eo minus de hu- ius narrationis veritate dubita- mus, quo
certius exploratum ha- bemus, Platpncm non raro ad Orphicorum
doctrinam allusisse et respexisse. hpfxrjvevov xa\
8ia*> 7t O p$ /.l£VOV $EOlS tCCTtap* dvZpaJrtGOV X. r. A.
Satis no- tum est, Graecos in formulis, quae ex articulo et nomine
aliquo cum praepositione coniuncto compositae sunt, praepositionem
haud raro mutare atque eam poiiere, quae cum verbo enuntiati
prin- cipe conveniat, cfr. Fischerus ad Platonis Phaed. c. 22.
Stallbau- roius ad Piat. Apol. Socr. p. ed. 63* et 64. Mattii.
Gramm. $. 596. a. b. p, 1193* Engelhardtus ad Piat. Lachet. p. ed.
23. Hu- iusmodi formulae ubi per se spe- ctantur, plerumque
praepositionem quietem significantem repraesentant, ut nostro loco rd
nap* dv^pconoiS et t d napa Accedente enuntiati principe verbo,
quod motum siguiiicot, illa praepositio aut in praepositionem motura
exprimentem mutatur, aut, ut id factam est nostro loco, cum eo casu
coniungitnr, qui motum exprimat. Non satis recte autem napa
praepositionem cum genitivo coniuuctam putant pro- pter antecedens
SianopSuevov,’ non item propter kppj/vevov, neque satis placet
Schleierma- cheri conversio: zu verdolmet— schen und zu
iiberbringen. Non rectius apudFicinum legitur: in- terpretatur et
traiicit. Non dubium est, duplicem itineris ra- tionem indicari illis
participiis, atque kppTjvsvov quidem , quod cum verbis consociandum
est dv%pG)itoiZ tartapa $Ecby t viam describit, quae a diis ad
homines ducit, diaitopSpevov autem de via dicitur, qua
proficiscitur, quicquid ab hominibus nd deos se confert.
AiaitopSpEvov ni- mirum cum Gharonte cohaeret, qui itopSrfiEvS a
Graecis vocatus est, et qui animas solebat c terra ad sedes deorum
transvehere 5 £p- pifvevor eiusdem est, &tx\ucEppr/S radicis,
qui deorum iussa homi- nibus obnuntiabat, non vice versa ad deos
transferebat, quod ipsi ab hominibus mandatura esset. Si- gnificat
igitur Mercurii in- stardeorum iussa obnun- tiare. Iam patere
opinor, non solum propter StanopS/iEvov, sed etiam 'propter
kpprjvtvov cum genitivo coniuuctam esse Kapa praepositionem. Hinc
non d/i<poTsgm’ avfinbjQol , i3gre ro xav avto avrq) £w8s-
SeO&cu. Sici rovtov xal rj fiavuxi] xdau %uqu, xal ?/ rav ieQtuv
xiyyrj rmv re xeni rag ftvaiug xal rag relerag xal rag tnipSag xal rr\v
(tavtelav ndoav xal 203 yorpceiav. &eog Se dvQQaxco ov jxLyvvrui ,
alia Sia placet Stallbaumii annotatio ad h. 1.: J&eoiS' td it
ap* av- S p cJ it cd v . Non dixit it a p* dvSpciitoiS
et ita pa Se- olS : nam alteram constructionem requirebat verbum
SianopS- /f sii ov. CvpitXif poiy (Ztxe ro itdc v x. r.
A, Ficiuus liabet ia conversione : In utroqnc medio constituta (sc.
daemonum natura) totum complet, ut universum se- cum ipso tali
vinculo connectatur. His verbis seduci se passi sunt Keynderslus) qui td
o\ct dVfUtAl/poi scribendum coniecit, et Orellius nd Isocr. p.
331*» ubi (SvpitXripoi ro itdv , dista avto avroj
&vv5c8i<j$ai ma- num Platonis esse suspicatus est. Sed nihil
mutandum est, neque quicquam supplendum. Sensus ?st: indem er aber
in der Mitte sich befindet von beiden , bildet er die Ausfiilluug,
Vermittlung, s. fiillt es aus ; nam nostra quoque lingua transitiva verba
in terdum ita adhiberi patitur, ut non actio, sed notio verborum
urgeatur. Vide de hoc usu verborum transitivorum apud Grae- cos annot. p.
230* xal i) ftavrim } itd6a Xoo p ei. Duplici potestate
haec verba intelligi possunt, ut aut de felici successu, qui
daemoni- bus debeatur, aut de spatio viae, quod eundo superetur,
accipiantur, Ficioas verba convertit: Per hanc (sc. daemonum natu-
ram) vaticinium omne procedit cet., ubi verborum ambiguitatem
servatam habes, neque dubium videtur, quin eandem et Plato de
industria admittere voluerit ea de caussa, ut de felici successa et
de meatu per medium inter coelum et terram locum verba
accipiantur, SeoS 6 e dvSpfoitM ov piyvvr ai x. r. A.
Articulum omissum habes in utroque huius enuntiati nomine, ut
indicetur, sententiam proferri generalem quam vocant. Vide Indices
s. v. Artic. Ceteram daemont medium inter coelum atque terram
locum obtinere dicuntur ita, ut per eos esse atque meare artes
per- hibeantur omnes eae, quae; homines cum diis arctius con-
iungant. Haec coniunctio quo- niam potior est eo, quod ho- mines
deorum iussa exsequuntur, quam quod dii hominum precibus obtemperent, recte
ponitur h. 1. ?} SidXsxtoS SeoiS irpoS dvSpGdrtovS , non item
avSpdmoiS itpoS Seov?, quod Heusdius in verborum ordinem inferciendum
censuit, ut esset, quorsum referrentur verba sequentia xal
lypijyopodt xal xaSevSovtiiv. Annotat Stall- baumius ad h. 1. :
Defendi pot- est lectio vulgata ita, ut verbo- ' rum constructionem
dicamus cou- formatatu esse potius ad sententiam ipsam, quam ad grammati- «
tovvov naOu iativ i } byuliu xal % Sudexrog dsoig itgog
av&QixiKovg, xal lyQijyoQo 61 xal xa&ev 8 ov 6 t. xal o f ilv
xcqI tcc Toiavxu 6 oq>os 8 ca[ibviog avrjQ, b 81 cclXo tl tiotpog coV
rj' jrfpl r(%vug rj %UQ 0 VQyLag uvag , fiavav- 6 og. ovtoi dr; oi
Salfiov eg nokXol xal nurrcoSanot tl 6 iv' slg 81 tovtqv J<Srl xal 6
"Egag. Iluigog Si, t)v 8 ’ lye>, tivog Itfrl xal [ir^Qog;
Muxqotiqov (iiv, %<pr], d^yr/Oa- cam subtilitatem ac
diligentiam. Quum enim dicatur opiXslv rivi et diaXeyeCSai rivi,
etiam opi- A ia xal didXsxroS rivi recte dici potuit» Et quum antea
non dixisset: 7ta6ct idri SeqI? tj opiXia xal 7 ) didXExro?
avSpcS- 7COi? , sed perspicuitatis caussa usus esset praepositione
TtpoS addito casu accusativo, nunc ad legitimam constructionem
rever- tens, neglecta grammatica dili- gentia, dativum post
accusativam recte inferre potuit. iiuius- xnodi grammaticae
diligentiae ne- gligentia si ullo loco ferri potest, huic loco apprime
convenit, ubi Socratis sermonem non prae- meditatum illam, sed ano
rov tiro paro?, ut Graeci dicunt, ha- bitum refert Apollodorus.
Verum est tamen aliquid in hac verbo- rum explicatione, quod
displi- ceat. Negligentem esse structu- rae grammaticae verborum
licet quidem interdum in sermone fa- miliari, sed ita, ut
verisimilitu- do adsit negligentiae, h. e. ut verba ita remota sint
ab iis, quorum structuram sequi debeant, ut eius revera obliti
esse,, qui loquantnr, videantur. Nostro lo- co verba proxime
adiuncta sunt f verbis, quorum structuram sequi debent, ut saue
intelligi nequeat, cur dativum maluerit, quam ac- cusativum
scriptor exhibere. Cer- tissimum est, aliquid exprimere
voluisse' scriptorem structurae mutatione, quod quid sit, iam
videamus. Si scriptum exstaret iyprjyopipiozaS xal xa$evdov~ ra? t
interpunctio delenda esset, quae post avSpGoitov? in omnibus editionibus
posita reperitur, unoque tenore legendum esset $Eoif rtpof
dvSpwitovS iypTjyo- prjxora? xal xaSsvSovtaS. Dativo admisso participia a
prae- cedentibus verbis seiunguntur ita, ut verba 7 } opiXia xal 7
} SiaXexToS $eoi$ rtpo? avSpaS- Ttov S unam notionem
efficiant, quam cum uno verbo exprimere non posset’, structura
verborum Plato assecutas est. Verba con- vertenda sunt: Gottliches
be- ruhrt das Menschliche nicht, sondern alie gottliche
Offenbarung wird Wa- chenden und Traumen- den vermittelst des
Da- ni on is oh en zu Theil. 7 ) xstpov pyla? riva?,
fiavav6oS . Schol. ad Theae- tetum in Bekkeri Comment. Critt. T.
II. p. 368.: fiavav6ov'‘ ol kdpaloi ZExyirai xal 7(apde fiavvcp, o
ion xapivaj tl £p- yov dianSipEvoi, ol 6 e fiavav- 6 ov rov
anavSp&ndv xal vtce — pr\<pavov. bnoi 61 fiavav6ov XEipds
zijs vfipi6xixij? f) rsxyt - 0%at' 0 /nag 8b Gol Ipw. ote yap lytvtxo 7j
'AtpQoblrr;, ttotiaino oi &£ot , oi ts aXIoi jmm 6 trjg MijtiSos
vios IIoqos. trcEiSrj 6s iSiijivrjGav , XQoqaiTqGovOa, olov iva%La$
ovaris, mpixeto rj IJtvia xal rjv jiiqI rag dv- Qag. 6 ovv IIoqos
fiidvGfrels r.6v vextuqos — oivog yag ovjto tjv — tls *ov tov Alos
xijrtov dscl&tov (Sepugr]- litvos rjvStv. rj ovv Ihvia iiCi^ovIevovGa
dia ttjv av- StjXoi dk tovS’ x 6l Porixv<x£ xal
drjpiovpyovS. Diotimae mens haec est: virum daemoniam recte
appellari eum* qui cogno- scendi* diis deorumque consiliis operam
navet coniuuctionis illius gnarus, quae inter deos atque homines
per daemones exstet; contra j SavavOov vocari , qui terrestribus
rebus intentas deo- rum consilia minas curet. < o tf ydp
iyiveto. Quae hucusque narrata sunt a Socrate, Erotem cx senteutia
Diotimae e daemonum ordine esse, h. c. me- dium inter deos atque
homines, atque pulcro carere quidem, sed yehementissimo eius
appetita teneri, ea nunc repetuntur in mytho insequenti , quem vario
modo philosophi interpretati sunt. Hac narratione mythica
certissimum est, Diotimam s. Socratem non confirmare voluisse , sed
expli- cate potius atque illustrare tau- quam imagine sententiam
suam. Satis notum est autem, Graeco ram iugeqium ita
comparatum fuisse, ut facilias iutelligerent, cupidius arriperent,
memoria me- lius tenerent, quae mythica ali- qua narratione, quam
quae nuda demonstratione exposita essent. Pluribus de huius mythi
fine diximus in Commeat, de Sympos. Platonis. olv oS ydp
orjTCco 7/ v . Adduntur haec, ut tempus indi- cetur, quo facta
sint, quae hic narrantur. Vinum antiquissimis temporibus Graecis
notum fuisse, Homerus docet atque Hesiodus. Hinc iudicabis de rei
narratae vetustate. Ad nostrum locum respexit Porphyr. A. A. c.
16. ni? itapd nXdr&vt d TIcpoS tov rhirapoS 7tX?]6$tis •
ovnto ydp olvos ?}v. eis tov tov AioS H7J7COV e lseX^GJ
v. Cave credas me- ta pho ricam significationem h. 1. verba habere
A 10 S xi}7Cov t Horti mentionem Diotima fecit vitae quotidianae
usam imitata. Hortam enim hospitis convivae bene poti adire
solebant atque loca frigidiora sibi eligere, ubi hausti vini
calorem mitigarent animosque concitatiores somno compescerent. Adde
Stallbaumii annotationem verissimam : Quae de hortis, inquit, lovis
hic nar- rantur, non solius ornatas gratia adiecta sunt, sed
properaodum necessario commemorari debue- rant. Qaum eDira Pori
atqae Peniae natura et ingenium tan- topere discreparent, per se
pa- rum verisimile videri debuit, il- lum cum hac potuisse
habere consuetudinem. Itaque quo nar- ratio maiorem nancisceretur
si- militudinem, poeta philosophus 17 C r jjg
txxoQlav stcaSlov xoirjGaGftca Ix toti JJoqov, xata- xXlvEtcd te scccq’
avtcp xcd ixvt]GE % ov "Eqmtcc. Sto Srj xcd ri ~js 'AcpgoSiTijg
'dxoXov&og xcd &EQcc3icov •yeyovcv o 'Egag, yewtfteis iv roig
ixslvqs 'ysff&Xioc g, xcd d(ict tfvOtc iQtt6Ti)g uv jceqI to xuXdVj
xcd r>]s ’A(pQ0SultjS xaXijg ovdrjg. ktb ovv Ilogov xcd Ilevtag viog i
ov 6 *Egag iv roiauzi/ tv%]/ xu&l6xr t xE. tcqutov filv nivtjg
ini sdn, xcd xoX/.ov Sei ol itoXXol oiovTcu , txXXcc
Pornm finxit in convivio illo in Veneris honorem instituto
ebrium factum se in hortum Iovis con- tulisse, ibi vero Peniaxn,
quae ei struxisset insidias, sine arbi- tris convenisse. Vides,
quam necessaria sit haec fabulae par- ticula: nt profecto miranda
sit operosa industria eorum, qui de istis Iovis hortulis
splendida quaedam commenti sunt mendacia^7 Ci ftovXev ovd a 8ia xyv
avxijs ano piav . ’Eirifiov- Xevelv verbum sequente infinitivo eam
potestatem habet, nt studium significet cum insidiis coniunctum. Prorsus eodem
modo legitnr in Xenoph. Symp, IV. 52. ald^avopai yap rivaS i7tifiov\£vovtLXS
SiaupSelpai av- Tov. Adde Piat, de republ. VIII* p. 566. B. idv di
ddvvaxoi ix- fidWeiv avxov gqoiy t} dito- xxiivai biafidWoYteS xy
rt 6- A ei, fiiaia) 8ij Savaza iitifiov - A evovdtv areoxtivvvvai A
aSpac. Plura huius structurae exempla si quaeris, adi Stallbanmium
ad Piat* Protag. p, 343. C. p. «d. 119* 8ia rr/Y avtrjS
areo - pia f'. Indicatur his verbis, anccXog te xcd xcdog,
olov CxXijgog xcd avftiijpog xcd cur Fenis mater esse cupiens
, e Poro potissimam concipere vo- luerit. Etenim qaoniam
ipsa, quod futuro filio daret, non ha- bebat, ut minus olim
sentiret puer maternam egestatem, Porum, deum omnium ditissimum ,
pa- trem ei esse voluit. Minus ex- plicate Schulthcssius in
conver- sione Symposii exhibuit; Nun sann Penin ihrem Mangel
zn steuetn, anf die List cet* dio 8 1 ) xal tij S 'A
<ppo- SixyS dxdXovSof . Veneris comes ac minister Eros
dicitur, quod est pulcri amator, et quod Venus pulcra est. Minus
clara verba sunt yevvrjSeiS iv xols ixELvyS yEYE$\ioiSj ad quae
ver- ba 8io praecedens spectat prae- cipue. Nam si quis ipsis
alicu- ius natalitiis oritur, non sequi- tur inde, eundem comitem
esse atque ministrum illius. Videtur autem mens Diotimae haec
faisse: Erotem Veneri ortum de- bere; nam si ad huius natales
celebrandos non convenissent dii, Peniam nunquam e Poro conce-
pturam fuisse. Igitur factura esse cura pulcri appetita natu- rali,
tum pietate, nt Eros se Veneri adinnxerit. uwxodTjtog xal aoixog,
%a[iai7UTrig asl uv xat a6re>m- D ros, t7cl ftvQaig xal Iv odoig
vxai&Qiog xoip.cou.Evog, t ijv tijg firjTQog <pvOiv £%av , dii
Ivdiice. ^vvouog. xara Si av xov xaxtQu ixlflovXvg late xoig dyu&oig
xal xoig xcdoig, avSgdog av xal Xxtjg xal Ovvxovog, &)f
Qiirxijg Suvog, ad xivag xkbxav [ir^avag, xal cpQoinj- Ciag tm^viirjxtjg
, xal xuQtuog , xpiXcGoxpav 6 ut navxog xov §lov , Suvog yorjg xal
(paQpaxivg xal CotpKSxrjg' xal ovxb tbg a&avaxog nitpvxBV oilte ag
Qvtpbg, E axe ovv Ilopov xal IIs- vlaS vloS. Erotis nator»,
qoa- iem sibi Socrate* effinxerat, fa- ctum est, at Porum atque
Pe- ni am parentes putaret. Inverso nunc ordine a parentum iudolo
ad blii naturam concludit, ut, quod in illis conspicias, id con-
iunctim in se habeat filius. Pro- batur igitur et his verbis, et
se- quentibus p, 203. ,C. xard 81 av xov naxepa , quod supra
an- notavimus p. 257., mythicam hanc narrationem ideo
proferri a Diotima, ut imagine quadam proposita indoles atque
natura Erotis illustretur. In sequenti- bus Erotis epithetis xal habes
quater repetitum, quod, ut mole- stiam quandam parat audienti, ita
epithetorum indicandae mul- titudini apprime inservit. ini
SvpaiS xal iv o*- dois’ vn aiSpioS xotpcope- oV o f. Paullo supra de
matro Erotis dicitor, p. 203* P- a<pi- 7MTO — xal r)v nepl
xds paSy quapropter nostris verbis ap-* positum habes trjv xijs
ptjtpoS (pv&lY 'ixatv , quae verba cave epitheti loco posita
ceuseas $ caussam enim indicant praece- dentium epithetorum.
Ceterum pro vitafa pioS , quae optimorum codicum lectio est,
vulgo ede- batur vitateploiS, Male. av 6 p eioS c ov xal
Ixrji . Schol. habet: IxrjS' Hdx&p, ini - 6X7}jj.c*)Y>
<aV ivxai>$a. fla- verat 61 xal ini xov ixapov xal SpatieaS,
Nisi forte aliunde hoc scholion depromtum est, sane mireris verba
oJs’ ivravSa, quae rectissime haberent, si post verba legerentur:
Xapfldvexai xal. Hesychius , 1'ti/S, inquit, IxajioSy $pa6vS. rj
Xtixcop tj initixi/pav . Cum dvSptioS no- mine couiunctum legitur
KtrfS etiam Piat. Protag. p. 349. E. noxepov xovS dvSpelovS
Safi- flaXiovS XiyeiS r\ dXXo xi; — Kdtl l'xaf ye t Eqnj , Itp* d
ol xoXXol qjoflovvxat iivat h. e. xal ixas ye ini xavxa , l<p’
& x . r. A. Ceterum haud scio, an non vitii aliquid in his
verbis lateat, quod xal ante tivvrovoS posito removeatur. Nam ut
se- quitur STjpevxijs 6etvo>, ita for- tasse melius habeat xal
ItrjS (SvvxovoS , quam xal itifl xal tfvvxovoSi xal
tppovi} 6ecoS iiei$v» firftrj i f xal nopipot. Rii- ckertus ad h,
1. deleto post iiti * $vpi \xrfi commata: longo , ia*
17 * , aU.lt tots ficV Trjs crinrjs ftakXti rs xal %y,
orav ivitOQyOy, tots fis azo&vrjiSxu , itai.iv fis avapia-
CxEtca duc rijv tov itargo $ cpydiv. rd 6s itogigo/ie- vov a£t vzexqh,
c&grs ovre. ccjtoQti ”Eqb>s zots ovt e zlovttl. Oocpictg te av xal
a[ta9lag Iv fuflw idziv. quit, liaec cumDindorfio in unum,
ut haec sententia prodeat: Amo- rem et cupidum esse pru- dentiae et
ad parandam idoneum. — Astius 7 topt/ioS esse censet: opibus et
co- piis affluens; Recte 8ni- das Ttopi/ioS, inquit, 6
dvvdiv 7j htivdiav ££<»k. Quae se- quuntur verba
rpi\otio<pGJV 8ia rtavzoS tov fjiov , praecedentis epitheti
caussam continent, et ipsa epitheti vices obtinent. Sensus est
itopipoS vocabuli: der al- ie s durchsetzt, iiberall durchkdmmt,
dem u11es, vas er uuternimmt, von Statten geht. d eiv o
S y d rj S n a\ q> a p- paxevS xal 6o (pKSrjj $ . Neminem
fugiet, quam pruden- ter philosophus hoc loco vulga- res de Amore
opiniones et fabulas coniunxerit cum suis ipsius pla- citis.
Stallb, a\\ct x 6 1 e. ptv — orav e vir opi} 6ij h, t. A.
Ficinus verba convertit : neque immor- talis omnino secundum naturam
neque mortalis: sed interdum eodem die pullulat atque vivit,
quotiens exuberat, interdum de- ficit cet» Sic interpretes ad unum
omnes Platonis verba ex- plicaverunt, neque quicquam eos, quod
miror, in iis offendit. Pug- nant autem hacc verba cum iis, quae p.
200. A. seqq. de Erotis natura dicta sunt. 'Docuit illic Socrates s.
Diotima: Erotem non esse AMOREM h. e. DESIDERIUM nisi eius rei, quam
ipse nou possideat. Iam quaeritur , qui hoc loco dici possit 3-aAAn re
xal ?,jj , ozav tv7topr}6xf. Nullus dubito, quin pro orav
evitopt}- <$rf Plato scripserit orav aito- prfoTf. Ad sequentia
autem rore dizoSvijtixei e praecedenti- bus supplendum est '-orav
et hro- pytiVf qaod supplementum quum aliquis forte, ut fit,
margini ad- scripsisset, scribarum incuria vel imperitiorum
Platonis interpre- tum industria pro aitopijdp in ordine verborum
tvTtoprjo^f positum est. Id fieri potuit eo fa- cilius, quo magis in hac
re a ceteris daemonibus diisque differt Eros. Solent enim Erote
ex- cepto omnes , quo maiorem re- rum suarum evito picer
experian- tur, eo magis, ut cum Platone loquar, efflorescere atque
vigere. AMOR contra rerum expetitarum potitus perit , sed paullo
post rursum emergit .novarum rerum, quas possidet pater, DESIDERIO
reviviscens. 5 1 a r ifv tov it a r pos <pv- 6 iv. Ilaec
verba quid -sibi ve- lint hoc loco, a nemine inter- prete
explicatum reperio. Scri- ptoris mens haec esse videtor: Erotem
mori , ubi ea sibi com- paraverit, quorum desiderio an- tea Eros
fuerit. Quoniam antem Poros, h, e. deos divitiarum at- que omnium
rerum summae ab- t%u yctQ aSi. 9u ov ovSeIs tpd.oeotpti ovS’
Soi Coipos ytvtOftcu. tori yaQ. ov3’ ti rtg aAAog Goipbg, ov
<piXoGocpti . ovS’ c.v oi afia&Eig ipikoOoipovOiv ovb’
lm9v(iov6i Gotpol yevtO&ca • cevro yaQ rovr 6 ion [ lalizov ]
„d/itt&ia,” xo ptj bvta xalbv xaya&bv fnjdi cndantiae
finem non habeat regni sui , sed aliis alia semper addat, rerumque
facultates in infinitum augeat, fieri solere, ut Eros, ubi desiderio
expleto perierit, novarum reruta desiderio tangatur at- que
reviviscat* dei vitEKpei. 'VjtExpciv verbi significatio haec
est, ut exprimatur, abire aliquid atque evanescerfe ita, ut nescias
prorsus, quomodo id fiat ant quo abeat. Apprime respondet Graeco
verbo nostratium: es gelit ihm nuter den Hiinden verloren.
Schleiermachcrus verba convertit: Was er sich aber acbafft, geht
ihm immer wieder fort. «uro' yap tovto id ri
IxttXettov] ajuaSta, Haec verba non recte sc habere, iam pridem ab
interpretibus annota- tum est. Sydenhamius a/taSiqt scribendum
coniecit vel «urco Tovtgj ; illud in cod. Veneto reperitur agnosciturque
a Ticino: JJoc enim habet ignorantia pessimum, quando qui nec
pulcher et bonus est neque sapiens , suf- ficienter haec habere se
censet, Attius corrigendum vidit: amo yap tovto idn ^«Acjr ov
d/ut- x ov fit) ovtcl xa\ov naya- $ov pj/de (ppovtpov Soxtiv
au- ro ixavov, Idem etiam fyet verbis Platonis inferciendam
ceu- suit vel scribendum apaSiaS pro apaSla. Annotat Stallbaumius
ad hunc locum: Haec ne cui in posterum sollicitanda
videantur amo tovto absolute positum est, ut idem sit, quod 5i amo
tov- to : quae autem sequuntur: ro pi) bvxa — ixavov, ea per
ap- positiouem, quam vocant gram- matici, addita sunt. — Nec
Sy- denhamii neque Astii verborum medelae placent, neque
satisfacit verborum explicatio Stallbau- miana. Concedo quidem,
quod permultis locis probari potest, «uro' tovto ita dici, ut
signifi- cet 81 * avro tovto, nusquam autem ita positum reperias , ut
non sequatur particula finalis. Deinde ne Graece quidem dici
videtur: auro tovto idn ^aAe- Ttdv apaSlot pro amo tovto idn
xarAftfoV ?/ dpaSia. Differt enim subiecti forma a prae- dicato suo ita,
ut illud articulo insignitum sit, hoc articulo ca- reat. Sententiam
autem quod attinet, merito quaeras, cur de difficultate quadam
molestiave rei maluerit Socrates, qcain de ipsa re dicere? Si quid
video, XolXe7Cov inutile est otiosumque scioli alicuius
additamentum, quo enuntiati facilitas admodum im- peditur. Auget
voSiiaS suspi- cionem sedis mutatio , quando- quidem in duobus
codicibus F>ek- keri pro £aA«roV dpaSict legitur dpaSia £« A ejcov et
dpaSitt XaXEnov . Igitur uncis inclusimus x«A ETtov , quod neque
cum verborum structura satis conveniat, neque, dialecticum acumen
<Pq6vi[iov Soxuv avrc : > tlvai txavov. ovx ovv ixudvfiit 8 (iij
oiouevog Ivdpjs tlvcu ov av fiy oirpzae hudttti&eu. Ttvcg ovv, %cptjv
iya, to Acoztfia, o t epiloCoepovvxts, B ll (l/jzs o£ Cocpol /lyre ot
ttfiu&Hg ; Afjlov Srj , fg np, Tovzd y£ fjSij xai jtaiSl, ori o i
fiezal-v zovzav dpi- q)otsq(ov, tov av xal 6 "Eqi ag. l&u yaq
dtp tcov xcd- HCzcov i) Coepta , "Eqcos 8’ Icrlv iprag mgl zo
xakov, agzs avuyxalm "Egaza tpilbaoepov uvae, qnXoGoepov •S
respicis, quo Socrates hic utitur , sententiarum consecutione probatur Sensus
est verborum : Dena das eben ist ia, was vir Amathia nennen (vide
annotat, p* 232.) dass einer, der nicht schdn und gut noch
verstandig ist, •ich selbst geuug zu sein vermeint. 6i/\ov Stf
, Icpyjy rovxo ye 7/677 xat xaidl. Haec prorsus conveniunt cum
nostratium: das kann ja schon eia *Kind einsehen. Utitur autem hac
formula Diotima, non tam, quod res ipsa intellecta facillima ait,
sed quod, qui praecedentia vecte ceperit, is adhibita
analogia possit verum reperire. Hinc additam habes: oov av xa\
6 Epeo?. Saepius enim in praecedentibus praepositis rebus duabus
vera neque altera fuit neque altera , sed tertia quae- dam, media
inter utranique, re- perta est* Anget autem narratae rei
verisimilitudinem Diotimae haec indignatio, quandoquidem et lectores
Socraticam inertiam (quam care non simnlatam habeas) non possunt non
mirari. oov av xal 6 ’Epaf, Vulgo legitur oov av xal
o"E-s poDS ; quod cum nullo pacto hic ferri posset, Brkkerus e
duobus libris dedit av , quod praeter Riickertum editores
recentiores in ordinem verborum receperunt, Biickertus autem annotat
ad h* 1 . ; Ne huic quidem , inquit, particulae satis commodus
videtur locus esse. Qua re suspicatus sum , essetne Jorte neutrum
verbum (av, av) a Platone scriptum, sed av quocunque modo ortum ex oov,
inde autem in ctv mutatum. Quapropter voculam, ut dubiae fidei ,
uncis inclusimus. Frustra. Saepissime av particula ponitur in enuntiatis
iis, qnae minus accurate exposita ad praegressae alicuius
enuntiationis formam effingenda erant. Nostro igitnr loco quoniam
praecedit ori ol ptxa£,v rovrcjv apepo- xipoov, av particula
indicat, av av xal 6 "EpaS proprie sic pro- ferendum fuisse:
per a&,v cuV xal 6 "EpooS idriv. <pi\o 6 o(p ov
6k ovxct — apaSovC. Sequitur hoc ex iis, quae supra disputata
sunt. Nimirum qui cupit aliquid, is non potest, quod cupit, idem
habe- re. $i\odoq)OS igitur, quoniam est appetens sapientiae ,
sapien- tiam non habet, neque vero ignorantiae addictas est; nam
qui ignorat aliquid, is id ipsum, quod ignorat, non appetit*
de Sirtct (lEtalv elvca docpov Y.cil d K uct&ovg. alrla de
avrco xal tovrov f} ylvedig' iturgog fikv yag docpov Idn xai evxogov ,
fiyrgbg de ov docpijg xal dxogov. i\ ftlv ovv (pvdtg r ov daipovog , co
(pile 2?o r/.gcctsg, ccvxi]. ov de 0v wq&qg "Egeor a elvca , a
YavpacSzbv ov - C dev eituft eg. cirjfojg de, cog ifiol doxec texficagofievj/
*£ cov dv leyeig, ro Igcopevov ''Egeor A elvca, ov ro Igcov. dea
renixu doi, o l^ca, Ttuyxcrf.og lepedvexo o alrla 81 avt cJ xal r
ov- r cdv i / y iv e 6 iS . Vide quae supra annotavimus ad verba p.
203. C, p. ed. 259. ov Se dv cjtj $i]S*Ep ait a tlvai,
Savfiadrov x. r, A. Frustra in horum verborum explicatione Rtickerti
industria ver- sata est censentis , dv pro uti roiovtov poni non
posse; id enim Plato si exprimere voluis- set, non dubium esse,
quin scri- ptum exstet olov Se dv gJt}$7/£. Addit autem Riickertus:
Mihi co- gitationum seriem iutuenti sic res se habere videtur, quod
mi- rum esse negatur^ non esse illud praecedentibus verbis
contentum, sed verbis quidem non expressum, humauitatis caussa, ex
iis autem, quae et dixit Agatho et statirn addit Diotima, facillimum
ad intelligendum sc. ori icdyxaXoS oo i i<podr£To, cuius erroris
caussa prior error est, quod AMOREM cum AMATO confudit. Certo sic omnia
bene videntur cohaerere. Quem autem tu opinatus es AMOREM esse, nhiil tibi
mirum accidit (quod pulcherrimum esse putabas.) Opinatus
autem es — AMATUM AMOREM esse, non AMANS. Ea de caussa videlicet
pulcherrimus tibi AMOR videbatur. (Id autem non est mirum), Nam cet.
Semper meminerint lectores, orationem hanc tanquam vere habitam
co- ram convivis Agathonis hic proponi , ut interdum aliquid etiam
pronuntiationi singulorum verbo- rum tribuendum sit, qua assequuntur haud
raro loquentes, quod verbis positis non indicatum est, "Ov
igitur relativum ubi pro- nuntiando argetur, uti Diotimam hoc
lecisse consentaneum est, tantum abest, ut pronominis re- lativi
potestatem solam obti- neat, ut ei rei indicandae inserviat, de qua
praecipue agitur. Quam autem tu opinabaris est igitur accentu orationis
in pronomine relativo posito: Quod autem talem tantumque deum esse
ominabaris. Vide de hac relativi pronominis significatione Mattii. Gramm,
arapl. §, 480. 3. p. 899. seqq. Sia x aio x a. doi,
oipai, 7 t dyx aXo ff l<paivero. cfr. p. 201. E. dxeddv yap ri
xal iyco itpoS avtjjv t.ttpa xouxvtoc HXtyov , oldntp vvv rcpbs
iph 9 Ayd$cov , caS etrj 6 "EpcjS pe- yaS J9coV, eiij Se
t&v xaXcov, r 6 rcS ov tt xaXov xal afipov. Mirum est,
Stallbau- Eqcos. xai yccQ Etfw ro IguCtov tb Ta bvtt xa- kov
xal ajigbv xccl ttltov xal . (laxagiGtbv• tro 5s ys igav aU.7jv ISiav
zoiavrtjv £%ov , oiccv lym Svijl&ov, mias inquit, istud dppov,
quod suspicor ia ayaSov esse mutandum. Neque enim DE AMORE nunc
sermo est, sed indicat Diotima in universum, quid illud sit, quod ab
hominibus soleat sum- mo studio expeti ct desiderari, videlicet
ipsum pulcrumpcr se spectatum (ro t<o ovxi xaX ov) ct quod supra
dixerat cum pulcro artissime co ni unctam esse , ipsum per se bonum.
Hinc addit deinceps xal xIXeov xal jxaxapitixdv, Non dubium est, quin
verissi- mum sit appov verbum. Quamquam enim concedi potest, pul-
cro per se spectato melius con- venire propter aute commemo- ratam
cum bono coniunctionem dyaSov nomen, quam appov epitheton : tamen
boc maluit Plato pro illo exhibere, ut clarius indicetur verisimiliusque
videatur, quod p. 201* E. legitur, 6 o cratem idem fere de Erotis
indole atque natura Diotimae dixisse, quod Agatho supra pro-
tulerit. Vidimus autem, poetam mollitiei teneritatisque laudem {dnaXoXTjxa')
Amori attribuisse, ut verisimile «it, Diotimam appov epitheton ita
exhibuisse, ut consensisse olim cum Aga- thone indicaretur Socrates,
si- mulqne Agathonis illa sententia leviter carperetur. Addit antem
Diotima, ne qnis posito dppov nomine de veri pulcri na- tura dubitaret
, commemorarique forte indicaret aliud quid, quam ipsam
illam pulcri ideam, tiXeov et /laxapitirov. aXXrjv
i$£ar x oiavxrjv ix° v sc. i<Sxiv . Cave dXXoi xoiovxoS
confundas cum £r epoS xoiovxoS', de quo supra diximus annot. p.
245. Sensus est verborum: Contra id, quod AMAT, aliam naturam habet
et i n d,o 1 e m atque talem quidem, qaalem ego descripsi.
ele v 8 i) 9 co xa- AoS? yap XeyeiS^ Diximus de elev
verbi potestate annotat. p r 36-, ibiqne annotavimus, hac voce uti
eos , qui facile aliis aliquid concedant, quo facilius possent
illis pacatis , quid ipsi sentiant, aperire. Non praeter- mittendum
est autem, elev ver- bo adhibito ita seraper conces- sionem fieri ,
ut nesciae pror- sus, utrum persuasum sit necne •i, qui aliquam rem
concedit, de ipsius huius rei veritate. Hinc additum habes nostro
loco xaXcoS yap \iyeiS t quibus verbis indi- catur aperte, Socratem
Diotimae sententiam probare. Recte Fictuus verba convertit: Esto,
ut ais, hospes, praeclare enim loqueris. Non igitur audiendus est
Stallbaomius do- cens annotat, ad Piat, Phaed. p, 117, A. ed. p.
207., caassale enuntiatum , quod post elev positum reperiatur, non tam
ad $lev pertinere , qnam ad inse- quentia verba, quibus praeposi-
tum sit. Specie non caret hoc % •* Cap.
*xrv. Kdt lym sTnov, Elev Srj , « fa»j’ xcdcog yag Hyeig.
toiovtog <Sv 6 "Eqg>s xlvcc xQstav ijrK xolg praeceptam
, si ad verba respi- cis. Piat. Phaed. p. 117. A., quorum rectiorem
explicationem dedimus annot. p. 36. Restat, ut dicamas de verbis p. 213*
E. ineidi) St ■yiaxtnXivTj , ih telv * Ehv Srj , avSpt$ , Soxeixe
yap fioi vrjtpeiv . Rursus enim etiam in his verbis, ut supra p.
176. A* , supplemento quodam opus est, quoniam non comparet,
quorsum Alcibiadis assensionem referas, habeat autem necesse est,
quiassentitur, dictum aliquod, cui assentiatur. Neque supplemen-
tum illud diu quaerendum fuit» Consentaneum est enim, couvi- rarum
aliquos, cum consedisset Alcibiades, hominem rogitasse: Nam liabes,
qui hilariores esse possimus te praesente? Ad qnae ille, ehv Srjt
inquit, Soxelts ydp pot vtj<peiv. Possis etiam ita rem tibi
informare, ut statuas, Alcibiadem, cum consedisset, vul- ta
subtristi circumspexisse specumque edidisse eius, qui magno alicuius rei
desiderio teneatur. Quod cum animadvertissent convivae, Alcibiadem
rogarunt : Num quid est, quod minus apud nos tibi placeat? Ad quae
ille, id vero, inquit, sit revera, videmini enim mihi nimium vino
abstinere. t OlOVtOS GJV O *£pGOt' II. Stephanus post
toiovxoS inferciendum censuit 6£ particu- lam, quae res documento
esse potest, eum prorsum eandem verborum interpunctionem habuisse, quam
nos unice probamus. Riickiertus quum ehv Sij nihil nisi transitum
denotare censeret, elev Sr/, xoiovxoS gjv convertit ; Age iam,
hospita, quum talis sit. Nos neque H. Stephaui commentum probamus,
neque Riickerti conversionem verborum laudabilem censemus.
Asyndeton autem quod attiuet, notandus usus est Graece loquentiuto,
quo post €i£V Si), cui caussale enuntiatum additum est, Si particulam
aliamve copulam omiserunt. Neque ratione caret hic usus lo- quendi,
quandoquidem satis constat , asyndeta gravitate quadam augeri. Ei
gravitati autem in- primis locus est ibi, ubi aliquis aliquid
facile concedit, ut ant suam sententiam celerius profer- re possit,
ut pl 213. E., aut ad novam quaestionem studiosius abeat, ut hoc
fit nostro loco, et Piat. Phaed. p, 117. A. ehv, $cprj> &
fttXxitixe , 6i) ydp xovxgov iititixtjjtGJV. ti XPV xoietv. Ce-
terum gjv participium quod at- tinet, supra annotavimus ad p» 174.
D. dp* ovv dyojv p£ ti aTtoXoyijdei , participiis ita in- terdum
scriptores Graecos uti, ut obiectivam veritatem cum sub- jectivo
loqaentis indicio coniun- ctam exprimant. Nostri igitur loci
sententia est; Si talis est, et credo talem esse, qua- lem descrip
si st i , natura Erotis: quam utilitatem affert hominibus?
av&Qcoitoig ; Tovto di] ]itvd rccvt 9 , ?<p;, cJ Z*5x(>a- DTfg,
7tELQ<x<5o}iccL 6s didcc^cu. e6ti (ilv ydg dt) t oiov- rog wxl ovzcsg
ysyovag 6 EQag, %0 xl , oh xav xcd&v, ioc 6v qpyg. ei de ng 'tjixug
Iqolxo ' TL rc5v y.cdcov 10 xlv o*Eqg>s 9 w 2Ti oKQdttg re xai
Aiotipcc; c ode dh 0a- yictEQov lga> '0 bq(5v tcov xak&v xi iga ;
— Kcd riva xpelctv Ox £t * cfr. p. 201. IT dei 67 /, cJ
Uyd^ajv, &67tep 6v 8 17] y i)(5gj , 8ie XSeiv \ r av7ov
icp&xov xis ioXIV O*EpG0S ycal noloS xiS, hteixa xd Opyct
itvtov. Quae sequunt u e verba tovto 8t) pexa xavxa x. r. A\,
rernacolo sermone expressa au- diunt: das ist nun der zweite Punct,
den ich dir auseinaoder zn setzen versuclien will. 0 . 6 x 1
pev yap 81 } x,oiov - roS n. X. A. Socratica sciendi aviditas cum
tanta esset, ut per- cepta priori disputationis parte nimio impetu
ad alteram ferre- tur, id quod asyndeto expressum est : xoiuvxoS
qdv o "EpwS riva Xpciav xols dvSpanoiSj Diotima, ut
impetum illum paul- lisper retardet, ac ne inceptus ordo
dispatatiouis turbetur, ve- retis, verba adhibet: 06xi jxhv ydp 8t}
xoiovxoS u. r, A., qui- bus cum gravitate positis Socra- tes
admonetur, ut et quietius cum Diotima agat, et partes disputationis
memoria teneat studiose. Tecte autem ipsis ' his verbis carpitur Agatho ,
qui cum in ipso orationis exordio recte indicasset, quo ordiue
Erotis laudatio procedere debeat, ordinem disputationis male
turbavit, 7 (a\ ovxa>$ y ey ov qjS . Dindorfius ,
Stallbaumius ovxcoi, quam Florentinorum librorum lectio uem esse
accipimus. Sed caussam hic, cur ovxcoS' scriba- tur medio in
commate et sensu, non videmus. Riickert. Iam supra annotatum est a
nobis, non omnino nobis probari praeceptum eorum, qui omnibus in
locis ov- Tco ante consonam scribi iubeant, neque ovx&f
probent, nisi id verbo cum vocali incipiente prae- positum sit.
Satis docemur haud infrequenti consensu codicum meliorum, Ovxgj?
etiam subse- quente consona Graecis in usu fuisse ibi, ubi aut
ipsum ovxcoS not enuntiati particula, in qua ovxcjS’ collocatum
sit, cum vi quadam proferatur. Hoc in nostrum locum cadere nequit
negari, igitur recte ovxoai servasse nobis videmur, cfr. praeterea
Stallbaumius ad Plat. Gorg. p. 516. C. , p. 522* C. ad Protag, p*
351. B. el 80 tiS r}pa$ Opoiro. Omissae apodoseos
exemplum habuimus p. 199. F. el yap ipoiprjv, Ti 80; dBeXcpoS
avxd rovxo oitep l6xiv , 06xi xivoS aSeXtpoS rj ov ; — $dvai el
— vat f ad quae verba vide anno- tat. p. 234. Nobis pari modo
praesertim in familiari sermone loqui licet: Wenn uns aber ie— mand
friige : In wiefern eigentlich ist denn, o Socrates und Diotima, Eros die
Liebe zum Scbduen ? ich will es aber deut- licher so ausdrucken :
Einer, der tyit turov, oti Ftvia^ai avtcji. ’Al\’ in no&u, iyrj,
?; cjroxpwJtg tQCDtt]( J lv toluvSb' TL i&tui txtivcp, <J
ct.v yivtjtai tu xala ; Ov ndw itpijv in i%nv lyco ItQUS tttVTl]V
tljV igattjOlV TCQOXcLQCJS dxOXQlVUCS&Ul. 'AI /i , itp>] ,
bjgxfQ uv ii ng fitzapuldv , dvzl zov xu- E lov zcj dya&cS %Quynvog,
hvviHxvolzo' (frige, a 2.(6- . das Schone liebt, was liebt dena der
eigentlich? ori Fer id $ a i a v reo . Mecum fatebuntur
lectores*, se haud facile responsuros fuisse, si Diotimae illa
quaestio sibi pro- posita esset, quod Socrates re- spondit,
mirarique licet, Socra- tem, cum alias fatuitatem quun- dam
simularet, ut et infantem ca videre posse Diotima censeret, quae
ille non videre se simula- bat p. 204. D. , tam feliciter ac subito
respondisse. Sed quae- stio Diotimae revera facillima est ad
expediendum, si ipav verbi potestatem accurate per- pendas, et si
accentum orationis non in xi ponas , sed in ipet verbo. Diximus p.
69. de ipav et <pi\tiv verborum discrimine, illud viris hoc
feminis atque amasiis attribuimus. Atque ut illic annotavimus ,
(piXelv eorum tantummodo esse, qui capi se ac teneri patiantur, ita
h. 1. adden- dum est, ipav non nisi eos di- ci, qui capere atque
tenere concupiscant. Haud multum igitur differt ipav ab ixiSvpeiv;
tan- tum modo ab eo discrepat, quod, qui ipav dicitur, h, e.
stadio cupiuudae alicuius rei teneri, is virili robore gaudere
cogitatur atque viribus, quarum auxilio possit, quod amet, eo
potiri, cfr. p. 200. E. xal ovro? apa xoii «AA oS itaS o
ixi$vpd>v tov prj ktoipov ini$vpel xal roO pij i rapovroS
xai o pj/ £*« xal 8 )i?) icJnv avcoS xal ov ivdeyS icriv , rotavi*
arra itiriv, cov 7j lxi$ v pia te xal 6 "EpcoS iOziv.
a A A* ixi xo$ei, £(pij. Bodi., Vat., Vindob , Angel. ha-
bent «AA* ixixo$il. ceteri d\X* _ 7 ... i iri XO$ti.
Hoc praestautius illo est. Suspicor tamen , quod et Riickerto in
mentem venit, utram- que lectionem coniungendam esse Platonemque
scripsisse: aAA*^ri ixixo$Ei f praesertim cum lega- tur in Piat.
Protag. p. 329, D. rot>r itirtv , o in ixixo$<» f h. e., das
ist es, was ich noch hinzuwunsche. Paullo infra p» 205. A. xal
ovxin x poSvei ipi<5$ai x. t. A. Ceterum x o- $£iv s. ixixo$Eiv
de rebus in- animatis dicitur, ut i$i\etv 9 fiov\e6$ai , (fiiXeiv,
ut vis quae- dam describatur rebus illis iu- habitans, quae cum
instinctu ani- malium comparatur. Diximus de hoc usa verborum
annotat, p. 144. < oSxep av ei tiSp.£ta- fia Aalv.
llecte Ficinus parti- cipium convertit: mutatis vo- cabulis.
Nimirum cum p. 201. C. concessum esset ab Aguthone, pulcrum idem
esse atque bonum, in pulcri locum substitui iubet Diotima bonum, ut
Socrates, cum viderit, quid futurum sit ei, qui bono potitus sit,
deinceps dicat, i TCQceas, 6 iodv tav dycc&eiv zL
Iqu-, — rtvio&ai, r\v d' iya, aurei. — Kal n ttizcu ixtiveo , « av
yivryzai 05 V nycc&cc; — Tovz’ evzoqcotcqov i]v d’ iyio, 'tya dn
o- y.QivaG&ca , ozi Eudalfim’ tazeu. Kzr/SEi yag, leprj , dya-
&cov oi EvdalfiovEs tvdcdfiovEg. Kai ovxizi ngogdei .tQiG&cu, ‘
"Iva xi di pwltzai svSalficav sivai 6 (iovXu- [ttvog; cilia zU.og do
xtl zyziv r/ dnoxQKSig. — 'Alrftrj liyug, linov lyde. — Tavzijv dij zijv
(iovlijdcv y.cd zov quid ei eventurum sit, qui pul- cri facultate
gaudeat. Ceterum cur hoc loco aofisti participium probrmus, p. 174.
B. nou nisi praeseutis participium admiseri- mus, ratio in
propatulo est. Il- lic enim de actione, quae lutura sit, agitur;
hoc loco conditiouale enuntiatum habes, in quo exem- plum
continetur, quoil noti tan- quam fiat, proponitur, sed quasi factum
revfera Socratis animo inducitur, 2tnx paxeS, q t{>VY rcDY
dy aS ojy . Haec est unius Bekkeriani codicis le- ctio, quam et
Bekkerus et Stall- laumius in textum receperunt; undecim ' codices
apud eundem habent (jcoKpaxtS i pii o ipcov, in uno tiatxpctref ipd
iptor comparet. V ulgo 6conpaxeS ipcj p ipGOY legitur, quod Rticker-
r tus iu textum recepit convertens: F e r i u d e ac si quis
muta- tis vocabulis roget ^«ic, age Socrates, dicam, qui amat
cet. Epeo autem ea de caussa non spernendum censet, quod iu
familiari sermone sae- pius dicendi verbum praeter necessitatem
mediis verbis iuscratur. Sed illud praeter necessitatem minime
nobis p lucet ; vide annotat, p. 249 neque ipeo ad dicendi genus revocari
potest , quale est p. 202* C. 7 <ou iy<o funoY , n&S rovto
, i<ptjv , \iyetS ; quae sententia Ruckerti est. Nara ut ne
commemorem quidem, quod Ipeiv nusquam inseritor hoc modo, sed
(pdvai verbo scriptores semper utuntur, etiam prima persona ipeS
verbi, quae in tertiam mutanda erat, Riickerti sententiae officit.
Postremo ridiculum fo- ret , inserto dicendi verbo ipsa alicuius
rerba indicare eo Joco , ubi praecedentibus oaSlttp av ei verbis
satis demonstratur, certi alicuius hominis verba non afferri.
Restat, ut dicamus, qui factum sit, ut in tara multos co- dices
ipeo verbum irrepserit. Scribarum aliquis cum iutellige- ret, bono
in pulcri locum sub- stituto eandem quaestionum se- riem nunc
repeti, quam iu prae- cedentibus Diotima Socrati pro- posuisset ,
atque verba o ipcov jcov ayaScov xi ipd apprime respoudere
praecedentibus o’ ipdjv Tcoy xaXcov xi ipd , factum est, cum alteram
quaestionem cum altera compararet, atque illic ipoj praepositum
reperiret, nt id verbum vel negligentia vel im- perita quadam
sedulitate iu no- strum locum transferret. HXtjdei yap oi
evdai- iQttta TOVTOV 3t&t£Q« XOLVOV tXtt tlVtXl ItUVTOV
(IV- ftQcbitav, xal ltavzag t aya%u flou/.eOftca avroig arca Kfi ,
ij nag liyug ; — Ovtag, rjv 8’ tyto' xoivov ilvai navTCJV.TL 8rj ovv,
Scpr/, ai ZkbxQateg, ov ndvtag egav (pttfilv, si 'juq ye itavTf g twv
avrav £qg>Oi xal B ubi, «Ua nvag (pauev egav, tovg d' ov; — 0avfiaia
i, f t v 8’ lyd>, xal avrog. ’yJ/.ka fit] &av(iat;’, Stptj’
cttpe- Xovxeg yaQ ccqu tov fparog tv eidos 6vo(ii£o[iev xo
lioveS . Haec Terba ita conformata sunt, at Etprj non addi- to ea
facillime putare possis uon Diotimae sed Socrati aduume- rauda
esse. Neque opus est, ut affirmandi vocabulum supplen- dum censeas,
ad quod yap re- referatur. Diotimae verba ar- ctius cum
praecedentibus coniun- genda sunt, ut perinde esse in- dicetur,
quis dicat, Socratesue an Diutima, modo veritas dicendo eruatur.
Iluiusmbdi dicendi ge- neris permulta exempla aperiuntur. cfr. p. 200. B.
dp’ ovV fJovXotz* dv x is pfyas cdv jti- ya? elvai, ij idxvpoS wv
idxy- poS ; f A8vvaxoy ht xcdv cJ-
s poXoyjpuvojv. — Ov yap z ov ivSei)? dv eiij tovtaov o ye
&v. Piat. Gorg. p. 492. E. 2?. ovx dpa opSoHS Xtyovtai ol
pi]8e- voS deopevoi evSaipove? elvai . K. ol A i$oi yap dv ovtao
ye TiOLi ol v ex pol evSaipovidxaxoi elev . xv a x i de
(i ovAet ai. Di- citur ira xi ilermauno annotaute ad Viger. p. 849.
per ellipsin. Plene, inquit, in constructione praesentis temporis
iva xl yivrj- xai , in constructione praeteriti Hva xi yivoixo.
Sclileierma- macherus verba convertit: Und hier bedarf es nun keiner
wei- tern Frago mehr , w e s ha1b docli der gliiclcselig
sein will, der es virili. Haud facile verna- culam dictionem
reperias , quae Uva xi verbis respondeat. Cete- rum ut recte huius
Idci senten- tiam percipias, (iov\E6$at et hic, et paallo infra
ftovXl]6i5 nomen ad significandam eum vim, quae hominibus innata est
atque cum oatu- ra eorum couiunctu, adhibetur : der Trieb. Vide
qnae <1& fiovAeOSai verbi potestate , atque quomodo id
differat ab iSeAeiv , diximus p. 44. Igitur xo fiovke6$at tvdal/tayv
ELvai caussam primariam describit studii beatitudinis, ultra quam caussam
progredi ne- mo possit. xi 6l) ovV. Sententia liaec est:
Si omnes homines eiusdem rei, h. e. beatitudinis sempiternae
amatores sunt, mirum videri potest , cur alios amare dicamus, alios non
dicamus. Sed expli- cator hoc eo, quod a notione xov ipdv
seiungimus partem ali- quam, qua pariendi et generandi studium
exprimitur, idque xov ipdv atque xov "EpcoxoS verbis insignimus ,
aliis nominibus ad ceteras tov ipdv partes de- scribendas
utimur. xiv ds q> apev — xov? 8* ov. Scriptura exspectaveris
xov? ) uev — xov? 6 ov . Positum
tov oXov htitiXtivng ovo/ia rpcorce , ta Ss &XXa aX- Xots
xaTayguixs^a ovofiaGiv.''SlgxEQ rt; ijv d’ lya. — "SlgittQ tads.
oiO^ oti itolrjOig iori n TtoXv. ?; yag ZOL EX TOV fit] OVTOg ctg
TU OV loVTl OTlpOVV ahtU XatStt iGtl jioir\Gig , «gr£ xal cd vno xaScag
rafg rlyyai g C igyaoiai xoujtiu g tlol xal o i tovtcjv SrjtuovQyoi
itav- Tig itoitjzaL 'AXiftij
Xeyeig. AXX’ o[ia g, j; d’ ij, olo&’ autem habes pro TovS
jiev, qui- bus verbis uequa conditio prio- ris atque posterioris
membri in- dicatur, TivuS, ut lector monea- tur, pauciores esse,
qui amato- res et amare nominentur, inulto plures, qui et ipsi
amato- res sint, aliis nomiuibus in- signiri. dtp e\oyt
e £ ydp d p a. In permultis codicibus dpa omit- titur , velut' in
Bodleiuuo, Vati- cano uno, Vindob., aliis. Rectis- sime Riickertus
ad b. 1. : Aeger- rime, inquit, caream dpa parti- cula, qua id
efficitur, ut senten- tia haec non . pro certa et ex- plorata
ponatur sic simpliciter, sed colligi tantum ex aliis vi- deatur
hunc fere in sensum: si recte ego observavi, noiqGis s6ri r i
7toXv h. e. scis id, quod itotydiv voce- mus , latioris
significationis esse notionem ( ein weitschichtiger Begriff).
Quicquid euim, cura nihil fuerit antea, post ita mo- vetur, ut sit
aliquid, huic caussam ortus fuisse dicimus noit}6iv. Apte laudant
interpretes ad h„ ]. Piat. Soph. p. 219- B. ritiv dreep dv prj
npoTepdv TiS uv vtizfpov ds oixuiav dyy, tov /ikv dyovxa noielv , t
6 dyo- jaevov 7toiei6$ ai tcov tpapev . Rodem modo, quae latissimi
signi- ficatus verba sunt, adhibentur a nobis ita, ut certum
quondam, eamque artioribus finibus circum- septam -actionem
exprimant. Sic dichten de arte poetica, w i r- ken de textoria,
handeln de mercatura usurpari quem fugiat? it oirjtiiS ydp
tovto po- yoy. Ad tovto repetendum est e superiroibus ro 7(Ep\ r
ijv jnovdl - W/v xai td fihpa. In sequen- tibus exovteS tovto eodem
sup- plemento opus est, quod ne mi- nus convenire censeas cum £ xoy
- rtfparticipio — poetae enim non habent id, quod dicitur ro'
7tepi tjjv f. iov6iw)v H. r. A., sed eius periti sunt ita, ut in
carminibus paogeudis eo utantur, — tenen- dum est: Ix&v verbum
haud raro idem significare atque cogni- tum habere, ea de
caussa, quod qui aliquid animo percepit atque ita mente tenet, ut
eo recte uti possit, idem id etiam habere dici possit
commodis- sime. ovtgj Toivvv Tiai rtepl Tov £p G>xa.
Haec brevios sunt dicta, non item obscurius. Diotimae mens haec
est: Quod de poesi modo dictum est, idem in amorem cadit. Poesis
pro- prie de omnium rerum caussa efficiente dicitur, sed usu
loquendi factam est, ut pQcseos nomen ou ov xcdavvTM n oirjrctl,
alia alia tyovGiv ovo fiam aito 6s TtnarjS xijg itoirjGsag %v (toQiov
ucpoQia&iv rb jrfpi rtjv fiovGix tjv xal xa fiixQci x ra xov oAov
bvbaaxi xCQogayoQtvixca. noi^Gig yag tovxo (tovov xaltixca, xal o t
k'%ovx£g xov to x b uoqlov xljg noitjGtag noirycai. — kiyug, ttpijv.Oura
xolvvv xal niQi xov Squtk ' xo jitv wtpuktubv £<J« nuGa rj rcov
aya- D noii niii ad eam poi-seoa parti- culum describendum
adhibeatur, quae in re musica et metrica versetur. Iam ad verba
acceda- mus to fihv xEtpaXaiov — ipoaS Ttctvziy quae ad hunc usque
diem interpretum studia misere eluse* runt. Stallbaumius
expungenda censuit verba o piyidTof te xal 'HoXepoS SponS
itavxi. Riickertus contra se ita semper sensisse annotat, quoties
vel secum hunc locum tractaverit, vel cum aliis, miro eum ornatu
spoliatum iri, si vel una hic litterula sublata aut mutata foret.
Recte igitur Lticiauus ait epigr. V, v. 3. An- tholog. Iacobsii T.
III. p. 22. * ovdlv iv ctv^pGDrtoiui SiaxpiSov idn
voTjfia, aAA * o dv $avj.id%EiS, rovt kxepoidt yiXaS,
Ratio verba tractandi, quae Stallbaumio placet, ut audacior, ita
miuus commendabilis est. Riickertus autem totius loci sententiam plane non
perspexisse videtur: Ut particulam tantummodo eorum hic repetam,
quae in eius annotat, ad h. 1. p. ed. 169. leguntur: Quod vos de
ve- stro soletis Amore praedicaro , maximum deum esse et
callidissimum, qui neminem non deci- piat y id multo valet magis de
beatae vitae cupiditate, qua omnes omnino homines velint nolint
plane irretiti sunt du -* cunturque naturali quadam ne- cessitate
non aliter , ac si magi- cis artibus sint delimti. Quo sensu ipse supra
p. 203- -D. $£tvof yoyS xal tpappaxEvS xal do- q>idTtj$ audit. —
Diolimae volun- tas haec est; Loquendi usum ut in poesi, ita in
amore nomine insigniendo versatura esse, atque amorem et amare et
nomen amatorum iis tantummodo tri- buisse, qui amoris particulam
unam sequantur. Summam autem amoris omnem bonorum cupidinem
esse, atque beatitudinis quidem cupidi- nem esse maximum
doXcpoy) amorem (iravtl). Vides igitur, to /xk v xEtpaXaiov et tov
sv- baipovtiv sc. T tjv &itl$vp'iav sub- lecta enuntiati e$e.
To XEcpd- Xaiov autem primariam alienius rei notionem describit ut
in Piat. Gorg. p. 453. A, hiystS , otl izeiSovS drj/uovpyoS Idxiv
?/ fnfxopixi } y xal 7 } 7tpaypaxdot avxijS aitada xal to
xecpdAai- ov eIS tovxo TEXevxa h. e. Stalh- baaraio interprete :
dicis rheto- ricam esse persuadendi opificem omnemque eius operam
atque summam ad hos tanquam ad finem suum referri, ut aliis per-
suadere possimus, quod volumus. Iam nostra verba convertenda sunt:
Der Grundbegriff &av hiitivula xal tov tvSaipovsiv , 6 lilyctitog
re xal SoIiqos %qg>s navtL • <x)J.’ ot fiiv ciXbj
rgexofiivoi. ltoX}.a%rj in’ avtov , rj xaxcc xgr^auGfiov tj xaxcc
qii- }.oyvava6rLav ij xaxcc cpti.oGocpiav , ovt’ igav xaXovv- T at,
ovt IgaGtai , oi de xaxcc tv n elSog tinnis rs xai IcSnovSaxoTig ro tov
oXov livocia ia%ov<Uv , agaxd re xai iQuv xal igccGzaL — KcvSvvevus
dh]&rj Xiyuv, hcpijV lya. — Kal Xiyetai fiiv ye ug, icprj, Xoyos,
co$ der Liebe ist iedes Stre- ben nach dem Guten, and
das Strebcn nacli dem liochstcn Gute, d. i. nach Gliickseligkeit,
ist die grosstc Liebe. Restat, ut dicamus de verbis xal
doAepoS — TtOLVXly quae nou dubium est, quin corrupta sint.
Antiquitus scri- ptum fuisse suspicor: KAIKOI- KOCEPflCTIANTI, in
qua scriptura tripliciter peccatum est a librariis. KOI enim, quod
haud fere multum discrepat a KAI , omissum videtur ab cq esse,
qui xai dupliciter posituin putaret. Hinc enata est, cum forte,
ut fit (vide annot, p* 170.) J$F£IC duplicaretur, haec scripturae
for- ma: KAI NOCE mCErflC ITAN- TI i ex qua dictum est, una
li- neola in littera N deleta, ut non nisi A figura remaneret:
xal Sodtpt HpGDf Tiartl. Ex hoc autem sciibam aliquem, qui
callidum Erotem sciret, fecisse verisimile est xal doXepof ipoot
itavxi. Ut autem couiecturam nostram xal Xoivds^EptoS itavxi ipsi
probemus > praecedentibus verbis efficitur p. 205. A. rort;- t
7jv Sl Tt}v ftovXvdtv xal tov i p cata tovtov itotepa xoiyoy oi n .
etvai izdvrayv dv^pcjitcov xal navtaS xayaSa fiovAeoSai avtolS
tivai adi, ?)' tzcjS Ae- yeiS ; OvtcoS , jjv d * iyco et
quae sequuutur, quibus verbis accurate examinatis doceberis, nostro
loco xoivvS nomen vix abesse posse. In Schleierma- cheri
conversione legitur: Soauch vas die Liebe betrifft, ist im
allgemeinen iedes Begehren des Guten and der Gliickseligkeit die
grossle und heftigste (?) Liebe fiir ieden. Iu Schnlthessii conversione
edita ab Orellip p. 123. exstat: Im Allgemeinen niimlich ist
iegliches Yerlangen nach dem Guten und nach Gliickseligkeit fur
iedeu die grbsste, ihn bestrickende Liebe* Ficinus verba
convertit^ Nam summatim quidem omuis bonorum felicitatisque
appetitio, maximus et insidiator amor est cuique. aXX*
ol p\v ot-Wy x. x. A. UAXd particula adhibita, a rei
commemoratione, qualis revera est, ad loquendi usum traositur, quo
non res integra suo nomine vocatur, sed rei alicui parti in-
integrae rei nomen attribuitur, cfr. p. 204. A. £n. rl 8if ovv, gJ
^GonpaTtS , ov izdvxaS ipdv (paptYy eh zep ye itavxeS xcav avtaiv
ipcAoi xal ael } dXXa xivaS epapev ipdv, xovS 6 * ov; Tpenopevoi de
indole atque naturali quodam instinctu dici— ot av to
SfoutSv iumav fyjTuGiv , ovroi IqucSiv ' 6 6’ E ifiog koyos ovxs ^fiiaeog
<pt]6iv ilvcu tov £q(otcc cirts olov, eav fit] xvy%ctv]] yi xov, m
Itcciqe, ayaQov ov' ix fi avrav ye xal xodag xal x^Qctg tfttlovOiv
axo- t tftveiS&ca ot «v&qcjxoi , iciv avtoig doxjj r a
iavtav XovtjQa efoai. ov yaQ ro iavtcSv, otfuu, txaGtoi aona-
£ovtai, tl fit] i'i ng to fiiv aya&ov olxtiov xaXil mi eavtov, to 61
xaxov akkotQiov. ag ovdiv ys aUo tor, at p. 191. E. udat Si
tdcrv yvrauaSy ywaixoS d- (5iv y ov Ttavv ctvxai xols
av~ Spa6i tov vovv TtpoSexovdiv, d\Axx pctWov itpoS xaS yvval
- xaS xexpajupivai eidlv. — Pro ol ptv a\Ay vulgo legitur non
male oi ptv aWoi f quae scriptura quoniam codicum opti- morum
auctoritate improbatur, e verborum ordine expellenda est. Minus nos
movet Ruckerti ar- gumentum dicentis, ol piv et ol Si sibi opposita
esse. Quem enim fugiat, praesertim cum ae- qualitate quadam
careaot, oppo- sitionis membra interdum ver- borum numero et
conditione non apprime sibi respondere. xal Xeyexai jxiv
ye, Miv ye particularum cognove- ris vim et potestatem, qnando
xal Xiyexat ykv et xal Xiyexai ye seorsim utrumque posueris. Altera
particula efficitur, ut Dio- timne sententia hominum quo- rundam
opinioni opponatur, qnam Aristophanes protulit, al- tera vis
oppositionis augetur at- que extollitur. ovxot ipaititv.
Saepias iam diximus de transitivorum verborum usu absoluto, cuius
ea natura est, ut casu adiuncto nul- lo non actio quaedam, sed
no- tio prematur verbi. Positum igitur hoc loco habes
ovxot ipadiv pro ovxot IpcovxiS \tidiY, Ceterum Wolfius anno-
tat ad h. l.j Was Aristopha- nes liber die Trennung derMen- schen
sagte , wendet Socrates hier zu einer ernsteren Absicht an. Alles ,
was iener vorge- bracht hatte, beruhte anf einem falschen Gebrauch
eines Aus- drucks, der damals beinaho spriichwortlich gewesen za
seia scheint, dass Liebhaber ihre aa- deren Ilalften aufsuchen.
&itel avxcvr ye xal no- SaS xal xelpaS x. r. A. Do iitil
potestate vocabuli supra di- ctum est annotat, p. 151. Ce- terum
adhibito pedum manuum- que exemplo, qnas sibi abscin- di iubeant,
qni illas non bonas esse cognoverint, Aristophanicao orationis
argumentum concidit* Fieri enim nequit, ut dissecti homines tanto
ardore, qnantom Aristophanes descripsit, alteram sui partem
expetant, cnm et ex altera, cuius ipsis potestas sit, exscindi
patiantur, quaecunque vel mala sint,, h. e. morbosa et doloribus
afiecta, vel ad usum parum idonea. ei / 11 } ei rtf. De ii
par- ticula post ei jujj repetita M&t- 18 206
i&tlv ov igoldiv av$Q€Oitoi r) tov aynftov. rj dol 80- xovdr, — Ma At
ovx &iiovy£, yv 6* lyeo. — *Ag ovv> y S’ ijy ovtcog aizlovv It Iri
Xeyeiv, ori ot av&QGMot tov i fcc&ov igcSac; — 2 Val, Zcprjv. —
TL de; ov XQog&et&ov, iqrrji ori xai eivai 1 6 dya&o v avtotg
egco6i ; — IJpog- &8TSOV. — r Ag ovVy %<p*h xcu ov (tovov eivai ,
akka ual dei uvcu\ *— Kcd tovxo itQogftexiov» "Edtiv
thiaens egit in Graram. ampl. $. 617. d. p. 1249. , obi laudan- tur
Thucydides I. 17. inpa- %Sjf di z* ctvteHv ov6\v ipyoY dZioAoyov ,
ei fit} ei xi npdt tteptoiHovS tovS avtdSv kxd- OtoiS. Piat, de
rop. IX. p. 581. 1 ). tl ftt/ ei nS ckvtqSy dpyv- piov Ttoiei.
Prorsus eodem modo Latinis id usu est nisi si. Ditfert autem el fit
} ab ei fit/ el Ita, ut el fn} nihil denotet, nisi exceptionem,
quae ad id refertur, quod sequentibus verbis expres- sum est; el
fit} el autem, exceptionem per se poni indicam videtur ciqne conditionem
quandam subiuugi, ut si nliquid fiat aut non fiat , exceptionem re-
vera adesse docearis. ov Ipcodiv avSpcjirot, jj tov dyaSov. Aliquot
li- bri ol dv^pamoi, Sed non opus articulo, cuius omissio
admodum usitata est in eiusmodi vocabu- lis, qualia snnt dvt/p ,
d8eA(pot f yvvtj t yij , alia, quum de genere posita sunt. Stallb.
De genitivo, qui in verbis continetur ?/ tov aya&OV Mnttbiaeus
dis- seruit in Gramm. ampl. $. G31» 2. p. 1299., ibiqnc ?/ r ov acya
*' 3ou positum esse monet pro t) tq ayaSov. — Nominativum
incepta verborum structura exi- git quidem, sed cave, tov aya-
$ov minos recte habere censcaa aut loqueudi usui parum
accom- modatum. Nam verba, quorum ter- minatio ad praecedentium
verborum structuram conformanda sunt, loquendi usus iubet , ubi
duplex structura in praecedentibus re- peritur, ad eorum verborum
stru- cturam accommodari , quae vi quadam praecipue emineaut.
Cum gravitate nutem h. 1. dictum est ipaidiv , quandoquidem nou
de actione verbum accipiendum est, sed de efficacia notionis ,
quae verbo finito expressa est. Vi- de de liac verborum
transitivorum potestate annotat, p. 59. Positum igitur est ov
ip&idv arSpooTtoi pro ov ipadrai el- 6iy ar^pooicoi. Ad
geuitivum autem relativi pronominis, cum deberet proprie ad verba
d)S ov~ 6iy ye dXXo Idxiv referri , re- latum censent interpretes
i/ tov Ctya^ov. Recte, Possis fortasse t/ cum genitivo etiam ad id
di- ceudi genus referre, quo ponitor haud raro praecedente aliquo
comparativo ?/ cum genitivo, cfr. Mattii. Gramm, ampl. §. 450. 2.
p. 844. t ) 6 vi 6 oxovdiv sc.dAAov TtvoS ipadtai eivai i/
rovxov. Tf vulgo edebatur olim , quod primns fuit Astios, qui in y
mu- tandum censeret. aga fcuZAyjldi/v , fqyij, 6 1'gog rov to
ayccdov avxw elvai de L 'Jhj&etixaxa, ErpijV 4yw , liyet-g.
Cap. XXV. "Oxe d>j rovxov 6 Eqoj g eOxlv, rj 6’ i},
ruv riva, xqo- B xov duoxovtav avxo xal Iv xLvi xgdfei tj Cxovdrj
xcd ap 9 ovVy rj 8* 7/ 1 ovroaS anXovv, Vulgo legebatur
i/6rj pro 7} 8* rjt quod Bekkero debetur. Illud potest ferri
quidem, sed hoc non dubium est, quin sit rectius atque verius.
OvtooS ditkovv est: non addita accuratiore definitione, tam
simpli- citer» Non perinde est autem, utrum praeponatur an postpona-
tnr ov^goS vocabulum verbo, ad quod pertinet. Ubi postpositum est
eidem, ovtooS ad praeceden- tia verba respicit signiilcatque .*
hac, qua diximus, ratio- ne; contra suo verbo praeposi- tum ,
quamquam illum signifi- catum non amittit, tamen notio- nem aliquam
adiungit, quam du- bitativam interpretari possis» Eo nimirum animo
est, qui ver- bis ovtgdS aitXovv utitur, ut qui aibi rem non plane
probari indicet. Hinc mireris simplicem Socratis assensum val, £<p7jv
9 qui documento est, Socratem fa- tuitatem quandam simulare,
de qua supra diximus annotat, p. 262 . xal ov
jiovov elvai t exXXd xal ael elvai. Vulgo ctXXdc oiel elvai
legebatur omisso Hod vocabulo, quod hb iis dele- tam est, qui
putarent, xal iam in praecedentibus positura esse xal ov povov
elvai. Frias istud nui autem non du- bium est, quin ad totam
enun- tiationem pertineat, additumque sit, ut significetur,
aliquid, quod in praecedentibus contineatur, hoo loco repetendum
esse, ut exple- tior oratio audiat: ap’ ovv, Hqrtf ov xal
7tpo6Seriov a ov povov elvai y aXXa xal dei elvai .* Di-ximus supra
annotat, p» 74. de ov povov — dXXa xal et oi * povov aXXa.
Hectissime autem Stallbaumius ad li, 1. ov po- yov — aXXdj^ inquit,
omisso xal Tion nisi iis dicitur locisy quibus alterum orationis
mem- brum tantam habet vim et gra- vitatem, ut quod in priore
mem- bro dictum erat , id corrigatur et quasi prorsus tollatur
. ore dr) rovrov o $pv)S idriv. Additur vulgo dei post
ititiv , quam voculam suspicor eidem deberi, qni p. 204- E. scripsit
$epe, cJ ZSoZxparef, ipdo, Toiy dyaScov rl ipa. Vide annotat, p
268. Explicabilem tamen voculam censuit atque iu ordinem verborum
recepit Riickertus, qui et vulgatum rovro, quod Bastio praccunte
editores fere omnes' iu rovrov immuta- runt, probavit annotans ad
h. 1. Dejendi librorum structura posse videtur . Quamquam enim
quid vulgari in usu rebusque humanis amor vocetur , nondum
est probatum , tamen quid esset , 18 * jj Cvvradiq egas Sv
xctXoito ; tl tovto tvy%dvu ov r o £gyov;' £%hs tlxiZv ; Ov plvz *&v
<5s, Bgnjv iya , ut AwtlffM, tfrav[iaf:uv tnl (Sotpia xal tcpokav
tcuqu ai avta tuvra iia&rjaofievog. ’slXX’ lyco tfot, h<p>J,
iQu>- lati yciQ tovto tonos *v xaXa xal naxa to Odifitt xal
xctta tt/v ipv%7jv. Mavtilus , tjv 8’ iyco, SsCtat o tl affatim
docuere, quae praecedunt. Si igitur statuamus huiusmo di hic Jieri
• transitum: quandoquidem AMOR hoc est sernper (bonorum sc.
sempiternae possessionis appetitio), age iam quid vulgo AMOR appellatur ?
quis est , qui reprehendat? At hunc ipsum sensum verba fundunt , si tovto
legitur ♦ Becte tovto lUickertus retinuisse videtur, quamquam minus
recte enuntiationis totius sententiam explicavit. Non enim
comme- morata erotis natura quaeritur, quid vulgo amor appelletur,
sed a theoria, quam vocant, erotis ad praxia transitur ita , ut
cui studio Erotis et cuius rei appetjtui erotis nomen conveniat,
Diotima sciscitetur. Ceterum perinde est, utrum dicoxov- toov avto
scripseris , an 8icd- xovtcov ccvtov y adest enim in
praecedentibus, quorsum utrumque referri possit. Vulgatum hoc est, illud
codices optimi praebent, idque a nobis in verborum ordinem receptum est,
quod sane Sigjxeiv commodius ctyn re aliqua, quam quis
persequitur, quam cum Erotis nomiue con- sociatur. rt tovto
tvyxaY&i <> v ro tpyov ; txeiS elrcelr; Post tpyov
interposui signum interrogandi, quo maiorem habe- ret oratio
vigorem et alacrita- tem, Qna in re secutus sum au- ctoritatem
Heindorfii ad Piat. Charmid. p.l62.B. nbi haec leguntur : tl ovv dv elt)
nort td rd tav- rov npdrteiv; txetS dnetv ; In- fra p. 207. B. rd
Sc Sijpla r/S ahia ovrutS iputnxutS SiariSe- 6$ai ; A tyciv ; S t a
1 1 b. ov pevr’ dv di, tcppv lycd, ut dioripa, iSav-
pa^ov irci dotplqi. De al- tero conditionnlis enuntiatiouis membro
omisso vide quae supra annotavimus annotat, p. 242. Ceterum Graeci
accuratiores quam nos Savpapeiv riva irci rivi dixerunt pro
Savpd&iv tl n- voS. Illius structurae exemplum est Tlat. Menon,
p. 70. B. co Mtvutv, rtpd tov ptv fltrraXol evSdxipoi rjeav iv rois
KAA 77 - Qi xal iHavpdSovio iip’ In- mxy re xal nXovrut, vvv
St, cos i pol Soxei, xal ini doqtiqc. tPoitdv verbum
frequentati- vum est, atque ire et redire significat, cfr. Plat.
Critou. p. 43- A. SvvifiqS t/Sij pol idrty, ut 2utxpateS, Sia rd no
XX a - XIS Sevpo qtoitdr. Hinc solenne est de discipuli»
scho- lam frequentantibus. Iam expendas Socraticae modestiae acumen , quo
ille etiam alias haud raro utebatur, ut sententias alio- rum
facilius eliceret. Diotima autem missis ceteris verbis, quae ad rem
non pertinerent, quasi nihil aliud, quam ovx olSa iyat- ye Socrates
dixisset, trAA iyut iput respondit. xors Xlyeis, xal ov fiav&ava.
— 'AIX' lya, y 8’ i}, Oatpi- C Crepor £pta. xvovCi yccQ, Ecptj, w
Xaxqcxxes, narres av&qaxoi xal xara ro (Sapa xal xara rrjr xtyw/fl» ,
xal baiSccr Er rivi j/Atxta ytvcavxca , rlxreiv badvpsi rpiav rj
< jniGig . xixxtiv d"s iv fuv alc%Q<p ov Hin) cacti, Iv 6h rcy
xaltS. xal ov par Sarto. Inter- dum Graeci, quae per caussalem
particulam proferenda erant, co- pula adhibita cum praecedenti- bus
coniunxerunt. Sic hoc loco pro xai ov pavSava) , quibus verbis
caussa continetur, cur di- cat Socrates pavxsiaS delxat, o ti 7tote
XlyeiS, ex nostra certo Latiiiorumque dicendi consuetudine scriptum
exspectaveris: ov yap fjiavSttVGd. Exempla non rara sunt huius
dicendi osus. Unum ut aderam, in quo vis illa xal vocabuli
praecedentis verbi significatu tectiore panllisper ob- scurata est,
legitur in Plat. Lachete p. 194. c. 22. 2. jjxovtias, do AapjS ;
A.*Ey<oye* xal ov (jtpodpa ye pavSdvcj D Xfyei, quae verba
rectissime explicata suut a Ribbekkio , quem Engel- hardtus laudat
ad Lachct. p. ed. 60. Annectitur , ille inquit, ov yavSavcj ver iis
fycoye axtjxoa non ut oppositum, sed ut effectus, Minus id quidem
sentitur, quia negativum enuntiatum sequitur , sed inest ei
affirmativum • Sav- paZoo (ov ydp pavSdvGo o ti Tfyti) Sic nos
optime diceremus: Ia ich habs gehort und wundre inich , wie er so
etwas sagen kann. Displicet in hac verbo- rum explicatione uuum
hoc, quod affirmativum verbum negativo enuntiato inessc dicitur.
Illud 3 « vfictdjiiv inest potius iji Socratica interi ogatioue i/HOvdaS',
co Aaxqti quae verba 8ocratfcm protulisse consentaneum est
vultu summam Critiae admirationem exprimente: Eodemne,
quo ego, o Laches, stnporo atque hominis admira- tione verba
haec audisti? Cui ille, audivi, inquit, nam haud aeque, quid sibi
ve- lit, i ntelligo. tjpdov rj tpvdif, Cum prae- cedat
itdvxeS avSpaoitoi, scri- ptum exspectabas avxcov rj <pv-
<5iS. Nihil ad hunc locum annotatum reperio ab interpretibus, ut mirer,
neminem in verbis rjpdtv 7 ) tpvdiS offendisse. Schlcierma- cherus
verba convertit : Alie Menschen namlich, o Socrates, sprach sie, sind
fruchtbar sowol dem Lei- be ais der Seele nach, und wenn sie zu
einem gewissen Alter gelangt sind, so strebt unsero Natur zu
erzeugen. Mitigata est Platonicae dictionis durities Ficini couversione
hac: Omnium, o Socrates, hominum praegnans et gravidum corpus est,
praegnans et anima; et cum primum ad certam aetatem per venerimus
(ysvcjy- XOLi ), parere 'nostra natura cupit, Illam duritiem, quae
mitigata est, ut dixi, Ficini conversione, non item excusata, quo- modo
ego excusem , non habeo, nisi fortasse in 6crmone familiari , qualis hoc
loco refertur, dicendi quamlam licentiam at- 'r 'H yag avSgog xal yvvruxbg Svvovala roxog
idrlv, ?<m da tovto &uov to ngdyy,a , xal tovto Iv
&vrjrc3 ovn tc 5 %com afravarov Ivtativ , t/ xvrjdtg xal rj
yiv- vrj<5ig. ravra 8’ iv ta avaguoStm ddvvarov yevtci&ai.
D avdguoOrov 8’ fOrt to alo^gov navrl rta ftdip , ro di xalbv
dgjiovcov. Moiga ovv xal ElXtl&via rj xakXovi} quo negligentiam
concessam esse credideris. ?/ ydp avtipdf xal yv- vaiHoS 6vv
ovdia xoxof Itiriv. His verbis adeo offensi sunt Astius et
Ruckertus, ut de- lenda censueriut. Hiickertnm audi annotantem ad
h. 1« : Verba haec qui legat, nec ceteram Platonis rationem perspectam
ha- beat, non potest is aliter existi- mare, quam unicum Platoni
eum amorem esse, qui utriusque sexus mutua consuetudine contineatur
, Neque enim aut praeter cetera hunc quoque significat
partum esse , requireretur tum xal semel vel bis positum, aut
primum se hunc amorem tangere velle indicat, ac deinde de ceteris
generibus, immo in sequen- tibus de universo amore agit ita, ut
nihil in praecedentibus de singulari quodam eius genere dixisse videatur.
Atque Plato tan- tum abest, ut solum illud com- mercium amorem
putet esse , ut in hoc ipso congruat vel maxime eius Tatio cum
ceterorum Grae- corum ratione , quod nec solum existimat , nec
potissimum hunc amorem immo ad vilius hominum genus eum putat
pertinere. Haec verba licet habeant aliquam speciem veritatis , tamen non
ita nobis persuasit V. D. , ut cum eodem verba delenda
censeamus. Neque probumus, quae Stallbau- inio placuit, verborum
'explica- tionemhanc: Nam nt primum dicam de viri
mulierisque coitu, is nihil aliud est nisi ToxoS, In quo protecto cernitur
divina quaedam vis, ut hominum genus propagetur atque nanciscatur
im- mortalitatem. Diotimae mentem verba declarant xvovdi ydp
itdvreS avSpcoitoi xal xara ro deupa xal xard tt)v iftvxVYy quibus
aperte indica- tur, disputationem de partu in duas partes divisum
iri, atque in altera parte de corporis, in altera de animi partu
sermonem futurum esse. Ac de corporis quidem partu disserens aliud
ex- emplum laudare non potuit, quam viri mulierisque
conjunctionem, neque opus erat additis quibns- dam voculis indicare
, etiam al- terum genus esse toxov , quod haec indicatio satis
manifesta facta est verbis xal xatd njv fvxqv. xal
tovto er SvTjTa orriTu{uffi dSavazov Ir edriv h. e. xal o Iv
$v7/r<jS orti roJ Zcitp d 3 ri- xar ov {veOtiv, tovto iOT iv, 7}
XVT/Sif xal ij y tvY7]<Sl5, Sententiam quod attinet, cfr. Piat,
de legg. IV, p. 721. C. yap&v SI — Sia- r 0 T/S>cvTa, a )S
iOrir, y to dr- SpooTtivov ycvoS qiv6et Ttrl ptxdhjiptv dSavadiaS •
ov xal trttpvxey ImSvpiav idxzry ttuCar. 46 ydp yevcOZtai
xAti itft* rj/ yevldsi. 6ux taura ototv [tiv xaXeS jr&o&ie-
ia$y xo xvovVj ilscov x s yiyvsxai xal evq>Qaiv6fUvov dutis Itat xal
tlxxu ts xal yiwa * otav ds cdOxQMy tixv&Qaaov ts xal Xvnovfisvov
CvtinuQaxca xal ano- tQhtsxat xal avelXXsxai xal ov yswa, «AA* Xti%ov xo
xvytia xalenws qp£$£t. d&ev 6 i] zcp xvouvxi xs xal vdv , xal
jxp dvdovvnoY xeidSai ter eAevtjjxdxa , xov xoiovxov idrlv imSvyfa.
yivoS ovv dv^pdmaov itiri • xi %vft<pvh& x ov navtoS xpovov
t o 8ia te - AovS aura) dvvenetat xal 6w- erpetcti, xovtw xo5 x
poncp d$a- vaxov ov' xoo xaidaS naiSoDV xaxaXiitopevov, xavtdv xal
%r ov dei yevetiei, rijs aSavadlaS 4 iexetXytpevca. xovrov 8rj
ano- eSxepelv bcdvxa kavtov , ovSe- nore odior. ix npovoiaS
8* dxodtepel oS* dv naldcov xal yvvatxds dpeXy. Adde ibid.
,VI.^p. 774. A. xal 8r/ xal 3 rd, fynpodSev tovtcdv fnjSlvxa, ds
Xpy Xfjt deiyevvovS (pvdsajS dvxtxxGScti, rci5 TtaldaS jratS&iv
xaxaAeiitovxi dei r<f> Stco vn- t/ pexaS JvS’ avtov napadi-
8orai. Motpa ovv xal ElXei - 3 vt a ?} xaAAovj} x. x.
A. Quia dv8poS xal yvvai- xd S dvv ov 6 i a est divi- nam
quiddam, divinum autem non nisi cum pu1cto habet couionctionem;
proptcrca pui erit udo est qnasi qnaedam obstetrix et conservatrix
(?) vitae. Stallb. Non mirum, Moipocv una cum Ilithyia hic
commemorari. Nam ut apud Homerum sexcenties cum Morte coniuncta
repentur, tTl numen significetur, quod fiocm vitae adduxerit, ita
eadem h. 1. propter iuitium vi- tao laudatur. Convertit
verba Schleierraacherus: Eine einfiihrende und geburtshelfende Gdt-
tin also ist die 8chbnhcit der Erxeugwng. iAeojv te yiy
vexat. Re- pentur post xe particulam vulgo 8ij additum, quod sane
habet, quo se lectori commendet; verura qao- niam in codicibus
plurimis opti- misque non comparet, ex or- dino verborum
expellendum fuit. 8iax^lxai verbum, quod paullo infra legitur, summam
animi liilaritatcm indicat, qua prueepr- dia quodammodo explicantur
at ~ qno dilVunduntur. 8ut][ii(j$at verbo nostratium aus gelassen sein
apprime respondet. E coii; trario vernaculum Angst ab angusto
Romanorum derivatum eam animi conditionem describit, qua praecordia
contra huntur atque nimio sanguinis confluxit premuntur. Hinc
ex- plicabis dvdneipdxai verbum, •quod paullo infra occurrit,
et quod Scbol. explicat: dvdn Elpti- xai • tfvdtpetpexat. xal
dvelAAtrai. Summa exstat apud Grammaticos discre- pantia in
scribendis verbi ftMfct* A td$ai formis. Nostram scripturam, quae et apud
Bekke- rum et Stallbnumium reperi- tor, Bodkianus exhibet,
adde Vimlobb. tres , Florentinos duos •liosque non paucos. Vido
lltrfui- kenium «d Tim. L» V, Piat. p. E fjdrj Citapywvn
itoXlrj rj Ttrotydig ylyovs nsgl xo xa- Xov dia xo psydXijg codivog
dnoXvtw xov Inorna. Idti •yccQ, cJ ZaxQares, ignj, ov zov xaXov 6 tpcog,
tSg dv oXh. — *AXXa rl iirjv; — Tijg yswijdBGig xal tov roxov Iv r«
xaXa. — Elsv> v\v d’ kyej. — JIaw plv ovv , &pi]. — Tl drj ovv
tijg yswqasag; — "Ort dsiyBvig Idzt xal d&avazov cog &v7jza
rj yewrjdig. dftavaoiag 207 dh dvayxalov itudvjuZv (iszd dyaftov Ix zav
«S /toAo- 69. In uno Bekkeri codice aV- iXXexai legitur,
quod Atticum esse censet Astius ad h. 1. Apud Phrynichum exstat :
dvetXeiv fit- fiKior 81 * IroS X xaxidzov «AAa 8ia r qjy duo
avdXXEir, ad quem locum vido annotat. Jjobeckii p. 29*
«AA* tdxov zd xvypa X& Xs7C gjS '<pep£i . Notabis Jioc
loco Graecae linguae idio- tismum, quo verbum finitum est, quod
participio Expressum esse oportuit, participio expressum est, quod
verbum finitum esse nostra dicendi consuetudo exigit. Pro- prie
igitur verba scribenda erant: <*AA ?<?£« z o xvypa
xaX£7tu>S tpipov. Vido Indices» o&by 8 y t<jj
xvovvxt T 8 Hal y8y dTtapycjYTii ap- yuvxt quid significet, schol.
ad li. !. explicavit: oppcoYXt , op- yoovxi , zapaxxopivoD , y
av~ Sovyzi. XapfldvEroci 81 xal in i zgjy padS&iv
TCinXypoapk- yody ydXaxtoS. Timaeus habet: dnapvcSda • zapatxofikvy
vito 2A iif>£G)S xal 8eopivy Ixxpi- Ctooi tiyoS. Coniuncta
partici- pia habes za5 xvovvxt zs xal fj8y dnapytavxt ita, ut
posterius prioris notionem contineat qui- dem, sed eandem impense
au- geat. Describit autem dnap - yacv verbum ad philosophiam
translatum eius hominis conditionem , qui ardenti cupiditate sciendi
ductas haud procul a sciendo se abesse sentit, idque iam ia eo est,
ut consequatur* Iu sequentibus vulgo legitur itoXXt) y itolydiS ,
quae scriptura nullo modo ferri potest. Feli- cissime Abreschius io
Dilucid. Thucyd. p. 420. scribendum esso vidit itoXky ?} ictolydiS.
Jlxoly- 6 iS animi commotionem exprimit, qua efficitur, ut aliquis
impos sui reddatur. Hacc nominis notio quam bene cum dnapyntv verbo
conveniat, neminem non videro arbitror, 8 ia zd peyaXyS —
foV IXOYza h. c. quod sciant ma- gnis doloribus se liberatum
iri, si phlcro potiantur. Repeten- dum igitur est ad Ixovxa
parti- cipium avzo. doS dv oIei. cfr. p, 201. E. dx^dv
yap zi xal iyoo npoS avxyv izspa zoiavxa. iXeyoY, car efy d
"EpooS piyaS SeoC, ely 81 zcoy xaX&Y. Paullo ante ne
mireris i<py additum esse in enuntiato, cui oou praecedant alius
personae, sed Diotimao verba, vide annotat, p. 249. Verba nostra
convertenda •uot : Es iit nam licii, oSo- $ ytjiiivav,
dbtSQ rov raya&ov £ correo tivat as i 5 sgas iozlv. dvccyxaiov 8fj Ix
zovrov rov ioyov xal zijg u&a- vaoiag rov Spara slvat. Cap.
XXVI. Tavta ts ovv navta IdlSaOxs fis , bnvts ftegl riov tgauxcav
Xfryovg jrotoiro, xal aors ijgsro' TL oi'st , u crate», waren
IhreWorte, die Liebe nicht das Stre- ben nacb dem Schdnen. Quibas
auditis Socrates sciendi motus aviditate, quo celerius, cuius rei
Eros esset, edoceretur, verbo eo usus est , quod Dioti- mam proprie
adhibere oportuit: dWdc, Stallbaumius post ri pyv supplendum esse
censet aAAo, de cuius verbi haud infrequenti post T i omissione
supra diximus an- notat, p. 21. Nostro loco mi- nus hanc aXko verbi
omissionem probaverim j accentus orationis nou in ri, sed in prjv
ponendus est ; respondent autem Socratis haec verba apprime
nostratium: •ondern was d e n n f Elert yy 8 9 iyco. Lineolam
posuimus post iyoS, qna in- dicetur, Socratem nimis impa- tientem
disputationis tardius pro- cedentis, coucessisse quae audis- set,
inconsiderantius, ut celerius cetera perciperet. Sed prius- quam
novam suam quaestionem institueret, Diotima gravitate rem . rursum
affirmavit quasi admonitione hac usa; Hem accuratius perpende , neque
quod non aatis perceperis, concedere noli. Di- ximus de fikv ovv
voculis anno- tat. p. 250. rt 8y ovv tyt ytvrr} 6eoof; Haud
dubium est, quia aliam quandam quaestionem in mente habuerit
Socrates, cum elev responderet. Admonitus autem 9t Diotima, ut
consultius rem exa- minaret, rl St) ovv TtjS yevvy- goS dixit.
Nihil auteih ad xrfi ysvvjjdeooS genitivum supplen- dum est. Petitum
enim r yS ytvyjjOscoS verbum esuperioribua est ita, ut indicetur,
hoc potis- simum in Diotimae enuntiato praecedente accuratiore
expli- catione indigere. Ceterum 5?/ ovv et ovv 8y ita diilerre
ait Stallbaumius annotat, ad Piat* Critonem p. ed. 128., ut
dif- ferant vernacula also nun et n[un also. wf Svyto)
h. e. quantum eius fieri potest in eo, quod per se spectatum morti
obno- xium est. Recte igitur Riicker- tus ad hunc locum,
verbis $vf]T(k) limitationem quandam inesse censuit. cfr. Matth.
Gramm. ampl. §. S88. a. p. 710*, ubi Sophoclis laudatur Oed. C. v.
2Q. jxctxpdv yap , oot yipovxi t npov6rd\yi o8ov . Piat. Soph. p.
226. C. r ax&ocv, coS ipoi , tixhpiv licixdxxzis, elitEp
rov rdyaSov kcrvza) elvai asl d HpatS i 6 X i v . Sic Bekkerus et
Stall- 2koxQcct£s, vtTttov tlvat xovxov tov iourog xai xijg tiudu-
fiiag; y ovx alo&dru tog dsivwg diaxt&sxai navxa xa &y- qLu,
Insidar yswav im9vity6jj , xai xa ns£a xai xa B nxyyu, voSovvrd rs navxa
*ori igauxws diaxi9i(iBva tanmius locum emendarunt, qui
vario modo depravatus repentur* Vulgo legitur elitep tov ctya- $ou.
In Vindob, ono rayaSov comparet, hinc emendationis il- lius
praestautiam expendas. Sed etiam, Biickertus inquit, vulgata
lectio, quam plurimi libri tuen- tur, proba est. Construe : ehtep
Toi) dyaSov EpaS idtiv, quibus iZyyTftiXGoS addita sunt verba
iavtco tlvat dei. In quibus sup- plendum est subiectum 6 EpcoS,
quod adest EpcoS , praedicatum est, nisi forte mavis cum Bekkero,
Dindorfio, Astio, Stallbau- mio inserere 'sine libris articu- lum,
quo fiat, ut subiectum ad- ait, praedicatum supplendum re-
linquatur. OltOZS Tt£p\ ZGJ n ipGDtl- xtxdUv \6yovS
noiolxo* Saepius igitur Diotima de rebus eroticis cum Socrate
disputabat, id quod etiam colligere licet e verbis p. 206- B.* ov
pAvx* dv dfe — iSavpafiov iic\ docpu* xal iipoircov irapd de aind
ravra paSr/dopevoS. Ceterum ne forte scribendum censeas esse
xovS XoyovS Ttoiotro , vide quae an- notavimus p. 12. Fingit autem
Socrates hoc loco, factum esse aliquando, ut , cum iu ero- ticas
res disputatio incidisset, Diotima et alia , et hoc quaesivisset: xl ohi
altiov eivat zov- tov TOV EpCJZoS hol tijS liti- 3t yilaS ; -
, v f V ovH.aidSacvei cu s det- rc &S x. t. A. Non
statim patet, qui fiat, ut Diotima animalium mentionem faciat hoc
loco* Com- memorat ea ideo, opinor, ne for- tasse A oyidpov caussam
eroti a Socrates dicat Paullo infra habes : z ovS pkv ydp av^pamovS
oXoiz * dv ziS bt Xoyidpov zav- xa Ttoielv xa 61 Sjjpia z ii ahia
qvxgdS iputixoaS 6 tariS e- 6$ai; quae verba lmic quaestio- ni
praemisisset Diotima haud dubie, si accuratius loqui voluisset*. Sed et
haeo cogitationum series ferri potest iu sermone familiari* 8eivgoS
explicatur inse- queutibus vodovvzd re -jcdvxoc xai ip&TixcoS
SiaziSe/ieva. lit- cnim magno dolore afficiuntur, ut indicatum est
supra p* 206. E.» omues, qui procreare gestiunt* Optime
Schleiermacherus verba convertit: in ivelchem gewaltsamen Zustande sich
die Thifero befinden* Ceterum vodeiv ver- bum rectissime annotante
Stall- baumio ad Piat. Phacdr. p. 228. B. aTtavTvda? rrJ
rodovm 7Ctp\ Aoycoy axoi/v , ut Latinorum aegrotare dc
vehementiori- bns cupiditatibus poni solet, quao homines vclut
morbo quodam afficiunt. xat Et oi pd idziv vnl-fy r o v
T a> v . Cave post 7tai o superioribus cjS particulam repetendam
censeas, quae etsi possit suppleri, tamen, qui Graeci in- genii
volubilitatem compertam hubet , structuram verborum hoc itQtotov
filv 71 fq\ ro | vftfuyfjvai dlhjXoig, httira n tgl ttj v rgorprjv to£f
ycvofihov, xal ixoifia tdtiv vn I q tovtov xal du<(iux£(}&ott, tu
da&ivsercna zoig l<J%vQOTceTOig xal vxepanodvfoxsiv, xal ama roi
Xiiiio xciQuzuvuatva [<3sr’J loco motatam non aegre feret. Neque
sine caussa huiusmodi mu- tationes structurao a scriptori- bus
admittuntur. ."Negari enim nequit, suspensam orationem, quae
longiuscula sit, languidi quid ha- bere atque molesti , quod muta-
ta structura felicissime remove- tor. Deinde inesse senties ipsis ocrbis,
quae ab incepta structura recedant, gravitatem, quae nostro loco
apprime convenit, ubi amoris vis atque potestas describitur. Exempla
huiusmodi structurae muta- tionis ubivis obvia sunt. cfr. p. 208.
C. Zv$v/nrjSel5 cJs* SeiyojS SiaxEivtai Spaoti tov ovojiadtol
ytvkd^ai xal xXkoS eis tov irceita Xpovov aSdvatov xata&kdSat
xal vn\p tovtov xivdvvovf te xivdvveveir Ztoi/ioi eidi x. r. A. Nos
eodem modo loqui pos- sumus: Oder weisst du etwa nicht , in
welchem gewaltsameu Zustande sich alie Thiere betin- den, wenn sie zu
erzengen stre- ben, sowohl die ungefliigelten uls die gelliigelten
, nud wie sie sammtlich krank und von Schn- suclit geplagt sind
zuerst in Be- ciehung auf die Begattung, dann wegen der Nahrung des
Er- zeugten, und sie sind bercit, fur diese zu kampfen, die
Schwa- cheren mit den Starkereu, und fur sie zti sterben. Ceterum
ne (^nem oilendat pluralis numeras viil.p rovtaov praecedente
sin- gulari tov ytropkvov , 1 6 ytvo- ftevov e genere est
collectivorum | quae post se positum singularem numerum rarius admittunt.
xal avta t o5 Xipcj ita- pateivo pexa [cJsV] ixei- va ixt
pkcpeiv. Haec verbA non dubium esse arbitror, quin labem
contraxerint. Namque qui totius loci structuram accuifftius
examinaverit, eum non fugiet, opinor, verba xal avtci rc5 Az-
p<j> 7tapateiv6peva x. r. A. b praecedente xal Ztoipa Zdtir
pendere. Huius structurae non intelligentes grammatici, ut loco
mederentur , <juem depravatam censebant, ufcr textui intulerunt,
quod vocabulum nostro quidem arbitratu inutilissimum est. Fi- cinus
verba convertit j et j>ro illis occumbere parata sunt , ac fame
dejicere , modo filios nu- triant , et aliud quodlibet audacter
aggrediuntur. In Schleiermacheri couversione exstat : u m nur ienes zu
ernabren. Sed coSte particula nunquam ita adhibetur, ut consilii
notionem exprimat, quin potius necessita- tem consequcutiae
describit et alicuius rei couditiouem eam, quae alia propter ante
comme- morata esse nequeat. Hiuc vides, quam male habeat praece-
dente xal avta tep Xipd* na- pateivofieva verba gjS t Zxel- va
Zxtphpetv. Ridiculum enim est: animalia Fame ita ex- tenuari, ut
liberos nu- triant atque educaut. Fer- ri toSte posr.et hoc loco,
si scri- ptum exstaret (ySt * kxfiva ix Ixuva IxtQitpuv , xccl aU.o
nav noiovvzct ; rovg f ihi yag uii&Qchjcovg , ecptj , oeoiz’ av rig
ix AoyiGfiov ravra C noetiv • t« de &rj()ia ri g ahia ornas tgarexag
Suxti- o&£tf&eu ; *3C £1 S Aeyecv; JSfai iyd av D.tyov , ou
ovx bIScltjv. "II 8’ dite " Aiavoil ovv 8uvog Xotc
yivrfiz- C&cu, ra iQauxa, lav rccvrce f ir/ tvvoijg ; — ’AXXa 8
ea rccvTtt m, <b Aeozi(iu, oxeg vvv Srj tlt iov, nagee <Je
fjxa, ' J Tpi<pe6$at, quamquam etiam verbis in hanc
modum conforma- tis inesse senties, quod admo- dui# displiceat.
Hinc factam est, at &SX£ insiticium censerem, idque uncis
includerem, ne, si ex ordine verborum reiecissem, au- dacias egisse
censear. Sensas est : et parata s d*n t ipsa fame paene
enecta illa nutrire et educare. Quae sequuntur verba: holi aXXo
nav •noiovvxoL , artius ea cum verbis avx d tgj Xifi. c3
itapaxetvopeva coniungenda nihil habent in se offensionis,
tgS Xipd i. Supra p. 191. B. legitur: ank5v7\6xov vito Xipov
xal xfjS olXXtj? apyiaS x. x. A., ad quae verba Stalibaumius, in-
epte', inquit, vulgo vito xov Xi/iov , Quaeritur, cur illic
damnaverit articulum, hoc loco ne verbo quidem tetigerit? Mallem etiam
hoc loco articulas ab- esset,- quem certissimnm est a nemine
desideratum iri, si reve- ra non compareret. o vxgoS i p goxixgoG .
Ov- TcuS h. 1. significat, eo modo,* quo in superioribus
indicatum sit, nmore affectum esse. Vide uuuot. p. 58. De
interrogationis genere tis alxla , UxeiS ti- Ttslv ; supra diximus
annotat, p. 276. xal iyoo av ZXeyov. Vulgo legitur av pro av ; hoc
Bekkerus et Stalibaumius ex optimis codicibus receperunt. Merito
Ruckertum mireris , qui , cum constet , av et av saepissime
commutata esse in libris , tamen av iu textu posuit. Ut bene,
inquit, haberet av, si sae- pius sibi exposita narraret Socrates, ut
respondere saepius posset se nescire, ita, quum semel tantum haec disputata
perhibeat, av ineptum videtur, av vero eo aptius, quod in priori-
bus iam suam ignoran- tiam confessus est* At superest tamen, ut
mi- nus iiic dicas Platonem curasse, quod semel tan- tum haec
dicta fingeret, indeque av posuisse negligentius quam verius» Qua
de caussa probatis licet av nihil tamen mu- tare volui. Hoc
argumentum fateor mihi prorsus videri nullum. Est autem, cur rur-
sum se nou habuisse Socrates confiteatur, quod responderet» Simulat
enim, ut saepius iam an- notavimus, fatuitatem quatidam animi, qua
facilius atque tu- tius aliorum seuteutias elicere possit.
yvovg, oxi SiScaSxdXav 6eo pai. ccXla (ioi Xlyt xal xov- rav xfjv cdtiav
xal xav ctf.lav xi5v xegl xa igcoxixa. EI xol vvv, %xpi], iu<5xtvug Ixtivov
tlvai cpv6ti xov tgaru , ov xoXkdxig «SftoA oytjxafitv, fiy
&av(ia&. tv- xav&u yag xov avxbv txuva Xoyov y ftvytrj
qjvtiig D fyftti xaxa xo Svvaxov ad xs tlvai xal d&avatog. dvvaxai
81 xavxy (ibvov xrj yivtGti, ou dtl xaxaXti- Siavoet ovv 8eivo?
ito- te. Haud raro apud Graecos et Latinos continuandi
alinsque potestatis particulae ita adhiben- tur in interrogatione,
ut indi- gnationem quaudam interrogantis exprimant. Mutata
interrogatione in quietius dicendi genus verba audirent: Lass dir
nur nicht ein- fallen, irgend Erotischer Dilige kundig zu werdeu,
wenn du des- sen dir nicht bewusst bist. Sic tlta. reperitur in
Piat, Critone p, 43» B. , quo loco Socrates postquam iam diu
Critonem in carcerem intrasse audivit, elta, inquit, n&S ovx
evSvS inijyei- paS pe. Haec verba recte intelligent, qui cum
indignatione dicta arbitrabuntur: Wie kommt es denn nur nun, dass
du mich nicht sogleich wecktest, ciWd 8id tavTct. Elli-
ptica et hoc loco, ut plerumque in responsionibus oratio ita supplenda
est, ut addas cogitando: non puto, aute aWct, quod est immo
convertendum. Videtur au- tem hoc, quod de responsiouibus dixi,
repetendum esse a summa Graeci ingenii alacritate et in cogitando celeritate,
qua fiebat, ut cum mens longe praecurreret linguam, in dicendo
etiam, quae ullo modo possent , omitterent vel in unam
contraherent, Riickert . Oitep vvv 8t) etirov • cfr. p. 206. 11. ov /
tivt ’ av iqnjv iya> , <y Aioxiya , i$av— jiaZov ini Coepio.
xal icpolx gjv itapd avrd xavra paSTjtio- pevoS. el roi
vvv, £<py, itt- dteveiS x. t. A. In omnibus editionibus legitur
xoivvv pro toz vvv , quod nobis placet. Apud Ficinum verba
conversa sunt: Si credis, illius natura amorem esse , cuius
saepe iam diximus, ne mireris, Schleier- macherus exhibet: Wenn du
also glaubst, sprachsie, dass die Liebe von Natur auf das gehe,
worii- ber wir uns oft schon eiuver— standen haben , so wundre
dich nur nicht. Socrates rem , quae in superioribus saepius
tractata est, memoria non teneBs , eandem rogatus a Diotima, obmutuit non
habens, quod responderet, Eadem res igitur, quoniam hic repetitur,
Diotima hominis memoriae, ut videtur, illudens, Noli mirari,
inquit, si nunc firmiter tenes memoria, caussam naturalem AMORIS
esse eandem, de qua supra saepius inter nos convenit,
r) Svtjti} epvCiS Zytti xatd r o 8vv atov. Vide annotat, ad
verba p. 206, E» net eicQov vaov
dvzl zov italaiov' htu xal Iv to tv sxaarov rav £iocw £ijv xaXslzat xal
tlvca zo avzo, olov Ix naiSaglov 6 avzug llytzai eas «v xgeofiuzrjg
ori aayevis l6xi xal aSava- zov tus 2vijrc3 r) yivvr)6iS.
ravzx! yovov x-jj yevi- 6ci. Caminate post yovov po- sito
Riickertus sensum verborum esse ait: liac sola ratione, per
procreationem. — Du- bito, num recte interpunctionem adhiberi liceat
ibi, ubi scriptor ad- vocata generis assimulatione ar- ctiorem
demonstrativi pronomi- nis cum insequente nomino sub- stantivo
coniunctionem admi- sit, Hoc certum est, verba proprie audire:
tovtoo novor, ty yevidei, sed ab huiusmodi dicendi genere utpote
incomtiore, excultior Graecorum actas abhorruisse videtur.
Assimilutionis exemplum est p. 190. E, noti dweXxGov 7tavraxo5ev zo
6ep- fiet ini r?jv yadzipa vvv xaXov pivTfv , ad quae verba
vide annotat, p, 163, Nemini, autem Riickertus persuadebit, tavxy
h. 1. adverbii vices obtinere, quo ratio describatur, qua quid possit,
quod mortale sit, immortalitatem adipisci. inel xal iv gj Sr
ix actitor ZGOV %GO GJV X. T. A, Nam etiam eo tempore, quo
unumquodque animal vulga* i opinione vivit atque seraper idem
est, nullam que experiri muta- tionem partium suarum putatur,
veluti quum quis, inde a pueritia usque ad senectutem idem
semper esae dicitor, tantum ab- est, Qtiumper unum idemque maneat,
nt aliis par- tibus quasi de nuo iuver- nescat, aliis privetur
et orbetur. Verborum sententiam per se minime obscuram paullulum
impeditam reddit structurae insolentia . Quum enim pusi
TCpedfivTTjf yivtjrai subiici deberent haec: ojigoS ovdinote zd avzd ix
El & avrcJ , a\Xd td pkv dei vior yiyvtzat, zd anoAAvdiv , quae
referrentur ad primariam sententiae partem: ab inchoato orationis
tenore sic deflexit, ut reliqua omnia ad eam accommodaret particulam
enuntiati , quae continet exempli rei clarius illustrandae gratia inter-
positi commemorationem. Ita- que nihil mutandum censemus • Stallb,
Haec Stallbaumii ex- plicatio et a difficultate stru- cturae nobis
improbatur et a sententiae incommoditate. Exemplo nimirum Socrates
explicaturus est, quo sensu ael elvai dicatur atque dsdvatzov elvai T7}V
Svi/xr/v <pvdiv , ut non ve- risimile sit, exordium huius
enuntiati esse posse: inel xal iv g5 ev Sxadzov zgjv P.oocjv S, i}v
xakzLxea xal elvai zo av- ro . Astius huius rei iutelligens,
scribendum coniecit: iv cj tv Zxadzov tgov Zcjgdv xa\ei- zai
xal elvai zd avzd , quam scripturam ipse post improba- vit. Nobis
scribendum videtur inel xal iv d> ' ev txaoxov xd)v Zidcjv $f/v
xaXtlzai, xa- A etzai xal elvai fd avzo . Neque audaciorera
censemus hanc coniectux&m iudicatum iri , cum yknjtai ' ovrog
(ibroi ov&tnots, zu ccvra tyav Iv iav- to), ofwog 6 ttvzos xaXilrat,
akla vio g ad yiyrofitrog, xot bs ai roUvg, -/«l scaia rag ep^trg jtal
Capxa «c«l satis constet, Verba dupliciter po- sita haud
raro librariorum incuria simpliciter exhibita esse, et vice versa
dupliciter interdum posita esse , quae simpliciter a scriptore
posita essent. Exem- pla si quaeris huius rei, vide quae
annotavimus p. 171* et p. 254. Qoac sequuntur verba otov ix izcuSaplov
6 avxoS Xe- ykxeti ( sc. tIs" ) x % r. X. optime cum nostra
praecedentium ver- borum scriptura conveniunt. ovxoS pkvxoi
ovSkxo- x 8 xa. avxtf $X a,v «v- tcj x. x. A. In Ficini conversione
legitor: JZnimvcro eo ipso in tempore , quo animalium unum- quodque
vivere dicitur , idemque esse , (ut a pueritia ad senectu- tem)
quamvis idem dicatur , nunquam tamen in se ipso ea- edem contine t , sed
novum semper efficitur et vetera exuit. Sic etiam ceteri
interpretes ovSbtoxs negationem ad verba trahunt ta avxct V.xoov iv
lav- toj f quae verboroui struendorum ratio propter insequens
aXXot vtoS asl ytyvopevoS minimo nobis none probatur. Inepto
enim loco positum habebis hoc, ai illam explicandi rationem pro-
baveris. Neque defueruut , qui de verborum transpositione cogitarent hoc
loco. Facilior ver- borum struendorum ratio haec est, ut ovSiitoxE
negatio a'd pri- marium enuutiati verbum xatei- xai referatur.
Verba autem boc modo scribenda censemus: ov- x oS pkvxoi ovd£7roxc
, rcr cxvxa iioav iv avia? , u/ici?5 6 avioS xaXslxai, aXXa
vkoS aeY yvyva- / ievoS x. x. A. Sensus est : D i e- s e r iedoch
wird nietnals, w e i 1 er ein unddasselbe au uitd in’ sich
hatto, gleichermaassen derselbo geuannt, sondern (er wird in
dem Sinue dersclbe genaunt,) wreil er sicli immer ver — iiingt,
iudera er das Ver- altete abwirft. Ut boc lo- co, ita etiam in
Piat. Euthyphr. p. B. c. 2. opooS in o/idoS mu- tandum est: xcu
ipov yotp xot, oxocv xi Xkytm iv xy ixxXr/6ict 7tEp\ xcov SeIgov, itpoXeyGor
au- XotS xti pkXXovra , xixxaytAdo- <xiv gdS’ jiaivoitEvov* xai
xot ov8lv o xi qvh aXrj^es sVpiptet GOV 7tpOEl7COV. aXX* dpooS
(p$o— vovfov 7/piv Ttdoi xdis xoiov - xuiS. Minus aptum est,
quod vulgo edi solet, opwZ : Nihil nisi vera dixi, tamen nobis
omnibus vera dicentibus invident. Qain potius commemorans
Euthyphro, quid ipse perpeti soleat, cum vera dicat, Socratis
exemplo praemisso, communi vera dicentium iufortuuio sc consolator.
Iam ut Diotimae sententia melius perspiciatnr, rem breviter repetam ; Quod
supra de hominum AMORE dictum est, idem in animalia cadit et in omnem
naturam rerum Vult nimirum natura, quoad eius heri possit, sem- *per
vigere» atque immoTlalis esse idque generatione assequitur. Neque hoc ita
inteljigeudnm est, ac si singula quaeque res immortalis esse dicatur: sed
ut homo aliquis a pueritia usque ad se- E 6q za xal al[ia xal
%u[ixav zo GiJfia. xal (iij ori xara to (Scotia , aAA a xal xarcc rrjv
‘tyvxftv ot zqoxoi, za tj, dofci, htcdvjilai, rjdovai, Xvxai , tpufioi,
rovtav exutSta ovdexoze za avra xuQeaziv sxaGzcp, «AAa za (itv
ylyvszai, za de axdilvzai. xoiv de xovrnv azoxdzegov In , on xal at
extOzfjiiui (i>) ori at 208 ftw' ylyvovxai , at de axolXvvrai yiiiv,
xal ovdexoze of avzoi icS/iev ov de xara rus kxiGztjtias, a AAa xal
f ita txuGrrj ziov eXLGzrjiudv zavzov nu6%u. o yag xa- i.eizai (leltzav ,
u>s l^wvOris heri zrjg exiGxrjfirjs' tiftrj ydg exiGrr^firjs ifcodos,
fieXirij Ss xui.LV xaivtjv t/x- nectatem idem Tocatnr, non nt qui
habeat in se setnper easdem corporis partes, sed quod eas mutando ,
inveteratas abiiciendo quasi novus semper existit, ita etiam animalium
genus rerumque natura partium renovatione immortalitatem conse-
quuntur. rd 6h drtoWvS. His ver- bis, quibus non praecederet
rd p.iv , multi interpretes offensi aunt. Wolfius rd plv
nposXajj,- fidvoDV vel simile quid adden- dum censuit , Bastius ad
ra de addi iubet itaXaia. Alii alio inodo locum, -in quo
librariorum peccatum reperisse sibi viderentur, sanare studuerunt. Stalibaumius
aWa vkoS de\ yi~ yvofievoS idem valere censet quod aX\d rd pkv vkoS
ael yiyvojievoS. Maluerim ita statuere, ut Graecis licuisse contendam
quotidianae vitae sermone utentibus interdum omittere, quae e sequentibus
facillime suppleri possint, eque ra fiiv supplendum esse videtur, sed
ra /ikv aAAa. xal ptij ori — aXXd xaL Ne forte ante
oAAa' xal requi- ras prj povov, efficitur povov omisso
sententia haec: At quo ut mittam ea, quae ad corpus pertinent,
etiam quae animi sunt, consuetudines, mores, opiniones, cupidines,
gaudia, tristitiae, metus, haec omnia nemini eadem ma- nent, sed
alia oriuntur, alia depereunt. Ceterum apposite ad h. 1. Riickertus
: Noli, inquit, ex his colligere aliisve similibus iu iis, quae
se- quantur, Platonem sibi non con- stare , quod, quum alibi natura
‘ sua immortalem animum dicat humanum, hic eatenus duntaxat
ei immortalitatem tribuat, qua- tenus et ipse , quas sui partes
amiserit, assamtis aliis suppleat. Non ipsum enim animum, natu- ram
divinam, hic iu mente ha- bet, sed ea tantum in animo, qualis in
hisce terris est, quae ex coniunctione cum corpore enata cum eodem
intereunt. Ex quo genere omnia sunt , quae deinceps recensentur.
Quas enim mox liti(Sripxa£ affert, earum vel unus pluralis numerus
satis est argumento, non loqui Platonem tioiovtia dv rl xrjg
diuovGxjs (ivrjfiyv (Scissi x yv Irn- CtrjiiTjv, SgtE xyV avxyv Soxelv
elvca. xovta yag xc> XQoitcp xtav x 6 dvytov ov x<5
TtavxdrtaGi xo avxo dzi elvat , , SgxtEQ xo fteiov, dM.cc xc) xo
ditirbv xal xaAaiovfievov bxeqov vtov lyxata- b Mbtuv y olov avxo yy.
xavxy xy ffl%ctv y , co 2Jc6 - XQctteg , Zcpy , %vyxbv d&avaolag
(iEze%eiy xal Gcopa wa xaM.a itdvxa , aftavaxov Se &M.y. yy ovv
&av- pafey el xo avxov ditofyXaGtyya rpvtiei ndv xi\La'
d&a- vatilag yuQ %ccqiv ttavzi avxy y Gzovdy xal 6 tgcog
67csxau de ipsa scientia, quae nna est eademque semper,
quamqoe non potuit animo informare nisi perennem et immortalem,
quin ipse sui oblivisceretur. Immo notitiae sunt rerum in sensus
ca- dentium, quae nec affuerunt ani- mo prius , quam vitam hanc
in- grederetur, neque ultra eius ter- miuos apud eum
permanebunt. itoXv xovxcjv aro - itaSxEpov Irt. Pro £tt,
quae Bodleiani aliorumque paucorum codicum lectio est , vulgo i6xiv
legitur. Illud Bekkerus et Stall- baumius in ordinem verborum
receperunt, hoc tuetur Rii- ckertus. * Eri , inquit, ut vulgato
melius esse concedam , attamen tam paucorum fide recipere eo minus
ausim, quod quam saepe liae voces intfr se permutentur haud sum
ignarus. — Utor his Riickerti verbis, quibus £ti recte habere
probem. Nam si melius est sententiaeque convenientius, quod in
melioribus codicibus re- peritur , id verum est haud du- bie. In
ceteros autem pluri- m osque libros irrepsit id, quod facillime cum
illo permutatur. 6 ydp xaXeltai pe\e- rav cof i
ZiovtirjS id t\ xyS ixidxy /iy $ . Vide de hoc pla- cito Piat.
Phaed. p. 72. E. xal prjv , iqyq o KiftyS VTtoXafidrv , xal xax*
ixelvov ye x ov Ao'- yov , cJ SwxpaXEff , si dXy^yS itixiv, ov 6v
ettoSaS $a/ia MyeiVy on ypiv r\ paSydiS ovx a\Xo XI 7j dvapvr]6iS x
vy- Xctvet ov6ot , xal xata xovrov avayxy itov rjfiaS iv
xpoxipaj xivl xpovw pEpaSrjxivat a vvv dvapipvytixopeSct x. t .
A. vSiCEp xo Ssiov, Auctor Definitionum p. 411. A. J
GteoV, 2,ajov dsdvaxoVf ctvxctpxsS npoS EvSaiuoriav, ov6ia dtSio?.
’At- 8iov , xo xctxa ndvxa. xpovov xal TtporEpov ov xal vvv
prf 6iE(p$otpp£vov. a$ avatov dfc ct\Ay, Displicent
haec Verba ideo po- tissimum, quod modo indicatum est, quomodo id,
quod immor- tale est, h. e. ro Seiov, immor- talitate gaudeat. Hinc
factum est, ut Creuzerus Lect. Piat. p. 528. scribendam couiiceret:
aSv vaxov aAA#. Recte , ut videtur, Riickertus existimat Platonem, si hoc
exprimere voluis- 19 Cap. xxvn. Rui iya uxovaag rov
tiryov Iftavuuacc re xal ihtov' Ehv , rfi’ 8’ lydi , a Ooqxxnatr]
Aiotlfiu ' ruvra C Sg db]&w$ ovuog l%u ; Rui ij, cSgnsQ ot xtktoi
tfo- set, haud dubie tzAAp 81 dd v- vaxov scripsisse. Sed de
veri- tate verborum aSdvazov 81 «A- A r} nobis non convenit curo
eodem. Stallbaumius od liunc locum annotat: Haec, inquit, ad- dita
videntor propter verba ex- trema xal TaAAa itavxa , quae ne falso
intelligerentur, sane ca- vendum fuit. Num credibile censes, quemquam esse
posse, qui cum verba legeret xal 6(n/ta t in sequentia xal TaXAa
ndvxa male intelligeret atque ro Stiov admisceret, quo de paullo
ante dictum est? Sed pone fieri posse, ut aliquis verba illa falso
iutelligat: num recte sibi opponi hoc loco censes Svrjxoy et a$dra-
zov , ubi Svjjxoy adiectivi vices habet, atque cum insequenti xal
dco/ia xal xctXAa rtavxa arctius couiungitur? Huc accedit, quod ne
ipsum quidem aSavarov, pro quo Selor scriptum exspectaveris, satis recte
habere videtur. Scribendum est , si quid video, $dr ax ov 81 afAA#,
qnae coniectura et a corruptiouis verisimilitudine, cum praecedens
verbum in a desinat, et a sententiae veritate sese commendat. Ceterum ne
mireris accusativum casum, cum praecedat aSavadlaS fxtX ix ei:
solent interdum Graeci e praecedentibus, in quibus com- positum
verbum contiuetor, noa compositum repetere, sed simplex. Diximus de lioc
loquendi ysu «uuotat. p. 89. eItxov EleVf tjv 6 * lydi. De dicendi
verbo in huiusmodi enuntiatis dupliciter posito vide quae
annotavimus p. 249. Ehv verbum quod attiuet, vide annotat. p. 86. et p.
264. liisequetis interrogatio xavxa d>S aAr/SdiS ovxqdS lx ei
> fatuitatis indicium esse arbitramur, quam Socrates cum Diotima
de Erote disputaus constanter simulat. Nimirum quum, adhibito thv
vocabulo quasi ad alia quaedam quaerenda abiturus, confestim
concessisset, quae a Diotima dicta essent, rursum ad eadem redit
quaerens : num re- vera haec ita sese habeant? gSstjt
ep ol zlAeoi 6o<pi- d xal. Stallbaumius minus re- cte : Ridet,
inquit, sophistas, de quibuslibet rebus ita disputantes, ut videri
vellent earum verita- tem prorsus habere perspectam atque
exploratam. Neque Wol- fianae ed. explicationem proba- mus Lips.
1828. p. 97 : die bei ihreu philosophischen Vortriigen nicht ia dem
zweifelnden Tone des Socrates sprachen , sondern in dem
entscheidrtiden Tone des Orakels ihre Meinungen fur un-
uinstdssliche Wahrheiten ausgaben. Eadem sententia etiam Schleiermachero
probatur , ut ex eius conversione huius loci vi- dere licet: Und
sie, wiedie rech- ten Meister im Wissen pflegen, sprach, Das sei
nuu versicliert, o Socrates. Quid Socrates ad- <pi6Tal ,
Ev IWt, H<pi], cj EdxQtttes' IntL ye xttl zav uvdQioitav ei
i&eAeig tig ttjv <pdon(ilav (i/.i- ipcu, &av[ia£oig av rrjs
uXoyiag hiqi a lya eipryxa, tl (irj Ivvoeig Iv&vfiij&elg ag
deivag Euxxuvtai %otc rov ovofiaOTol yevee&ai. bibitis
illis verbis efficere volue- rit, optime e Protagorae loco
cognoscitur p. 328. E. seqq. ’«ft xai AjtoWoSoopov , a 's xaptv
tioi ix&\ uti tcpovxpeifrd? pe tvSe agtixkdSau noXXov ydp 7i
oiovpai axyxokrai a dxijxoa TIpGDTayopov' iyoj pkvydp kvxco
ZfiTcpooStv xpoveo yyovpyy ovx elvai dy^pconlyjjv iizipiXetav, y ol
ayctSoi ayaSoi yiyvovtoa, vvv 8\ itiicet6jicn. nXyv 6pi- xpov ri
poi kpizoSdbv, o 8ijXov t oti Tlpojxayopa? fiaSlcj? heex- 8i8dB,u ,
inei8y xai xd noXXa xavxa iutdidafe. xai ydp el pkv xi? nepi
avx&v xovxgjv dvyykvoixo oxeoovy xaov 8ypy- yopcov , xax* ay xai
xoiovxov? Xoyov? dxov6£iev y IJepixXkov? 7} dXXov xivoi Tcjy
Ixavcov el- iteiv * ei 8 e inavlpoixo xivd xi t S?7tep fiipXla
ovdiv ixovdiv ovx e altoxpiva6$ai ovx e avxo i ipitSSrai, a XX* lav
xi? xai Cptxpov lite p coxi)6y (vide annotat, p. 82.) xi xaoy
prj- $£vxgoy, d)?XEp xd x a X- xela nXyy kvx a paxpdv yx £ *
xai a 7t 0 x eiv e 1 , kav jiy i rtiXa fiy x ai xi ? , xai ol
pyrope? ovxcj dpixpa i p coxi] 5 kvx e? 80X1x0 v xa - •z ax e tv
ovdi xov Xoyov, Ipse autem orationis longitudini Socrates illudit,
quod facere so- lent, qui alicuius vitii alienam, reprehensionem
evitaturi sunt. ei iSkXeiS — Savpd- £01? av • II . Stephanus,
ut verba usitatiori generi loquendi adaptaret, iSkXoi?
scribendum coniecit. Frustra. El iSkXei? CxkipaL idem fere est atque
el Cxk^aiS , differt tantummodo ab illa dicendi forma optativus
modus, quod hic cogitati alicuins possibilitatem, quam vocant, exprimit,
quae et ipsa cogitata est, non ducta e veritate rei. Illa contra
aliquid fieri posse indicat, iit prorsus ex alius arbitrio psn-
deat, utrum fiat revera necne. Exempla haud rara sunt el particulae
coniunctae cum praesente tempore iSkXeir s. fiovXe6$aL verbi , cui
adiectus est infinitivus cum optativo et «v. Legitur paullo infra p. 221.
E. el ydp kSkXet xi? r gjy ZZ&xpd* xov ? axoveiv Xoycov , 1
pdyuev dv 7tdvv yeXoloi xo Ttp&xov. Cum hoc dicendi genere
care commutes exempla ea , quae el particulam cum praesente
alicu- ius verbi tempore coniunctam exhibent et optativum av
parti- cula adhaerente $ cfr. A pol. Socr, p. 25. B. TtoXXr) ydp dv
xiS ev8aipovla efy 7tepi xov? vkov? y el el? pkv povo? avtov? 6 1 a
- <p 3 elp et . Adde Piat. Symp. p, 176» C. *Eppaiov av
efrj yptv — el vpel? — vvv dnei- pyxate , ad quem locum vide
annotat, p. 38. Ceterum x&v dvBpcj7ca>y in alieno loco positum
videtur, quem ne mireris atque ut Platonis voluntatem perspicias, Riickertam
audi anno- 19 * nai xAioS eis tov ae\ xpovov aSavatov
xaraS&SSiu, xai vniQ rovrov wvdvvovg ts > uvSwevuv ttoifiol
dii xdvras En iiallov jj vntQ ruv xcdSav, xai tantem ad h. 1. i Qnod hic
TGoy avSpGJrtaw addidit, idque loco posuit illustrissimo omnium,
pro- pterea factum, quod ia praece- dentibus de bestiis non
minus, immo magis fere, quam de ho- minibus disputatum est ,
quanta cura esset sobolis tuendae con- servandaeque. Quae euim
de humano corpore animoque dispu- tata sunt, nonnisi probandae
sententiae inserviebant, non esse alinm immortalitatis adipiscundae
rationem naturae mortali , quam per propagationem. Itaque iam de
solis hominibus locuturus recte lioius rei indicem in fronte po-
suit. $ av paZoiS dv xrjt aXo- yiaS Ttepl x. x. A. Verba
Fi- cinus convertit: Etenim si gloriae stadium', quod hominibus
inest, considerare volueris, admiraberis ruditatem tuam, quod ea, quae
dixi, non satis comprehenderis. Hoc sane mirum. Schleiermacherus
exhibet; Denn wenn du auf die Ehrliebe der Menschen sehen willst, «o
miisstest du dich ia uber die Unvernunft wundern in dem, was ich
schon angefiihrt, wenn du nicht bedenkst cet. Schulthessios verba
reddidit : denn fassest du nur der Menschen ehrsiichtiges Bestreben ins Auge,
so kannst du ihre Unvernunft in Beziehung auf das von mir
angedeutete durchaus nicht begrei- fen, wenn du nicht erwagst
cet. Negari nequit, paullo impeditio- rem verborum structuram esse
atque gravitate quadam inepta affectam, qua usus esse sophistas
consentaneum est, qui ad ante dictorum explicationem atque enarrationem
transirent. Sic tg oy dv$ poATtcoy , principe enun- tiationis loco
positum , de quo Riickcrti indicium modo retuli- mus, quid aliud
est, rem si ac- curate perpendens, quam vanae gravitatis indicium?
Adde el iSiXeiS verba, wenn du dich entschliessen, es iiber
dich bringen kaunst (vide annotat, p. 44.) et parnm defi- nitura
illud : xepl d iyoi eTpij- xa y nonne haec plena suut so- phisticae
artis? Proprie verba hoc modo dispouenda suut : eu — Ixel ye xa \ ,
el £$i- XeiS el£ x rc oy av^peonoov gnXoxiplav pX iipai,
Savpdgoi? dr x ijs aXoylaS ( b. e. Savpd Ce av ix ot rt J s
dXoyiat') xov- xcdv, d iyoj elprjxa. Sensus est: Da gieb recht acht,
o Socrates ; denn auch, wenn du dea Ehrgeiz der Menschen ins Auge
za fassen gesonnen bist, koou— test du dich wohl iiber die Un-
grtindlichkeit dessen wundern, woriiber ich gesprochen habe, wenn
du dir nicht vergegenwar— tigest, indem du cet. (»s detvooi
Sidxtivr ai % Haec et sequentia ad eandem dicen- di normam
conformata snnt, qua verba legnnter p. 207. A. r/ ovx aiCSdveiy aoS
SeivdoS Sia- xlSexai Ttctvta xd Sijpia x. r. A., ut adeo idem
valeat de structura verborum xal viup xovrov — (tara
dvccXfoxsiv ml itovovg xovuv ovgnvagovv xai D v7tEQcacoftvt]<Sx£Lv *
ijtel o Xu 'Adprpov ajto&avEcv ccv, ij
vitEpcntoSvrjdxEiv, quod de ver- bis monuimus p. 207. B. xai
Ftoipa idtiv VTtkp xovxov XUL vTCEpaieoSvrftixeiY x. r. A. Ac de
industria quidem iisdem paene verbis Diotima usa est eadem- que
mutatione structurae, quo facilius et illius loci auditor re-
cordaretur, et clarius videret, de eodem et illo et hoc loco Erote
sermonefti esse. xai x\ io 9 elS tov d e l — xat a$ £d$ ai h,
e. Immortalem gloriam posteritatis memoriae tradere conservandam. Nam
xaxa- ti$Ed$at est deponere cu- stodiendum s. servandum
tradere, vide Valcken. ad Herodot. VI. 73. Stailb. Ce- terum
neminem latet, hexametrum versum esse verba xai xXloS — xataSedSai , quae
a praecedentibus atque insequenti- bus verbis seiungenda
curavimus. Unde hic versus petitos sit, nescire confitemur, hoc
tantummodo comperti habemus, depromtum eum ex carmine esso alicuius
poetae, ad cuius aucto- ritatem atque testimonium Dio- tima
auditores ablegavit, xai vitip tovtov xivdv- y ovS
xivdvvEveiv. Dicendi formulae, in quibus nomen aliquod cum verbo
eiusdem radicis coniun- ctnm reperitur, ita plerumque ad- hiberi
solent, utrem, de qua sermo est , quam heri possit maxime, angeant
atque extollant. Jwy- 6vvovS xiy&vyeveiv est igitur summa atque
gravissima 6v , AkxtjOriv vitlg 'Ayilkia IJarQoxkto
tnaito- pericula a^Hire, Igitur cum Riickerto pro 7 tavta? 9 quod
Bek- kerus et Stallbauraius in ordine verborum posuerunt,
codicum meliorum auctoritatem secuti, vul- gatum nuvttS recepimus.
Nam TtavtaS xivdvvovS xixSv- yeveiv inutile additamentum con-
tinet, quo non augeri sed minui senties rei augendae potestatem,
TldvtES autem etiam eo nomir ne nobis probatur, quod omnes haud
dubie a Diotirha significantur laudis atque gloriae studio te- neri
cfr. p. 205. D. xd plv xe- tpakaioY idxi xtada 7 } xcjv dyaScox
l?tiSvpia xai tov tv- daifioveiv 6 /.liyidxds te xai xoivoS HpoyS
Ttavti. Adde p. 208. D. du IA*, olpat, vntp dpsxi/S aSaxcttov xai
xoiav - xij$ do&rjS evxAsovS 7t dxxeS itdvta itoiovdtx .
Nostrae ver- borum explicationi Schleierma - cheri conversio favet
: u n d d ie- serhalb sind alie bereit, die grdssten Gefaiiren
zu b este lien. In sequentibus xdxovS itovEiv ovSXixaSovv est
: labores suscipere quam velis gra- vissimos, ubi ovStivaSovx
non nisi de iis laboribus intclligen- dum est, qui snnt
gravissimi. Contra minus probem Plot. Apol, Socr. p. 22. A. &ec
&if vpix xtjv ipijy nXxxvijv ixiSel&ai Gjsrttp itdvovS
xixds noiovvroS, quo loco pro xixaS scribendum esse videtur
tixds. "AXxiidxiv vnip *. 'A6p ?/• tov x.x.X. Exhibentur
eadem, quibus Phaedrus usus est, exem- 4 8 avtiv,
TCQoaxo&avuv rov vfisreQov Kodgov vxlg rijs (i aci 1 Atiu$ rov
ncddav, (irj olofiivovg aSavcctov pvypTjv apertis «£ qI avtav
Etisadcu , yv vvv tjfius J'j£0{t£v; IIolAov yt dtt, Stprj , uAA’ ,
olycca, vittg ctQttfjg a&avazov y.al roi- twtt ] g So^rjs evxAsovs
navus itccwtt xoiovOiv, 0 Oa Sv E afitivovs tofo, xocSovrcp (idAAov * rov
yag d&avdrov pla ; ut respici indicetur etiam ad eas orationes
, quae ante Socra- tis atque Agathonis orationes habitae essent.
Sed quoniam Diotima loquens inducitur , quae orationes in Agathonis
convivio habitas non audivit , ut casu vi-, cieatur exemplis illis usa
esse, tertium adiungitur, Codri regis interfectio. Audi
Scholiastam, qui de Codro haec tradit t — oS nal V7t\p xijS
narpidoS attiSave t porca) roupde. voXepov roiS JcopievdiY qyxoS
itpoS 3 J5tj- yaiovS , ixpt}6ev 6 $eo$ totS JatpievfSiY aiprj6eiv
xds ’A5ij* vaSy ei Ko8pov rov fta6iXia / it} q>ovev6(M>6f
yvovS 8k xovxo 6 Jjfodpo? 6xeiXaS kctvxdv evreXei tixevy coS
ZvXidtTjv xal Spe- rtavoY XafioaVj izl rov xdpctxa rdov 7toXepicjY
icpoyei, 8vo Sk averi d7tctYxy6dvxcdv 7 toXepicoy tov pkv &va
7tardB,aS xarifta^ Xev, V7td 81 rov hxepov dyvotf - SeiS, otixiS 7
/y t * Xtjyc\S dvi- $avc , yaraXivcoY Xtjy dpxtfY Medovxt xri
vpetifivxipoa xgoy T taidcoY v. x. X . Hutus facinoris memoria
superbiise Athenienses videntur, ut si quis peregrinus ipsis
adulari vellet, rov v pe- te pov Kodpov diceret. Male vulgo rov
yphepov legitur, quae lectio prorsus aliena ab hoc loco est, ubi
Diotima , mulier peregrina, loquitur* vvlp apextjS aSctYcc-
tov . Haec verba cum non sa- tis apta reperiret Diotima ad mentem
suam exprimendam, alia addidit, quibus haec explicarentur. Kai igitur
explicativum est, cuius exempla laudata ha- bes in Judicibus. Verba
conver- tenda sunt: der unsterbli- chen Tugend balber d. h*
wegen des herrlichen Ruhms der Tugend. Nou licere igitur opinor
aperi} S no- men hoc loco virtutis laudem interpretari, quae
Riickerti sententia est, qui frustra anno- tat: Non magnum
discrimen esso inter dpexijS d^avaxov et 60 - Ep]S EpxXeovS , sed
aliquod ta- men , quodque maius etiam vi- deri potuisset Platoni
propter al- terius vocabuli sensum latio- rem* d$dv
axov pvypr\Y ape- TtjS. Haec verba, hexametri versus fragmentum a
ceteris ver- bis seiungenda curavimus» . Hv vvy rpieiS t x°P €v i
ta dictum est, ut aliquid supplendum sit, quod his verbis
opponatur; futuro tempore posteriores ha- bebunt» Paullo iufra
etiam verba eis rov iiteixa XP°vov a prosa oratione secludenda
curavimus, quod quo iure fecerimus, io pro- patulo est»
IquSiv. ot fiiv ovv lyxvfiovtg, stata Ouficaa ovtcg XQog tag
yvvalr.ag pallov tQinovzai xui tavtg tQomy.oi d<Si, Sia stuiSoyoviag
u%uvu6lav scca pvrj(iT]y suci tvdai[iovlav , wg oiovtca, avtoig iis
x oV bcetta xpovov xcivta xogi^ofiivoi' ol Se scuta tyv ^vfl\v — tloi yaQ
£09 ovv, '£<pri, di iv xaig il>v%aig scvovtiiv eu ftaAAov
scal ev 8 axfioviar , c is olovtai . Cornarius pro coS
oloviat scribendum esse censuit coS olov xe t quam coniecturara
Iliickcrtus, quamquam in textu coS olovxat posuit, probare vi-
detur. Nobis non dubium est, quin Plato co? olovxai scripse- rit,
quo adhibito Uiotima indi- catura fuit: eroticos, qui liberis
procreandis immortalitatem sibi comparare studeant et felicitatem
aeternam , falli posse saepenumero. Non iniuria. Nam moriuntur interdum
patribus super- stitibus liberi, interdum impie- tate parentes
laedunt, ut illi pro immortalitate exoptatissima magnum malum sibi
acquisivisse videantur. eidi ydp ovv, rdp ovv
particularum eadem paene signi- ficatio est atque ydp apa par-
ticulis , quae exempli caussa p. 205. B. reperiuntur: dq>eXovxtS
ydp apa xov ipcotds x i eldoS oYopd^of.iEY x 6 rot> oXav iirizi-
$ivxeS ovopct Spooxa. Non promiscue autem his particulis Graeci
scriptores usi sunt. Ubi demonstratum aliquid est exemplo , ydp dpa poni
solet ; ubi non nisi indicatum est, yap ovy particulis locns datur.
Nostro loco simpliciter commemorator in praecedentibus : esse,
quixaxa ipvxijv procreare cupiant, contra p. 205* B, poeseos
exemplum af- fertur, ad quod, quae deinceps dicuntur, diriguntur.
€eterum quae post eidi yap ovy leguntur, inceptam verborum structu-
ram nou mutaut, sed prorsus de- struunt. Nibil enim reperitur in
sequentibus, quod cum illis ver- bis consociari possit. Iucepta
sententia verbis absolvitur; x ou* xoav 6’ av oxaY xiS h.x.A., quae
verba cum illis nullo modo couiungi possunt. Sunt autem huiusmodi
figurae dicendi, gra- tae uegligeutiae indicia, praeci- pue in
familiari sermone haud infrequentes. o? lv iai$ ipvxaiS
xvov- 6 iv. KvovdiV valgo legitur; aliquot Bekkeri codices
xvavdiv Labent , quod ipsi Bekkero pro- batur et Dindorfio et
Riickerto. Illud Stallbaumius aliique in textu posuerunt. Buttmanni
indicium in Gramm. arapl. p. 177., quod ct Stallbaumius probandum
censuit, ( lioc est: Den Gebraucli festzu- setzen von hvcj und
xveco ist scliwer, da es in den hauligst vorkommeudcn Forinen nnr
eino Accentverschiedenheit ist, tvie xvei , xvil u. s. w, Bei
Flato indessen, wo der Accent sonst in allen Handsclmfteu schwankt
nud Tbeaet, p. 151. B. auch dic Schreibart xvoYta und Hvqvy- TJ Iv
Tols Gt0[ic(6iv, a Ipv%ij XQOgrjxa xai xvijGai xai xveiv. zl ovv XQogrjxu
; qQovrjdiv %e xai rf/v cekbjv u qeztjv' dv S>j eidi xai oi jcoiijzai
xavtes yewf/votpes xai zav StjfuovQycjv 0601 Xtyovzai bvqezixoI
tlvai. nolit de (leyiGzjj , eqirj, xai xaV.iGzt] trjs tpQovytieas
f\ %a, itt an folganden Stellen in allen Handschriften
Theaet. p. 210. A. xvovftev Symp. p. 206. E. xvovvxij p. 209. C.
ixvei , wodarch , wie mir scheiut , fiir diesea Schriftsteller dei:
Aus- scMag gegebeo wird. itpo Zyxet xai xvijdai
xai xveiv . Ficinas verba convertit : Hi sane concipiant ea, quae
animae et concepisse et concipere convenit. In Schleiermacheri
conversione legitur: was der Seele ziemt z u er-» zeugen and erzengen
za w o 1 1 e n , Schulthessius yerba reddidit: dena fiirwahr, es
giebt solche, die raelir mit dem Geiste ais dem Deibe zeugen
und erapfangen, Haud dignoscas ex bis verborum conversionibus,
quo iare boc loco et aoristi et praesentis temporis infinitivi ponantur
eiusdem verbi. Aoristus autem non nisi notionem exprimit actionis
in universum spectatae j praesens tempus actionem cum efficaciae
notione coniunctam describit. Sensus est verborum: quorum procreationem
animus et cupere debet et revera efficere. ti ovy itflQfjjxet; De
interrogationibus medio sermoni interpositis, quibus ad rem attentiores
auditores redderentur, supra diximus annotat, p. 60. xq\v' 51
peyiGtr] — xai yaWiixr) Xv s q>povrj- GegjS. Haec e
Graecismo quodam dicta sunt, ut adiectivo praemisso sequatur
substantivum nomen com illo proprie per nominativum casum
coniungendum, casu genitivo. Vis huius structurae haec est, ut
adiectivnm extollatur atque potestate augeatur, , Verba convertenda
sunt: Die grosste und schonste Erscheinnng der YVeis-
beit, diaxotfpifdeif. Vulgo 6ia- Xodfirjdi^, quod ab eo
profectum yidetur atque in textum illatam esse, qui insequens
pronomen relativum ad praecedens nomen pertinere censeret.
tovrcov 6 ’ av qxav rts Xx t. Magna est difficultas horum
verborum, quae vario mo- do a viris docti» sollicitata sunt.
Quaeritur %£iq£ cov verba atrum cum praecedente %l}v ipvxqv con-
iungi oporteat necne, deinde ipsum jllud SeioS miram quantam
displiceat. Quod se- quitur xai t eo melius carere- mus. Primus H,
Stephanus n)v Ipvxtfv $eio$ &v coniungendum Censuit. Contra
Stallbamniq* monet , tyxvficpY rrjy Tpvxrjv hic dici oppositionis
ergo, cum eorum i& superioribus mentio fa- cta sit, qui
corporis auxilio im- mortales fieri studeant, SeioS V>v rrjy
i/ivxijv nos etiam eo pomine improbamus, quod SeioS Jtfpl rag Tav
itoltav te xal olxy&Eav diaxoa/iyUsig, y Stj ovoua lott, CatfQodvvy
te xal dixatoOvvrj. tov- r cov 6’ ai orav ug Ix vtov lyxifiarv y TijV
ilwpjv, B ftuog <3v xal yxov6tjg rijg yfoxiag xixtuv te xal
yEvvav ySy Itcl&vueL famil Sn , oi[ica , xal ovrog uspudv to
tvv to dcopa ne cogitari quidem possit. Heusdius scribendum
cen- suit Tovtcov 8* ctv orctv r iG ix riov iyxvpcov y rr}v
ipvxyv, tr/v <pv6iv j&cZoS’ qjy x, r. A., quibus verbis
verborum difficul- tas non removetur. Kai ante 7/xovdr/S positum
Stallbaumio videtur non copulandi, sed inten- dendi potestatem
habere, neque ad participium tantummodo, sed ad totam enuntiationem
perti- nere. Sensum ait totius loci esse: Horum fgitur si
quis a puero praegnans est ad animum, quippe divinus, etiam
appropinquante ae- tate, quae 'pariendo et generando idonea
est, parere gestit atque ge- nerare. Alia via II. Stepha- nus
xai explicandum censuit scribens iitiSvpy* qua coniectu- ra
efficitur , ut apodosis non a tovtgjv 8 av terbis incipiat, sed ab
insequrnte enuntiatione; etyTEi 8i/ x. r. A* Probatur haec
explicandi ratio Astio et Rii- ckerto. Ficinus verba reddidit:
Quisquis ergo virtutum huiusmo- di natura plenus et gravidus est
ideoque divinus , aetate de- bita imminente parere iam ge-
nerareque affectat. In Schleierroacheri conversione legitur : fFer 7 iun
diese ais ein gottlicher schon von lugend an in seiner Seele trdgt
, der wird auch , wenn die Zeit heran kommt , Lust haben zu
befruchten und zu erzeugen. Nobis xai indicium est , ante
ijxovdr/S aliquid excidisse, quod quid sit, facilius indicatur,
quam qui factum sit, ut exciderit, cfr. p. 208. E. ol jtkv ovv
iyxvfioveS, icpr/ f xaid 6 capax a ovteS npoS taS yvy alxaS pdXXov
xpk- Ttovrai xal ravty ipcotixol tldiv , quibus verbis
edocearis, quid sit id, quod nostro loco .exciderit. Dicuntur enim,
qui ad corpus praeguantes sunt, ii- dem ad femineum sexum na-
tura ferri, atque corporis au- xilio immortalitatem sibi quae-
rere. Qui ad animum praegnan- tes sunt, num verisimile est, eos
aetate appropinquante tam nude dici et pariendi et geoeraudi cupidissimos
esse. Nonne dictum oportuit; eos etiam ad ani- mam ferri atque
animi auxilio immortalitatem sibi quaere- re? Scribendum igitur
conii- cio : tovtcoy 8 av oxav tiS ix vtov iyxvpcov y tt/y
‘ibvxrjv, g ov, xal xara rt/v tf)v - xf}Y yxovdi/S r jjs yXixLaS
tixrciv TE xal yEvvdv i/8 ?] ixi^v/tEl, Sensus est: horum,
inquam, si quis est a puero prae- gnans ad animum, is, quippe
divinus, etiam animo, si aetas advene- rit, pariendi atque
gene- randi c upidus est. Verba autem xara ipvxtfY nou
intelle- xerunt, qui xai copulandi pote- state positum censerent.
Hinc ea expunxerunt. 298 HA A TS1N02
xcdov iv tp uv ytvvtjautv’ Iv t<p yuQ aiGxQtp ovSi-^ XOTE
ylwijOH. tu TE ovv 6 wuuta tu xuXu (luV.OV Ij tu cd6xQu uexut,txai ats
xvav, xul luv Ivtvxy 4'vxij xuXy xul ytvvulu xul ivrpvH, nuvv Sy
uSTta&tui tb fcwtXUtpotlQOV , xul 3CQ0S tovtov tov aV&Q(07t0V
EV&V? tvxoQU Xbyav Mgl uQttfjs xal jciqI olov xQ’l ^ val
C tov uvSqu tov ayu&ov xul XuiSeveiv. amo/ievo g yug,
P,rftit St) — to xuAov, Iv m x. T. A. Primo obtutu sciiptum
exspectarem Spjrei 6// xaAuv ti, Iv oj av yevvijdeiev. Sed optimo
habet TO xa\bv % Sensus est: Quaerit igitur etiam hic (ut alius,
qui ad corpus praegnans est) multo cnm studio pulcrum illud,
quod aptum esset, in quo procreare at^ue generare possit,
it a v v 8 rj d 6 Tt d% et cti. Tum rero plane utrumque, et corpus
et animum pulcrum amplectitur. Ne- que enim 87 } in his est
scilicet, nempe, ut putabat Astius, sed positum est nt in formulis
iv$a 8 r), ivravSa 87 /, rore 8 rf, atque refertur ad praegressa
illa £dv hvtvjft ipvx y 7ta\y* 8 tali b . xal Ttepl
olov XPV vat tov av 8 pa. H. Stepha- nus vitii aliquid in his
verbis odoratus scribendum esse cen- suit xal nepl tov olov
XPV vat x. T. A. Bekkerns praepositionem nucis inclnsit, Astius
etiam xai vocula adeo odendit, ut eii- ciendam censeret.
Stallbauraius olov non masculinum, sed neu- trum genus esse
contendens ver- u BTUtqdsvHV, na i hti%UQ& oi[iat,, tov
mlov nal opi- /horum sensum hunc esse ait: quale sit, in quo
tractan- do versari debeat is, qui boni viri nomen et digni-
tatem ohtinere velit. Riickertus improbata hac explican- di ratione
Bekkeri exemplum secutns itepi praepositionem uncis inclasit. Nostro arbitratu
neque delendum aliquid est neque addendum. Articulum solent qui-
dem haud raro scriptores in hulusmodi enuntiatis addere, sed necessitas
additionis nostro loco nulla est* Proprie Diotima dictura erat: Ttepl
apeti/S xal olov xfiV tlvai x. r. A., quibus verbis nihil
inest, quo offendaris. Sed noluit ea hoc modo exhibere, ne parum
explicatam sit, utrum de uno an de duplici disputationis argumento
nunc agatur. Praepositionem igitur repetiit, liberiore dicendi genero
usa, quod in familiari sermone excnsabile censebis. In hoc nimirum dicendi
genere aliquyl tribuen- dum est pronuntiationi verbo- rum, quatenus
consentaneum est, Diotimam prolatis verbis Ttepl dpetijS xal Ttepl
linguam paul- lulum repressisse, post verba olov xprj elvai tov
av8pct x. r. A. ita pronuntiasse, ut auditor intelligeret, eflicere
ea unum ar- gumentato disputationis, et qaasi luiv ctvttp, a italai
Ixvei, r Ixtei xal yewa, xal itagcbv xal dxdv (isfivypivog, xal r 6
yswTjfrsv tivvtxTQttpzi xoi~ vrj fiet’ Ixeivovy Sgre tcoXv xowmrlav tfjg
rc5v Ttaidcov rtQog ccAkrjAovg ol xoiovxoi ifjxovtii xal
cpiHav fofiaLOTeQav, dts xakhovcov xal d^avatatigcov ncd- dov
XBxoLvavrjxotBg. xal ndg dv depacto iavtq) r oiov- tovg itaidag paXlov
yeyovevai rj tovg av&Qanlvovg , xal D $lg "0(itjQOV
ccTtofitiipag, xal 'Htiiodov xal xovg al- unam notionem ut praecedens
dperfjs. xal 7tapa>v xal aitcjY /i Epvij /x£roS .
Neminem fu- giet, alterum participium, napcov, superfluum esse.
Cave id prorsus otiosum censeas. Etenim au-? gendo orationis vigori
inservit. Satis notum est Latinorum nolens, volens; quo iure, qua
iniuria, simii. Paullo infra legitur, p. 215. C. T a ovY ixelvov
idv re dyaOroS av\ Ti)s avXy. iav te tpavXr) avArj- tpif , pova
xatkxE6%ai noiEi xal SijAol x. r. A. Huius dictionis vim nou assecutus
est Astios, qui xal expungendum censet, quod in duobus codicibus
ante to yEvvijSiv omittitur. Eidem ' Kiickertus adstipolatur.
Quid enim, inquit, sibi vult pul- cri invenis recordatio dum
praesens est? At procreati in eius pectore fetus, recte mentionem
faciat, cuius facile potest fieri ut obliviscatur, certe si
voluptati magis quam virtuti sit deditus. trfi T dSv naiScov
sc. xoi- vcoviaS. Frustra Bastius scribendum ceusuit tg&v naiSovS
- vgov vel 7 Cai 8 o 67 c 6 paov. Stall- bauraius xoivcoviav tqjy
rtaldoov esse censet coniunctionem ex liberorum procreatione
oriundam, Respici consentaneum est ad maris femiuacque coniunctionem ,
quam saepias Diotima tetigit in praecedentibus, v. c. p. 208. E. ol
plv ovv iyxvpovEf, £<prj, xard dcopara ovte* icpoS taS yvval -
xaS fiaAXov rphtovrai x. t. A., ut h. 1. consentaueura sit coniunctiouem
commemorari, quae procreandorum liberorum caussa inita post,
procreatis liberis, au- ctior atque firmior evadit. ola Ixy
ov a havtdjv xa~ r aA$iit ovdir. Olo ? et 060 S haud rjjiro pro on
T oiovtoS, oti T odovtoS poni, exemplis demon- stravit Mattii.
Gramm. ampl. $. 480. 3. P* 899. Pronomeu relativum o S in sermone
familiari eadem potestate adhiberi interdum, supra annotavimus p.
263. xal eis “Opijpov djco - /3 A hf)aS — ZijAujv.
Parti- cipia interdum exhiberi copula addita nulla, sapra
indicavimus annotat, p. 94. Ibidem, qua po-^ testate participia
ddvrSETcHit po- nantur, explicatum ieperios. Ea potestas quoniam
hoc loco non exprimitur, admodum nobis dis- plicet participiorum
ratio. Ne- que tamen Astii medelam ver- Xovg itoirpcag Tovg
aya&ov g fyXiUv , ola ixyova iav- tljv xataXiMvrSiv, a ixtivoiq
a&uvaxov xXiog xal fivijfujv 'Xttfjiyira.i ama roiamu orna' el 81
flovXsi, icpij , olovg Avxoiifyog n alSag xarsXixsTO Iv Akxe- Saifiovi.
OaxiiQag trjg AaxeSa!(iovog xal , ag Img. d- 7 tdv, Trjg 'ElkaSog. ti/«os
8s tcccq’ vyiiv xctl EoXcov E Sia rtjv Tuv vo(i(OV yivvrjOiv, xal aXkoi
aXXo%i xoX- f.axov uv&Qtg, xal iv "EXXrjOi. xal iv (iag^agoig ,
%oX- Xa. xal xaXa axorpyvauevoi iQya, yevvrjtSavrsg Xav- %qiav
aQitrjv' (Jjv xal uqci icoXXu rjSi] yiyovB Sia tovg Eorum probamus
, qui Sr/Xolr) pro S,r)X(Sv soribendum couiecit. Stallbaumius
verborum structu- jram ait esse: TtaS av SiUaiTO t avtd j xoiovtovS
itai8aS jj.cc A- Jtoy ytyoyivoLii r t rovs avSpa)- nivov*
Zrjk&Y xal r ' Ofirjpoy xal ' Hi>io8oy xal x ovS aAAo.v? 7totrj
- T uS xovS ayaSovS, eIs ixelvovS (tizofiXaipaS , ola Ixyoya
kav- Tgjy xata\Eiitov<$iY' Nemo ne- gabit, haec Yerba optime se
ha- bere } sed nura eo ordine, quo PlntQ ea exhibuit, eum
sensura habere possint, quem StalJ- buumius putat, alia
quaestio est, quam certe addubitare li- cet. Ruckertus commate
post 'JitilodoY posito prius membrum enuntiati esse censet xal
elS "Ojityjov d7tofi\h{>aS xal 'Hoto- 8ov , alterum xal
xovS dXXovS 1 taij]T<}s tqvS dyaSov? Z?jXd>v. Quamquam haec
explicandi ratio admodum nobis placet, tameu esse aliquid censemus,
quod me- rito vituperetur. Non recte enim dici arbitramur xal
eIs" O pijpov ct7tof3XixJxaS xal 'Htiiodoy pro xal Eis
"Ojirjpov ccTtoftMipaS xal .tls 'HtiioSov* Igitur post aito~
(3A.£lJ>a$ comma ponendum cura- vimu« , quo efficitur, ut cum
admiratione aliquis dicatur ad Homerum respicere, atque
Hesiodum ceteros- que poetas bonos cum in- vidia quadam
prosequi» ei 8 e fiovXei, Hcprj,o?- ovS Avxov pyoS .
Brevius hic locuta est Diotima quippe supplenda auditoribus
relinquens, quae facillime suppleri poterant: ei 8 ftovXei,
ZjjXtkiy Avxovp - yov, otovS nalSaS x. r. A. Ce- terum assimilatiouem
generis, dc qua supra dictum est annotat, p» 286., hoc loco
admissam arbi- tror. Primitus neutrum genus relativi Flato in mente
habuit, cui TcalSaS odiungeret appositio- nem. Post elegantiae
studio ge- nus relativi mutavit , idque ad sequentis nominis genus
direxit» — Pro xaxeXbzexo vulgo xate~ fehzEzo legitur. Recte illud
re- centiores editores e codicum au- ctoritate in verborum
ordinem receperunt. &y xal lepd TtoWd. cfr»
Wachsmuths Hellen. Altertbumsk» II. 2. p. 155. xavxa
p\v ovv — xdv 6 v pvTj $ elrjS h. e. quae hucnsqne dicta sunt
de roiovtovs nalSaq , Sia de rovs uv%Qani^ovg ovSe* vog na.
Cap. XXVIII. Tavra (ilv ovv ru iganxa ”<Saq , m
Xaxgarig, xav Ou fivtj&ihjs ' tu da relta xai Inontixa, av tve*
210 xct xai Tavra lonv , luv rig og&us fisruj, ovX oid \ tl olo
s t’ av tfys- iga fiiv ovv, £<pr ) , iyiS x al ngo* Qvfiiag ovdcv
unoldipa' nuga SI txiaftca , av o!o$ ta ys- dat yag, rov og&ag lovra
ini tovro Erote, cornm tu quoque mysta iactus es fortasse*
Iam iis, quae Diotima protulit, t d reXsa xai izontixd oppo-
nuntur, ut facillime intelligatur, quid sub verbo Tavra intelli-
gendum sit. Nimirum cum illa verba ipsa arcana significent, ad quae
spectanda, qui mystae esse cupiant, non admittuntur, nisi ante
quinquennali purifica- tione, quam xaSapCiv Graeci vocant s.
xaSappov , ad rem idonei facti sint , tavra ipsam illam xaSapdiv
denotare con- sentaueum est. Qninque autem fuerunt, ut Theo
Smyrnaeus nar- rat Mathem. p, 18. initiationis gradus, quorum
primus xaBap~ f.ioS vocatus est, secundus tJ rijS teXerr/S
napaSoCiS, tertius ino- nreia , quartus avaSetiif xai Crappareov
btiSsCiS, quintus ro' SaocpiXls xai Seotf Cw8iairoS evSaipovla.
Harum graduum verisimile est singulum quemque annum unum sibi
exegisse, ovx ol8* s el olo St* av eItjS. Hic quoque e
mysteriis similitudo petita est. Haud ra- ro enim, qui mystae fieri
cupe- rent atque arcana spectare, ^priusquam quinquennium
praeterla- psum esset , impatientes morae consilium mutabant atque
a pro- posito abhorrebant, cfr. Piat* Phaed. p, 69. C. eIcI ydp
6tfr <padv ol Ttepl rat r eXard? y vap- %rjxoq>6poi plv
izoXXol , pax- Xoi Se re rcavpou Ut autem melius intelligas , quo
iure do- ctrinam de Erote Diotima cum mysteriis comparet, pergit
So- crates 1. c. : ovroi 8 ’ elcl Xard t tjv i/iTjv 6u£av ovx dXXoi
ij ol 7tE<piXo6o(pyxoTES Op3(ZS. gjv 6jj xai Sycaye xara ya
ro dvvaruv ovSlv dniXinov iv rui pico , dXXa itavrl t porceo
npovSvpijSiiY yevtCSat. eL 6 e opSdiS TTpov^vpij^tfV xai rl
7fvv6a/i?fv , IxeICe IXSovteZ ro Caepi S aldupaSa, idv SiuS ISe- Xy
, oXiyov vdrapov, coS i pol donat. Comparat igitur Diotima rei
iosequentis difficultatem cum quiuqueunii illius molestia, atque, ut
mystae impatientes mo- rae , ita ne Socrates difficultate rei ab
audiendo deterreatur, vereri se indicat. TCEip GJ 8\ E7C SC$ ctl.
"&71E- CSat verbum saepissime adhibet Plato , ubi
auditores excitari si- guifieaturus est, ut attentius au- rb
xgayfia %q%e6&iu (ilv vsov ovra levui 1x1 x « xala CtoftarK, xal
XQatov y.iv, luv oq&ws fjy^rai 6 xjyov/isvog, ivog avxbv Cioftarog
igav xcel ivzuvda diant accuratiosquo , quae doceantur, percipiant.
Petitum autem hoc verbum est e mysteriis, ubi ducentibus ad arcana
spe- ctanda iis, qui itept t aS te\e- r aS erant, mystae sequi
iube- bautur. p\v v e ov oV“ ra. Hecte Ficiuns verba
red- didit: Oportet eum , qui ad hoc recto sit tramite
progressuras, statim ab adolescentia pulcra corpora contemplari, et
primum quidem, si modo recte ducatur, unum corpus amare. Ceterum
Sy- denhamius, quem Wollius laudat, optime annotat: Der Grund
hiervon ist der, weil das innere Auge sich zur E m- pfindung der
Schonheit eben so offnet, ais zur Erkenntniss der Natur. Unsere
Seele fangt im- m-er bei einem einzelnen sinnlichen Gegen
stande an, geht da nn zu einem andern fort, vergleicht beide,
und siehtiniedem das, was beidegemein ha- ben, So fiihrt sie
fort, sammelt und vergleicht mehrere andere Indivi- duen
dieser Gattung, bis sie in allen diesen Indi- viduen einerleildee,
eine und ebendieselbe Natur wahrniinmt, So gelangt sie
endlich zu einem vo11standigen Begriffe dieser sowohl de ii Arten ais
der Gattung selbst gemein schaf tlichen Natur, iener ewigen und un
veriinder- lichen Idee, die eine und ebendieselbe in allen
ist. Inseqnentibus singuli gradus per- censentur, quibus initiari
debeat is, qui ceteram pulcri ideam concepturus sit. Itaque
Diotima, Stallbaumius inquit annotat, ad b. 1. , primum ait
initiationis illius gradum esse, quo ad unum nos applicemus corpus
pulcritu- diiie insigne, ex eoque virtutem et bonorum sermonum
fructum procreare studeamus. Secundum esse hunc, ut non unum
aliquod corpus amemns, sed omnia, quae emineant pulcritudine ,
corpora amore complectamur. Tum pro- grediendum esse ad
consectandam animi pulcritudincm , prae qua corporis forma omnino
conte- mnenda sit atque id agendum, ut, quod iu moribus, legibus,
insti- tutis pulcrum sit, id animadver- tatur atque diligatur.
Denique perveniri ad sapientiae atque philosophiae studium et
amorem, quo qui incensi sint, eos demum ait intueri pulcritudinis
verae, constantis atque aeternae divi- nam formam atque
imagiuem. hv 6 S avtOV dcbpLCtTOS ipav. Bekkerus e quinque
co- dicibus edidit b>o$ avt&v yiaroS Ipav , quae scriptura ,
nt Stallbaumius atque Ruckertus iam monuerunt, nullo modo
ferri potest. Pronominis repetitio pri- mo obtutu molesti quid
habere videtur in verbis iittiTCt ou- roV x. T. A., re accuratius
per- pensa repetitam videbis, quo va- ycwav Xoyovg xcdovg'
Exuta 6tl avtov xotavoijaui, ori to v.aXXog zo ixl ougovv Gci/ian ra>
Ixl triga B 0Bfiau aStXqjov lari, xcd tl bu dicoxuv to Ix’
lidias graduum enumeratio emi- neret, alterque ab aitero signi-
ficantius discerneretur. Et quum in huiusmodi singularum rerum,
quarum altera ab altera accurate seiungcnda est, usitata prope sit
verbi finiti repetitio non dubita- vimus praeclaram Stallbaumii
con- jecturam , quae et a facilitate commendatur, in ordinem
verborum recipere, atque dei pro de exhibere: ineita dei avtov
Xatavoijdai. Verba autem quod attiuet: kvoS avtov CcdpazoS £pav,
quoniam praecedentibus adiuuguntur, nontanquam novi gra- dus significatio
iisdem opponun- tur, avtov pronomen nobis quo- que admodum displicet,
ut Bek- kero displicuit, ex cuius scriptura eruimus, quod unice
verum esse videtur: kvoS av toiv dcopazoov ipav. Av particula, ut
supra indicavimus annotat, p. 209. , e superioribus aliquid
supplendum esse docet, ut expletior oratio audiat: rtpajtov /Av dei
rov op- $qqS lovta ini tovto td npdy- pa ivoS zcdv (jojpdtcjv
ipdv. ori t d y d XX o S — ad e A- (p 6 v i6tt. AdeXqjov
rarius cum dativo casu coniunctura re- peritur, quam cum genitivo ;
in caussa hoc esse arbitror, quod rarius tropico, quem vocant,
quam proprio sensu exhibetur. Substitutum h, 1. est ddeXqjov nomen
in opioiov s. d/ioiotazov verbi locum ideoque eius casum ad-
scivit. / to in eldei xaXov. Wyt- teubachius ad Eunap, Yol,
II, p. 247* h. 1. dicit to in* eT8ei xa- A ov dialectice
dici pulcrum in specie, quae generi oppona- tur. Gai assentitur
Stallbaumius. Male, si quid video. Est enim pulcritudo, quae in
forma est atque sensibus perci- pitur» Hinc etiam ei dei dicSxeiv
dictum vnoSezixdiS. Ruckert. Schleiermacherus verba reddidit : und
es also, wenn er dem in der Idee schdnen nachgehen soli, grosser
Uuverstand wiire cet, Schulthessius ; uud weil doch das Schdne der
Gesummtgattung an- gestrebt werden miissecet. Recte Wyttenbachius
et Stallbaumius verba ceperunt. Ficinus habet : Et si sequi
decet, quod in spe- cie pulcrum, absurdum est cet, yai eI det
diGJXEiv X a AA o S . His verbis tertius gradus continetur, ut
quinque etiam eroticae initationis gradus nominentur. Vide annotat,
p, 3f)l* Sed haec verba tauquam alicuius gradus
significationem Flato non attulit, ne nimia, opi- nor, singulorum
membrorum si- militudine oratio laboraret. Pro- prie scribendum
erat; eneixa dei avtov Zv te xai tavtov ?}yei- 6$ at to ini niidi
toiS dot/tadi xaXXoS xai dicjxeiv avto ov in* eldei xaXov. Sed
quoniam hoc gerius dicendi praecedeut| - enuntiato simillimum est,
verens scriptor, ne nulla varietas esset orationis , condilionali
particula addita id genus dicendi exhibuit, qi/od in libris
comparet. Quae uutem sequuntur > tovto 6* £v~ 1 tiSst
xalov, x oXlf/ avo icc (irj ov% tv re xal r avrov cjyeiG&ai ro Icci
ctaGi roig GiojiaGt xalAog • rovro 8 ’ IvVoijGccvrcc xaraOtfjvai ctavtav
rav xaiwv Gafiarcov iQaOrrjv , hos 8 e ro GqjoSga rovro %a)JcGai
xaracpgo- vrjGavra xal G/uxgov tjytjGafiBvov ' ftsra da ravta ro Iv
raig pv%ais xaAlog ti/ucattgov rjyyGaG&ai rov iv tfii Gajiau, agre
xal, av btcuxrjg cov rqv us VOtjdavttt xara6ri]Vai rursuni ad
verborum praecedentium bt et- ra det avrov xarctvoij6ai ex- emplar
conformata sunt, quar- tum gradum eroticae initiationis
exprimentia, ut expletior oratio audiat : httira 6ei avrov
ivvorj-> Cavra xara6ri]Vai x. t. A. bvos db ro dtpodpa
rov- ro. 'EvoG sc. xaXov tiooparoG. Sensus est: nimium autem
illum unius corporis amo- rem, (quo de supra dictum est p. 210. A.
xal TZpcorov pbv — IvoG av r cov 6copdxcov ipctV et quem qaotidie
videre licet,) cum contemtu remittere oportet. Minus apte
Rucker- tus annotat ad b. 1.: quod au- tem rovro posuit , eo factum
f quia cum > Socrate loquitur Dio - tima f est enim eadem
ilpoove.iA t quam ubique Socrates usurpat Platonicus j ut ad amorem
pue- rorum propensiorem se esse si- mulet. Tantum enim abest,
ut propensiorem Socrates se ostendat Diotimae bis verbis laudatis
ad puerorum amorem , ut potius cur non sit, et esse nolit, eius rei
rationem indicatam habeas. Prorsus autem rei intelligeutiam Riickertus
pervertit, de puerorom fimore hic cogitans, *EvoG ro 15<po - Spa
rovro potius ad utrumque sexum pertinet, atque sive femina sit sive puer
qui ametur, unius amor (die ausschliessliche Liebe ei
nes Gegenstandes) vituperatur c Ii Sr e xal dv — xal 6 pi- xpd v
avSoG i XV’ Vulgo iav additor ante Cpixpov. Annotat Stallbaumius ad
h* 1* : Horum verborum constructio quam valde laboret, etiamsi non
observave- rint interpretes, tamen vel mediocri animi attentione
neminem potest latere. Quum enim doGre Xai referendam sit ad
igapxetv avrqj , apparet eorum verborum, quae interiecta sunt,
rationem iav bis illato mirifice perturba- ti. Neque tamen medicina
longe petenda est. Deleto enim altero iav omnia sarta tecta erunt. Nam
ita xal tipixpoV positum, ut Piat. Criton, c. V. extr. et n xal
6pixpov ypcoV ocpeXoS 7/v et sexcentis aliis locis. Idem de hoc
loco nnper visum esse Astio non sine animi laetitia video, Sententia
igitur haec est: si quis proba sit animi indole et vel
tantillum pulcritudine corporis floreat, Multo probabilior et
,verisimilior haec coniectura est, quam Sommeri commentum, qui cov
participium in y immutan- dum censuit. Pro iav , quod ante
irtietxjjG positum reperitur inultis in codicibus, vulgo txv
legitur, quod Bekkerus iu oidi— nem verborum recepit, quem
xnl [lav] 6juxQov av&og lyy , eiagy.nv avrco xal tgttv C xal xijdiaitca
xal xlxxuv koyovg r oiovrovg xcd t^ryriiv, omveg jtoiijaovOi fiO.rlovg
rovg veovg , Uva avayxaod fi av &taoua&ui ro iv rolg
ixirrjdevfiatii xal rolg vofioig xakoi' , xal zovto ISnv , ort jcav ai no
avu5 fcvyytvig tduv , tva to siegl ro Ouaa xa/.ov tiiuxguv n
%yrfii]- rai uvca ' (tstic 6« ta tTti,xr t Sivy.ara Isti rccg
ixiOrrjfias secuti sumus, nt esset, cnr acri- bae uon
intelligentes huius vim particulae ante tijuxpov idv
inseruerint. xal t Ixxeiv \6y ovS t oi - OvzovS x al ?,7/z etv.
Verba xal ZtjzeIv Astius ineptnm glos- sema habet, neque quiequam
post rixxsiv \6yovs xoiovtovS locum habere arbitratur, quam xat ix
- T pl<pEir, Quod verbum si com- pareret in libris, a nemine
non probaretur; sed habet etiam # 7- teiv , quo sese lectori
commen- det. Stalibaumius ctTjxsiv verbi patrocinium suscipiens,
Diotima, inquit, hoc dicit: talem amato- rem uon modo ipsum parere
quasi et ex se procreare , sed etiam aliunde quaerere et
investigare eiusmodi sermones , qui iuvenes reddant meliores.
Quibus ver- bis significatur maxima hominis contentio et stndium,
qni niteri omnibus rpodis prodesse cupiat. Recte.
oltiVES It Oli} dovtfl. Iland raro Graeci scriptores futuro
tem- pore utuntur, quo significent, aliquid haud dubie futurum
esse atque fere necessaria de caussa : welche die Iiingliuge besser
rna- clien m ii s s e n . tva dvayxa.6$i/ — ivct x 6 n
spl x. x. A. "iva particulae repetitio hoc loco sutis molesta est.
Huiosmodi repetitiones admittuntur quidem a scri- ptoribus, sed eo fiue,
qui a no- stro loco alienissimus est. Ni- mirum quando cum
gravitate singulae alicuius rei actionisve partes enumerandae sunt,
haud raio scriptores voculis npdoxov pkv — insita s. insita
64 utuntur. Hae partes, ubi per Runles particulas inferuntur,
haud raro etiam illae voculae omit- tuntur, atque particula finalis
re- petitur. Vide lud. s. v. Repetitio. Quam aliena haec dicendi
ratio a nostro loco sit, sponte intelli- gitur. Hinc Astio assentimur,
ivct posterius expungenti, quod quomodo ia ordinem verboium irrepserit,
facillime potest indicari* J*rnecedit enim idti, quod»' itpsA-
xioxixov dnte interpunctionem assumsit, cuius vocabuli syllaba
huulis iucuria scribarum dupli- cata ansam dedit corruptioni. Totum
Jocum Astius sic scribi iubet: iva avayxa6$EiS av SsacSaCSai
to iv tois Inixr}- Qsvpatii xal rois vopoiS xa- Xov xal xovt* i6slv
, oxt ndv avxo avxcp ZvyysvsS i6xi, ro mpl to 6 copa xaXov
6/Jtxpov . xi tjyjjorjxai slvau Neque probamus Stallbauraianum argumentum
, quo dicitur admissa con- jectura Astii totius sententiae ratio
perversa esse. Quippe ita, Stati - 20 t t
, uyayuv , f 'vct TSy av ixusrtjfuSv xaiUos , xal fifJxav D
XQos nohv fjdrj r. 6 xaKov , (irjxtri ro xuq evi , montq olxttrjs, uyaxwv
, xutduyiov jkUAos V uv&qwxov uv os banmius inquit , ea par*
enuntiati , quae continet rei longe gravissimae significationem ,
par- ticipio indicatur, altera , quae rem minoris momenti denotat
, per verbum finitum exprimitur. De hoc verborum structura vide
ludiccs 8 . v. Participium, pera 8i x a kn iXTf Ssv - para —
ay ay eiv, Hic ut taceam tot verbis interpositis denuo novam periodum ab
illo detV in principio posito suspensam, nonnihil offensionis habere
, illud vix excusare possum , quod sub- lectum etiam mutavit Plato
, atque ab eo, qui ducitur, transiliit ad eum , qui ducis et magistri personam
agit. Est enim plena sententia: Ssi Xov 7/yov- p£vov dyayeiv avxov
x. r. X. Hoc Riickerti iudicium est, quod esse suspicor qui
probaturi sint. Nobis neque 8« verbi omissio incommoda est, neque
vero sob- iecti mutatio excusatione indigere videtur. Suut enim
verba magis ad sententiam , quam ad grammaticam subtilitatem
conformata, Atque mirari non possumus, hoc loco pro eo, qui ini- tiandus
sit, eum commemorari, cui iuvenilium animorum initiation sit commissa,
cum idem etiam in praecedentibus commemoretur* cfr. p 210. A. 8ei
yap , £<prj, xov opSdfc lovxa btl rovro ro irpaypa apxtdSai piv
veov ovra levat irci ra xaXa 6(d- pata r xal npcorov piv ,
iav opScoS 7\yr}tai 6 r\yox>- pevof , kvoS av x. x. A.
prjxixt xo 7tap * ivido S- f tep oixirrfS dyandov. His verbis
inesse quod minus bene habeat, statim lectores inteliigent. Bastius
SovXevgov ineptum glos- sema habet , quod oixkxTjS verbi explicandi
caussa margini olitn adseriptum post in ordinem ver- borum
irrepserit. In aliquot co- dicibus pfo ptpte xt xo legitur pyjxit*
ha), uude Bekkerus at- que Schleiermacherus scribendum ceusuerunt
pTjxezi rw. Astius scribendum couiecit: prjxexi xo 7 tap* ivi, QoSnep
olxixifS, dya- rtGov xaXXof, y avSptanov xi- voS 7? ijtitTjdsvpaxo
$ IvoS, x, r. A. Vulgo verba hoc modo interpunguntur : 7£poS noXi)
ijSjj ro xaXuv, prptkxi xo nap - ivi, ddsnep oIxext}? ayandov
naiba- piovy xdXXoS, t} dv$pGD7tov x 1 YOS X. X. A. Stullbaumius ad
h. 1. Nihil, inquit, mutandum videtur praeter interpunctionem, quam
nbi emendaveris in hanc modum: xal (iXincov npds noXv 7/drj xo
xaXdv, pTjxizt xo nap’ ivi , doSitep oixixTjS , ay vendor
itaibapiov xaXXoS x . r. A., haud scio au omnia satis expedita fu-
tura sint. Nara ad ro nap* ivi , quod connectendum est cum
dyaitdov, rursum intelligas xa- Xov, Apto vero additur c Zsnep
oixknfiy quoniam, qui unius tantum admiratur polcritudinem, is ei tanquam
servus quasi emancipatus videtur. Porro nihil habent offensionis, quae
deinceps sequantur: naiSapiov XaXXoS — iittXTfSEvpaxo » ivoS, quae
nemo est, quin videat , apposita esse *o \
y imTTjdlvfiaros {vug, dovktvmv (pavXog y xal 0 /jixqq- koyog , cAA’
tal ro nokv nikayog xecQamiivog rov xa- koii xcd &taQdov xolkovg xcl
uaXovg ivyovg uai (it- praecedenti ro nap* kvl explica-
tionis gratia, ita ut pro to xa- X uv nunc dicatur nuiverse xaA-
AoS\ Denique nec participiorum cumnlatio quidquam habet, quod ab loquendi
consuetudine alienum sit. Nam fiXbroDV npoS noXv ro xaXov arcte
cohaeret eam pipiETi ro nap * kvl dya- nckiv f atque indicat modum
et rationem, qua fiat, ut amator non amplius unius tantnm admiretur
pulcritudiuem, 4ov\evgjv autem reiereudum est ad q>avXo$ y xal
6p . , ita ut idem sit , quod dia Tu BovXeveiv* Quocirca sententiam
verborum sic fere red- diderim: post studia illa ad scientiae
genera ad- ducendus est, ut sapien- tiae intueatur pulcritu-
dioem, atque eo, quod latissimum puteri campum spectat, non i a m
unius, sicuti servns, admiretur pnlcritudinem eaque servitute vilis
existat et pusillus, sed ad immen- sum pulcritudinis.mare
conversus etc. Iloec egregia verborum explicatio est, qua et codicum
lectionem servatam fet Platonis ingenio haud indignam gententiam
repertam habes. Unum tantummodo est , quod in hac verborum
explicatione minus nobis placeat, oixBTt}? nomen. Sa- tis apertam esse
reor, Platonem, si servilem conditionem eius describere voluerit, qui
unios hominis vel rei udmiratidne atque AMORE captos teneatur, 6 o
d- \oS non oixittjS nomen ad- hibiturum fuisse. Sic infra
p. 219. E. xctTatdefiovXayiEro? re DfCO TOV CtV$(XO7t0V G)S
OvStlf V7t ovSeyqS d\Xov icfpiya . k, T. X., cui innumeros
alios locos addere possemus, quibus probure- tur, ad servilem
conditionem de- scribendam Platonem nusquam o f- xkxyjS vocabulo
nsum esse. Scri- bendum est autem pro oixixtjS nomine 6 IxitrfSy
quae vocabula passim confusa esse Iacobsins monuit annotat, ad
Meleagri epigr. XXXII. v. 2. De Initr/S vocabulo amatorem unius
hominis describente, vide Excurs. &it\ to noXv
niXayoS tet pappivoS rov xaXov . Picinus verba convertit:
verum in profundum pulchritudinis se pelagus mergat. Stallbaumius
exhibet: sed ad immensum pulcritudinis mare conversas. Videtur nemo ioterpretum
verbis offensus esse to noXv niXayoS, qoae sane, praesertim cura
praecedat xal ftXbtcov xpuS noXv ydij to xaXov t nimis ponderose
prolata snnt. Satis erat dixisse ini to niXayoS rov xaXov vel ini
ro noXv r ov xaXov Utrumque verbum h* 1. adhibe- tur prorsus eodem modo,
quo aX - AofT cum nomine aliquo coniun- gitur. Ceterum apte
conferri iu- bet> Stallbaumius Plut. Quaest, Piat. p. 1001. E.
ro piyi- 6rov y ccdtoS iv Svpnodtco Si- datixoov , rttoS 6si toIs
ipoari- xoir xpydZaij perdyovra rrjv i>vyt)v ano tcov afoSyrcov
xa- Xdjv ini ra votjrd, napeyyvd pijrs CooparoS tivoff pyz’
im- 20 • ‘yaXoitQtxtig
rixrij xccl duevotjfuna tv rpiioGotplct atpfto- vto , eag av ivrav&a
QGXS&alg xal avfy&fls xattSij tiva bu&truirp (ilav Toiavrrjv,
fj loti xaXov toiovSt. E IlHQa 6s ftot, hffj , tov vovv XQogt%uv
tSg olov r t (laXitita. Cap. XXIX. "Og yuQ
av (lifflt ivruv&a XQog t « iQatixa xaiSaya- tijSev/icttoS
fitjr’ btttirijftriSxaX- Aft fiids v7totErdx$cn xal 8ov~ A eveiv,
aXX* dnoOtdvxa xij$ itepl xavta pixpoAoylaS ini xo noAv tov xaAov
itiAayoS xpi- 7te<$$ai. $e&)pG)v * — rixrxj xal
8 tay 01 } p at a x. t, A. ricina* exhibet ia conversione : abi
ipso iutaita multas praeclaras atque magnificas rationes
intelligen- tiasque in philosophia abunde pariat. Attius, dqiSovGQ
verbo oifeusas | acpSova scribendam eoniecit. Nobis
transpositione verborum opus esse videtur pro- pterea, quod
praecedens 3en>- pcjy participium sequente ac- cusativo, qui ad
id non per- tineat, satis inepto loco positam videtor. Supplendum
cen- sent ad $£(u)p(k)V interpretes av- zo , sed supplemento illo
ordo verborum ^eoopGjy noAAovS xal xaAovS A oyovS xal peyaAo-
npeneiS haud excusabilior reddi- tur. Scribendum igitur videtur
esse: aAA* btl td noAv neka- yoS ZExpappeyoS rov xaAov xal SEwpobv
zoAAovS xal xa- Aovs AdyovS xal 8iocvoi}pata xixxy iy
<piAo6ocpia dq>$ovaa. Seusus est: sed ut conrsr- s o s a d
'im m e n sam pulcritudiui.s copiam atque intuens pulcrorum
atque praeclarorum lermonnm immensam materiem (vide annotat, p.
333.) pariens sit in philosophia ditissima. De verborum
transitivorum absoluto usu , quo nostro loco xi~ XTQ dicitur pro tixxoDV
y , saepius iara diximus. Vide Indices. tiva initixrfprfv piav x
oiavtrjv h. c. scientiam eam, quae est ideae pulcritndinis, ad quam
cognoscendam Socratem Diotima adhortatur ut animo attento essa studeat.
Ceterum xazidy miuus apte Schleiermacherus reddidit: bis er
erblicke; xaxiSel-y est potius: mit dem Blicke erfassen,
agnoscendique notionem videndi notioni addit. Sic p. 172. A.
legitur roJv ovv yycopipooy r/J oxiCSe xatidcSy pe xdfipcj- &ty
ixoAede x. x. A. h. e. : einer meiner Bekanntcn, der mich von
hiuten sali and erkannte. Paullo infra p. 210. E npds riAuS ySff
icoy t&jy ipasTixcdy i^aitpyr/S xaxdip ex ai xi SctvjiaCxov x.
x. A. piypi iytav£a. Sic libri meliores omnes pro vulgato
//i- XptS, Quod enim Phrynichtu p. 6., Herodian. Philet. p.
451., alii grummatici veteres, pdxp* el axfn tanquam Atticam
probant, fttG>ntvo$ i<pt*fjs ts xal oq9& s ra xaXa , srpog
riAog fjdy iwv zuv igauxiJv t^alcpvyg xazvipizui n ftav- (iciGzov tijv
tpvGiv xaXov , tovto txiivo , a £ioxQccceg, ov 8rj tvcxEv xal o£
ZfixQoo&iv zcavzig novot zjaccv, ngarov (tiv ccei ov xal ovts
yiyvofisvov ovts utzoX!.v(1£- 211 vov, ovts av^avofisvov ovts
qp&ivov, ezcaza ov zy (ilv tcaAuv, zy 8’ alOxQov, ovds rora [ilv,
rora 6 ' ov’, ovds arpog (ilv ro xcdov, sgog da rd uIoxqov, ovd'
Ev&a filxpiS antem et axpiS improbant, id verissime dictum
esso testantur Platonis codices meliores omnes, qui tanto consensa
tuntaque constantia ea de ro consentiunt, ut vix sex septemvo apud
Platonem loci' reperiantur, obi altera forma communi fir- metur
librorum consensione. Nam quae Heindorfius ad Piat. Gorg. p. 137.
collegit, ea nunc omnia ex codicibus emendata suat. Stallb.
Secj/isv o$ i<pe£ijs re pcal opS-d)? h. e. die Grado des
Schdnen in seiner 1'olgp und Richtigkeit. De tl pronomine indefinito,
adiectivis nominibus vel praefixo vel postposito, Mat- thiaeus
disseruit Gramm. ampl. §.487. 4. p.911., ubi et no- ster locus
laudatus est. iCpoS tiXoS y$tf ioov. TIpoZ tiXoS ikvcti
dicebantur ii, qui superatis gradibus tandem ad spectanda arcana
admittebantur. Hinc factam esse videtor, ut ipsa illa arcana,
quorum caussa multi labores suscipiendi erant, TfiSv teXcov nomine
insignirentur. Rectissime Wachsmuthius Hellen. Alterthomsk. I, 1. p. $24.
an- notat: Die Grnndbedeutnng des vielsagenden VVortes tiXoS
ist niclit die des Endes , ais der eintretenden Nichtigkeit voo
et- vas Vorhandenera, des Eintritts einer Leere statt der
friiheren Fiille, sondern vielmehr, kraft der Ableitung von tiXXca
(zum Dasein kommen, hervorwachsen, reifen) der Bcgriff, dass
etwas •ich verwirkliche, eu dem Stande der Reife kumme, sein Ziel
erreiche, seinen Zweck crfuUe, rouro ixeivo sc, idrlr.
Diotima nunc de pulcri idea locutura, cuius caussa tota oratio suscepta est,
rouro pronomine demonstativo recte utitur. Exei- vo addit, ut
significet, eiusdem pulcri ideae iam prius mentio- nem factam esse.
Hinc rjdav explicatur, imperfectum tempus. Significat enim : cuius
caussa esse diximus labores omnes. Ut Graeci tovto Ixeivo, ita
Latini hoc illud adhibent hand raro, atque interdum satis cum
acri- monia; cfr. Terent. Andr. A. I. sc. 1. v. 97.
Quae sit, rogo. Sororem aiunt esse Chrysidis. Percussit
illico animum. Atat hoc illud est , Haec illae lacryinae,
haec il- last misericordia. it pdotov ael ov xat o
t’tfi x. X. X. Satis notum est, atque eti«uu vernaculi sermonis
(ilv xcdov, iv9a 8s alcSynov , <5g rtfil (ilv ov xcekcv,
ual Se alexQoV ovS’ av q>avxa09^<Stvai avxo [16 xalov] olov
TtQoganov tt ovfis jjfipfj ovfis alio ovStv ov (Swfia [itte%sL, o vd£ xtg
koyog oi)6a xtg btasximij, ovSi jtov ov ev iteQa nvl, olov Iv £w<a rj
Iv yjj rj Iv B ovgava > jj l'v xtp aXXtp , alia avxo avxo
fit& ttinov (iOVOuSeg a et ov, r a fia alia navra xala Ixei-
vov (texixovxa xqoxov uva xotovxov, olov ytyvofievav te xov allav wtl
dzollv(dvav p/Siv exetvo (ii/xe te probatur exemplis, duas res,
qua- rum altera alterius explicatio sit, copula adhibita haud raro
arcta couiungi. Huius usus exempla si quaeris, ludices adi 8. r.
xat explicativum. Sententiam quod attinet, cfr. Cic. Orat, c. 8*
Has rerum formas appellat ideas Plato, easque gigni negat, et ait
•emper esse, ac ratione et intelligeutia coutiueri, cetera nasci,
occidere, fluere, labi, nec diutius esse uno et eodem statu. ovdfc npoS
plv T 6 xa - \6v. Haec verba ut vulgo ex- *” bibentur, articulo
gravi iusignito, aliquid iucommodi habent} quis est enim , qui non
censeat, si ro nocXoy exhibitum est, ar- ticulum cum nomine
subsequente coniungendum esse? Idem cadit in verba to aidxpov, quae
paullo infra leguntur. Gravem igitur ia acutum immutavimus, quem
etiam exigit pausa, quae, si recte baeo verba recitaveris, post
ovSfe TtpoS plv ro comparebit. Ceterum TtpoS plr to , npoS TO
duplicem rationem indicant, qua res terre* strea spectari licet,
ideam pulcrl spectari non licet, ot>d* av <p
avta<$$7j de *• tat avxo [r o xaXov]. Bek- kcius, quem
Dindorfiu* et Riickertus secuti supt, e codicibus, ut videtur, avT(fi pro
avxo edi- dit, Hoc avTcJ, Stsllbaumius inquit, probare uoli.
Idtelligitur enim ipsa puteri species et for- ma. — Recte; sed
mious nobis placet To xaXov, quod, quam fa- cile potuerit ab eo ,
qui avro recte iutelligeret, in ordinem ver- borum inferri, statim
apparet. Avxo nutem prorsus eodem modo positum esse videtur, ut p.
210, E. TOVTO IXEIVO , OV 6f) £VEHEV xat ol tyjcpo6$Ev
TtavTES no - voi rfiiav. Uncis igitur inclusi- mus verba ro' xaXov
, a XX' avxo xu$* avxo peS* avtov. Apte Schleier-
macherus verba reddidit : sondern an und fur sich und in sicb liberali
dasselbe seiend. t a Sb aXXa narra 7cadx et y ptfdiv*
Dicuntur emuia, quae in terris pulcra vo- cantur, sensibusque
subiecta sunt, non ipsa ideam esse pulcri , sed cum ea cohaerere
tautum- modo, ut cum haec oriantur at- que intereant, illa neque
augea- tur, neque minuatur, neque ulli ' mutationi obuoxia sit.
Haec pi- zijf ideaS quomodo in- telligenda sit, a Stallbaumio
ex- plicatum habes annotat, ad h. i.; 4 nXiov (irjtt (Xctrrov
yiyveidai (it]d's natixuv (itjdtv. orav bt/ rts ano rmvSe dia r 6
oq&us naiScgaoniv Inaviav Insivo to xaXov aQ%i}un xaQoQciv , 0%eSbv
civ ti antoiro tov reXovg. tovto ' yrcQ Sr) ian ro bgftug c ini ra
iganxa livai $ vn aXXov uyso&a i, ciqxoiibvov ano ravds tav xaXwv
ixeivov tvixa tov xaXov clil inavdvai , togneg tnavafia&ftolg
XQwficvov , uno tvog ini 6vo, xal uno dviiv Ini narra ra xaXa
edficcra, xal ano tav xalav Oafidzav Ini ra ' xaXa InmjSsv-
Quae bona, pulcra , honesta sunt , ea putabat Plato bona , pulcra,
honesta facta esse eo , quod re- ferrentur ad ipsam bonitatis ,
pulcriludinis atque honestatis speciem, eiusque quasi partem
aliquam in se continerent. olor yiyvopevoov re tcov aXXoov x.
r. X. Dc olor sequente infinitivo vide Matth. Gramm. atnpl. $. 535.
Laudat Btallbaumius Piat. Apol. Socr c. 18. iyoo rvyxtxfc* tov
toiovtoS , oloS vTto tov Seov r y itbXei 8e8o6$ai. Adde Piat.
Protag. 1 >. 330. C. Msttv apa toiovtov t} SixaioOvvy olov
Sixaiov li- rat. Ibid. n. 330. D TCoTtpov tibvtovto avto ro itpdypd
(pa- te toiovtov tCKpvxlvat olov avodiov elvat y olov ouiov ;
ibid. p. 831. A. ovx apa icSzlv odtorrj $ olov Sixaiov elvat
rcpaypa , ad quem locum Stall- baumius rectissime, li. c inquit,
toiovtov Ttpdypa , olov dixatov elvat, — Pro ixtlVOf quae opti-
morum .codicum lectio est, vulgo exeivoo legitur , quod et Ficinus
tuetur: cetera vero omnia , quae pulcra sunt , illius
participatione pulcra , ea scilicet conditione , ut nascentibus et
intereuntibus alus nihil subtrahatur "illi aut addatur
y neque passionem ul- lam incurrat . Beue dativus ha- beret ixeivoo
y ai verba abessent py8h nadxetv pySiv , quibus additis pleonasmus
oriretur hoc loco non ferendus. Igitur Ixeivo Unice probandum
ducimus. ozav 8y ziS asto zdovSe Vulgo legitur ozav 61 St} nf
, quod Biickertus retinuit, quia defendi posse videatur» Illud
Bodleiani Codicis lectio, Vatie, unios, Vin- dobonens. unius, quam
Bekkerus, Stallbaumius , alii intextum receperunt. Rem hic tangit Diotima,
quae iam in superioribus commemorata est, cfr. p 210. E., ut nullo
modo ferri possit Se particula. *dteo tcdvSe autem ad praecedentia
respicit yiyvopk - voov ze tcov aXXcov xal ctnoX Xvpsvosv , resque
describit, qua- rum natura mortalis cum im- mortali idea pulcri
aliquam com- munionem habet. tovto yap 8 y itinv. His
et sequeutibus verbi* ratio agendi summa lim repetitur, qua uti
«debeat, qui verus AMATOR esse velit. Eam agendi rationem cum scala
comparat Diotima, qna ab imis ad suprema ascenditur. Hinc enaviivat
verbum positum et draPaH poiS nomen. Iu Flo- (itera, scal ano x av
xaXiov Inixtjdev/idxatv in l ta scala (ia&y(iccta , igr’ av ano xav
(ta9t](idxav ts t ixtivo x 6 (idditfia xtievxytfy , o laziv ovx
dlXov y avxov ixelvov xov scaloti (id&tyia , scal yvoi auro xeXevxmv
o D Voti, scalas/, tvtav&a xov (iiov, a qitte Zcoxgarfg, itptj
rj Muvuvixr) | ivij , el' n I q jcov aXXoth , 0mo xov ctv- &Q<ancp
, 9eco(itv(p auro xo • scaldv. a tdv stors ’ftys, rentinis
aliisque libris non pau- cis avafiad/iOiS reperitur, quam
scripturam etiam Phrynichi iu- dicio probatam habes , qui p. 824.
fiaSfxoS , inquit, ' IotKov 8ict *ov 5, 8td xov 6 *Axtixov. Sed ut
vulgatum retinuerimus , Lobeckii annotatione factum ad !• c. Prorsus
igitur asseutimur S tali— baumio et Biickerto, qui ava - fiaS/xoiS
in textu posuerunt. Ce- terum ne parum accurate et ini- tium, a quo
exordium facere, et finem, ad quem teudere debeat verua amator,
descriptum atque explicatum indices : numeri di- versitate verborum
aico xoav6e tg ov xaXcov ixtivov i vena xov XaXov efficitur , ut de
Diotiroae voluntate vix dubitare possis. Quae enim in terris pulcra
habentur, quoniam multa sunt, plu- rali numero, contra, quoniam una
est eademque semper, idea pulcri singulari numero descripta est.
$$t’ av — rtXsvTt/dp» Primus Stallbaumius monuit, no- strum
locum si exceperis, nullam esse Platonis, iu qno &V* av reperiatar Hinc
sane oritor aliqua voStiaS suspicio, quae codicum nonnullorum
auctoritate augeri videtur. Etenim Rodlciatitts, Florentini, aliique
libri m»u pauci pro £ft av habent xai, quam voculam u« propter
sequentia minus aptam iudices, pro teXevxiJujf in aliquot codicibus
TtXtvxiftSei legitur. Hinc Stall- baumius scribendum esse suspi-
catur, xal ano xc5v fiiaSijud- xoov in * ixetro xo jiaSrjua xt-
Xtvxrjdtt. Sed cum hac scriptu- ra prorsus nou convenire viden-
tur, quae sequuntur: xal yvoS avxo xtAtvxdUv o l6xi xaXov , quae si
velis in xal yvoSdtxat avxo x, o l6xi xaXov immuta- re,, monendus
es, ne iu uno quidem codice aliquam yvo o scri- ptnrae varietatem
reperiri. Verba convertit Stallbaumius: atquo ad extremum cognoscat
ipsam pul critudinis id e - av, quod praecedente xal — xtXtvrijdei
qui probare potuerit, non video. Licet igitur ist* av praeter
nostrum locum nusquam apud Platonem reperiatur, tamen iu textum
recipiendum est. KaL autim, qaod pro iSx* av in ali- quot codicibus
comparet , ab iis profectum esse putandum est y qui ist* av alias
apud Platonem non reperiri intellexissent. Ut nostro loco £sx* av,
ita p. 191. E. T ioof relative usurpatum ha- bet, quo offendat;
neutrum ex- ceptis Jouis illis 'apud Platonem reperitur, utrumque
autem ser- vandum est. quo magis a Plato- nica dictione alienum
< st , co studiosius. Ceterum xtXevtuv ov xtrccc %qv6iov te xal ia&rjrct
xal tovg xakovg xal- 6dg te xal veavicSxovg 56 |ei eoi tlvai , ovg vvv
vgav ixxixfojgca , xal eroiuog el xal 6v xal aU oi xoUol, ogcovteg
ta xacdud xal twovreg ael avtoig, tf ncag oiov t’ r/V, (itjte ia&ieiv
[irjte xlveiv, aU.a fHdo&at fiuvov xal jiweivac. xl drjra , Irprj , '
olo(it9a , el tat ytvoLto avto xo xakov ISe Iv elhxQiveg , xa&agov,
E < '.ni tt enatam est tx Epxc<S3ai tcXtvruvia ini Tt,
quod contra- ctionis genus apud Graecos scriptores
irequeiitissimum, SeGopivaj avto xo xa- Xov. Recte haec verba
a prae- cedentibus addita interpunctione seiunguntur, continent
enim ac- curatiorem ivravSa x ov /5iov verborum explicationem.
Sensus est : Si usquam alias vita vitalis. eat homini, tum
est, quum ipsum illud pol* erum in tuetur. ov naxa XP vtiiov
h. e. non ad aurum, vestimen- tum, al. comparandum illud iudicabis.
Nam nata praepositio ia talibus similitudinem indicat. Vide Piat.
Apol. Socr, init. opoXoyohjv av ty <*• ye ov nata xovxovS elvai
(bj- ta>p. Stallb. Diximus supra de hoc nata praepositionis
si- gnificatu annotat, p. 4l. Ceterum memorabilis locus est propter
verba TtaiSaS xe nai veavidxovf. TIaidcov enim no- men Attico usu
loquendi suffi- ciebat ad pueros iuvenesque significandos. Nemo autem
mira- bitur , veaviCnovS etiam commemorari, qui reputaverit , Diotimam,
feminam peregrinam, hic loqui. Eadem quaeri potest cur x di
yvvalnai taS naXaS non commemoraverit. Ot)f VVV O p GJ V
ix7t£- Verba eflectum animi judicantia aoristo tempore ple-
rumque ponuntur, de quo usu vide annotationem p. 221. Alia tempora
admittuntur tum , quum non de re vere facta sermo est, sed animi
commotio inmma ita tautummodo commemoratur, ut fieri posse vel
solere indicetur. Hoc in nostrum locum cadit, ubi praecedente oparv participio
conditio expressa est: quos ut nunc res* se habet, si vides, animo
percelleris atque paratus es et to et alii multi, amasios
sem- per videre semperque cum iis esse, si unquam id fieri
possit, neque edentes ne- que bibentes cet. Vides igitur, participia
infinitivorum loco, infinitivos participiorum loco po- sitos esse,
cuius dicendi usus. ex- empla indicata reperies in Indi- cibus s.
v. Participium. a\\a $ ea 6 Sai fiovo t nai B>w eiv ai.
Haec verba grammaticam verborum juncturam ai spectas, e praecedente
na\%tot- • po$ el nai dv nai aXXoi sroA- A oi apta sunt; quibuscum,
si ad sententiam respicis, minus ea cotiveoire senties. Non
enim amatores parati promtique sunt tolo amasiorum adspectu
atque eorum societate delectari , Sed ¥
314 I1AAT&N02 afuxrov , «/Urc (irj tivanlmv
«JorpxiSi» re avftQaittvtav xal % Qcofidrcov xcd aXk.rjg Ttoklijg
tpXvaQlas rjg, ukk’ avto ro &ciov xukov dvvairo (xovoudis
xazideiv; aatis est ipsis amasiorum so- cietas et adspectas.
Igitur libe- riorem verborum stracturam Plato hic admisit, quam et alias
ia familiari sermone haud raro re- perias. Eius originem
putare possis participiorum usum opaov- teS xal HwoyxeS, de quo
mo- do diximus. Nam cum dictum esset xal ixoipoS el xal 6v
xal aAAoi 7 C 0 XX 0 I — opdSvxtS — xal B,vv6vxe5 — M 7 h £
i-GSieiv pi/XE itivEtv f illaque participia pro opdv ct Zvveivai
posita es- sent, facillime scriptor infinitivis uti potuit SeadSai
et B,wiivai in dictione, quae praecedentibus infinitivis itiSUiv et
itivEiv op- ponitur. Ceterum de illorum verborum absoluto usu vide
Iu- dices. d\\a py dv ttitXzwY . Astius aWa abesse
cupit. Con- tentus esset, opinor, ai xal ptj scriptum esset. At
Graeci , ubi nos dicimus and uiclit, ita ut praedicatum praedicato
opponatur, pariter xal ovh et aAA* ovh usurpant. Riickert. cfr.
Piat. Protag. p. 841. D. 7 roAAod ye 6 eI, £<py, ovxcoS $x Blv '
& IJpo- Sixe. aXX iyoa ev 016 dxi xal 2 ipovi 8 ijS xo *«A«roV
E\e- yev onep ypiit ol dWot , ov to xaxov, aXX o dv py
jbdSiov y, d\\d 8ia zoAXcov icpaypa -• Tvv yiyvyxai.
xal dWyS noWijs q>\v- cr p laS 3 v tj x i} S’. I 11 Piat.
Phaedone, quem Stallbaumius lau- dat annotat, ad h. 1. p. 66.
C. legitur: ipojxoov xal £ict2v- picov xal epoftcor xal
eA8ooXgov itavxoSaizMV xal q>AvapiaS ip- ninXyCtv rjp&S
jroAAt/f, ubi O- lympiodorns : cpXvaplaSxa- A el 6 TJAdxcov nav to
it£pixxdv t ov povov xo iv \6yois , aA Ad xal xo iv IpyoiS.
Convertit Schleiermacherus (pAvapiaS no- men: nnd andern
sterblichen FJit- terkrames. Aliter nobis de huius vocabuli
significatione statuen- dum videtur. Schol. ad Apoll. Rhod. 1. 275.
habet: cpAv ?,E iv xvplcDS xovS Aifirjxds cpaptv xaiopivovS
avafidAAsiv xo v- dop. Duplici igitur significatu tpAvapla , quod
cuui illo verbo cohaeret, videtur a scriptoribus adhibitum esse, ut
aut rem si- gnificet, quam aliquis, qui com- motiore animo est vel
vesanus pvofert , aut nugas denotet res- que expertes veritatis,
quae stre- pitu vel splendore quodam in- signitae sint. Priore
significatu ipsum (pAv&iv usurpatum habes iu Meleagri epigr.
119. 5. iroAAd 5 ’ 0 TtixpoS aloxpd xaS 9 ypExipyS
i<pAvde nap^EviyS 'ApxtXoxoZ. Adde Piat. Apol.
Socr. p. 19. C. xavxa ydp tapdxe xal avxol iv t?J *Api6xo(pavovS
xcopcpdto ; 9 2 cjxpdxy xivd ixtl itEpzpepo- pevov (pcxdxovxd te
dipafia- xeiv xal dAAyv 7to\ Ayv q>Ava- piav q>\vapovvxa ,
quo loco non nugae commemorantur , sed vesaui hominis deliramenta.
Al- tem significatu positum habes £q’ oTst, tcprj, tpavXov ptov
ylyvt6&itl Ixtids (Ittxov- 212 x o$ avdQtoxov xal ixuvo Srj
fteafievov xal £vvov- xog avta ; ij/ ovx Iv&vfisi , icprj , ou
ivxav&a aura Piat, de rep. IX. p. 581. D. h
ctTtvoY xal (pXvapiav. d AA* auro xo Setov xa- A d v 6v v air
o pov o eidis H. X. A. Abesse posseut sine a! Ia sententiae
mutatione verba fitVairo et xariSetv, quia prae- cedit cf rw
yivotxo ISeiv, Posita autem sunt haud dubie, atque si ita dicere
licet, e prae- cedentibus repetita, quod prae- cedentia a nostris
verbis interposita aliqua enuntiatione nimis remota sunt. Sed mireris, si
par- ticulam non item repetitam esse, cuius abseutiam nemo
interpres aliqua excusatione indigere ceu- suit. El Platonem revera
omi- sisse certissimum est. Iluiusmo- di autem omissiones in
sermone familiari haud infrequentes sunt, ubi et pronuntiatione
verborum et habitu loquentis excusantur. Ceterum Sydenhamius
annotat ad h. 1. laudatus a Wolfio : So lange der Mensch in dieser
Welt lebt, und noch die Fesselu des Korpers an sich tragt , ist
er selbst nach Platons Ideen uicht fahig, sich zu einem so
erha- benen Anblick in die Geisterwelt erapor zu
schwiugen. xal ix e tvo 8 f} $ e GD/iev ov. Vulgo legitur xal ixeivo
u 6ei $£QOpkvQV i quae lectio, quam- quam non prorsus inepta est
— possis eoim de necessitate dictam interpretari, qua, qui via a
Diotima monstrata incedat, divi- num pulcrum non possit non videre,
— tamen admodum languet frigetqae. In codice Bodle- t
ia no pro o Sei reperitur oj Sei; hinc Astius, quem
Stallbaumius secutus est, oj 6ei scribendum coniecit. Speciosissima
fit haeo coniectura verbis intra positis opaUvti gj opaxov: sed ut
gj dei scribatur, qnoniam opajvxi oj opaxov paullo infra legitur,
necessitas nulla est. Vulgatum autem o , quam facile oriri potuerit
syllaba finali ixeivo vocabuli forte, ut fit, duplicata, facile
iutelligitor. Id in cj im- mutavit, qui iutelligeret , o ad- modum
frigere ; correxit fortasse etiam, quod in sequentibus le- git
opdovxi oj opaxov . Iam pro Sei in tribus codicibus , Paris.,
Vatie. , Palat. Vat. , legitur fit/, quae formae sexcenties commutatae
reperiuntur. Hinc Schleier- macherus scribendum coniecit xal ixuvo
Srj $£GJ/i£vov, verbaquo convertit: Me in st duwohl, dass das ein
schlechtes Lcben sei, wenn einer dorthin sieht und ienes
erblickt und damit um- geht? Haec coniefctura Bek- kero adeo
placuit, ut in ordi- nem verborum reciperet. Id et nos fecimus eius
exemplum secuti. In Ficini conversione legitur: Jtfum vitant
huiusmodi parui fa- cis ? hominis videlicet ipsius t qui illuc
suspicit , qui tam prae- clarum spectaculum contuetur , qui illi
cohaeret . Ex quibus verbis colligi, potest , Picinum quoque 6rj t
non Sei, legisse. ( f iova%ov ytvtjOtTiu , Sqcjvti a
6q<xtov to xuXov, zlxzuv ovx tiSala agetijs , ars ovx tiSm^ov
hpaxzofiivco, akV dky&rj , & re zov dfoftovs iqiamoftiva ,
zexovzi £s dgcTtjV ahftij xai Qg^a^iiva vitaQ%ii %£ 0 <pi?.ti
ye- vto9tu xai , eixeg toj di.ho av&Qunav, d&avazn xai
Ixelva ; B Tavzu Srj, <J Oax&gi zs xai ol dXloi, Hcprj
(tiv Aiozifia , 3 linueuat, d’ iyu' Tttnuaatvog di iteiga- fica xai
rovs aXJ.ov s ittiftEiv, ozi -zovzov zov xzqfiazos are ovx
eiSeSXov Itpa- srtopev co x. r. A. Prorsus eo- dem modo Pausanias
p. 183- E. xai ydp ov6h povipoS i6tiv y axe ovdh porlpov ipcov
npdy- fiatoS. — 6 rov t/SovS Xprj6Tov dvroS ipatiti}*
dia fiiov pivei, are povipoa 6vv ta- xeis. Ceteram colligere licet
e nostri loci verbis, quomodo Dio- tima vel Socrates Orphei
my- tilum sibi explicaverit, cui ex Orco redeunti <pa6pa
ostende- rant dii. cfr. p, 179. D. aAA’ d\rj$ij t Saepias
iam monuimus in superioribus, repe- tendum esse haud raro e
praece- dentibus verbis , in quibas com- positum verbum
contineatur, non compositam , sed simplex. Vide annotat, p. 89. et
p. 290» Eadem dicendi norm^ etiam in no- minibus interdum admittitur
ea lege , ut ex praegresso nomine, quod rei notionem cam
epitheti alicuius notione coninnctam re- praesentet , sola notio
rei repe- tatur. Cave igitur eldoaXa et ttXrfSi} sibi opponi
censeas hoc loco, ut somniis falsisque imaginationibus, quae uno verbo
cldoo- Xcov comprehenduntur, verae sc» imaginationes opponantur.
Hinc explicabis pluralem numerum aXrj^ij verbi , quem Plato
nou fuisset admissurus , si illam di- cendi normam adhibere
coluisset. Sed alia etiam explicaudi ratio adest, qua ccA. 77 .Sj 7
singula- ris numeri accusativum interpre- tari possis atque e
praegressi» apettjv supplere; futuros esse iam praevideo, qui illam
expli- candi rationem inclumaturi , ne- que oisi faciliorem hanc
proba- turi sint. Utraque explicandi ratio nostro arbitratu vera
est; utra verior sit, dijudicari nequit. Res ex accentu orationis
judicanda est, quo singula verba Diotima exornavit. Si pronuntiando
£i'8cj\a extollitur, prior explicandi ratio verior est hand dubie;
con- tra posterior rectior erit, si accentum orationis ita posueris,
ut et eid&Xa et apetrjS prae cete- ris verbis emineant. —
Quam- quam sequitur infra apetrjv aXrj- $ 1 7 , tamen inconsultius
cave indi- ces atque praepostera cara alte- rum genas explicationis
alteri praeferas. tiitep rc 0 dXXoj arSpo')- 7(0) v. Ex
huinsmodi locis satia docemur , Graecos accuratissimos fuisse
verborum pronuntiandorum, -
t' rf/ uvftganda <pv<su ewcgybv cciidva "Egenos ovx
av rCg gaSUag lafioi. Sib Si/ ?yays (prjfii ygijvai narra avSga rov
"Eguxa npav , xal avrog rigui ra tgatixcc xal Siaftgovtag aOxto ,
xal roig «AAotg xagaxilivo- fiaiy xal rvv rs xal a*l iyxcofiulta tijv
Svvag.iv xal dvSgdav rov *Egenog xafr’ odor olog t’ tlfil.
Tovrov ovv rov Xoyov , «J 0cuSgt, tl (ilv jiovXu, 0 ibg lyxcofuov
tlg Egena vofiioov tlgrjo&ai , d 61, 3 rt xal oxi j x a ‘Q £L G
bvofiatav , rovro ovofiafe. quandoquidem toj a A Aoo et roo ctAAcp
pronuntiando discreta esse certissimum est, Pro aVS-ptJ- Ttoov,
quae omnium fere librorum lectio est, vulgo dvSptdiu * > ede-
batur. Falso. Nara sententiae gravitati gravior verbi fornia
convenit magis. Ceterum haud raro huiusmodi enuntiationes, qualis
est Einsp rea aAAea dv- Sfjcjxcov , Graeci scriptores ad- hibere
solebant, quibus senten- tiarum prolatarum vim augerent atque
quodammodo amplificarent. Sic supra reperitar p. 211. D.
ivrotvSct rov /UoVf ElTttp itov aAXoSi, fiioarov
avSpcanea x. r. A. lq>r) jt\v — n in ei6 jiai 6 * i
y eu' h. c. utilia dixit. Ita ego credo. Quae se- quuntur
ite7iei<5p&.voS 6 l neipco - jxai xal tovS dAAovS nei^Eiv
cum Aristophanis verbis couve- niunt p. 189. D. iyo» ovv 7tEi~
pdoojiai vjj.lv ElSr/y/fGa<S$ai n}v .Svvajuv avrov , vjleIs 61
rdiv aAAaor 6i6a6xaA.oi ioEtiSe. ry av$ p con eiot q>v6ei.
Saepius iam annotatum est in superioribus, <pv6iS cum adiecti-
vo aliquo couiunctum nominis periphrasin efficere, quod eius-
dem est atque adjectivum radi- cis, Ty dv^peansia tpv6n igitur
idem fere sigmificat atque xoiS avSpeoitoiS. Ceterum cuna gravitate
dictum existima ty avSpaamlx q>v6si , ut huma- nue naturae
debilitas, noa solum humana natura, periphrasi illa significantius
indicari significetur. ei ‘61, o rt xal oity £a/- petS.
Consuetius dicendi genus praecedente sl jiiv est eI 61 jirj, Quod
cave hoc loco ponendum censeas ; neque perinde est, utrum eI 6e an
eI jtrj legatur. Ex- hibetur autem ei 6i h. 1. ita, ut utrum
Phaedrus facturus sit, hoo Socrates sibi placiturum esse promittat, quasi
diceret: sive pro laudatione Erotica orationem meam acceperis, sive
non acceperis, perinde est. Si accipis, laudationem eam nomina , si
noa accipis, quo libuerit nomine appella. Ceterum conferenda cum nostro
loco verba sunt Piat* Protag. p. 358. A. site yap yjSO elre
rspTtvuv AiyeiS sire %ap- tov, e ite oitoSsv xal oxgoS X°d~ psiS ra
rotavta ovopa^oav — rovro jiot jcpoS d (1 ovAojioa dxoxptrixu
t . - Cap. XXX. Elxiytog 5h zavta xov Ecaxgatovg rovg fisv
txac- vtlv , zov dh 'AQuJxocpavTj J.iyuv ri hu%uguv , on
rovS fi\v drttitretr. Haeo et sequentia rursus obliqua ora- tione
proferantur , quod ab Ari- stodemo relata finguntur. Sup- plendum
est igitur etpij 'Apidxd- 677 / 10 ?. t ov 61 *Api6xo<pdvrj
x. r. A. Cum Socrates Aristopha- nicum mythum tetigisset vel
«o- tasset potius verbis p. 205 E. ,xa\ Xiyercct pev ye rtf,
£<pij, XoyoS, cJ? ot dv x 6 fjjttdv tctv- zpjv Zrfxu>6tv ,
ovxot iftoodiv x. T. A., nihil certius est, quam Aristopliauem
aliquid contra mo- nere voluisse , quo vel suam de Erote sententiam
tueretur , vel Socraticae orationis veritatem impugnaret. Quo .
consilio quid proferre* -potuerit aut voluerit, prorsas nescimus ;
neque ipse scriptor habuisse videtur, quo loquentem Aristopliauem
indu- ceret, Cur igitur illam Aristo- phanis voluntatem commemora-
vit? In huiusmodi locis Platonis artem scenicam admirari licet, qua hic
efficitur, ut tpvrjS verbi notio non solum verbo posito indicetur,
sed re ipsa vividissime exprimatur. Vi- des enim, Aristophanem iam
indicasse externis quibusdam si- gnis,, se aliquid contra Socratem
,djctqrum esse ; ium paratos convivarum animos j^abes ad eius rverba
percipienda: cum subito .pulsatae fores sonitum ederent,
tibicinae clangor audiretur, tu- jnultus strepitusque quasi comis-
saturum oriretur. trjv avXeiov Svpav. j
Harpocr. s. v. avXeioS — 7 dito xijS 060 v npuixrj Svpa xijS
oixtaS , ad qnem locum Valesii annot. laudat Bremius ad Lysiam p.
9.; avXeioS $vpa sunt fores vestibuli, quae aulam clauduut versus viam; aulam
autem si quis permea rat , veuiebat ad pixavXov Svpav , per quam
ex aula introitus erat in ipsam domum. Qu; igitur domo exibat, ei
primum erat per /xixavXov Svpav transeundum, tum per aulam et per
avXeiov Svpav la viam. Svpav xpox ov pivtj , Haec
vulgata lectio «st, quam codicum lectioni Svpav xpovo - plvjjv
potiorem ducimus. Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 133. xis €($$’ 6
xoipaS xrjv Svpav ; do- cet : ini jikv xcov ££a)Sev xpov - ovx gov xonxeiv
Xiyovdiv^ ei 6 fc idc o$ev (sc. xpovovdiv ) tyo- <peiv. Ex his
verbis patere opi- nor , xpoveiv xijv Svpav de utroque pulsandi
genere obva- luisse, Niiiil igitur habet, quo displiceat hoc loco
xpoveiv ver- bum. Sed num ideo rectius sit et verius, quain xpotetv
, quod h. 1 . vulgo legi supra indicavimus, alia quaestio est. Quid,
si verbo insolentiori ( xpoveiv ) pulsandi insolentiam qualis
est comissatorum, scriptor indicare voluit ? cfr. Meleagri
Epigr. CXXV. v.3. apti yap idnepioi vvptpaS ini
dixXidtv dxew Aturo!, xal SaXd/AGov inXa- tayevvxo Svpa
t 31 « avrov kiyuv 6 2,'<axp«rj?s xeqI tov
loyov, xcci t$cti(pv>js rrjV kvXelov Qvqov XQOrovpivyV itoXvv fo
(pov ■xacMtildv «as xafucCuiv, uv. tov ovv
'slyu&uva, ad qnem locum Iacobsius anno- tat Comment.
Vol, 1. P. 1. p. 140. ixXatayevvto de saltan- tium ad fores
strepitu accipien- dum , qui proprie xpoxoS. He- sychitis nXaraytiv
idem esse do- cet, atque xporelv. Igitur nostro loco tantum abest,
ut xpoTovpivyv minus aptum censeamus, ut po- tius' verissimum
iudicemus atque rei descriptae apprime conve- niens. Sensus est
verborum I Pldtzlich sei an die Thiir angedonnert worden, und
sie habe gedrdhnt, ais wenn nach11ich e Schwar mer davor waren.
Ceterum Stallbaumio praceunte post ita- pa6x&y comma delevimus,
quod Bekkerus in textu posuit. Illo annotat ad h*. 1. a»?
xcopa- 6 1 <3 v connccteudum est cum itoXvv ifjocpov napa
- hoc sensu; vesti- buli ianuam pulsatam ingentem fecisse
strepitum quasi comissatorum n. e. quasi comissatores eum
excitarent. Recte. Prorsus conveuit etiam cum h. 1. Schol*
Aristophanis ad Plut. v. 1097. ed. Bekk. Vol. II. p. 256.: xontEiv;
■jpotpely xal xXavouir ri}v $v- pav 6ia<pip£i‘ xortteiv plvyap
Xsyerai , oxav eistiroct ris pi\- Xy yta\ njv Bvpav iB>( j$ev
nXytxy cos* rit i6$’ 6 xd^aS xijv Svpotv ; ifMxpeir or- rav
iZtpxontv 6s nf au* x t}r vicaroiyoi xal yx<>v % ira oltc o
xeXy. o rotov- x os yap VX oS iJj 6 <pos nancti avlytgidog cpcovyv
axov- deg> qtccvuL, ov (Sxeiptti&s ; D Xeixai, Zxctv
81 vx' dvir uov xirijxai portj xal ?}*oi' riva, ix rovrov artor
eXi) , o roiovtoS i /xoS i} r pitipuS xXav- Oiav A eyexau
xal avXyx pl 8oS tpcovifv dxov £iv . cfr. Melcagr. Epigr.
LXIV. v. 1. w A6xpot xal r) q>i\£poo6i xaXdv (palvovda
SeXtfvy xal NvB , , xal xodpcoy 6vp- nXavov dpydviov , . . .
ad quem locum Iacobsius: Sivo tibiam, iuquit, sive facem
iutelligit. IIoc proba- bilius,, Lectis nostri loci ver- bis itate
animatum seutias, ut de tibia poetam cogitasse cen- seas. Ceterum
recte Stullbau- mius eos vituperat, qui <ptay?ir hoc loco de
tibicinae voce iuter- p retarentur. Certissimum est enim, tibicinam
tibiae souos edi- disse, quibus se* commendaret intus sedentibns.
Ceterum miro modo 7tapa<$x£v praecedente, quod subiecto suq non
caret, positum sine subiecto legitur axoVElV- Facit autem subiecti
omissio ad describendas turbas, quas, qui ante fores vestibuli
starent, excitant ut. Neque r tr£s supplendum est, uam omnes sonitum
tibino audierunt, neque itetvzaS satis aptum videtur, qno hic
supple- mento utaris. Sed indefinite di- citur dxQveiv ita, ut
Latinorum respondeat auditum esse, ov (SxiipadSei
Aoristum, quem iu dictione r/ OW O v ytjOco vidimus p» 173»
R» ut non xal lav ptv rtg rav Intrrfidav y , xalelrs • el (ir/ t
ktysTE, on ov tcivouev , a).lu dvanavofit&a ySrj. Kal OV Jtoltl
VOTEQOV ’AXxifluxdoV X>jV tp(OVt]V dxovuv Iv xy avly OtpodQU
lU&vovxog xal fiiya fioavzos [ £(wo- admittendam , ita non
omni ex parte spernendum ducit Rticker- tus. De aoristo cum
negatione coniuncto in interrogationibus su- pra diximus annotat, p
11., ibique eius usum a nostro loco alie- nissimum indicavimus. Male
igi- tur in aliquot codicibus ov 6xi- if;a6SE ; Vario autem modo
fu- turo tempore veteres in inter- rogatione usi sunt, ut
indignationem, iram, clementiam expri- merent. Vide annotat, p. 26.
Hoc loco quo sensu verba di- cantur ov <5xeif>e6$E f dictu
haud difficile est. Agatho enim audita ante fores turba ut illico
Irent, videreut, vocarent vel remitterent, servis mandat. Verba igitor
convertenda sunt: seht sogleich nach. xal iav plv —
xaXeixe. KaXsixs hoc loco absolute posi- tum est nt p. 175. A.
xctpov xaXovvxoS ovx iSeXei tlsikvai. Exstat autem hoc et illo loco
ali- quid discriminis inter xaXaiv et xaXalv. Nam in verbis
xa/iov xaXovrxoS verbum illud nihil aliud significat, quam quod
nos dicimus rufen : ond ais ich rief. Nostro loco xaXalv invitandi
notionem habet, de qua vide an- notat. p. 17. ad verba axXrfXoS ini
Ssinvov. De iav — eI prj vide annotat, p. 128. ct 124. Verba
convertenda sunt: Und solite es etwa einer der Erennde sein, so
ladet ein, wo nicht, so sprecht, dass wir nicht trinken cet.
xal ov noXv vdxe pov-. Servi Agathonis dicto obedien- tes
statim ubiisse cogitandi snnt, atcjue aula superata xrjv avXttOY
Svpav aperuisse. Quo facto illico clamor Alcibiadis audie-
batur. xal pkya fio&vxo?, [ ip <w r gjv rof]. Vulgo
legi- tur piya (iodjvzoS xal ipGzxajv- r oS. Copulam e melioribus
co- dicihus interpretes fere omnes expunxerunt. Sed hac
ratione non ab omni labe hunc lorum liberatum putaverim. *Epa>xd5v-
X OS enim participium, quomodo probem, non habeo; quin magna
suspicio adest depravationis , si- quidem facillime fieri potuit,
ut aliquis, quo fioGovxoS ver- bum paullo insolentius a Pla- tone
positum explicaret, IpGd- XgjvxoS margini adseriberet, quod deinde
nimia scribarum seduli- tate in ordinem verborum receptum est. Haud raro
fioav vi- no gravatis ita attribuitur, nt addito quodam eorum dicto
di- cendi vel iuterrogandi verbum non praemittatur. Sic legitur
in Asclcpidae Epigr. XIX. v. 5. xy 6s xo0ovx’ ifioijtia
fiefipey- * pivoS' axpi xivoS , Z ev ; Z sv tpiXs , 0iyrj6ov
, xavxoS Ipav ijiaSEf. quo fidelicet loco non potnit
metri caussa aliquid inferciri, quod ip6r}6a verbi significatum
illustraret. Ad nostrum locum ut revertar, sunt alii quoqne vel
faerunt potius, quibus ipurtcov- ZTMI10ZI0N. 321
tavxog ] , oitov ‘Ayd&av, xcd xe&evovtog dyuv nag ’Ayafrava.
dyuv ovv avxov netoa <5<pdg rijv ts a vXtj- tglSa vitoXafiovtiav
xal aklovg tivcig rav axolovfttov, xal tmazfjvcu bil rag. dvyccg
iotupavcj/xtvoV avxov rot participium displiceret. Certe dao
(iotnvxoS , ipcjtcjvro^ par- ticipia iuxta posita displicuere iis,
qui xal, quod vulgo legitur, in- terponendum censuerunt. Quomi- nus
ipcDXGJvxoS participium prorsus expungeremus , recentiorum editorum
auctoritas impedimento fuit, quorum ne uni quidem de- pravationis
suspicio in mentem venit. Igitur uncis verbum inclusimus.
oxov 'AyaSav > xal x&- Xevo vx o S dy e iv n a p* A -
yaStnra, De industria hoo loco Agathonis nomen repetitum est. Scia’
quam ob caussam? In- fantes, quod concupiscunt, id unum solent
variis membrorum gestibus appetere, neque hilo unquam ab eo
abstrahi» Infanti- bus ebrii cum aliis nominibus, tum etiam eo
similes, quod rem, quam desiderant, vario modo proloqui solent,
neque ab ea nominanda prius absistere, quam ipsam sint consecuti.
Itaque Alcibiades vino plenus, magno clamore, heus, inquit, ubi est
Agatho, du- cite ad Agathonem. Cete- rum cave xeXevovxoS arctius
cum sequente ayhV infinitivo con- iungendum censeas. Plato
enim rem ita proponit, ut quasi ipsa Alcibiadis verba tradere
videatur.* oxov *Ayoi S gdV; ayEiV (h. e. ayere) xap* 'AydSoova.
Ke- XevoVtoG StyEiv igitur non con- vertendum est :
ducliussitad Agathonem, sed servis im- peravit! u dncite «d
Aga- thonem** l
vn o Xaftovda y, vxoXa/i- pdveiv est sublevare, bra- chio
supposito sustentare cfr. Piat, de rep. V. p. 453. D* ubi e
codicibus hodie legitur: ovxovv xal ijtiiv vevGxeov xal XEipatior
dGjgetiSai ix rov XoyoVf lftoi dsXqjivd xlv * &- xi^ovxai 7}paS
vxoXapsly ar oi) xtva aXXrjy dxopoy <Storiy piav. Ruckort.
xal litt6trjy at ixl raS SvpaS, Haec verba convertit
Schalthessius J und stellten ihn eu ihnen vor die Saalthiir hin.
Minus apte. Fores enim, quae hic commemorantur, fiiravXoS $vpa sunt,
qua de re supra dictum est adnotat. p» 318. Io Schleiermacheri
conversione legitur: Er sei aber in der Thtir stehen geblieben. Ut
accuratius reddatur Platonicum ; ix l ra$ SvpaC, verba convertenda
sunt i er habe sich aber ia (s. an) die Thiir gestellt. Sic haud
raro rectiore verborum conversione praepositionum casuumque
cum illis coniunctorum structura commodissime explicatur. Pari
modd Grammatici Latini praecipiunt, ponendi collodandique verba
in praepositionem cum ablativo coniungendam assumere, cetera verba
motum io aliquem locum significantia in praepositionem et accusativum casum
requirere* Prioris illius praecepti neque ipsi tradunt , necjue lectores
iutelli- gont rasionem. Ea optime o recta collocandi ponendiqne
ver- borum conversione perspicitur. E xmov x i xtvi Gtirpava) dadst
xai fmv , xai taivlag rovxa ini rijs xcqiaXrjs naw noklas , xai tinuv •
“Av- fiofg , jraiptrs ' fie&vov ra tivSQct adw Otpodga
dt&adt Ovyndxjjv , tj dn.iay.tv dvadtjOavxtg yovov
‘Aya&ava, Ponere enim et collocare non significat, quod nos
vocamus : setzen, stcllen, logeo ; ridicula enim foret, si hacc ipsis
significatio esset, i n praepositio- nis atque ablativi casus
couiun- ctio ; sed denotant: fest ste1len, fcstsetzen, befesti* g e
n. Quae significationes ubi discipulorum animis inhaerebunt, haud
verendum erit , nc 'quis nuquam in ponendi collocandi ve verbis in
praepositio- nem cum accusativo casu con- iungal, xai
raiviat %x° yr01 * Timaeus s. V. r aiviaS avaSov- pivoi * toiS
vixijtiadi ara - Srjtiat ratvlaS. Annotat Stallbaumius nd h. 1, : Mos
erat, incinit , capita hominum vel publice bene meritorum, veluti victorum, vel
amicorum et familiarium laetis diebus ac solcmuitatibus coronis, vittis,
taeniis re- dimiendi et ornandi, vide Ruhn- kenium ad Tim. Gloss.
p. 246 seqq. "ArdpsS, xaiptte. Alio loco de hac
salutandi formula dicturi sumus. Huiusmodi for- mulae ex quotidiana
vita petitae si accuratius spectantur, mirum quantum faciant ad
populi, qui iis utitur vel usus est, ingenium, mores, naturam
oranemque habitum cognoscendum. Eodem modo praecipue de bis formulis
Goethios egit io Opp. Tom. 27* p. 125. Guto Nncht! So konnen vrir
Nordlamler zu jeder Stunde sagen, wenn wir im Finstcrn seheiden:
der Italianer sagt : fe- licissima notte! nur einmal, und ewar,
wenn das Licht in das Zimmer gcbracht wird > indem Tag und Nacht
sich seheiden $ und da heisst es denn ganz etwas auderes : So uniibersetzlich
siud die Eigenheiten jeder Sprache: denn vom hochsten bis eum tiefsten
Wort bezieht sich ulles auf Eigentluimlichkeiten der Na- tion , es
sei nuu in Charakter, Gesinnung oder Zuslauden. biSiEdSt 6v
J.i7t utrjv. Ilaea Bodleinui codicis lectio est aliorumque paucorum
librorum. Vul- go 8£Za6$E legitur posito post 7}\$OfXEV puncto pro
v. signo in- terrogandi. Illud recentiores edi- tores ad unum omnes
probant. Quod ne male se habere censea- tur: sententia est: Einen
Mann, der schon getiunken hat , miisst ihr, wenn er mit euch
triuken soli, recht freundlich aufneh- men, oder cr gcht wieder
fort, wenn er nur den Agathon bc- krauzt hat, wozu er gekommen
ist. ardpa haud raro poni pro pronomine personali ipi , tragi-
corum potissimum poetarum le- ctoribus notissimum. Tragicis avrjp
ote, avSpoS tovSe x. t. A. pro iyo&i ipov admodum usita- tum
est. iyco yctp roi. Cum nemo re- sponderet Alcibiadi, neque
ipsum, ut accederet accubaretque, vocaret, omnesque tacide hominis erro-
niav admirarentur, illo adven- tum suum excusaturus loqui per-
}rp’ oitSQ “il9ojitv ; lya yczQ roi , (pdvca , jjQts (i'ew ov% olvg
t’ lytvoatjv dq>tXB6&cu, vvv da yxm tnl ty xecpaly lyav rclg
xcavlag , iva thto rljg fuiys xtfpalijg tt]v tov Gocpardrov xai xa/.Udzov
xitpaXyv — iav git. Heri vocato sibi ab Agn- thotie,
quominus veniret, certa quaedam impedimenta fuisse. Ve- nisse se
nuuc Agathouem taeniis ornaturum. Ilisu exorto consi- vnrum
Alcibiades excusationem suntn quasi fictam derideri pu- tans vera
se loqui affirmat. Post interrogatione illa satis impatien- ter
atque inclementer repetita abitum paraturus erat, ni omnes convivae
consurrexissent, atque ut maneret, ipsum rogassoat. . iav
ei7tco ovt u>dl. Ilaec non dubito , quin corrrupta sint ab
imperitis librariis. Nam quod Wolfius ea dixit significare ut ita
dicere liceat, itu ut Al- cibiades putandus sit ceterorum
convivarum invidiam his verbis amoliri voluisse, eam interpre-
tatiouem non fert loquendi con- suetudo, quae postulabat ovtgd6\
tlneiv. Itaque Astius scriben- dum ccnsuit : TtetpaXTfv dvadijdcj.
dpa , iav £LitcJ ovioj6i t naxa- yeXcttietiSE pov n. x, A., qua tamen
coniectura vereor, ut omnes tollantur difficultates. Certe qui- dem
transpositionis audaciam ne- mo probaverit, qui meminerit, di- vam
criticen ferrum et ignem odisse. Quid mihi de hoc loco videatur,
iam satis declarare opi- nor uncos illos, quibus hacc verba u
reliquis seclusimus. Nam quum grammaticus aliquis ca in mar- gine
aut inter versus adseripsis- set, quo explicaret proxima illa : dpa
HaxceyE\d6E6$E ueSvoy- TOS ; postea temere in conteitadi
orationem recepta, et, ut fit, alieno loco interposita sunt, 8 t p
11 b a u m. Rene quidem Vir doctissimus de aliorum, quos lau- dat,
vel interpretatione vel emen- datione egit, sed quam ipse iniit
sanandorum verborum rationem, ea milii quidem prorsos displicet.
Perscripsi nutem totam eius annotationem,, ut facilius lecto- res
de ea iudicare possent. In libris nulla varietas est lectionis
praeter quod Vindob, et Plorent, unus inverso ordine verba ex-
hibent: ovxcd6l n&pcikxjv avet- 6 t}6gj, qua mutatione doceare
sa- tis , ctiara librarios iuhisce ver- bis offendisse , eaque
transposi- tione adhibita aliquo modo ex- plicare studuisse.
Risisse convi- vas verbis indicatur apa naxa- ye\dtfe(j5i pov cJf
f.te$vovxoS j quam risus caussam Alcibiades sibi finxerit, supra
diximus et verbis indicatur fiov cJff //ej&tfor- ToS , h. e.
quasi ego ebrie- tatis caussa meras nugas narrem. Hinc addit iycJ
Sij Ttdv v/fEtS yeXdxE , ojivti ev ot8 *, oxi trA?/3j/ X6y&>
Veram risus caussam nemo interpretum aperuit. Videamus primum
huius loci conversiones. Ficinns habet : Heri quidem interesse
nequivi J hodie veni vittas ferens , ut a meo capite sapientissimi
pulcher- rimique caput, si ita praedixero, circumligarem, an me
quasi ebri- um deridebitis ? In Schulthessii conversione exstat:
Denn gestem koimte icit micli nicht einl/ndcn J jetzt aber bin ich
da 30 mit Bin- 21 * ' E tinca — ourool dvadycJa. ctQtt
xcttaytAdcSed&i jiov d>s 213 (is&vovrosi lydi de, xdv v/tag
yeldte, oucag ev o'S\ on dAijfty Xeyca. dU.a f coi Uytxt ccvrotiev, h tl
<5>;tofg tisico , y M j <J vy.itlt6&£, y ov ; — Hamas ovv
dva&ogv- pycSca xcd xiitvuv tlsdvai xcd v.uxaxXiveciitat, , xal
xdv 'Aydftava xciXuv ctvtov. xcd xCv levat dyofisvov vnn xdv
dv&QCJTtGiv , xal j tegiaiQOVfisvov ana tus *«»- via s tog
uvaSydotna, InhtQod&tv x m> drp&cdficav exorna dcn
nmwnnden, damlt icli voti meinem Haupte her daa Ilaopt " des
nllerweisesten uml schonsten — wenn ich so sagen darf — bekrauze.
Lacht ihr etwa mei- ncr, weil ich tranken bin ? Me- cum iutelligaut
lectores, nihil in laudatis Fucini Schulthessiique verbis contineri,
quo, cur convi- vae riserint, explicetur. Neque apud
Schleiermacherum explicatam illam caussam reperies : Denn gestern , habe
er hinzugefiigt, war es mir nicht moglich za kommen ; jetzt aber
bin ich da, aul' dem Haupte die Rander, um von meinem Haupte das
Huopt dieses weisesten und schonsten Mnnncs, wenn ich so sagen
darf, eu uimvinden* Wollt ihr mich auslachen ais truuken?
Caussam putare possis, quod Alcibiades bene potus ab bibendum
veniat, sobriosque ebrius ad vinum hauriendum excitet. Uoc sane est
aliquid, neque tamen nobis nuno sufficit. Ridiculum latet iu ver-
bis iav eIltcco ovroodt, quae miro modo depravata sunt. Verba hoo
modo scribenda sunt : iav elnov , ovtcjOI ayad/fdco. Quae cor-
rectio ne audacior censeatur, prO iav facillima accentus mutatione
acriba aliquis edidit iav, quod cura alius deinceps legeret iav
elrcov ovroaol avadtjdco, cor- ruptura habuit rectissime,
sed vitium in verbo sauissimo de- prehendisse sibi visus, tinov
in ebeoo mutavit* Nimirum cum ad iostar ebriorum Alcibiades,
quod facturum se esse ostendit, id ge- stibus expressurus esset,
susten- tari se a tibicina servisque no- luit, qoo facilius, quod
veJIet, faceret* Igitur iav Etnov dixit hoc sensu: Dixi iam
sae- pius, mitti me velle libe- rum a vestris manibus*
Servi autem dicto audientes, cnm herum misissent , qui itn
vino plenus erat , <Zste pjfdl toiS idioiS itodiv idxadSai
(vide Athen. IV. p. 1 80 ) lactum est, ut verba proferens ovtcodl
ava- Stfdcj vel concideret vel titubando ridiculos gestus
ederet. aXXa poi A kytxE av- toSey. De his verbis iam
supra dictum est annotat, p. 3^3* AvtuSev autem dupliciter adhi-
beri solet , partim de loco, partim de tempore, ac de tempore quidem,
quoniam loci temporisque ratio haud raro commutatur* Recte igitur h* I.
interpretes avro^Ev stati m, illico significare annotant* ini
fitjrolf. Spectant haec verba ad p. 212. R. pB^vovrd dvdfja tcavv
6<po$pa 6a- i ov xanSuv rw SaxQiat], cfvUa xa&l&a&cu
nuQti tov Ayd&covu Iv pioio Suxqutovs ts xal Ixilvov • itaQu-
XaQificu yuQ tov ZaxQaxri c5g IxeZvov xu9ifciv. nctQa- B xa&e^ofuvov
6 s ccvruv denatea&at te tov 'Aytxftcova. xui dvaSclv. ilnuv ovv tov
'Ayuftava ‘ 'TnoAutre, aaidtg , 'AUxiftiddijv, Zva ix tqitcov
xaraxttjrai. Jlaw yt, (hceZv tov ’AXxi(iuZ8t]v' d.Xkd xtg i)(tiv oSs
tqitos pvpjiozus ; t£ai app fUTuatQEtpditivov avTov ogav tov
SedSt 6v finoTTiv, tj ait icar ptv H, X. A. Siguificaut enim:
Sed illico mihi respondete: Vul- ti • n e mciutroiro sub con-
ditione supra indicata, an non? Atque no quis se male intelligat
conditionis illius haud memor, statim addit : <jv/i7rl£6%B y ov
; Male Ruckeitus ad h. 1. Reddunt , inquit, sub ea con- ditione ,
quam dixi, At nullam dixit adhuc \ videtur que omnino hoc dicendi
genus ita usurpari , ut sequatur conditio , non ut praecedat , quae
h. 1 . incst interrogationi subiectae Ovji- 7[U(j2e y ov ;
tj;ro‘ xdov avSpGJTtGDY. Intelliguutur servi, a quibus sustentatus
Alcibiades ad Agathouein venit. Miro modo autem horum verborum pluralis
numerus convenit cum nostratium loquendi; usu, quo dicimus: die
Lcute, ministros atque ancillas signifi- cantes, ov x
axid eiv tov Sco- xpaxy, Vide de xaxiSeiv verbi significato
annotat, p. 308. Aute oculos habuit ct vidit Socratem , sed eum non
agnovit. vjcoXvaxr — fvct&nxpi- x cov xaxaxkyt at. cfr.p.
175. A. xal E plv F.(py dnoviZEiv xov nou6a , tva naxaxloixo.
lilio xo inoXvitv , hoc loco r 6 anoriPyeiv omissum est,
neque videntur ullo loco scriptores utrumqua verbum
ndbibuis&e. Unum enim ad utramque uctiouem indicandam satis erat.
Ceterum non nisi ea de caussa ira ix xpiTGor commemorasse vide- tur
Agutho, quam ut Alcibiades statim eum agnosceret, qui iusta ipsum
tertius sederet. Sed alia etiam caussa est illius dicti. Ve- teres
euitn non sedebant ad rneu- sam , sed eidem occumbebant. Ubi duo
convivae mensae accumbebant, illa calceorum solvendo- rum pedumque
lavandorum cura minus necessaria erat. Poterant enim ita duo convivae
mensae accnmbere, ut neuter neutrum pedibus tangeret. Tertio
acce- dente conviva, qui, quorsum pe- des protenderet, versus
unum convivarum non potuit non pro tendere , uecessaria erat, ut
cal- cei solverentur pedesque lavaren- tur, ne forte aliquis
convivarum macularetur. aAAti xis ypiv xpltoS u 8 fi.
Haec vulgata lectio, quam in ordinem vcrboium recipere non
dubitavimus ideo, quod Alcibia- des praecedente Agaliionis iliclo
atqnu praecipuo verbis ix Xpi- roov commonefactus r p ix o £
JOaxQnrr ] , ISuvta avaXTjdfjGai xa\ thtilv' '£l r Hqa- xA«g, zovzl zl
rjv ; 2ZaxQccTt]s ovzog lAi lo^tov av fis <? Ivzav&a xaztxtiGo ,
tZgxtQ thl/ftus i^alcpvt] g avatpal- vtG&ai qtcov tyd (pfirjv ijxusza
Ge HotG&ca. xal rvv tL Tjxsig ; xal ti av ivzav&a xaztyJ.lv/js ,
<og ov na qd nomen priori loco collocare de- diiti. De ovroS
pronomine in buit: tertius iste, quem allocutione liaud infrequente
viile commemoras, qnia est? annotat, p. 4. Quae sequuntur In
Bodleiano codice aliisqne per- verba : (Zsnsp eltoSeif i£ai(prJ/S
paucis legitur vpuv ude xpixoS, quem verborum ordinem Bekkc- rus,
Stallbaumius, alii probarunt. *- *i2 *H p a x\e i S , xovxlri
? /v. Alcibiades averro vultu do eo, quod modo oculis
concepe- rat et quod non videt umplius, quid vidi ? exclamat. Huius
di- ctionis vim atque imperfecti qui- dem potestatem non
expressit in conversione Scldeicrmacherns 2 W as ist nun das?
quibus verbis prorsas deleri senties excla- mationis illius vigorem
omnem. Cur Herculem nominet Alci- biades Socratis adspcctu
quasi attooitns, haud facile nesciri pot- est. Veteres enim eum
deum semper nominare solebunt, cuius auxilio maxinie indigerent.
Herculem scimus fortitudinis atque roboris deum esse $ robore autem
ac virtute ei opus est maxime, Cuius animus inopinato subitoque
adspecta percellitur. Ceterum sex codices Bekkeriani pro xovxl xi tjy
exhibent xovr ehteir, quod moneo, ut intelligatur, interdum etiam
complurium codicqm consensu, quae falsissima sunt, tueri. -2Sgj xpatijS
ovroS tAAo- X&v otv — xare xeitio. Magna cum acerbitate
participium praeponitur verbo finito in allo- cutione; Nempe rursus
mi- hi iuaidiatus hio c 0 n t, e - dva<palv£6$cct x. r. A. satis
docent, iu praecedentibus ivxavSa vocem orationis accentu insigni-
endum esse. Schleiermacherna adhibito interrogandi signo post
£6£<5$a.i verba convertit : Da Socrates, liegst du mir auch
hier schon wieder auf der I.nuer, wia du immer pflegst plotzlich zu
er- scheinen , wo ich atn weuigsten glaube, dass du sein wirst ?
Sed minusplacet propter interroga- tiones insequentes imec ratio
ex- plicandi, Alcibiades enim cum non sine acerbitate Socratis
studia illa convivis aperuisset, non tan- quam rerum suarum
incertus sequentes interrogationes profert, sed ut vera se dixisse
Socratis responso convivae docerentur. Igitur VVY in verbis xal
vvV xi f/XtiS eam vim habet, ut quaestio explicatior audiat:.
At- que nunc responde, quid veneris? Av vocula, qiintri
saepius iam annotavimus supple- menti alicuius iudicium esse, (vi-
de Indices,) hunc sensum fundit: Et nunc confitere, Uie quid
consederis cet, ov itctp a *Api0x o - (parti. Stallbaumius ad
h. 1. inquit, est quippe, nam, ut mox in verbis cJs' » ipol o
xov- rov HpoaS ov (pavXov itpdy - pa yeyovtv , et <&S lyco x
i/v 'AgiOtotpuvH obi5 ' h ug «AAog
ytXoiog Fort re xai fiovAttai ; akka dicfitjxavtjau , ojrog nayu tm
xcdXlOup ttov Hvdov xaraxelaci. Ku\ rw ZaxQaxti , '& 'Aycc-
n>MV, cpavui , oQct, fi' (ioi bcapvvtls' ug fjuoi 6 xovxov fpug roi5
af&gusrw ou tpccv Aov HQccyfia yeyovev. an tovrov parcar — 1
ufifiooSao. No- bis iuterrogaudi signo, quod post TtarexXirTjS
legitur , transposito post (iovAerat verba hoc modo convertenda
esso videntur : Uhd nuu sage, warum setztest du dicli grado dahin ,
ais zum Bci- spiei nicht nebeu Aristophanes, aocli niclit nebeu
irgend eineu undern, der uitzig ist and witzig au scio Lust liat ?
Ad fiovAerat supplendum est yeAdioS tlvai. Vide annotat, p. 200.
Ceterum J Miror t Riickertus inquit, /i. /. yf.Aol.ov et H(xAAi6tov
tibi op- poni. Attamen vereor, ne sit audacias , de Aristophanis
forma inde aliquid colligere. Nihil hia verbis oppositionis iuest.
Miratur autem et indignatur Alcibiades, quod non apnd alium
Socrates consederit, v. c, apud Aristophanem, hominem plenum
festivitatum, sed dedita opera ex pulchris pulcherrimo se adiunxerit.
a A Ad biapT}X ay V^ 'JAAit vocabulo magna est vis ironiae; id
cave cum praecedente ov negatione cohaerere censeas. Per se enim
positum est , atque veram rei statum describit. 4tap?}x<xvd(S5ai
ver- bum fortunae notioni oppo- nitur, qua quis vel hunc vel
illum socium biaosciscitur. Sensus est : Aber naturlich, da hat deiue
Schlauigkeit es so einznleiten gcwusst , dass da nebeu den Schonsten von
allen, die Lier siud, dicli setzcn masstest. opa, ei poi
fatapw Valgo opa , tf pot inapvvetS le- gitur; quod quamquam non
fal- sum est a t-rnen band scio, au «ion rectius sit atque verius,
quod reuentiores editores , si Riickertum exceperis, de H. Stephani confectura
dederunt ihtapvveiS. Probatur idem Ficini conversione; vide, ai quo pacto
mihi succurrere potes. Riickertus autem concedit quidem, ia
huiusmodi dicendi genere fatu- ram tempus usitatum fuisse Graecis , neque
omnino negat, Platonem id tempus h. 1. adhibuisse : verum necessarium non
esse ex- istimat; cur enim, inquit, non possit praesens tempus
adhiberi, frustra quaerimus. Latini : vide, an me defendas. Nos :
Sieh zu, ob du micl) vertlieidigst. Lecta hac V. D. annotatione
mireris, ipsum apvvetS in texta posaisse tamen. Nobis autem
praesens tempus in hoc dicendi genere ita a futuro videtur
dillerre, ut illo adhibito de voluntate agatur eius, qui alicui
opitulari rogatur, futuro tempore ad eventum illius actionis respiciatur.
Vides igitur, futurum longe gravius esse in illa dictione, quam
praesens tempus. Illud est: Vide, an mihi opitulari velis.
IIoc est: Vido, an possis mihi opitnlirri, h, c. omni vi-
rium contentione mihi o p i t n 1 a r o. ov (pctvAov
itp&ypa. txilvov yctQ xov %qovov , dtp' ov xovxov ^qdo^t/v,
oi5x- D In lt,iOxl (loi’ ovxs TtgosftJ-Eipca ovxe diatez&ijvai
xcif.iS ovSivl , i) ovxool fcr^.oxvTtdiv fts xal tp&ovuv
&av(ia0xa tgyd&zcti xal koitjoguxal x( xal xd %hqb ( toyig axi%t
uti. oQa ovv, ut/ tl xal vvv ipydot/xai, ctXXu diaXXa |ov tj/iag, tj, idv
lm%EZQy fhtx&G&cu, htd~ pwE, <x>s lyd xr/V \qvzqv /laviav
tj xal q>UEQaoxiav Ficinui: Amor quippe hoiuj ho~ mini* haud iove
quiddam mihi exsistit, Schleicrmaeherus : Deno dieses Menscheu
Liebe hat mir tchoo zu gar uicht wenigem Ver** druss gereicht.
Schulihessius ; Demi die Liebe dieses Meoschea ist fur mich kein
kleines Leideo. De hac notione npaypa verbi etiam in aliis
dictionibus vide lodices s. v. jtp&ypa, r) Q$%o6\ grj
\QTV7t(k) v s Prorsus eodem modo nos Joqui solemus. Recte
Stallbaumins H. e., inquit, aut, si id facio, prae aemulatione et i
n t Y idi&cet. Conferri iubet Rii- ckcrtns annotat, ad h. i.
Piat, Theaet. p f 173. E. xov%6 ye 6 <po6pa v? ntiyveixo
leavzGov 8ia- q>£peiv avxoS. 2. Nt) dia, gj • rj ovdsfa y * av
<xvx<3 &ietey$xo r tijr xovtQv paviar re fca\
<pi\$ patitiav. Schleier- tnacherus ; denn seine Tollheit ' nnd
veriiebtes Wesen , soloeca pro und sein v. Wesen. De tpifapatfxlaS
significatu vide an- notat, p, 174, Mavlay antem eius esse 1, , qui
nimius sit in amando, annotatio docet ver- bis subiecta p. 173* D.
xal ohq * $ev itoxl xavxtjv trjv tnwv- piav iXafttf , ro pavtxoi
na- leuSSai r, A, p, U, Ceteram vix o'pns est, qt moneamus,
fiid- Ze6%ai verbuin, quod in supe- rioribus legitur, absolute
posi- tum esse, ut significet; vim adhibere, >. jr
dw O fi fi 60 6 o3, Ex schol, Aristoph, ad Plut. v, 122, liate
depromam: o fi fico 8 do itdvv , ofifioodd) Xeyexai xo
<pofiovpai £x pexaqjopaS xo ov Zgogoy xgov 8td x ijS ovpaS
detxvvvxcov x d deoS, efoSe yap xavxa <pofirj- Sevxa 6wayttv %
rjv ovpdv tv- X oS xcov pijpcov. Ridiculum au- tem ac ne verum
quidem est, quod sequitur: 1 / oxi rc5y <poftov-> pivcov
efaSev d dfifios TtpcoxoX l6po\)v. Aliis iudicandum relin- quo, nam
verum sit, quod apud eundem scholiastam legitur: xal xvpicoS pkv
i#l xov rdiY a\o- ycoy dfovS, d\A* ovx l6xiv. Cogitan-
dum est, Agathonem ad resisten- dum se parasse; qood cum anim-
adverteret Alcibiades memor for- tasse proverbii, quo ne Her- cules
quidem duobus aptus esso dicitur, futuro tempore, ubi rur- sum
peccaverit, etiam buius criminis poenas Socratem Initurum Osse
profitetur. trjv x q v % o v xavtrjvl T7jv. Iteratio hacc articuli
non caret idonea ratione. Nam verba aio connectenda sunt; Xtjv xov
- mxvv <5<5(5raflw. 'Ali’ ovx ton , (f avea rav
'AlxiflidStjv, Ijiol xal Coi diallayrj. cilia zovvojv fiiv elgav^tg
as nfioQC/aofiai' vvv di fioi, 'Ayd&av, cpdvat , [istuSog tcov
zaiiH mv , iva avad ifia Steel rrjv rovrov ravrtjvl E TTjv
&av(iaatijv x«palr)v , xal fuj /tot [d[i<piytai , ore ea /isv
avidrjOa , avtdv ds vlxiovtu iv loyoig mxvzaq av- Vgazovs, ov fidvov
ZQuajv , agztQ Ov, «Aii’ «ai, Inuxa tov xetpaljjv Sav/iadrrjy.
cfr, Mattii, Gramm. $.278, Stallb, Flora huius structurae
exempla StallbaUroius collegit ad Piat. Gerg. p. 502. B. : rl 81
7$ tiepvr) avt)f xal %avpa6xr\ 1 } t i}S rpaya)8LaS
nolrjtiiS. Hero- dot. VII. 196. o' vavxixds 6 xcov papfiapoov
(SxpaxoS. Thucyd. I. 25. xal 7 } ovx X}xi6xa fi\a- ipaocr 7j
AoipGo67]£ vdtioS, Piat, de rep. V1JI. p. 565. D. xo iv 'ApxaSia xo
x ov dwS xov Av- xalov lepor. Hoc autem 11011 praetermittendum est,
edici hoo geuere dicendi, ut quicquid ver- bis contineatur, id
gravitate qua- dam augeatur. Atque nostro qui- dem loco articuli
repetitione sum- mus Alcibiadis araor indicatur ita, ut verba cum
Latinorum com- j arari queant; te volo, tc ipsum, vir
admirabilia, coronare. avxoy dfc vix&vt a i v
jidyotf. Libri Florentini aliique avxoy t quod in textum re- cepit
Ruckertus, crvXQV hic non log- eum habere contendens. Frustra.
Illud Bekkerus atque Stallbaumius exhibent. Ac Stallbaumius qui-
dem Non dixit, inquit, aw- tov , sed avxoy propter oppositionis
rationem. Nobis ita videtur statueudum esse, nt indicium Alcibiadis
de Socrate etiam tauquam em ipsa Socratis mente proferri
dicamus, qui ita rem cogitare posse fin- gitur : ixeivov pbr
dviStfCy&v, i ite dfc riKavxa — ovx dvi- 8rf6ev. Quam
sententiam Alci- biades si e Socratis tantummodo animo proferre
voluisset, dixis- set opinor: xal fnj poi pifitptf- tat , oxi tfk
piv dvad?}6iupi t avxov 8h vixcorxa iv Tioyois icuvxaS avSpGOTtovS
— ovx ava8ij6aipi. Si ex sua tautum- tnodo sententia eandem rem
idem edicturus fuisset, non avtov, sed avxov exhibere debuit.
Habes igitur hoc loco coufusionem stru- cturarum duarum, quae
quantum habeat in se venustatis, eos non fugiet, qui hunc locum
satis ac- curate examinaverint. Ineixa ovx av e8i]6 a
• Eiteixa in hainsmodi dictionibus semper ad praecedens
participium refertur, atque proprie praemittitur ei, quod
/actiouein, quae participio continetur, sequi debeat. Usu loquendi
deinde factum est, ut satis cum ironia consequentiae notio cum
contra- rio, h. e, cum eo, quod actio- riem participii nou sequi
de- beat, coniuugeretur. Et cum la- tior sit participiorum
significa- tio, fieri potest, nt e, c, vt - xcovxa sit postquam
vicit ac vincit; possis igitur inttta tamen convertere.
330 nAATaNO£ ovx avcdijOa. Kai ccya avtov
laftwna x tav tcaviwv avadeiv xuv 2J(oy.Qatrj xctl xttTuxkivEG&cu.
InuSq di xa- xtxkivt] , ibcilv. Cap. XXXI. Eltv
Srj , 6v$Qeg ' dozftrs y&Q po* rijgxiv o ovx btiTQtnxlov vtiiv,
ct/Aci ntrtiov ' (5poA<5)fijTai ycip xav&’ iiy.lv. clcQ%ovza viiy
(xltjovym xjfo jtoGeag, iug $v vytis ef er 61 /, avSpeS, So~ xeixe
ydp. Hiximas de hoc loco annotat, p. 265., quam ride. Verba quod
attinet GjpoXdyTfxat ydp x av$' ijpiv, cfr. p. 215. A. a\ Aa poi A
iyere ccvxoSet , ini fiyxotS eIsIgo, tj jiTj ; , 6 v/i 7 tls 6 $E t
?/ qv ; navxaS ovv dvaSopvfli}-* Oai xat xeXeveiv eIsieycci x. T.
A. In aequeutibus post ovx intxpEnxiov vulgo legitur ovv . Recte id
ex optimorum codicum auctoritate delerunt Bekkerns, Staltbaumius ,
alii. Eo addito sententiae vigorem admodum refrigescere senties atque
propemodum evanescere. d pxovta ovv alpovpai tifS n 6 6 E ga
S. Vide annotat, p. 43. Adde Wachsmulhs Hel- len. Alterthumsk. II.
2. p. 28. et p. 29.» ubi Christius laudatur de magisteriis veterum
in pocu- lis. 1745. Non elegerunt autem, Stallbuumius inquit, antea
convivae regem, qui bibendi leges ediceret, sed constituerant, ut
suo quisque genio, quantum vellet, iudulgeret. aXXd <pipE t nat,
(pavat, xdv ipvxxij pet ixEiv ov ^ Schol. ad h. L $vxxi}p,
inquit, OxevoS' IvSac diavlctovtii xci noti} pia , i)
noxrjpiov eiSoS, g*s E vpinidrjS TrjXiqxa. Timaeus ed. Ruhukenii p.
278. habet ipvxxrfp • noxT/pwr fiiya xai nXaxv e Is
rjjvxportotiiotv rtapE- OxevaOpivov , Laudat praeterea Ruhnkenias
Gramm. Ms. : xxijp* OxevoS , iv (o xdv olvor Hipvxov t x 6 xoiygjS
XeyofiEvov .upvcoxijpiov. . Vides, TpVHXTfpec vas nominatum fuisse,
quod usui convivarum non ita destinatum erat, ut ex eo vinum
haurirent. Hinc non mireris , Athenaeum huius loci respectu habito
IV. 27. dixisse: napd rc3 nXaxcovt xovxgov ovSlv iifijiExpov ,
aXXd ttivovdt p\v xodovxov , coSxe fi7/8k xols IdimS noOlv
l6xct6$ai. dpa ydp — *//A xifitdSrjv o>? dOxtfpovEi , ol 61 «AA
oi xdv dxxaxdxvXov rf> vxxijpa nivovOt npocpaOEGoS XafiofiEvoi,
in tine p avxovS npoEiXxvOsv UXxtfiui- 6i/S. l8ovxa avxov
nXiov i} X. x. A. Alcibiades Agasonem rogat, ut maius poculum
atterrr iubeat, post, conspecto aliquo vasi, quod refrigerando vino
inservie- bat, magnitudine eius delectatus sententiam suam mutat,
idque afferri iubet. Ad verbum xo- xvXaS Schol. anuotut :
rplzov faavco g jchjzi , l(i«vzdv. dkka qtgiza ’Ayd9av , ff zi
lOziv (xxu(iu [itya , iiakkov 81 ovSiv Sei, aAAa q>£gt, nai, tpavcti,
zdv tlivxzijQa IxiZvov, ISovza avzdv xkpov 214 ij dxza xozvkag yaqovvza.
zovzov l(ixkr]6d(iEvov zcgazov filv avzdv Ixititlv , licaza za EaxgatEi
xeXevelv lyyfiv, xal aua eiittiv ITqos [Uv Saxgdzq , cS avdgeg , zo
C.6q>i6(td (ioi ovSiv ' bitoGov ydg av zikevg zig, zoGov- zov IxTtimv
ovStv fiakkov (iij jrors (iidvG&rj. Tdv (ilv ovv ZoxQurrj iy^tavzog
rov ttcudog xLvuv ' zov 6’ ‘Eqv- fiepoS 7/ xoxvXrj trjS
xoivwoS. Yido Wachsmuths Hell. Alter- thum.sk. II. 1. p. 78.
Annotasse liic suilicit, immensa muguitu- diue ifkVXTrjpa
fuisse. i pnX7/ 6 d per ov. FICINUS: Cum vas implevisset.
Astius : implevisse. Immo implendum curasse. Quae vis est medii;
neque verisimile, ipsum fecisse Alcibiadem, quod statim post, ut
Socrati fiat , imperantem audimus. Riickert. Tu 6 6 q>i6 n a jiot ovd
iv. h. c. in Socrate ars mea inutilis. Ludit Alcibiades ia
dofpidpa nominis cum if}7j<pidpa t ut videtur, similitudine. Hoc
enim dicturus est : Bibendi magister frustra se exercebit, ut Socratem
ceteris convjvis similem reddat h. e. ebrium atque Baccho plenum.
Quantum ipsi aliquis imperet, tantum bibens non metuendum, ne unquam
magis ebrius factus sit. Pro xeXsvfl , quoil Bekkcrus et
Stnllbauinius in textum receperunt Bodleiani codicis oliorumque pauciorum
auctoritatem secuti , vulgo xeXevtiy le- gitur, quod Riickertus
edidit. Utraque lectio bona est sentontium si spectas, quam
Alcibiades prolaturos erat. Certe non dispiciendum est , cur dicere
non potuerit : quantum ipsi ali- quis imperaverit cet. Dif-
ficillimum igitur ad diiudicundum, quid Plato scripserit. Sed tnnta
tamen nobis, qnanta debet, Rodle- iaui codicis auctoritas fuit, ut
non dubitaremus, praesertim cnmVV. DD. , Bekkero et
Stallbanmio placuerit, xeXevtj in coutextam orationem recipere.
Sententiam' quod attinet, cfr. p. 220. A. iv r* av xaif EvGoxUn?
puro* anoXaveiv oloS t * 7jv , x d x* aXXa xal iclveiv ovx
i$£Xmr, 6 nox 9 dvayxa6%ei7j , ndvtaS ixpaxei xal o navzGDV
3av- padxoxaxov , ^cjxpdxr/ v- ovxa ovdelS nojitoxe ieopaxev
dv$poo7ta)v. x ov 6 * 'EpvZipaxor t II(£s ovv — noiov/iEv.
Cur Eryximachos potissimum hic pro- deat, statim intelliget, qui
loci meminerit p. 177. B. C. atque inprimis ibid. D. i/iol yap
dt) tovto ys olpat xcctd8tjXov ye- yovkvai ix xijS latpixijS,
ori XaXenov xotSdvSp&noiS t) pc- $rj itizi* xal ovxe ctvxoS
iSc- Xrjdaipt dv itielv , ovxe dX X<p CvpfiovXEvdatpi, dXXcjS te
xai m jfyiOKOVj Ilag ovv , g?<ma, cS 9 AAxc{$ux6r]
, noiovfiev. B ofrrog ovr$ rt Aeyopev htl xy xvkixi ovr* Inadops v;
&IA' &xe%vag c3 gneg ol diipcovTBg Ttiout&a j Tov ovv ’AA oapiudtjv
elnelv , *&l 'EQV^tfiaxB , /3 HxlGtb fieXxlOxov na- xgog xal
(SacpQOVBOtatov , %cdpe. Ketl yap 6v , <pdvai zdv 1 EQV%iyM%ov * cUAa
r£ noicopev ,* — w cv <5i) itjxpoS ydp avijp xoXXojv avxd£io$
dWoov. Intreme ovv o tt- fiov/Ly, — yfxovdov §rj, dntiv xbv
xpctntaXdvxa Ixi ix xijs rtpo- xepaictS. Do verbi* Eryximachi
medici h. i. laudatis : tigoS ovv , tpdvai, cj 'AXxifiiddtj , xoiov
- ptv uon recto Stallbaumius : JSt quis , inquit ,
coniunctivum requirat , qui est deliberantis: eodem modo nos : IV i
e nun thun wir, habe Eryx ima - c/ius gesagt?
Eryximachut cum bibendi molestam necessitatem feliciter evitasset p.
176. B. , ne nuuc ad bibendum coge- retur, et Alcibiadis
immodera- tione indignatus, quam omnino pestiferam hominibus supra
ceu- suit, Quid nunc facimus verba ita profert, ut explicatius
andiant: qua insania nuuc agimur, tantumque abest Eryximachu»,
ut, quid faciendum sit, roget, ut po- tius praesentia satis acriter
re- prehendat, Quod qno facilius appareat, interrogaudi
signum in puuetum immutavimus. ovtoS ovxe ti Xiyopev ixi xy xv
X ixi, OvxgjS , at in praecedeutibus redis, plenum indignationis
atque acrimoniae. Sensus est: liac igitur ratione, b. e. hac igitur
insania allectis neque sermo ullus . neque cantus iuler pocula
erit? Ceterum ixd- 6optv ia textu posuimus , quae Bodleiani codicis
lectio est. Val- go ovte xi adojMY. xov ovv — yaipE.
Alci- b i a(|ls Eryximaclii admonitione tactus cum statim, quod
respon- deret, uon haberet, ut non nega- ret id, cui contradicere
non pos- set, neque probaret, quod pro- bare nollet, Eryximuche,
inquit, optime fili optimi patris atque sapientissimi, salve. Sed
non delinitus hac re Eryximachus, salve tu quoque, respondit,
nam et iu te cadunt omnia ea , quae super me modo dixisti, sed
quid vis faciamus ? His auditis Alcibiades satis gratiosus omnem
rem ex Eryximachi arbitrio iudican- dam propinat,
IrfXpoS ydp ctvr} p. Ver- sas Homericus est petitus ex II, A.
De scriptura insequentium verborum ini di£>id , vide an-
notationem p. 50. Vulgo enim etiam li. 1. et paullo infra im-
SiB,ia legitur. Structuram au- tem quod attinet verbornin xctl
XQVIQV xal OOTGO TOVS dX- A jOvS , Stallbaumii indicio sub-
scribendam est annotanti V: Ac- cusativus ponitur, ac si praeces-
sisset dixaiov i<Snv, huquc 'EqvUimxov yfitv y jiQtv ah dgtlfitiv,
Wo|« XQ^cu Ini ds|t« exaGtov iv ftion koyov sicgl "Erjazog tlnsiv
rag c dvvraro xdkkiGTOv , xal lyy.au.wGai. ol fitv ovv cckkot
xarzts VfitTs thppwfuv ' Gv 8’ ixsiSij ovx eiQrjxct; xal mximaxag ,
8ixaiog tl tlnuv, tlnav 8’ imrce^ai ZaxQatu o tl av (iovhj xal Tovtov ro
Ini 5t£ut, xal ovr a rot)g akkovg. 'Akkd, tpuvai, u ’EQV$ifict%e , rdv
'AktupidStjv, xakug fitv kiyuq , (ttOvovt a 8h uvSqcc } tagcl
vytpovtav kuyovs izaQctftdkkuv fit) ovx 1% Igov y. xal afia, a verba
sic interpreteris : nai tov- tov dixaiov itfnv intrdUat T(b
ini 6 e£,kx. Structurae va- riatio nec per se ingrata est> et
per sententiae rationem pro— pemodum necessaria. ol p\v ovv aXXoi.
Apol- lodorus , nt ipsius verbis doce- mur p. 180. C» quoruudam hominum
orationes, quas memoria non teneret, non retulit. Hoo moneo, ne
quis miretur, non nisi sex orationibus relatis Ery- ximuchum nunc
loqnentem in- duci : ol piv ovv dXXoi nav TeS elpijxapev,
aXXd, gravat, ca *Epv%l- pax e , t 6 v ! 'AXHifiiadrjv ,
Vefba aXXd — oJ *EpvB,ipax& — xaX6oS piv XiyeiS dubitan- ter
Unguntur ab Alcibiade pronun- tiata esse, qui verebatur, ne hominis
ebrii oratio sobriis au- ditoribus satis displiceret vel etiam
ridicula censeretur. Indi- cium est huius rei verborum dispositio,
quae ita comparata est, nt intermixtis gravat et tdv AXxipidSrjv
verbis orationis initium co modo distraheretur, quo ab Alcibiade
pronuntiatum est. Simile huius artificii exemplum reperitu» p. 175.
E. vftpt- dT7j€el, tgnj, eJ 2 coxp aTEt, 6 AyaScov, quae verba
Agatho- Uem ita pronuntiasse consenta- neum est, ut illudi sibi
magno cura pudore sentiat eumqne pudorem atque confusionem
animi iuterrupta voce prodat, AeSvovTa 6i dvdpa na- p d
vrjgrovTtov X 6 y o v S. Vario modo sanissimum hunc locum viri
docti couiectnris tentarunt. Eas hic repetere longum. Astitis
verborum sensum esse contendit: Aequum non fuerit homineme— bnum
cogere, ut inter sobriorum hominum sermones habita oratione fiat
ridiculus y quam verborum conversionem nemo pro- babit, Stallbaumius
verba hoc modo interpretatur: Ebrium virorum componere cum
sobriorum orationibus haud sane aequum , (quod breviter dictum est
pro) ebrium virum provocare , ut ae- muletur sobriorum orationes,
haud aequum fuerit. Sed ne haec qui- dem interpretatio satis nobis
nunc placet. Notum est Homericum il- lud xopai Xapitsddiv
opoiai, quae dicendi brevitas haud rara apud veteres scriptores.
Exemplo noster locus est, ubi pro pe- &vovros dvdpos Xoyov
dicitur D fiauuQis, xtt&e i xl 6» Zcixquttis u>v vQtt ilitzv ;
?} oitsQa, oxi xovvavxlov Igt'i itciv i) o iisyev ourog ydg, hxv
riva lyw InaivLaco xovxov jtagovxog q &sov ij dv- &Qcoxcov dU.ov
rj xovxov, ovx utptiixai fiov xio %£iqe,^ Ovx evtpijtiijoiig ; (pava t
toti Eoxgdxrj. Mu xdv IIo- ouda, dntlv xdv 'Akxifiiddijv , (iqdht liys
xgdq xavxa, / tcSvovxa avSpa. Sensu» esi: Aber die H e d e
ei nes trnn- kcnen M an nes in e i no R e i h e mit den Reden
niichterner Manner zu stetlen, mochte wohl nicht nns dem glcichen
h. e. nicht passe nd se in. Iliickertus eo- dem fere modo: vereor,
no parum sit aequa conditio, si homo ebrius cum ora* tione
sua sobriorum cum orationibus componatur. Ceteram cum hoc loco
conferri potest Piat. Gorg. p. 455. E. oltiSat ydp 8rf nov, ori ra
yego~ pia ravra xai ra reixy rddv f A^7]vaicDV xai t} rdov
Xiyevcov xaradxev?) bc r rjS Oepidro- xXeovS dvpfiovXrjS yeyove ,
ra d’ ix rijS TlepixXiovS, d X X* ov x ix r g5v 8r) yiovpy 6ov
y quo loco consentiens vox esc co- dicum omnium in verbis ix
rdov dijpiovpydov. Buttmannus et Hein- dorfias scribendum
coniecerunt ix tijS djjpiovpydov 5 Schaeferus ed Apoll. Rhod. Tom.
II. p. 141. ix rrjs rdov 8rjpiovpyd/v maluit. Sed nihil opus esse
mutatione, instituta cam Symposii loco com- paratio docebit. Adde,
quae verbo infra legantur p. 217. D. dve - navero ov v iv ry
ixopevy ipov xXivy h. e. in lecto, qui meo lecto proximus erat.
xal aua, cJ paxapts, xelSet ri di x. r. X. Alcibia-
des verbis prolatis xat dfut pro- prie dicturns erat : Et simul ne
possem quidem, etiamsi vellem, Erotem laudaro Socrate praesente. Sed
mutr.to consilio ita perrexit: Num tibi quid quam eorum, quae modo
locutus est, Socrates per- suasit? Sensit enim homo sa- gacissimus
, verbis contra Socra- tem directis fidem prorsus defu- turam esse,
nisi illius dictum aute oppugnatum sit, atque in mendacii
suspicionem vocatam. Recte igitur Stnllbaamius anno- tat. ad b. 1.
Alcibiadis interro- gationem ita interpretator, nt sensum eius este
dicat: Noli quid quam eorum credere, quae modo dixit Socra-
tes: nam plane contra- riam verum est. Ceterum ad verba hic respici
consentaneam est p. 213- C. T jfa 'AyotS cov, dpa, el poi iitapvvEiS. cos
i/ioi d rovrov ipcoS rov dvSpoonov ov <pavXov npaypa
yeyovev. an* ixeivov yap rov xpdvov , aq> ov rovrov ijpddSyv,
ovx- exi i&edti poi ovre npoSfjXe- ipat ovre SiaXexSffvai
xaXdi ovSevi , i} ovrodl ZrjXorvrtdoy //£ xai tpSovGov Sav/iadra
ip- ya<$erai jcal X oidopeltai re xai reo x&f J£ jidyiS
anlxEtai x. r. A. Satis lepide autem iisdem fere verbis hic utitur
Alcibiades, tog lyio ovd’ c'v svn ulhav fauuvt<Sruju Oov
JtaQuvtog. owrca ao In, gravat rov ’EQv£lpa%ov , el fiovlei'
Ecoxqcixt] InaLvtOov. litos Atyttg { dxtiv rov ‘AXxt- (iuxdijv' doxei
XQ*i vttl > ® 'Egv^ifiaxt ; ijci&cofiai rei E kvSqi xal
Tt[iugT]6to[iai vfiav Ivavtlov ; Ovtog , tpuvcu zov EcoxQa.tr] , 1 1
h> va £%h$ ; Ini tu yiXoiotEQti fit quae Socrates 1.1.
exhibuit, <*o- epi&eral pov tca X^P £ - ovx ei) epij
ptj det$ $ Nega- tio cum futuro tempore couittn- cta quam
potestatem habeat, supra dictum est annotat, p. 26. Eveprjpetv
verbi significa- tum quod attinet, explicatum re- peries annotat,
p. 246. taS’ iyco 0v5* av iva a A- Xov h. e. nam dc me
ita cogitato, ut qui te praesente prorsas neminem alium laudaturus
sim. tctoS XiyetSj doxel Xpr/rat , oJ *Ep v^ipax^i
Supra p. 21B. D. Alcibiades im- pediebatur, quominus iniuriam, quam
a Socrate sibi illatam pu- tabat, ulscisceretur j nunc data
ultionis occasione magna cum animi laetitia atque huius rei nec-
opinatam opportunitatem mira- tus, Quid ais? inquit, cen- sen’ me
etiam debere hoc facere? Accentus oratiouis in Xpijyca verbo
ponendus est, quo facto, quod antea, ut faceret, non licuerit
Alcibiadi, id nune idem etiam d e b e re facere ju- dicatur.
iit i rei yeXo tore pa pe i Ttcx.iv id eiS ; Duplici modo
Rtickertus putat yeXoiotepa compafativuiti explicafi posse, tfel ut
admissa dicendi brevitate di- ctas sit pro za yeXowzepa 7 }
aXi/SedzepeZj vel ut significet: ita laudare, nt quo sint quae- que
magis ridicula, ro laudanda sumas studiosius. Neutra com- parativi
explicatio probari pot- est. Stallbaumius ad h. 1, , ifi talibus ,
inquit , quae sit vis et significatio comparativi, neminem, opinor ,
fugiet. Neque sane difficile est indicatu, quid significer. Primum loci
meminisse iurat p. 189. B„ ubi Aristopha- nes haec profert: coS'
iyco epo - pov pexi Ttepl tgov /teXXdvzaov firjSj/dedSext ov n ,
p?) yeXolot eiitea) , rovzo p\v yexp av xip - 60S eii} xal zijs rj
perspexi Mov - OrjS ijtixodptov , «AAa pi) xa~ rayiXadza. Ad quem
lo- cum cum annotatum sit p. 149. > yeXoia ea significare, quae
risum moveant, xazayiXadza contra fatuitatem denotare eius ,
cui xaxexyiXexdta convenire dican- tur, dubitari nequit, quin
no- stro loco comparativus yeXoiov vocabuli nihil aliud
exprimat, quam quod illo loco xazayk - Xadta vocetur. Ceterum
Bek- kerus edidit: ini rit yeXoio - X£p(t pe iitctiv&det
, quuo scri- ptura ex errore euata est olim disseminato : iitaivelv
verbi fa- turum tempus noa iitaivedco sed iitaivedopcei
audire. tmavidng ; rj x l jron}<Jj(-g ; — TuXrj&rj Igm. aXX’
5p«, tl magiris. — ’AXXu fitvroi , qxtvca , x& ye aXrj&rj n
ag- fajfU x«l xeXeva Xlyuv. Ovx Sv ip&avoifu , tlnslv rov
'AXxi^iddryv. xal fitmoL ovxaol molt]6ov‘ idv tt fu) dXrj&es Xkyar ,
/.ata^v h tiXafiov , av fiovXtj , xal 215 tlju , uri zovto tl’Svdofiai.
extnv yag tlvai ovbtv fev- eofiau idv (itvroi dva(u[iv>]0x6iuv os dXXo
lilXofttV ov yag tl §ud iov xryv Otjv xaXrjSij
ipc J, Vide de his Verbis Comment. de Platonis Sym- posio. Quae
sequuntur verba, aXX' opa, el izapb/f , ludibrii caussa addita
suut, quasi rogari oporteat virum eum , qui per omnem vitam
veritatis amorem profitebatur, utrum vera dici ve- lit necue.
Monemur autem hoc loco de verbis Piat. Apol. Socr. p. 17* C. ; xal
piv tot nat rtavv y G) avdpes *A^i]vaiot > xovro vpc ov diopai
xal napie - pai. Phavorinus napisoBai rov - to , inquit, Soxel rov
napai - xtldSai dvvapiv £*«*'. Timaeus L. V. Pl. p. 207.
napisiACti' napaitovpai , ad quem locum Ruhokenius: Huius
rarissimae, inquit, notionis ratio nondum, quod aciam, explicata pendet ex
indole mediorum. Ut irjpi et itphjpt est mitto, %Epat et
itpiepat mitti mihi volo, i. e. cu- pio, peto, sic napirjpi
ad- mitto, napiepat ad me ad- mitti volo significat, h. e,
precor, deprecor. Speciosa quidem est, sed, quoniam usu ioquendi non
probatur, neutiquam probabilis rtapiepat verbi explicatio. Neque Socratis
in- genio , qui , ut virum sapientem decet, fortiter atque
viriliter iu- dicibus' respondit, rogandi ver- bum duplex positum
satis Con- venire videtur. Significant po- tias verba xovto
vpcov diopeti nat xapiepat : hoc vos rogo mihique indulgeo.
ovx av q>5.dv oipu De signo interrogandi post haec ver- ba
non admittendo, atque de huius dictionis significatu supra diximus
annotat, p, 125. Quae sequuntur verba, xal pivxoi ov - TOJdl
noir/dov, aliquid vitii con- traxerant, quod miror a nemi- ne
interprete deprehensam esse. Schleiermacherus verba conver- tit:
nnd da thue so, quod ita dicitur, ut, dum Alcibia- des dicat, si
qaid forte minus recte dixisset, Socrates iubeatur id corrigere, lloc
modo etiam ceteri interpretes verba acceperunt. Sed duo sunt, quae
displi- ceant. MSVXOI CUm OVTGOdl noirfdov vix videtur
commode ooniungi posse. Deinde 6v pro- nomine haud careas in
enuntia- tione, qua quid Socrati faciendam sit, praecipitur.
Facillime unius litterae mutatione locus sanatur. Scribendum est
xal pivxoi ot$- x cedi noitjddov idv x i pij aXrj- Xiyco , pera%v
iniXaftov x. x. A. Sensus est: Et si hac, qua dixi, ratione
acturas, falsi quid forte dixero, interpellu, si placet, 1 o-
rlromav ud’ ?yovu tvnogag y.al Itpt^fjg xccraQt9(iyaat. — ZcoxQuxy 6’ iyu
htcuvtiv , oj ardqtg, oiitag iTtiyu- qt]dco , 8t’ dxov av. ovxog jiev ovv
’i6ag olyasxcu tirl rcc ytXotaxtQa , taxat, 8’ y tlxcov xov aAi;&ovg
tvty.a , ov xov ytkolov. Cap. XXXII. yaq 8rj
ofiototcnov avxov tlvat xotg UstJLijvotg qoentem atque falsa nar-
rantem redargue. kxav y<*p elvoti, Dc in- finitivo in
huiusmodi dictionibus vide annotat, p. 40. Sensus est: quantum ex
me pendet, mendacium non dicam. ov yap xi j) adiov.
Cave pronomen indelinitum cum fa(i- dzov aTCte counecteudum
cen- seas. Pertinet id ad negationem atque ov tt apprime
respondet nostratium: denn es ist gar nicht etwa leicht. Quae
se- quuntur verba cjd* ix^YXi du- plici modo explicari possunt.
Aut enim ad Socratem referuntur aut ad Alcibiadem» Ad Socratem
relata Alcibiadem ita animatum ostendunt, ut qui diflicillimum esse
putet, Socratici ingenii mi- ras virtutes coram Socrate so- brio
expedite atque ordine quasi in digitis enumprare. Jl 18 ' %x ov ~
roS", quod fortasse sunt, qui desiderent, prorsas alium sensum
funderet, atqoe axonictS Socraticae inserviret veritati describendae ; esset
enim idem cj 8 $x ov ~ XoS atque xtjv 6i}v axoniav gqS £££ 1 ?. Sed
possunt etiam coS 1-XOYXi verba ad Alcibiadem re- ferri,' ut homini
ebrio Alcibia- des dilficillimum esse censeat Socratis axoTtlav expedite
atque ordine referre. Quamquam eadem via est sententiae, hoc an
illud explicandi genus magis proba- veris, tamen cum
recentiorihus interpretibus de Alcibiade verba coS" Ixoyxi
dicta accipiam. ovx gdS — St* £ 1x6 v cov. Addita verba habes
61 * elxovoDVy quibus quod praecedit ovxcdS vo- cabulum accuratius
defluitur. Vide annotat, p. 43. , ubi et hic locas laudatus est. Ad
sequentia oltjdexat iizl x a yeXoioxepa Stailbaumius supplendum
censet: me ipsum laudaturum esse. Non recte. Meliora docent
sequentia verba H6xai 8* 1} e XOJV XOV aXl]^OVS LVETiCL X. x. A. ,
ut igitur ad illa verba suppleudum sit: 81* eixov cov pe
imxEip&Y htaweiY. For- tasse etiam plaue nihil supplen- dum est
, siquidem cogitari pot- est, Alcibiadem iici xa yeXoio- xepet
verba quodammodo ex sen- tentia Socratis repetiisse. Verba igitur
convertere possis: Er wird wahrschcinlich bei sicli denken )t inl
xa ye\owxepa lc : des Bild- lichen bediene ich roich indess nur der
Wahrheit wegen , nicht um zu verhdhnen. xoiS 2 ei\l]v olS
rou- xoiS xots iY x 01S k p /t o - y\v<peioiS xaSTjpeYoiS.
Schol. nd h. 1 . 2i\tjvo\ Jio- 22 B tovtoiq tolg Iv tolg tQUoylvcftiotg
xadypivotg y ovg rtvag lgyut,ovtca ot drjfu&vQyol Ovgiyyag y
avkovg l%ovtag'’ di ftgadfi dtOL%&tvr£g tpaivovtat tvdofrtv
vtyak- vvdov xopfvral napa ro rftA- Aofivttv y u l6xt
6xojitxeiv Atyopevoi [jtapd xovS TtotovS]. Adde Schol. ad Aristoph.
Nobb. v. 223. xi pe xaAeiS , g) '<p>}~ pepe. — gj avSpcDire.
iXiyeto 6i d Stoxpdrr/ff xrjv uifuv 2et- Arjvcp itapeptpodveiv. 6 1
po S xs y dtp tux \ (paAaxpd $ i)V. xe- pieSyxev ovv ctvxcp olov
xov napo. JJtvddpop SetXtfvov cpco- v)}Yx. x. A. Patet autem
o uostro loco, nam nusquam «lias rem commemoratam reperias
statuarios capsulas, quibus artificia reconderent , ad Sileno- lum
formam effinxisse, eorumque sedentium quidem, nt latius intus
spatium artificiorum recon- dendorum daretur. Hae capsulae
felicissime cum Socrate compa- rantur etiam eo , quod externo cultu
minus conspicuae erant at- que negligentius elaboratae Athe- naeus
L. I. c. 15. C. statuam Thebis exstitisse narrans Cleo- nis
cantoris haec addit : vito xovxov xov dvSptavxa, oxe
AAiZardpoS x cis QtjfiaS xaxe- (Sxanxsy <ptfC\ noAeparv,
<pev- yovxa xtva xpv6iov eis x 6 ipa- xiov xotXov ov ivSitiSai •
xal 6vvoixt2,oplvr}? xffS itoAeaS ixa- veASorxa evpeiv ro' xP v<
*i° v pexa hy Xpiaxovxa. Sed nihil habet haec narratio, qnod
aliquo modo possit cum nostri loci verbis comparari. Hoc tantummodo
ex ea discimus , magna religione illis temporibus homines artium
operibus pepercisse. o? 6ixa8e 8ioix$£y*£f. H. Stephauus
6ixa6e verbo offen- sus , quod nusquam alias apud Platouera
reperiatur, 8ix<* scribendum couiecit, quae correctio fuerunt quibus
admodum placeret. Recte receiitiores editore! 8ixa8e reposuerunt. Verba
converterant Ficinas : qui si bifa- riam dividantur y reperiuntur in-
tus imaginem habere deorum. Schleiermacherus; ia dei, en man uber,
wenn man die eine Halfte wegnimmt , Bildsaulen von Gdt- tern
erblickt. Schulthessius ;. Schiebt man sie auseinander, so erblickt
man inwendig Gotterbilder. Rem intellecta facilli- mam fecerunt
interpretes difficiliorem. Res sic se habet: In contrariis Silenorum
lateribus duo- bus duo foramina erant, quae epistomio quodam claudi
pote- rant. Iam si qnis artificia intus j^econdita spectare vellet,
non opus erat, ut singulae partes Sileui solverentur. Ex
altero enim Sileni latere, ex utro ali- quis vellet, per alterum
foramen spectatio erat , ex altero lateris parte per alteram, quod
in cg erat, foramen lux incidebat. Sen- sus est verborum: Di ese
zei- gen, da sie auf beiden Seiten nach deu Durch-
schnittspuncten hin OefT- nungen haben, in ibrem Innem die
Gestalten von Oottern. Ceterum non sino magna vi ultimo enuntiati
loco positum hahes $£G)v ‘nomen , nt significantius indicetur,
res summae gravitatis vili atque pae- ne ridiculo tegumento h. e. So-
cratici cojpoiis turpitudine ob- \i I ftam
fyovtes ftecov. v.a.1 cprjfii av loitdvai ccvtov rtp 2.'ax vQip, ra
Magaba. ou fiiv ovv xo ye eidos fifioiog tl tovtois, a Ewxqox fg , ovd’
avrog dij xov d(upLCj}ri- vnlutas esse. Nostrum locum
imitatus est Iulianus Orat. VI. p. 184. A., sed memoriter atque
mitius accurate, ut carendum sit, no quis ad eius exemplar Platonis
verba emendare studeat: <pypl yap dy njr xwtxrjv
<piAooo<piav opoioxdxyv eivai xolS 2 eiAtjyoiS xolS iv xolS
EppoyAvqjeioiS naSypEVoiZ, ovS- xivaS ipyaZovxai ol dypiovp- yoi
6vpivyaS rj ariAoris Exov- xas , o? 61? dioix^Evxes Evdov
tpaivovxai dydApaxa ExovxeS SecZv. xai tptfpt — xcri 2 ar
ri- pa) , tcj Map6vot. MapcriaS, Schol. inqnit, otriArjtl /ff, ’OAvp-
itov vloS, oS xoris ariAoris *A$y- vaS /jnpddt/S dia xd iva6xy-
povEiv avxoiS drtAoptvoS rjpt - (Siv 3 AitoAAcovt itspl pov6txijS t
xal y xxy$y , xal itoivyv di- dcoxe x 6 dlppa dapetS. Docemur hac Schol.
narratione, Marsyam formam faciei minus curas- se, utpote qui tibiis
canendo ex- celluerit , quas , quoniam faciem deturpant ,
repudiavit Minerva, cfr. Appulei. Florid. I. 8. Eo (Hyagni) Marsyas
cnm in arti- ficio patrissaret tibicinii , Phryx cetera et
barbaros, vultu ferino, trux, h spidus, illutibarbus, spi- nis et
pilis obsitus fertur pro nefas cum Apolline certavisse. Thersites
cum decoro , agrestis cum erudito, bellua cnm deo. Ceterum quid
Marsyae mytho ve- teres exprimere voluerint, statim intelligitor.
Musica nimirum orte hominum ferocitas deliuilu morumque asperitas-
deposita est, sicut pellis Mursyae spinis atquo pilis obsita, quam
Musarum in- dicio Satyrus deposuit, orid 9 ari ro ? dy itov
dp- <pt6fiijxi/dais. Ilaec est le- ctio vulgata , quum duorum
au- ctoritate codicum- in dpqjiCfty- Tr/tiElS immutarant
interpretes» Ac potuit quidem Plato' ita scri- bere, non scripsit
revera. Ete- nim quae certissimu sunt atque 11 * luce clariora
Alcibiadi, ea idem quasi dubia ex Socratis mento aptat, non ut
incertus esse rei, sed ut simulare tantummodo videatur irooiae caussa
aliquam dubitationem. Unius optativi ex- emplum , quo satis acerbe
ali- quis aliquid, quod compertam habet atque perspectum,
tamquam dubium ex alius mente aptat, apud Meleagrum reperitur
Epigr. LXIII. "Eyv&v, ori p* EA a$£S. r i
Seori?-, ori yap pe AeA yBaS. "Eyv&v * prjxixt vvv
opvw irdvx* EpaSov. Tavx yv, xavx iitiopxe ; povy 6v
itaAiv, povy vitvoiS t oApyf xal vvv, Vvv Ext tpydl povy.
Aliud exeipplum a Reisigio lau- datum reperies in Commentat.
de vi et usu av particulae p. 131. * Theocr. Idyll. XVII. v.
60. <prjs poi navxa douev * xax& 6 * v6x epov orid *
dAa doiyS> quae verba a puella pronuntiari Reisigius
censet, quae amatori 22 o 1 3-WI
T^dBig • uig de xal ralla Eoixt/g , fina rovzo axovs. 'rfiguirr/s
et ' ’>] ov ; irtv yccQ f uj oito loyjjg, (iitQrvottg nKQtto[icn. all’
ovx Kvh]rrjSi noli) ye Sw/ttttftcorfpog C Ixtivov ' o fitv ye dt ogycivav
exijlu rov g av^ganors tij r< jio zoy CTofiazos dvvujiei, xai En vvvl
og ccv r a Dinlta pollicito hyperb<pl i cum fere aliquid
et incredi- bile imputare lepide confiteatur. Ilis verbis , Reisigius
in- quit, si uv vel xe adderes y vah , quantum periret Veneris .
Lasciva puella , quod ipsa minime cre- dit , loquitur , nec vult
videri serio se credere , sed tentat dis- simulare tanfum : qua
ironia eo fit amabilior , et auget amoris flammam. Tale fere
quiddam est in nostratium more , ubi di- cimus; am Ende : v eluti ,
am Ende giebst du mir gar nidus. SimiMus Reisigianum exemplum
Platonis verbis est, quam quod supra laudavimus exemplum Meleagri ,
quamquam id accura- tius examinatum eadem dicendi ratione gaudero
iutelliges. v fip 1 6 r y S ei' y o v ; Haec verba
Schleiermaclierus reddidit : . Rist du ubermiithig, oder
niclit? Sed magnopere displicet, quam V, D. secutus est, verborum
in- terpunctio , neque verisimile est, eum, qui testes adhibere
possit, quibus rei prolatae veritatem probet, sic locutum esse:
vfipi- 6ti)S el y y ov ; Sententiam ver- borum quod attiuet,
prorsus eodem modo Socrates vfipuStyS vo- catur ab Agathone p. 175.
E.: TppitiztjS el, £<py , gj Scjxpa- teS 9 d *Ayd$(ov.
'TfipiOx&v autem nomine omnes insigniuntur, qui aliquam rem ita
tor- quent atque volvunt, ut aliam vel speciem vel notionem
potestatemque repraesentet, eatnque quidem contrariam ei, quae pri-
mitus ipsi inest. Sic et vfipi- S,eiv verbum de Homerica pio-
verbii corruptione adhibitum le- gitur p. 174. B. "OpypoS jttv
yap mvSvvevEi ov puvov Sta - <p$ttpO(.iy d\\a xai v fi pluat
f.ls ravryv tyv napoiplav, ad quae verba vide annotat, p. 19.
Ut autem Sileni in artificum oirici- nis sedentes aliud in se
habmt, aliud externa forma ostendunt, quod illi maxime contrarium
est, ita Socrates haud raro cogita- tiones suas obtegens aliud
quid, quam quod sentiret, verbis -ex- primere solebat. Hinc
institu- tae comparationis et, Socratis ct Silenorum expendas
veritatem. i av yd p fii } o poXoyy Tdp particulae potestatem
recte intclligcut , qui interrogationis praecedentis significatum
cogno- verint. * II ov ; enim verba ita proteruntur ab Alcibiade,
nt rem a Socrate negari posse negaret quasi diceret: Rem
negare non potes. Paullo aliter Stall- baumius de yap particula
disse- ruit annotat, ad h. 1. : Particula yap t inquit , referenda
est ad sententiam ex reliqua oratione facile supplendam : el fikv
ovv. — Utra rectior sit atque na- turae Joci accommodatior
expli- catio , lectores ipsi videant. crAA* ovx avXyzy S- t
Re- Ixtlvov ttvXjj. a yag "OXvfixog ij vXei, MuqOvov
liyco, rtivtov didcct-avTos. r a ovi) ixtlvov , iav re dya&og
avXtjrrjs ciiiky , edv re qiavXrj avXtjrglg, ( wva xccci- j reti&at
itoLSL, xal Sijloi rovs tcov &ecov te xal reXeroJv dtofiivo v$ 6 ut
to &tla etvau oi> d’ ixtlvov roOovrov ctissime H. Stephanus
, quod ia editt. valg. omittitur, post av- Xvrtjs signum
interrogandi po- suit. AAAa autem e licto So- cratis responso
repetitum est, qui vfipi6xijv quidem se esse con- fiteatur,
avAtftfjv se esse non concedat : vfiptuTJ/S y* tipl, Oj IA*
ovx avAtjxrfc, xal ixi vvvl oS ctv x u ixtlvov avAy. Docemur
his verbis, Olympi harmonias etiam Platonis aetate superfuisse,
qui- bus tantum veneris attribuitur, ut sane pulcherrimas fuisse
inde couiicias. Phrygias harmonias fuisse ivSovdiafyiov
procrean- tes Boeckhius docet ad Piat, Minocm p. 26. M
apCvov Mycoj xov- i ov 8 i5a£, av x uS. Consentit Schol, «d
Aristoph. Eqq. v. 9. &vvavAux. ZwavAla xaXtixai , otav 6vo
avXi/Tixl to avro Ai-. ycjdtv. 6 ” OXvpTtoS povCi- xoS Tfv ,
Mapdvov pa$7)rifi. iypcnjxt Sk avXrjrtxovS xal $p?/vyxixovf vopovS.
Yopoi 8e 7 ( 0 tXovvxat oi tis $toi>S vpvot x. x. A.
iav te aya$uS — aJ- A i/rpis. Etiam tibicinarum cur hic
mentionem faciat Alcibiades, si quis quaerat , nihil ab inter-
pretibus annotatum reperict. lloc certissimum , neminem olferisu-
rum esse iu verbis iav xt uya- 5uS avXt/xj/S avAf/y iav te ipav-
Ao?. Ut nunc verba se habent, de artis dexteritate dicta acci-
pere possis , ut non nisi viri in arte tibiciuaria boni dicantur,
mulieres autem artis expertes ti- bicinariae non nisi mediocritatem
quandam teuere. Sed hanc non fuisse scriptoris voluntatem, no- bis
quidem persuasissimum est. Alcibiades proprie dicturus erat : iav
xs avAr/r ?/? , iav re av - A ijxpiS y iav re ayaSuZ ns, iav xt
tpavAoS , sed brevitatis studio oppositionem ita instituit, ut non
substantiva solam sed etiam adiectiva sibi oppo- nantur. Ceterum
vide annotat, p. 299. ubi huuc locum landa- virnus.
pova xaxexz6S at xal d ij Aoi. Frustra haec verba emendare studuit
Orellius ad Isocratem p. 333* Scribendum enim coniccit puvovS
xarix^d^c ri 7ruit2 xal xtfAtt. Haec correctio cum alia de caussa,
tum co nomine nobis improbatur, quod harmoniarum Phrygiarum vim admirabilem
minuit atque urctioribus finibus iucludit. JMovvt plane eiusdem
potestatis est at- que (tvxd , eamque illarum har- moniarum
praestantiam descri- bit, quae sua vi emergit , neque ullo
artiiicum adminiculo indi- get , quo emineat magis elfica- ciorque
evadat. Recte inde col- ligas, simplicissimas illas har- monias
luisse. (torov SittcpiQt ig, on avsv 6 gyccvav, ipdotg loyoig rav-
D tov rovro noieig. r/fiug yovv orav fitv rov ullov dxovco- I uev
Ityovrog xcd itavv dya&ov grjtOQog cA kovg Xoyovg, ovdlv ftfAft , ag
£'xog tlxtlv , ovoivl' inuSuv 5e fiov avev 6 py a v ody , rptXol?
Xoyoi?, Comma posuimus post opyaycoYt quo tautologia verbo- rum
facillime vitatur* IFiAol Xoyoi enim h. 1. ajipositum est, ut
clarius indicetur, quid significent veitoa : avev dpydvoav TavTuv
rovro notel?. Ceterum notandum est, alteram etiam significationem
Alcibiadem tecte indidisse verbis iJnXoi? X oyoi?, WiXoi? enim idem
fere sonat atque diXXoi? , ut satis lepido ad Socraticam illam
ironiam al- ludatur, qua virum sapientissi- mum usum esse
acerbissima nemo nescit. ov 6% v jiiXei 9 oa? in o?
eineiv , ovSevl. De vario ordine, quo Graeci gJs - ino? el~ Ttnv
verbis usi sunt, vide annotat. p. 127. Significatum quod attinet huius
dicendi figurae, an- notationem adi p. 63- Latiore autem
significutu serioribus tem- poribus, ut videtur, hanc formu- lam
adhibebant Graeci, angu- stiore, quem ipsa verba expri- munt,
antiquioribus. Nam si quis autiquitus verbo aliquo usus es- set,
quod rei describendae minus convenire intelligeret, ut id intelligere
videietur, verbique ve- niam peteret, illam diceudi figuram adhibuit.
Perinde autem erat, utrum Q)? ino? eineiv di- ceret, an &S
eineiv Itio?, Utro- que enim verborum ordine uti licuit in dictione
, quae nihil aliud significabat, quam quod ipsa verba exprimebant.
Serioribos temporibus loquendi usu factum est, ut scriptores
eadem dicendi formula adhibita veniam peterent uou unius verbi
minus accurate usurpati, sed complurium, ueque verborum solum, sed
etiam seu- tentiarum. Iam quo magis np- tio , quam usus loquendi
alicui formulae indidit, a proprio verborum significatu recedit, eo
debiliora verba fiant necesse est, nt quasi torpore quodam tenean-
tur, qui ordinis mutationem non facile admittat. Exemplo pro-
verbia snnt, quorum verba sin- gula eodem ordine plernmque re-
citantur, Exemplo etiam formula est d>? Ino? ehteiv, quae simul-
atque latiore significatu adhi- beri coepit , liberiore verborum ordine
gaudere desiit. xdv navv q>avXo? %f o A eycov. Potuisset
etiam h. 1,, si oppositionem adhibere voluis- set, Alcibiades
dicere xdv ndw aya$o? o} xav ndvv <pavXo? 6 Xiycov , de quo
dicendi ge- nere supra diximus annotat, p. 299., et cuius exemplum
paullo sapra legitur, p. 215. C. Idv re dyaSo? avXrjr?}? avXy , idv
re (pcwXrj avXrjTpi?. Quod moneo, ut recte varba explicata
credas 209. C. dnropevo? yap, oipai, rev xaXov xal opiX&v av
roJ, d ndXat ixvei, rixrei nui ysv- Vijc, xal n aped v xal anco
v pejivjfpivo?, xal r 6 x, r. A, idv re yvvrj — - xare-
XopeSa. Omnes Socraticis dictis percelli ait Alcibiades at- que
teneri quasi vinculis sive fe- ug axovfj fj zb5v GiSv k&y av, akkov
kiyovzog, xav tzuvv q>avkog y 6 ktyav, la v te ywtj dy.ovtj lav tt
arrjff i dv t» ftuijaxuw , lx7Ujtkrjy(itvoi i<5fihv xal xaTE%6(i.Eda.
lyety ovv, <x> avdffEg, ti p} Sfukkov xofuSy du£uv (u&velv,
eimina sit, quae ea audiat) sive vir, sive adolescens. Haec dicta quoniam
comparantor cum Olympi harmoniis , quae addito artificio nullo ,
ipsa per se animos audientiam capiant, merito verba mireris illic addita:
xal SrjXot xovS xcov Sedov te xal xeXcxcjv beopivovS 8ui x 6 2 Eia
elvai . Neque placet, quod Riickertus annotat ad haec verba :
Non omnes hac harmonia ad divinum furorem excitati sunt; qui
autem essent, cos ad divina mysteria percipienda factos esse
hoc ipsum declarat* Nolo pluribus huius sententiae axoniav y quae
manifestissima est, perstringere ; persuasum autem habeo, verba
Platonica vitio ali- quo laborare. Pro 8i]Xoi xovS xt ov $egjv
scribendum esse vi- detor: SrjXoi SvijtovS xav Segov, quae
scriptura quam apte hoic loco conveniat, statim intelligitur. Quid enim
aptius est, quam mortales una commemorari, ubi sermo est de arctiore cum
diis per initiationes coniunctione? Neque carent verba corruptionis
verisimilitudine. Primae enim ONHTOTC vocis litterae quam facile in
OI mutari potuerint, apparet. Cum autem 8ijXot verbum, quod proxime
praecedit, in OI exeat, fieri facillime potuit, ut ulterunl OI
absorberet alteram. H autem expunctum ab iis est , qui Platonem scripsisse
arbitrati sunt, quod hodie in omnibus editioni- bus legitur: 6?jXoi
r ovS. Eyooy' ovv, cJ av6peS. Iiaec vulgata lectio est. Iu
tri- bus Bekkeri codicibus paucisqur aliis iyco yovv comparet, quod
haud scio, an non probandum sit. Nam si io priore alicuius
enuntiationis parte aliqui commemorantur, quibus, qui ia posteriore
enuntiationis membro loquens inducitur, non est adiun- ctus , iyoj 6* ovv
vel lywy' ovv poui solet, utrumque pio oppositionis vel exceptionis
ra- tione, quam scriptor indicare vo- luit. Contra ubi in priore
par- ticula enuntiationis alicuius ali- qui commemorati suat ,
quibus adiunctus est, qui ia altera par- ticula loquitur, uou lycoy
ovv sed ly<6 yovv locum habet. Iloc Bekkerus probat Comment.
Cril. in Piat. p. 357. , idem A&tio placuit atque Riickerto.
Stallbaumins in altera Symposii edi- tione lycoy* ovv reposuit.
el /i)} HpeXXov xopi8y 66 B, E tv. Schol. ad h. 1. wo- pi8q ,
inquit, xvplooS pev xo impeXuS, o$ev xal opEoxopoS xal yEpovxoxopoS
* i 6 o 8 v v a- jx ei Sfc xal x c3 6 <p 6 8 p a xal xeX£a)S t
xopi8y dpixpd 6(po8pa 6pixpa. Ceterum sensus est verborum huius
loci: Ego certe, o viri, nisi viderer prae nimia ebrie- tate meras
nugas narrare, dicerem vobis loramento interposito, quae mala
in me ab huius orationibus pervenerunt et quae rtov vftocag av vfilv olcc Srj
nticov&a avzog vito zmv zov- tov J.vyav xal ndayco Ixi xal vvvl. ozav
ydg axovo), itokv E fioi (idllov tj tcov xoQvfiavzicovrav ij tb xagdla
irtjda xal ddxgva lx%tizai vi tb zav l.oyuv zav zovzov. oga de xal
akkovg ita/utoXXovg zcc avza itdayovzag. Ilegi- xbeovg de axovcov xal
akbcov uya&cov grjzoQav ev fiev tjyovfirjv beyeiv , zoiovzov d ’ ovdev
ixaGyov , ovdi zt- tiogvfiryzb fiov % t^vyrj ovd’ rjyavaxzei ag
dvdgano- perveniant etiam nunc. Annotat Riickertas: Non
dicerem tantum, uti nunc dico , sed iusiurandum adderem. Satis nobis
liaec explicatio displicet. Quasi si quia mira narret ebrias, addito
iuramento ebrior esse, indicetur. E hcov ojjodaS av nihil
aliud siguificat quam: dicerem dictu mque iura- naento interposito
confirmarem, Ut autem rectius Alcibiadis verba intelligas r homo
ebrius, quae perpessus sit, ea ita mira esse sentit, ut a ne- mine
facile credantur* Igitur ne vino prorsus immersus indicetur, ai
illa retulisset atque eorum Veritatem affirmasset , rem silentio
praeterire apud se constituit. Post autem non tam mutato consilio, sed
quod res ita ferebat atque loquacitatis, quam vini vis indidit,
libidine ductus, quicqui^l perpessus sit, aperuit tamen. V *
&v no pv fi av x i oov~ tcov. Annotat Schol. ad h. l.j
iv$Ol)6lG)VXGt)V ?/ riva opX7}6iv ippctv)}' opxovpivcov , ano tgoy
K opvfidvxcov , oi xal x potpeiS xcu (pvXccxsS xal 8i8ddxaXoi xov
4ioS eivat pv$oXoyovvTai, TiveS 8 e rovS avxovs roiS Kov - ptjtiiv
etvai tpadiv. elvai 8e xal x ijf ‘PeaS vnadovZ , ano xgjv xov JioS
Saxpvcov yeys~ vrjpEvovS’ ojv apiSpov ol ptv 3*, ol 81 i Xkyovdiv.
Timaeus habet xopvfiavxtav' 7tapepj.iai- v£6$at xal ivSovtiiadxiHuS
xi~ YEtdSai. IldSoS autem rcov xo - pvfiavticovxcov vocabatur
xopv- fiavriadfioS, Quo morbo qui correpti erant, tibiarum
cantum audire sibi videbantur ad salta- tionem excitantem, neque
tem- perare sibi poterant, quin salta- rent. Vides igitur, quam
apta hoc loco sit xciov xopvfiavxicjv- xcov commemoratio , cum
Socrates cum Marsya tibiis canendi peritissime comparetur, cfr.
Piat. ‘Crit. p. 54. D, xavta, ai (piX& ttaipE [ Kpixcov ] , ev
?b3z, oxi iyco Saxei) axovEiv , &)Szep ol xopvfiayriGivTES tcov
avX&v <$o~ xovdiv axovEiv. Adde Piat. Phaedr. p.227. B.
dzavtijdas 8h rd v o 6o v vx i zspl Xoycov dxorfv, iScov phv, 18
odv 7/<537/, ori eB,ei xov dvyxopvfiavxicovTa x. x. X.
ev jtlv xjyovfirfv Ac- yetv. Piaeterito tempore Alci- biades
bic utitur, quod Pericles eo tempore iam obmortuus erat, quo
Agathonis ixivixia cele- brata sunt. Ceterum ipsa verba docent ev
pbv rjyovpijv Xeyeiv, quam necessaria lormala coS EizoS 'irillgteed
/\r «•' • Sadwg dtaxEiplvov. cxXX’ vito
tovtovX rov MciqOvov stoXXaxig drj ovta Ster idrjv 9 Sgrs poc do^ca prj
fiica- 212 rov elvat l%ovn log 1%©. xal ravtcc , o Uiaxga reg, oix
Iqels cSg ovx aAq&ij. xal Eu ye vvv £vvoid 9 Ipav- rq> , ori , ei
l%i). oipv TtaQeyew tu ara , ovx av xaQ- tSQTj<faipi> cMa tuita av
itdG%oipt . dvayxd&i yaQ pe opoXoysiv , ori vtoXkov tvde^s av avtdg
En Ipavtov fikv dpeXc5 > tu 6 9 'Afojvuiav itQaztco. fila ovv,
agitEQ elneiv verbis sit p. 215, D. ijpeis yovv otav pev rov
aA- Xov dxovtopev Xiyovzos xal navv ayaSov /)7fzopoS aAAouS’
A 6yovS t ov8ev pe\ei — ovSevl. — De pov pronomine nomini sao
praelixo , quo dativi com- modi , quem vocant, vel incom- modi
notio exprimitur, vide Qutt- manni annotat, in Indic, ad Piat,
Dial, IV. BeroI, 1822. •$X oyrt Satis usitata haec
dicendi ratio tragicis poetis , quam rov evtprjpelv ergo adhibebant
miserrimam vi- tae conditionem indicaturi. Sen- sus est: Ut mihi
miserrime viventi vita non amplias vitalis videretnr.
ovh ar xapr epij C atpi. Conscios mihi sum, Alcibiades ait,
me etiam nnnc, si vellem aures praebere illi , eius illece- bris
non restiturum esse , sed eadem, quae antea, experturum h. e.
dySpano8co8d)S diaxEi- CeCSat. dvayxd^ei yap pe opo- A
o y eiv x. r. A. Argumentum his verbis expressum habes eius libelli
, qui Alcibiades primos inscribitur. Eum libellum ne- gant hodie
viri docti a Platone conscriptum esse. Ac lieri po- tuit facillime,
ut aliquis Plato- nis amator, qui haec verba le- gisset, de
hoc argumento ad Platonicorum dialogorum exemplar dialogum conscribere
apud so constitueret. Quae autem verba in- fra leguntur p. 216. B.
?}rrrfpiva> ti)S npijs rijs vito ,rojv jroA- Xgjv, comparari
possunt cum Al- cibiade I. p. 1S5. fin. ftovXol - prjv dv Ce xal
8iaxeX/:Cai' o’/3- ficjScj 6l, ov n xyj 6ij cpvCet ani- CrcSv ,
aAAa rr}v rfjs no\ ecoS fiuprjv, pi) ipov re xal Cov xpan/Cy.
fiiot ovv , cosnep ano z&v Setpijvcav x. r. A. Abreschius
Lect. Aristaen. p. 147. cum fiict commode explicari posse
diffideret, fivcov scribendum con- iecit : (Uvoav ovv dsnep ano
r&v Seipijvoov iniCxopevot ra tora oixopat tpEvycov . Recte
Stallbaumius hauc correctionem improbat etiam ea de canssa, quod
illa odmissa verborum iun- ctura existeret legibus elegautiae
orationis coutraria. Quis enim, Stallbaumius iuquit, ferat ita lo-
quentem : Obstruens aures, tanquam ab Sirenum canta cohibens aures,
fugio virnra. — hia cum olxopai tpevycov Stallbaumius
coniungen- dum censuit, quae verborum iun- ctnra nullo modo probari
potest. ano uSv Uuprjvav, tni<3%o(itvo$ rct iura , ofyofiat qjtv-
•yav, iva (irj axrtov xa&ijyivog napa rovuo xaraytjQa- B Oa.
ntnov&a ds ngog rovrov fiovov av&gconav , o ovx av rig oiot.ro Iv
Ipol Ivtlvat , ro alojfvveo&ai ovnv- ovv. iya da rovrov /rovov
alo^vvoficu. | vvoiAa yttQ Satis notum est exemplisque per*
multis probatur, oixopat tpev - ycov eam fugiendi rationem de-
scribere, quae celerrima sit at- que subitanea. Iam cum hac il-
lius dicendi formulae notione quomodo (5i(t conciliari possit,
equidem non video* Nam quae fihp aliquis facit, h. e. ut apud
Homerum legitur btriv aexovzl ye is cunctanter agit at- que
animo minus obfirmato. Du- bitari nequit, quin / Via ad liti -
CxoptVoS referendam sit, ut Al- cibiades vix ac ne vix quidem a
Socrate quasi a Sirenum cantu dicatur aures cohibere posse , eo
facto autem in celerrimam fugam ee couiicere. Ceterum' ad Hom.
Odyss. hoo loco respicitur M. v. 59. et sqq. iva ni) avxov xa$rj
ut- ros itapa tov rw xazayri- pdooj. Summam laudem hia et
praecedentibus verbis conti- neri Socraticae facundiae, nemo non
videt. Eam enim Socrati- cae orationis vim esse Alcibia- des
contendit, ut omnes ea au- dita per omne vitae tempus eius
auditores esse cupiant. Eius laudis eo maior vis est, quod ab ho- mine
proficiscebatur, de quo Ne- pos in Vita Alcib. haec tradit:
disertus (fuit), ut in pri- mis dicendo valeret, quod tanta erat
commendatio oris atque orationis, ut nemo ei posset dicendo resistere.
His, adde verba illa, quibus Pericle Socrates dicitur plus in
dicendo valuisse. Periclem autem peritissimum di- cendi fuisse
accipimus, cfr* Cio, de Orut. III. , 54* In eius labris veteres
comici, etiam cum illi maledice- rent, leporem habitasse
dixerunt, tantamque in eo vim fnisse, ut iu eo- rum mentibus, qui
audis- sent, quasi aculeos quos- dam relinqueret. o ovx
av xi$ otoixo iv Ipol iveivoti. Probatam ha- bes bis verbis
levitatem Alcibia- dis supeibiainque eam, quam scri- ptores Veteres
passim tradunt* Ceterum cave eodem significatu dici censeas iv rivi
ivttvai et elvai Zivi. Conferri possunt hae dicendi formulae cum
Latinorum : alicui inesse vel in aliquo inesse et esse ali- cui. Ut
elvai zivi ita Latino- rum esse alicui adhiberi solet, cuhi alicui
aliquid esse dici- tur non addita, quae inter possi- dentem et rem,
quae possidea- tur, intercedat, ratione. Evtivat contra iv rivi et
Latinorum in aliquo inesse de eo plerum- que dicitur, cui aliquid
est, quod cum ipsius naturu , ingenio , in- dole artissime sit
coniunctom. Platonis verba Schleiermacherus reddidit : w os einer
nickt in mir suchen solite. Haec nostratium dicendi formula apprime
respon- tfiuvTtp avullyuv fih> ov Svvafilvcp, mg ov Bel noaiv u ovtog
xsXevh , £xh8ccv 8's &sc£l& cj , tijg Tifiijs t% vtio zav
tzqVjSv. dQajzsrsva ovv avtov xal qisvya , xal ozav Z8a , alGyyvouai za
wfiokoytj^iva. xal itoXXay.Lg fiiv IjfSiag av i'dotiu avtov uij ovza Iv
C det Platoni* sententiae, sed verbi ivetvat iv tivi nativam
vim non exprimit. Ea ut emineat magis, verba sic reddiderim:
Was einer wohl nicht leicht meinem Wesea eigentliiimlich
glauben mochte. xij 5 ttftijs xrj s v it 6 xgjv 7t o X
Xco v. Nequis forte scribendum censeat trjS aito xeov 7toX~ A cor, ut
honor signiiicctur, qui a populo proliciscatur : amant Graeci
substantivorum passivam, quam vocaut, notionem ab activa discernere
atque, ut exemplo utar XifiijS vocabulo, accurate disiuu- gere
honorem , qui ab aliquo in uliquein confertur, ab honore, quo
aliquis aliquem dignatur. Ti/S xi- ji)}S igitur idem significare
atque tov XifiadSat addita vjto praepositione indicatur. Sed
liberior etiam huius praepositiouis usus est. Haud raro enim cum
verbia neutris coniungitur, quae verba possuut aliquo modo,
quoniam per se spectata neque actionem indicant , neque itaSoS
aliquod exprimunt, cum nominum ambiguitate comparari. Haec nomina enim
utrumque significare possunt et actionem et itaSoS, ut recte
dicautur per se spectata neque hanc neque illam uificarc. Sed ita
ditfert vn 6 praepositiouis usus in nominibus substantivis et in
neutris verbis, ut illis addita notionem, quae ipsis inest,
extollat, cum his coniuncta notionem novam quasi pa- riat, quae notio no
utris verbis proprie non inest. cfr, Hora, II. p. 319.
iv$a xtv avxe TpdoeS dpifi- (piXoov vtc *Ax<xtG>v
" IXiov eiSavEfiTjticcv avaXxei- Xfit Sajievxs? Adde II. p.
S36. cridooS pkv vvv ySe y dp?ft- qjiXoav vn *Axai(vv
"IXiov eteavafiijvoa, avaXxei- y6i SafievxaS. His locis
, quibus alia addi pos- sunt innumerabilia, edoceare, li- beriore
vno praepositionis usu elfici dicendi brevitatem , quae sane
gratissima est et venustis- sima. Ad nostrum locum ut revertar,
statim intelligitur, quid Alcibiades confiteri cogatur a So- crate,
et cuius rei pudor illum hoc conspecto subeat. Nimirum qui rtoXXov
ivdei/S convinci- tur esse (vide p. 216. A.), is se percolere
debet, non admi- nistrare civitatem , quod fecit Alcibiades populi
aura dele- ctatus. ij 8 £o)S dv i8 oipt h. e. rfSoifi7\v
dv avtov ISqjv. Vides igitur, magis ad adverbium, quam ad optativum
modum IStiv ver- bi av particulam pertinere. Id probatur etiam eo,
quod omisso adverbio dictio existeret pror- sns non ferenda: xal
izoXXaxiS ptv i&oifi dv avtov pp ovxa avftQQMtois' tl 6* av
rovto yivoito, sv old\ on itokv fiel^ov clv «%9olgif]v , cj^tb ovx b%g) S
xi XQrjGttpa t Tovtcp r (3 dvftQcina. xcd vito piv di] xav
ccvArjfidtav itat lyco occa dAAoi itoXAot xoiavxa it BTtov&aOiv
vnu tov 8 b rov 2 <xxvqov. iv dvSpcditoiS. Nulla enim
ad- est caussarum cohaerentia , per quam fieri possit , ut
Alcibiades Socratem inter vivos non vide- ret. Adest, ubi gavisurum
se esse Alcibiades dicit, si non vi- deret Socratem inter vivos.
Ita- que quid de Platonicis verbis rfdicjS UV VSoifii statuendum
sit, iam vide. Brevitatis studio t/SkcoS i8oif.it ita positum est,
ut duo liaec verba unam notionem efiiciant, quacum av particula
com- mode consocietur. Simul sup- plendum aliquid
relinquitur, quod quid sit, ex ipsis jjSkcDS av iSojfii verbis
elicitur. Oratio enim expletior audit r tjSkcoS dv i'8oiftlj tl
idotfit. Similis ver- borum structura in Piat. Lachete occurrit p.
182. c. V. fin. Aa- XtjtoS 8’, tl n napa xavxct Akyei, ndv avxoS
ijdkool cotov- CaifUy quae verba explicatius enarrata audiunt : ndv
avxol ?}- 6kcoS dnovdatju , tl dxovuaifii AaxrjxoS, tl r i Ttapd
Tama Af- yti. Satis autem docet haec enar- ratio verborum, quae tl
duplici- ter atque diversa potestate (wcnn, ob) posito satis
ingrata est, quantum orationi admiss? illa verbo- rum structura
suavissimae brevi- tatis accedat. no Ai) pti2,ov dv
dx$oi* fiijv. Pro fitigov scriptum ex- spectaveris fiacAAov.
Iliickertus nd h. 1. : ut piyotj inquit, verbis iuuctum est valde,
v. c, Hom. II. /i. 2u. A.oS 81 roi ayytXol et/u
oS avtvSev £aj v, fit}' a 7tjj6ezai 7] 8* lAtaipu et v.
333. gjS icpccc. *Apytioi 81 ftty iaxov K t r. A.
sic etiam fiei^ov magis, ve- hementius. Dictum pro fiti- Zov
dv &x$oS txoifu , — Fru- stra rationem quaeras, cur a- pud
Homerum fikya verbis iunctum valde significet, et cur nostro loco fitigov
dv dx$oi- ftrjv non tam positum sit pro fitigov dv dx^oifiijVy quam
po- tius idem atque illud significet. In caussa hoc esse reor, quod
Graeci haud raro verba co signi- ficatu adhibebant, quem satis in-
epto nomine, vocant Grammatici praegnantem. MkyaK w)- 8txea igitur
non tam est : v ai 1 d o providet saluti tuae, quam magnam tui
curnm agit. Eodem modo 9 Apyttot fiky Iaxov explicandum est :
Sie schrieen gross h. e. sie erboben grosses Geschrei. Plura
huius usus exempla laudata reperies anuotat. p. 87,
coite ovx ott XPV - dcofiai. Pro xPVoMfiai libri omnes
XplfeOfLat exhibent, quam lectionem lluchertus, nimis rcli^ giose,
ut solet, in textum recepit. Sed quid facias in contexta oratione scriptura,
quam ipse, qui eam recepit, explica- Cap. XXXIII. "AXkct
de epov axovGccre, tyto aixatiu avrov , xal ryv oSg 3 (loiog
re tCziv otg dvvcc[uv io s %avpc(Oiav bilem atqne rei
describendae ac- commodatam negat ? Certum quidem est, scriptores haud
raro formula dicendi nsos esse gjSts ovh Hxv oti xPV^o^ioctj
cuius exempla Stallbaumius laudavit ad Piat. Gorg* p. edit. 85 ( .
, sed haud perinde est, coniunctivo an futuro utaris. Ac nostro
quidem loco si xPV<S°M<xi scribitur, ne- scire se praesenti
hora Alcibiades confitetur» quid cum Socrate faciat, facturum
autem aliquid sese esse uua promittit* Quae sententia quam inepta
sit atque ab huius loci .sensu aliena, nemo non videt. Contra
con- iunctivo adhibito penitus nesciri ab Alcibiade, quid in
universum dc Socrate consilii capiendam sit, quaeve eligenda ratio
homi- nem tractandi, exprimitur. Quae sententia, quoniam aptissima
est huic loco , quid xpfo&M&i vel contra omnium auctoritatem
codicibn non recipiatur, XPV^°M°^ autem ineptae sententiae lectio
non reiiciatur, caussam equidem non reperio. neti vito j.tlr
8 y tcov av- \y p dz w — V7C 6 tot j Se tov Sazv pov. Av
Xypaxa Socraticos sermones significare, Satyrum Socratem, nemo mirabitur
, qui Socratis cum Marsya comparationem legerit. Ordinem verborum
quod attinet, proprie dicendum erat xai V7cd ply Si } tgov
otvArjpdrcov tov tov tov 2£aTi>pov. Sed de industria Al-
cibiades hacc verba verbis com- pluribus interpositis seiunxit, ut
maiore vi afficiantur verba rovSe tov Scnvpov . Vide de hac
seiunctione verborum annotat, p. 59., p. 129. , al. Ceterum
imo praepositionem non sine vi re- petitam habes. Nam cnm ea
eius potestas sit, nt cum Ttd - $ovS notione plerumque couiun-
gatur, ideoque ipsa quasi colore imbuta sit notionis illius: dupliciter
posita haec praepositio non quidem 7td$oS duplex ex- primit, sed
ndSov ST vehementiam,- qualis descripta est p. 215* E. noXv pot paXkov y
td>v xo- pvfiavTicdyrcjv y re xapSia ny- Sqi xal Sdxpva
ixxeltat. aWa 5 & i pov ctxov- 6 at e. Vulgo aAAa Sy
legitur; praeterea codices nou pauci pov pro ipov exhibent.
Riickertns inde di pov edidit annotaus ad h. 1. Nobis, inquit,
nulla in pronomine vis esse visa est , propter quam codicum
lectionem mutaremus. Itaque Si pov dedimus : — Miror, Biickcrtum ita
iudicare potuisse. Etenim qnao hucusque narrata sunt ab Alcibiade, ea,
siquidem homini fi- des habenda est, et aliis acciderunt* Ea igitur satu
nota esse Alcibiades contendit, adeoqne ni- hil facere ad Socratis
indolem accurate cognoscendam, nt prae- i%H. tv yag la ts, ori
ovdilg vficov r ovtov yiyvaOy.u' D dXXu tyco drjZadn , tjielxsQ vgaxs
yag, on ter Re neminem censeat ipsam cognitam perspectamque
habere. Quod igitur none Alcibiades probaturus est, id se
tautummodo expertum' docet atque se esse unum, ex quo audiri possit
vera Socraticae indolis atque naturae descriptio. Nihil igitur
certius est, quam ipov scribendum esse, non fiov. Et quoniam mala
mo- do commemorata etiam alii per- pessi sunt, haud dubiam
est, quin nova quaedam relaturus Al- cibiades dXXct dixerit, non
aX.- Xci ; ea autem mala, quoniam malis supra commemoratis
oppo- nuntur necessario, etiam di recte habet, non 8t}, Nobis
quidem de scripturae veritate aXXa 6k ipov y vel aXAct 8* ipov,
quod Bekkerus habet, ita persuasum est, ut etiamsi omnium codicum
de- esset auctoritas, verissimam censeremus. Sed adminiculo suo non eget
scriptura illa. Florentiui enim codices aliique libri pauci quidem
sed non mulae notae eam repraesentant. ev yap idxe. Qui ad
ver- ha p. 208. C. xal r/, u>S7tep ol xeXeoi dotpidxcA , Ey tdSi
, iqrrj sophisticum orationis colorem, quem Plato verbis cu Sittp
ol do- <pidxctl indigitavit , in verbis ev id$i deprehensisse
sibi visi sunt, Wolfius, Astius, Schleiermache- rus , ii in verbis
ev Idxe nihil, quo Sophisticam artem odoratos esse coniicias,
annotarunt. Con- cedimus quidem, heri potuisse, ut sophistae 1
insto saepius illa dicendi formula uterentur, sed non ideo sophista
sit vel sophi- sticam artem imitetur, qui hanc formulam exhibet in
oratione, praesertim cum id facit, ut fecit Diotima . semel,
d XXd iyta dyXcodco , $- neinep ij p&a prjv. Cum em-
phasi verba pronuntianda sunt dXXa iycj 8yXGD6co sc. oloS id nv
atque inprirais iyoS pronomen, quod ue exhibuisset quidem Plato, si in
praecedentibus scripsisset aXXa de pov axov- daxe , Ceterum supra
annotavimus ad verba p. 2 15. D. iycj yovv , co ctvdpeS , ei p>) ipeX-
Xov xopidy 8o£,eiv peSvetv, ei- Ttov opodaS d v vpiv olat 8?)
jciitovScL X. T. A* , Alcibiadem noluisse primum, quid ipse per-
pessus sit atque adhuc patiatur Socrate auctore malorum, enarrare, post
consilium mutasse loquendi lubidine abreptum. Ea consilii mutatio ne forte
artiheiosior videatur atque minus ex humanae naturae indole petita:
omnium rerum difficillimum esse solet initium. Eo superato gaudium
cor subit, quia superareris atque ani- mus olterius progrediendi.
Post ne infectum relinquatur, iu quo aliquid operae consumseris,
totum opus perficiendum suscipitur. Subit animum dulcissima memoria
versuum e Goethii Fausto peti- torum , quos cnm Platonis ver- bis
iiteiitep ijpBtdprjv comparare possis : Das Mogliche soli der
Ent- schluss Beherzt sogleicb am Schopfe fasseu
Er will cs dann nicht fahren lasse n Und wirket w ei
ter, tveil er must. HaxQatyjs (gauxtog diaxtirai rav xctXi 5v xai
«eI x&ql rovrovg EOzl xai butiickipam. , xai av ayvotl mxUz a xai
i/jmrixojf Sidxeirat roov xa\djv. Annotat Rucker- tos ad h.
1.: Genitivus tgdv xa- \65v pendet ex ipooTtxdjS e more Graecorum
vocibus derivatis eundent casum addendi , quem ver- bum secum habet .
Eodem modo de hoc structurae genere Mat- thiaeus disseruit Gramm.
ampl. 540- p. 648. Possis etiam ita tibi rem explicare, ut
ipeo- xixvS SidxEttiSai unam notio- nem if^xv verbi efficere
censeas atque eius structuram assumere. Ceterum nemo non videt,
ipeo- TixcoS StaxEitiSai multo gra- viore significatu esse, quam
ipav verbum. Apprime enim Latinorum perdite amare respondet,
qua formula dicendi inprimis comici Latini usi sunt. Mirari autem
licet Graecae illius et huius formulae diversitatem. Nam quod
Latini adverbio, Graeci verbo expresse- runt, quod Graecis
adverbio, La- tinis verbo indicatum est, xai av ayvoel
itavxa xai ovdhv o 16 e v , coS 1 6 uXVM a a vx o v. Vulgo
haec verba ita edebantur, ut nulla post avrov interpunctione
po- sita verba r 6 6xi)f*ct avrov ad subsequentia
traherentur. Qui- buscum ut aliquo modo conve- nirent, H. Stephaniis
scribendum coniecit : ci? x 6 <$X*/M a avrov ov deiXffYGoSeS,
Haec scriptura Fischero probata est et Bastio et Wolfio;
recentioribus interpretibus merito ea displicuit» Longum est, omnes
ingenii coniectnras repetere, quibus hunc locum docti viri
sollicitaruut. Stallbaumius omnes loci difficul- tates sublatas
putat recepta, quam Bekkerus et Schleiermache rus post avrov
posuerunt, interpunctione. Videlicet, vir doctissimus ait, csf xo
<$XVl l0C carro v significat; quemadmodum eius forma et habitus
est h. e, queoadmodum ipsa eius forma et habitus prodit. Eadem
Riickerti sententia est, quae cur nobis non placeat, paullo infra
dicetur. Priusquam enim singula verba adeamus , totius loci sententia
paullo accuratius examinanda est. Omnis Alcibiadis oratio in duas partes
dividitur: altera res continet convivis satis notas, sed quae ad
cognoscendum Socratis ingenium haud mul- tum faciunt, in altera
commemorantor, quae ex Alcibiade so- lum audiri possunt fefr. p.
216. C. «?AA a 81 ipov axovdars) e® quibus solis ad Socratici
inge- nii indolem cognoscendam audi- tores ducuntur. Ac de
poste- riore illa orationis parte infra dicetur ; prioris initium
verba sunt opaxe yap. Quae verba praecedentibus opponuntur ;
tv yap fdtE, oxt ov8e\s vpdov rov- x ov y ty y ai 6x Et. Tangi
igi- tur videtur opdxE verbo incogi- tantia convivarum, qui,
quod oculis cernant, id credant, cum non debuissent credere,
contra quod debuissent, nou videaut. Iam ad particula, quae in
ver- bis repentur xai av ayvoEiy indicatur et haec et
subsequen- tia verba eadem conditione, quam praecedentia, poni, ut
expletior oratio audiat: xai o par e , oxt ayvoE i x. r. A. de qua
vi av particulae vide annotat, p. 209. Nura cum hac orationis
confm- (XvSlv ocdsv , log to (>XW a ocvtov. tovto ov Gcifoivcj*
6sg; Gqjodga ye. tovto yag ovrog negLpapAyTcxi, cogiteg 6
tykvppivos 2J6ifa]v6$' kvdo&ev 6s avorfitig n otiijg , ofetfte ,
ysuti , iJ ccvdgtg <5 v[ix6tcu , aacpgodi J- mationc satis convenire
censes verba cjS to <SXVl ia clvtov , quemadmodum ipsa eius
forma et habitas prodit? Sed hoc ut mittam , turpi vultu
protervoque Socratem fuisse acci- pimus , fatuo a nemine scriptore
traditum est. Neque cura turpi- tudine atque protervitate vultus
fatuitatem coniunctam esse ne- cesse est. Recte autem inspectis
Platonicis locis , ubi inscientium Socrates et vero etiam
fatuitatem quandam animi ostendit ( cfr. annotat, p. 290.)»
doceberis, ver- bis atque libera rei confessione, non forma et
habitu vultus cor- porisque id fieri. Nemo igitur oculis cernere
potnit , sed auri- bus tactum percipere inscitiam Socratis, ut male
xal av (opd- Tf)gd$ to 6XVM a ccvtov verba coniungi censeas.
Verba autem ayvoei TCavia xal ovSev oldev etsi aliquo modo
defendi possunt, tameu habere, quod of- fendat, prudeus lector
intelliget* Deleta autem litterula una et tautologia nobis quidem
ingra- tissima removetur, et commodiore sensu coS To 6xtyM a ocvtov
verba afficiuntur. 'Scribendum nimirum esse censeo : xal av
ayvoei navTa xal ovSh oldev , cJs" to ( 5XVM a ocvtov.
Iam sensus est totius loci: Oculis vestris videte (atque
credite), Socratem iuvenes pu1cros perdite amare semperque iis se
adiungere eorumque summa admiratione teneri, et rursas omuia
nescire, ac ne scire quidem, qui ipsi sit habitus externus h, e. ne
curare quidem corporis cultum et vestitum. Olim coS to 6XW& avrov
convertendum censebam: wie cr sich das Ansehen^giebt, quae
conversio optime conveniret cum opdre verbo. Sed Alcibiades hoc
loco narraturus, qqge in Socrate oculis cernantur, cum pulcrorum iuvenum
studium comme- morasset, quod revera simulabat Socrates, et
inscitiam, quam in- terdum vel gloriabatur, incuriam corporis,
quapi immunditiem vo- care possis, nullo modo silentio transire
potuit. Satis notum enim fuit, Socratem raro lavasse, rarius
capillos compsisse atque omniuo ceteram corporis curam adeo ne-
glexisse, ut v. c. Aristodemus cum lotum conspexisset atque
calceatum Socratem, insolentiam rei meratus ex eo quaereret: quonam
iret ovteo xaXoS ye- yevrj pivoS . Vide Sympos. p. 174. A. Ceterum
dxt/poc vocabulum de cultu corporis atquo de vestitu significando
Graecis in usu fuisse, satis docere pos- sunt Plauti verba Amphitr.
Prol. V* 116.: Nunc ne hunc ornatum vos xneum
admiremiui Quod ego huc processi sic cum servili djjqpa
Veterem atque antiquam rem novam ad vos perferam: Propterea ornatus
in novum in- cessi modum. v>;g; iGxe , oxi ovx’ , tl rtg xaAos loxi,
jitXti avxaJ ovSev, kU.u xatacpgovtZ xoOovxov , o6ov ovd’ av tlg
olrj&tit], e ovx’ tl xi s irkovOLog, ovx’ tl alXr\v xivd xijirjv
iyav xuv vito itkrfiovg jxux.uQitoy.ivav. ijyuxat 8i itdvxa
Sequentia verba rovto ov (Sei- Xtjvc38eS ambigua potestate di-
cuntur, ut iis ad alteram partem orationis paratum aditum
habeas, qua verum de Socratis ingenio iudicium continetur.
^SsiXrfVco- 8eS enim de externa figura ita dicitur, ut Socratis
vultum indicet similem fuisse Silenis; et ad cetera, quae praecedunt,
verba tractum Socratem similem Silo— norum perhibeat. Iam
iudicare possis de verbis (Sqpodpa ye, qui- bus titramque
6ei\ijvaoe5 voca- buli relationem Alcibiades sibi probari indicat.
Sed alteram tantummodo verbis sequentibus exprimit hoc agens,
opinor, ut subita novae rei commemoratione, ud quam rem audiendam
animi convivarum minime parati essent, acutissimi iudicii
admirationem et gloriam certius atque celerius assequeretur.
rovto ydp — 7tepifl&- pXijrat, rdp particula du- plici
relatione hoc loco posita est , ut et ad rovto GeiXtjvg)- 8eS
pertineat et, ad notaudum convivarum errorem, qui Socratem talem esse
putaverint, qualem oculis viderint, ad verba referatur p. 216. C. ev yap
fore, Zri ov8elS v/uav rovtov yi - yvojtixeu Sensus est:
Namque miram hanc Silenorumque protervitati atque im-
munditiei consimilem for- mam ille induit Sileno- rum instar, in
artificum officinis sedentium, qui intus reconditas
statuas deorum pelle x sua conte- gunt. 7to6rj^ f
oVe6$e t ye/tei. Haud raro mediis interrogationi- bus verborum
interponuntur secundae personae singularis atque pluralis numeri, quibus
provocantur, qui rogantor, ut ipsi uua rem interrogatam iudicent,
at- que quid ipsis videatur, aperiant. Hic dicendi usus Graecis
haud infrequens, neqae a nostratium more alienus est. Duo
autem snnt, quae verbis hoc modo interpositis efficiuntur: gravitas
au- getur interrogatae rei, et alacri- tas interrogationis
amplificatur* Compluria huius structurae ex- empla apud Graecos
scriptores Stallbaumius attulit ad h. 1., Ruckertus ad Piat. Symp.
p. 202. B. d A. A a nat aqxpovEi oX. r. A. Haec proYsus
conve- niant cum Diotiinae praecepto laudato a Socrate p. 210.
B. &vo? ro CcpoSpa rovto ^ar- Xdtjoti xauxppuvijdavra xa\
tfptxpov 1 /yTfddj.iErov. Quae insequuntur verba ovd av tiS scribae
alicuius imperitia in ot;- dfl? dv mutata sunt, quam lectio- nem
unus exhibet codex Bek- keri. Alibi notavimus ovSs tls significare
prorsus nomo, de quo significatu vide Indices sub v. ou6£ ei?. Haec
verba etiam ibi exhibere amant scripto- res, ubi allectatam
orationis gra- vitatem rejvacsenUut. Possis ea 23
ravrcc t d xzyfiaza ovtisvdg «|t« xal qpag ovdlv tlvat, tlgavEvi^uvog Se
xal icai^av nonna w filov itQog tovg av&ganovg duratei. tSxovSaOavzog
de avzov xal avo i- Z&tvzog ovx olda, fi ug e ai pax e tu ivzog
dyalfiaza' a te' lyto ijdi] noz’ tldov, xal fioi 1'do^ev ovza titia
xal SI 7 jjpvtfa «&>» xal ndyxala xal tiavfiudza , Sgzt nouy
h. 1. convertere: nemo gen- tium. Verba convertit Stall-
baumius: quantopere nemo quis quam crediderit. xal i/fiaS
ovSlr elvat, Ileusdins Spec. Crit. pro r/puS scribendum censuit
XlpaS. Non recte t neque placet verborum conversio Stallbaumiana :
atque nos, qui talia appetamus» nullo in numero haben- dos
censet. Verba convertenda sunt potius : atque nos, qui talia
possideamus, flocci pendit. Loquitur enim Alcibiades , homo ditissimos
atque o- xnoium rerum honore, quas mul- titudo admiratur, abundans.
Qui cum se contemtum a Socrate vidisset (cfr. p. 219. A.
seqq.), insuetae rei experientia motus verba proTert xal rjpaS
ovSkv elvat. Sed ne ingenuitatem Al-, cibiadis forte non agnoscas,
ani- mique nobilitatem, TjpaS ovdlv tlvcn verborum magis etiam,
quam nos fecimus supra , lenienda est interpretatione asperitas.
Signi- ficare igitur contendimus: omnes, qui talia possideamus iisque
gloriemur, floc- ci pendit. tlpovevopevoS Si xal 7t
algor, cfr. Cic. de Orat. 2. Urbana etiam dissimulatio est, cum
aliter sentias ac loquaris. In hoc genere Fannius in annalibus suis hunc
Aemiliaoum fuisse et cum Graeco verbo appel- lat eYpojya , sed uti
ferunt, qui melius haec norunt, Socratem opinor in hac tlpoveia
dissi- mulautiaque longe lepore et hu- manitate omnibus
praestitisse. Adde Cic. de off, I. c. SO : de Grae- cis autem
dulcem et facetum fe- stivique sermonis atque io omni oratione
simulatorem, quem rf- poora Graeci nominaverunt, Socratem accepimus,
v ta £vt of dyaXpata. Respicit Alcibiades ad Silenos in
artificum officinis sedentes, quos idem dixit p. 215. B. 8tj (aSe
8totx$ivraS ostendere ayaXpa- xa J&ecav. Hinc explicatur fa-
cillime, qui fiat, ut cum drtov- Sctuai verbo avoix$yvai verbum
coniungatur. Sileni eaim cum aperiuntur, fraus detecta est
Silenique nihil nisi capsulae esse reperiuntur rerum divinarum.
Recte Ruhnkenitis ad. Timaei L. V. Pl. ayaXpa proprie dici mo- net
quodeunque grata sui specie oculos delectet. Recte igitur
Stallbanmins anno- tat : ra ivtoS ay aXfiat a intelligi species
illas vir- tutis in animo Socratis conspicuas. Praeter alios,
qui Platonis locum imitati siut, scriptores, idem Ciceronem laudat Legg.
I. 22. Qui se ipse norit, aliquid se sentiet habere divinum
mgenium- xiov elvai Iv Pqcc%bl o n xelsvoi EaxgdtrjS-
yyov[itvos de avrov ionovSaxivai iit l r y Ifiy aga Sgficuov yyy-
adfnjv tlvai xtu £vTv%Tffia Ifiov &avfiaUTov, cjg vxdg- %ov [tot
%ttQiaa[iiv<j Etoxgdrct nave’ ccxovGai, oGa- n cg ovrog fjdct.
itpgovovv yccg drj ini ty i aga &av- (idoiov ocJoi/. zavxa ovv diavoy&als,
ngo tov ovx que i n N s e sunm sicut si- mulacrum aliquod
dedi- catum putabit. nai jioi ido£ev. In aliquot
codicibus pro pol legitur Ipoi, quod Bekkerus in ordinem ver- borum
recepit* Iniuria , ut vi- detur. Ey g> pronomen in prae-
cedeutibus verbis necessaria de caussa positum esse, videlicet ut
aliis, qui forte dyaXpaxat io Socrate latentia spectaverint, Al-
cibiades se opponeret, extra du- bitationem positum est. Sed ideo
non necessarium est , ut et in sequentibus verbis pari gravitate pronomen
exornetur. Plane alio verbo accentus orationis ponen- dus est ,
quem si tenaciter in pronomine posueris atque ipoi scripseris,
vide, ne sensus effi- ciatur ab huius loci natura alie- nissimus.
Diceret enim Alcibia- des holi ipoi i6o&£Y non alio sensu, ac si
opinaretur, esse posse illorum dyaXpdxoov spectatores, quibus ea
non divina, aurea, pulcherrima et summa admiratione digna
videantur. <2sta itoirjr kov — o tt xaXevoi 2ajxpdtrjS h.
e., ut illico Socrati me eman- cipatum censerem, neque quid
ego, sed quid ille vellet, faciendum puta- rem. Pro xehevot vulgo
xe- tevst legitur. Illud ex optimis codicibus recentiorum
editorum consensa receptam est. Zppaior fiyrjtfd prjv el- V
au De Zppdtov vocis signi- ficatu vide annotat. p. 88. Ce- terum
Schol. Bodl. , quem Kuk- kertus laudat, haec habet : ip- paiov ru
dnposdowfxor nipdoS ano xcov ir xalS oSoi X anap- X&r t aS ol
odoinopot xare- 65lov6i t 7ta\ yap iv xaiS odols ZSoS ijv ISpvoSai
tov * Eppijv , itap o xa\ ivodioS \iyexai. Quod sequentia attinet
noti evrv - Xrjpct ipov SavpadTov, ud haec verba Riickertas,
Duplicem , in- quit, video pronominis expli- candi rationem y vel
ut in ipov vim inesse dicas , quod Alcibiades sibi hoc, non aliis
contigisse gaudeat j Socratis ut amorem ex- citaret: eximiam meam
fortunam; vel ut pronomen possessivum pro dativo usurpatum interpreteris :
eximia mihi hoc fortuna contigisse . Qua- rum utram praeferam ,
nescio. Neutra nobis placet. EvTV£ipACt ipov eodem modo dictum
est, quo nos dicere solemus: meiu gutes Gluck. v
itppov ovr yap St/. Pro Sij vulgo r/drj legebatur. Illud
fiekkero debetur, qui id ex optimis codicibus restituit. De ironica 6rj
particulae potestate vide Indices sub v. 6i/. Rem quod attinet,
iuprimis conferendus est locus Piat. Alcib. 1, p. 104. A. xa yap
vndpxovxd tSoi peyaAxt 23 * EiaQcog ccvtv axol.ovftov fiovog fisz’
avtov ylyvEG&ai, tote dzozk^zav tov axbkovftov fibvog (SwEytyvof
tyv. B Ssi yap zgog vpag zuma r afai&ij eItcelv. alia ZQog-
e%ete tov vovv' neti tl ipEvSofiai, ZwxQccTEg , l£tisy%s- CWEyLyvo^rjv
yap, avdgtg, pbvog povco , xal (pjirjV avTLxet diakli;E<f&at,
avtov poi, cczeq dv Igatityg zai- ducolg iv igrjpla diaXz%%Elri , xcd
tyaiQOV. tovtov 6’ oi3 pdl.cc lylyvETo ovdiv , alti uszeq zlvjftzi ,
Scate- ri vai , gq$T£ jiijSevoS SettiSaif ano tov dcopazos
dp&apsva xs- Aevtgovtci eis xrjv iftvxrfy ' olei ydp 8 i/ elvat
npootov per xaX- kitixoS te xal pkyi6xoi* xal xovxo fic v 8 ?}
navxl drjXov iSalv, uxi ov ipevSy. 07 *x eImSgoS dv ev
cixo- XovSov povos per* aw- xov y. Haec verba ne falso in-
terpreteris) Alcibiudemqae forte statuas solum Socratem ita convenisse ,
nt semper tertius adesset: Athenienses ditiores domo non exibant, quin
servam sccum ducerent, qui, si quid opus esset in via, id curaret.
Hinc factum est, ut Alcibiades quoque tum ad alios, tum ad Socratem
nunquam solus accederet , sed semper pedisseqnunt una adduceret.
ansp.dv — SiaXsxS Opinabatur Alcibiades , Socratem talia sibi
dicturum esse, qualia soleat , ubi solus sit cum amasio, umator dicere,
atque vehe- menter gaudebat. Gaudii caussam expressam habes verbis
p, 217. A. 6 j? vndpxov poi x<*pi- tiapkvco 2coxpdz£i it dive
axov - dat, udanep ovxoS y8et. Sole- bant enim amasii amatoribus
gra- tificaturi obsequii praemia sibi expetere, neque se dare,
nisi, quicqnid expetiexint, consecuti t essent.
Cfr. Piat. Menon, p. 76. B. , ubi haec leguntur: M. aXX f
insi8dv uot <Sv tovt 9 tinyS, oo 2rixpa- teS , ipdS 6oi.
2. xdv xaxaxExaXvppkvoS nS yvotr/, oJ Mevgjv, StaXeyo - pkvov
6ov , oti xaXoS ei, xal ipadxal 6oi hi eldiv . M. tl 8?} ;
2. oti ovdlv aXX* rj inirar- teiS iv roiS XoyoiS' unsp
noiovdiv ol t pv<p<5vTES, UTE tvpavvEvuviES , ccdS dv iv g
opa &)6iv. aXX* c SfnEp eIgjSei, 8ia- \£X$£ } iS [av] poi
— ctm- c ov. Annotat Stallbaumins ad h. 1. : Pertinet, inquit, dv
particula ad universam sententiam ideoque connectenda est cora
verbo prin- cipe enuntiati coxeto , ita ut in- dicet actionem
saepius repetitam : solebat identidem disce- dere, de quo loquendi
genere optime disseruit Rostius Gramm. 120. 5. c. p. 460.
Itaque non est quod cum Astio corrigamus arra poi , aut cum
uno cod. Yiudob. dv deleamus. — Perscripsi integram viri do-
ctissimi annotationem studiose- que legendam Symposii lectori- bus
commendo. Nobis quid do sr. 35? jrfolg [ av ]
fwi 6vvt]{iiQtv<Sag (yycro (\xiav. (itra ruvra GvyyvfivafcGdcu
trgovxaj.ov/ujv avzov xai G wt- c yi>y,va£6[t>]v , Sg x t
ivrav&a mouvcov. Gvvcyv(ivatcro ovv (io i xai XQogimi/.aic itoXlaxis
ovSsvog nuQovzog. xca tl Su kiyuv ; ovSev yccQ /tot itltov ijv. InuSi/
dh ovSccfiij ravTij tjvvtov , ido^i /tot tzi&txiov eivctt rei
ctr6pt xaza ro xagzeQov xca ovx avtttov, lnu6i)xtQ iy/.iyiiQr[xr}, akka
iaziov IjSt] , ti ian ro 7CQayua. tcqo o hoc loco videatur, si quaeris,
hoc est: Contra Alcibiadis vo- luntatem contendimus esse istud :
solebat identidem disce- dere, quem haud verisimile est, cum, quod
speraret, saepius non evenisset , quoties cura Socrate congrederetur,
toties exspectasse avtixa SiaXeZedSai avrov x. t. A. Etenim quem
saepius spes frustrata est , is sensim sensimque ei diffidere solet atque
lae- tissimam , quam antea habuit, exspectationem ex animo
removere. Igitur si saepius rem il- lam factam accipias, vereor, ut
etiam xai ixaipov verba satis bene habeant. Verborum ordi- nem quod
attinet, dv particulam eo loco positum habes, quo mi- nime
exspectaveris, Iam cum ne- cessarium non sit, ut res ab Al- cibiade
narrata saepius facta esse cogitetur, eius autem repetitio cum
singulis Alcibiadis verbis no conveniat quidem satis, nihil ve-
riti codicum auctoritatem , quos in falsissimis interdum consen-
tire vidimus, av particulam un- cinis includendam curavimus.
tivyyvfivacledS at itpo v- HaXov pijv avrov . Vide quae annotavimus
ad verba xai 7 } ye <ptXo 6 o q> ia ed.p. 101’. Rem quod
attinet, semel fastam esse contendimus. Nam quod paullo infra
legitnr TtpoZfitu.- A ais ito7(\axiS ovdevoS napov- roS , ita
intelligendum est, ut, dum gymnastica cxerceicnt So- crates atque Alcibiades,
saepius non aff uisse docearis, qui una se exercerent aut luctantes
specta- rent. xai ti deiXiyBiv, IJac formula dicendi
uti solent, qui sunt animo commotiore, remque sibi injucundissimam
quam fieri potest paucissimis verbis enar- rare cupiunt. Accentus
autem orationis in Xkysiv verbo po- nendus est, quod praegnanti
si- gnificatu positum idem fere de- notat atque doXtxov xataxtl
- VBiv tdv A oyov. Quae sequun- tur verba ovdlv yap poi :
nXiov rjy , recte Stallbaumius interpre- tatur: nihil enim pro
ficicbam. xa\ ovx — iit e tSijit e p lyx£X&ipVxy. Haec
prorsus conveniunt cum verbis supra le- ctis p. 216 0 aAXa iym
6y- XadcJ, izeinep i/pbdptjr, ad quae verba vide auuotut. p. S50.
aXXd idt iov IjSrj ti idti to itpayya. Solent haud raro
Graeci scriptores commemorato eo , quod faciendum sit, addito- que,
quod non faciendum sit, 358 nAATSINOS
xcriLovfiai Stj ccvtov ftQog zo GvvSukvhv , dzc^yag tog- itCQ ipadzrjg
itaidixoig ImflovtevQV. xat fioi ovSe D zovzo za%v vnfjxovGtv , ofiag S ’
ovv %Qova indaftrj. ixudrj da atplxtzo to xquzov , Semv/jGag andvai
Ifiavltzo. xal tote fiav ai6xvv6iuvog dcprjxa avzov. av&ig da
ijctflovAtvGctg , httiSt] idcdiixvyxu , SisXsyo- fitjv 7 to(i$o) ztZv vvxzav
, xcii IzEiStj tfiovhEzo ajrta- quasi , quid faciendum sit ,
non commemoraverint, id verbis paul- lisper immutatis atque aXXa
par- ticula adhibita oppositionis augendae gratia repetere. Idem
igitur significant verba £8o£ii pot iniSexkoy elvai rw avdpl xat a
to xapzepoy et IdxkoY i)8tj t L idn to itpaypa, Exemplum est huius
structurae p. 210. O. pexa Sk toL imrrfdsvpocxa hei xaS iiet6xt}paS
ayayeiv , %ya i6y ctv imdTrjpcjy xaXXoS xai fiXkncov itpos txoXv
i/Stj to xaXdv pijxkrt to nap M Qtyanory — d A A.* liti to
txoXtj itkXayoS xexpap- pkvoS x. T, X . Wyttenbachius Bibi. Crit.
V. I. P. I.p. 50. scribendum coniccit aXX Itiov hti to itpaypa,
quafc scri- ptura eo nomine nobis improba- tur, quod cuiu
praecedentibus verbis, quibuscum convenire de- bet, poi iitiSerkoy
eirat rcJ dvdpl xaxa rd xaprepov , multo minus, quam aXXa
IdxkoY t/St}, tI idn to itpdypa f conso- ciutur. Idtkoy verbum quod
at- tinet, ub Idtiv derivatum esseceo- seut iulcrpretes , ut seusus
sit; videndum est, exploran- dum est. Vide Butttnuiini
Grarnm. ampl. T. II. p. 116* Nobis «b tidkycn semper deri- vandum
cs»e videtur, neque tamen sciendum e * t recte converti. sed
faciendum est, nt sciam. Vide annotat, p. 207«, p. 169. al.
vSitep ipadxijS 7 t aid txojs kitiPovXevcov. cfr. p. 213. C.
xal xov 2co- xpaTTjj do 'Aya^cov, cpavai , opa, et pot InapwiiS'
ce? ipdl o TOVT0V ipcoS xov av^pooitov ov (pavXoy Ttpaypct ykyover
x. T. X. t quae verba nostris expii- cautur. Xpoyco , quod
sequitur est: multo tempore prae- terlapso. rd TTpdoxov,
dsinvifdaS. Olim posita ante T o TtpdxTOY di- stinctione haec verba
cum se- quentibus iungebantur . Quod ita recte fieret , si semel
venisset Socrates atque tum initio quidem abire post coenam
voluisset , post- ea vero a proposito destitisset . Quum autem tum
revera disces- serit , fuit utique ita distinguen- dum, ut Jactum
est inde a Bek- kero, llitckert. It 6 (i f> 00 TQOV Y v X
T 00 V h. C. in multum usque noctem* cfr. Piat. Protag. p. 310. C.
xai Ixi per iyextlprjda evSvS napd dh levat, 'intixd poi Xiav
nop- facd £8o£e zdoy vvxxuv elvai, ad quem locum Stallbuumius
lau- dat p, ed. 24.1 Aeschinem adv. Ctcsiph. $. 122. for} 6h
7tO{5()u rijS r)pkpa$ ovdrjS* Ceterum ne vcu, <Sxt]m6(iEvos , ou
otiis tirj, XQOSTjv&yxaGa avtov fiiveiv. avtnavtro ovv iv rjj
ixo/iivy ijiov xMvy , iv yitfQ IStinvu , xai ovSslg iv ta olxrjfiau
tiklog xa9- tjijSsv rj ijfis ig. ^XQ 1 ovv Sij Ssvqo tov bbyov E
xaXas ccv %ot xai tcgog ovuvovv Xtytiv tb 8 ’ iv- ttv&ev ovx av
nov rjxovGcns Ityovxog, tl (ir/ xqwtov ( iiv , tb Xsyofievov , otvog avsv
ts acudcov xai fisxa pluralem numerum mireris, vv- hteS non
noctes sunt, sed horae nocturnae, de quo significatu vvxxeS yocis
vide Stullbaumii annotat, ad Piat. Phileb. p. 158. Quod sequitur xai
inEtdi) ifiov- Xexo dnikvat, eodem modo, ut praecedens amkvai
ifiovkEto non convertendum est: abire vo- lebat, sed velle se
abire dixit. Vide annotat, p. 169. et p. 207. , * t
dxrjnx optv of , ori eXrj. Timaeus habet L. V. Pl. ^MjittOfiEvoS.
npoq>adi^6pevoS. Kecte. Etenim qui ipse non habet in se, quo
aliquid probet aut ex- cuset , eum niti oportet in re extrinsecus
petita , h. e, npo- tpadet rivi- iv ty lx» /tcvy l)iOv
xXivjf. De horum verboram significata supra dictum est an- notatione
p. 838. ct 334. Prae- ter locos illic commemoratos con- fer etiam
R. Kubnerum ad Cic. Tuse. Disp. I. 1. $. 2. ed. p. 47., ubi
laudantur Pind. Olymp. I. init. prjd' 'OXvpniaS aya- ya (pkpxepov
avdddopev ibique Boeckhii annotat, p. 104. , Cic. T. D. I. 1. $. 2.
: quae tam ex- cellens in omni genere virtus In ullis fuit, ut sit
cum maiori- bus nostris comparanda ? xaXtiS aif A kyetv.
Scriptum exspecta- veris primo obtutu naXdjS av Hx<n
ojSte npoS ovuvovv Ac- xxkov elvai, Kai pro gjSxb po- sito vario
modo verba explicari possunt. Facillima explicandi ra- tio videtur
ea , qua post xai , Eivat verbi optativus subintelli- gitur.
Optativum autem sty recte omitti posse contendimus tura, quum
antecedit, ut hoc loco, alius verbi optativus modus , ex quo ille
facillime eruitur. Explica- tius igitur enarrata verba au- dinnt:
pkxpt pev ovv 8r) Ssvpo tov Xuyov xaXdtS dv %x ot C° iX eyov) xai
eltj npoS ovxtvovv Xkyeiv . itp&xov filv, — olvoi avev x £
naid&v xai pexa ital8a)V r/v «A tj $ r}$. Vetus proverbium :
olvoS xai aXjfSeia, ad quod hic respicit Alcibiades, Cfr. Athenaeus
II. p. 37. E, $i\6xopo$ 8k tprjdLV, oxi ol ni- yovxeS ov pdvov
havxovS kpipa- vlB,ov6tv ol xivkS eldiv , aXXa xai xgjv dXXoav
txadxov dva- xaXvitxovdi, na/ifiqdiav ayov- xes. oSev Oivof xai
d\?}$eia Xkyexai . Idem II. p. 38. B. Anr tiphanis versus laudat
hos: Kpvtyai, $eidia, anavxa xaXXd xiS dvvatx* dv,
nX?}v Svoiv olvov xe nivoav eis ipoora t*
kpitEdQJV. 1 itaiSav jv dXy&js, imita &<pa V
l<Sai ZaxQutovs %ov vKQfoavov el s imuvov U&ovza &6ix6v fiot
tpalvezui. apcporspa fiTjvvEi ydp dito tc2v (3\EUpd.TGDV
7ca\ to5v A oyaov rav$\ g)$te tovs dpvovpivovS fia\l($TGL
roVTOVS XatCKpaVEiS avrovs iroieiv . Schoh praeter notissimum oivo
S Tioci aXrjSsia, quod dici ait £n\ t<uy iv fteSj/ x t}v
ciXt/Seiav Ac- yovrcov, alterum proverbium lau- dat : ro £v ry
xapSine rov v?j- q>ovroS ini ry yXd>66y rov pt- &VOYTOS,
Illud proverbium no- stro loco ita laudatur, ut verba addita sint
dvtv re naldcov xal pexa Ttotidooy , quod additamen- tum vera crux
fuit interpretum omnium, Ficinus habet: Vinum «t cum pueritia et
sine pueritia est veridicum. In conversione Schleiermacheri legitur
: Bis hier- her nnn kdnnte man die Sacho noch unbedeiiklich
iedermann er- sahlen ; das folgeude aber wiir— det ihr wohl nicht
von mir Jioren, tvcnn nicht zuerst nach dem Spriichwort der
Wein mit o d e r ohoe Kinder die Wahrheit redete. Prorsus eo-
dem modo Schulthessius verba reddidit hoc tantum a Schleier- tnacheri
discrepans conversione, quod naidoov nomen Knaben convertit.
Stallbauniius verbo- rum sensura esse ait: vinum efficit, ut verum
dicatur, sive pueri epuli s intersint, sive noa intersint; h. e,
virium non pueros tan- tum, sed alios omnes n d verum proloquendum
s u- C1 tnt. Aliter nobis videtur de limus loci explicatione
statueu- dum'esse. Accurate tenendum quae hio narret
Alcibiades, ea ita proferri f ut errores exponantur auditoribus, in quos
ille olim inciderit, et quibus prae- senti tempore non amplius
ob- noxius sit; Colligitur hoc cum ex «diis locis, tum e verbis
p, 217. A. yyovpevoS 8'e av rov £<jnov8axivai fnl ry £py
d/pa Bppaiov ?}yrj6dp?/v elvat x. r. A. fieri autem solet haud
raro, ut aliquis, quem dirus error olim vexabat, ubi ab eo
'liberatum se sentit, ipse in errorem illum quo- dammodo illudat.
Neque pugnat hoc cum aestimatione ea, quam, qui nunc vivant,
significantius quam rectius, egoismum vocant. Nam qui erravit, errorem
autem agnovit atque correxit, is magna cura hilaritate animi alium, atque
fuerit antea, se nunc esse intelli- git. In errorem igitar illudens
aliquis, cui olim obnoxius fuit, non tara in se illudit, quippe ab
errore liberato, quam alteri illi, qni errore devinctus fuerit
atque qaasi ob- caecatus. Non mireris igitur, Alcibiadem ipsum sibi
illudentem induci verbis p. 217. A. Itppo- voyv yap 8 rj ini ry
copae 5av- padtov u6ov y neque mirum, e- undem etiam verbis olvoS
av ev re 7t ai 8 cov x al pera itai - 8 cjv tjv uXrjSpS gravius in
se invehere. Respicit enim ad er- rorem illum Alcibiades, quo
ex- istimabat, fore, ut servo remisso, quem secum habere solebat,
So- crates opportunitate loci gavisus ad AMATORUM modum secum
col- loqueretur. cfr. p. 217. A. ravra ovv SiavojjSets, xpd rov
ovx eIgjS&S avtv axoXox>$ov pavos pet avrov yiyvEdSai ,
tore unant pnw %av dxoXovSov po- ht bl to rov 8q%&tvtog vito
rov cos sea9og v&\£i t%u. (patii yaQ itov rcvcc rovzo itu&ovza
vix iftiktw voS Cweyiyv6f.n]v. — tivveyi- yvoprjv yap , —
jiovoS juovWfXal difirpr avxlxa StaAl^euSai av- xov ficn aizEp ctv
ipatinjt nai- dixoiS iv iprjpia diaXexSeirj, nat Hxaipov. Ad hanc
igitur rem respicieus, cumque errorem tatis lepide taugeus,
Nunquam, inquit, hoc ex mc audituri essetis (j&v — vxovtiart)
si proverbio illo vinum, quod neque praesentiam neque
absentiam servorum curat, non esset veridicam. litEixa a<p av
l6ui — epalv erat. Cum praecedat eI pi} Trpwzov pev — r\v ,
scriptum exspectaveris btElxa — aStxov /tot itpaivero. Cavendum est autem,
ue quis loquentis scribentisvc uegligentiae imputet, quod augendi
sententiae yigoris caussa commissum est, ut incepta verborum
structura re- linqueretur. IlpGJTov plv — iVrcz- xcl hoc loco Lat.
vim habet: c u m — tum potissimum, istud potissimum autem
mutatione structurae efficitur. Ceterum dtpavidai verbum minus
«apte 8ch)eiermacheras reddidit: ver- bergen, neque rectius
Scholt- hessius: verhehlen. Aliud quid Alcibiades atpavidoti
verbo expressurus erat. Facinus illud nemini nisi Alcibiadi atque
So- crati notum, neque verisimile erat, Socratem quidem cuiqnnm eius
narrationem facturum esse. Intolligit igituf Alcibiades, rei memoriam
prorsus perituram esse, nisi ipse eam divulget. Iam dcpavtunn
verbum quid significet, inteliiges. Est enim , quod nos dicimus, etwas der
Kenntniss der Welt giiuzlich s entziehen. Ad V7CEprj(potvov
Uuckcrtus ; vnepij- <pctvov , inquit, voci h* 1. grata quaedam
ambiguitas est ab ea- que persona , quam hic Alcibia- des agit,
minime aliena. Homo enim , qui sentiret quidem veri- tatis vim,
quae ad morum honestatem spectat, at uon agno- sceret, ne se cogeretur
accusare, nonne Socratis hoc facinus po- terat pro superbissimo
habere? immo debebat, qui tantam suam pulcritadinem tam foede
contemaisset. Ne multis hanc sen- tentiam perstringam, quae
meo quidem iadicio falsissima est, ct qua prorsus pervertitur
scripto- ris consilium, verba laudare suf- ficit p. 217. A.
i<pp6vovy ydp tir) ini xjj &poL Savjiddwv odov.
iri 6'e r 6 rov drjxSir- XoS x. x. A. Triplex caussa est, cur
Alcibiades cum convivis impertiendum censet, quibus modis Socrati sit
insidiatus. Vini hausti vim veridicam iu supe- rioribus
commemoratam habes atque augendae Socraticae laudis studium. Tertio loco
viperae morsus commemoratur, quo ct sd laborasse Alcibiades narrat.
Nescimus quidem , quid facere soleant atque loqui , quos Vipera momordit.
Non dubium est au- tem, quin Alcibiades eos iusuniu quadam corripi
significet, qua circumacti et agant et loquantur, quod sanis hominibus
non possit non mirum videri. Et qneniam ipsum se gravioris viperae
morsu 218 Uyuv olov r\v itXrjv roig SiSr^y^ivoig , wg f. tovois yva-
Oofitvo Jg ze xal OvyyvatSoutvois , el itixv izoXfia &quv rs xul
Xiyuv vito rijs odvvtje • ly® ovv Stdtjyu,tvos ts vito ttXyuvoziqov xcii
ro aXyuvozczzov wv av ttg Sij%9sli] — z rjv xaqdtav yug r; ipv^tjv tj o
zt Sei avzo vvouaOta xXtjyels zs xal S>ix&tls vad zmv Iv
(fiXoColaesuro indicat, vehementiore in- sania se circumactum
describit, qua fecerit atque locutus sit, quod paullo infra
exposituro ha- bes. Morbo igitur, cui obnoxius fuerit, facta et
dicta excusatum iri sperat convivis, quippe qui eosdem illius morbi
dolores per- pessi sint. Qui si non perpessi essent, nunquam se
commissu- rum fuisse, ut ipsis illorum nar- rationem
exponeret, iyoS ovv SeSijy pivoS" x. r. X. Stallbaumium
audi egregie de horum verborum structura dis- serentem :
Anacoluthia, inquit, prorsus egregia et rei ipsi accommodato,
quippe quae loquentia impetum animique commotionem , qua de illo dolore
loqui- tur, plane exprimat et veluti imagine aliqua
repraesentet. vxo dXyetvor ipov xal ro dXystror arov,
Suspecta nobis est xai vocula, quae quam- quam explicari potest,
tamen, quod vehemeutissimae orationis impe- tum paullo impeditiorem
reddit, huic loco minus convenire iudicamus. Amant autem veteres
commotius loquendi genus edituri copula addita nulla verba iuxta
ponere, qualia sunt vno aXyei - vozepov ro dXyeivozazoY. In-
terposuit, si quid video, >caL, qui desiderabat, quorsum
praecedens re referret. Dicturus autem Al- cibiades erat: iya
o&v 6e6rfy- pevos re xal nenXtiyplroS vno dXyeivozepov
ro dXyeiYOtazov X. r. X.j sed mutata inter lo- quendum voluntate
xal nenXijy- pevoS vetba reticuit, atque iis sequentibus exhibuit
nXrjyeis re xal An fortasse rectio- rem verborum juncturam
censes esse : iyco ovv bedrjypevoS re — xal — nXi/yeis re xal
8rjx$ets ? Non crfdo equidem, ideoque, ut quid rectius esset,
interpunctione rectiore legeutium oculis indica- tum sit, post
ovopadai comma ponendum curavimus, * xi] y xapdiav y a p —
- ovo patiat. Sensus est: Die Worte des Socrates erregen ei-
nen unerklarbaren , heftigen Schmcrz : man weiss nicht, ob mati
korperlich oder geistig oder wie sonst leidet: gewiss ist nur das
Geftihl der Verletzung und der Zerrissenheit, o*l ^ovrat x.
r. X.*Exov- rat verbum ne careret casu suo, Rostius V. D. comma
delendum censuit post dyptcozepov , idque post aqwovS ponendum
curavit. Quo facto vide, ne orav XdfiooY- tat verba' admodum
frigeant. Neque necessarium esse contendimus, ut Ex £( 5$ at verbum,
ubi firmiter inhaerere signifi- cat, rem , cui inhaerere
aliquid dicitur, semper adiunctam ha- beat. Graeci eodem modo at-
que nos : Welcheschreck- (pia Uyav, o'l fyovm i%i8vt]s aygiditEgov , vlov
Iwyjs (ii] acpvov s oxav Adfiavtcu, xal itoioiiai i)gdv te xal Hyuv
ortovv — xal ogcSv av QcdSgovs, ’Jya9covas, ’EQv£iud%ovg , JlavGavlas ,
'jQiazodrjuov? te xal ’Aqi- u crocpuvag' EaxQar rj fil avrov r t SeI xal
Xiyuv, xal oooi aAAoi ; xavces yag XEXOWavqxcnS xrjg qwloOocpov
lichcr ais Nattern haften, w e d n sie einmal orst an einem
iugendlichen Her- z e n Anhalt gefunden ha- be n .
xaVApidxoqxxv aS. Vulgo 'ApidxotpdvEtS legitur. Illud cod.
Bodl. habet, idque cum Gramma- tici praecepto convenit in Bek- heri
Anecdot. III. p. 1131^1 81 xal xovxo yirudxEiy, Zti ol \ Axxixol
iiti xd)V Eis 7/? , eis ovs i*oVr cor x ?}v yEvixrjy , xal iic\
xqdv xcqjct x 6 E$oS 8ia x ov a icoiovdi tfjr alxia- Tixrjv xooy
nXrj^vyxixcoy , olor 6 Ar\yLOd^brt\S , x ov drjpod^i- vovS , xovS
drjpiodSiyaS , o ’Aptdxo<pdvrfS , xov *Apidxotpa - yot;? , xovS
*Aptdxo<pdvaS .Nomina propria prorsus eodem modo plurali numero poni
cen- set Engelhardtus ad Piat. Menes', p. ed. 204., quo nostrates
haud raro de singulis viris loquentes plurali numero utantur.
Hoc recto quidem annotatum , sed inde nou iuteliigitur , qui
fa- ctum sit , ut et Graeci et no- strates singulorum hominum
no- mina plurali numero exhibeant. Neque tamen diu quaerenda
est huius dicendi usus caussa. Brevitatis enim studio ut Graeci,
ita nos pro: indem ich Manuar sehe, wie Agathon , Eryximachu»
cet. dicimus omisso verbo, quod plurali numero positum est, atque
ipso illo uumero ad nomina propria translato : indem Ich Aga- thone,
cet., sehe, Scoxpdxrj 8% avtovXiysiY. Ne mireris, cur So-
cratem hic commemoret Alcibia- des, nbi non nisi eorum mentio erat
facienda , qui eodem modo atque Alcibiades Socratici ser- monis
aculeis laesi sunt : Alci- biades hoc agit, ut ostendat, se nou
nisi cum iis mala, quae perpessus sit, impertire, qui ipsi iis obnoxii
fuerint. Iam cum re- censeret omnes, quos sibi socios putaret morbi
illius , Socratem forte conspiciens, quid istunc, inquit, commemorem,
morbi auctorem? Ceterum versus laudare iuvat petitos ex epigrammate
Meleagri, quibus Diopysii alicuius amator non nisi eos alloquitur,
qui ipsi amoris flammam sense- rint ; Meleagr. Epigr, XVIII,
"WvXpOTtOtai 6vSEpCOXES , vdoi <p\oya x r/y
cpik6%ai8a of3are, xov mxpov yevda- . flEVOl flijLlXOS ,
Ipvxpoy vdcop yiipaif ifryxpoy , xaxoS t ctpxi xccxEidrjS lx
zioroS xy ‘MV aepl xpaSiy . Quibas auditis omnes, qui
non auiant, hominis insaniam ride- bunt videlicet frigidam sibi
circa praecordia circumfundi iubentia. tijS <pi\o6oipov
pavias XE xal ftaxxdaS. Haec verba fiavlag te mu (iety.ydag' Sio
ftdvtES uxov6e<S9e. avy- yvioOEO&E yaQ Toig rs tote tcqc<x9eIoi
xat roig vvv Xeyo[tivoig. ot da olxircu , xcil il' r tg «AAos toti
/ti-fiq- P.og te ) icti dyQoixog , avlag nuvv fisyteXag roig wtfiv
fatl&tif&t. Cap. XXXIV. 'EheiSi] yaQ ovv , io
kvSqeq, o ts kvyv og C xei , xal oi nalSsg a|(u rfiav, ?do|s' ftoi
XQtjvai fit/div xomU.Eiv noog avzov , akV tAao^aowg eixeiv d f wi
praecedentibus explicantur p. 218. A. nXrfyeis re xal
fo/jfSeis' vito rav iv <pi\o6o(pioL Xoycov, ol SI ohikx
cli x. r. A. Cum in superioribos dixisset Alcibia- des p. 217. E ,
vinum veridicum esse sive servi narrationi inter- sint , sive non
intersint, nunc rursum servos iubet aures occludere, ut ne verbuqi quidem
audiant, Num forte sibi contradicere censes hominem ebrium ? Non credo ,
# quamquam contradictionem verbis inesse non negamus. Notum euitn fuit
Alcibiadi quoque, quod Ovidius ait: Nitimur in vetitum semper cu-
pimusque negata, atque ut magis pateat, vinum etiam servis
praesentibus veridi- cum esse, servos, quos tibi finge arrectis
auribus adstitisse cupidissimos audiendi, ne audire velint iubendo, ad
audiendnm alacriores reddit atque paratiores. IIoc efficitur etiam eo,
quod ad versum Orphicum Alcibiades re- spexit : cpSeyZopai ols
SifiiS fori • S vpotS S* iitiSetiSt (tiftrj- Aoi, qua re
animadversa quan- tam omvuiuin ctuses luis .e ex- spectationem
futurae narratio- nis ? yijSlv TtOtxiXXElY itpoS avtov.
Vide annotat, p. 99., tibi de icoixiXoS nominis significatu dictum est.
Possis itotxiX- A elv li. 1, explicare : non ob- scure, quod
Stallbaumio pro- bator, sed ambigue loqui, quaudoquidem varii
coloris oratio ita comparata est, ut quem colorem habeat, nescias, et
quou- iam huiusmodi oratio comploret colores, qui cum significa-
tionibus comparantur, repraesen- tat, complures significationes ha-
bere h. e. ambiguam esse recte dixeris. Facile autem iotelligi
potest, qui colorem cum Significatione orationis veteres com- paraverint.
Ad consuetudinem enim respexerunt AMANTIUM, qui floribus arte
consertis sibique invicem missis exprimere solebant,' quod claris verbis
indicar* me- tus prohibuit aut pudor. Non obscure anlem floribus
missis, sed ambigue, quid vellent, ex- primebant, vel nihil omnino,
ut videtur, exprimebant, sed e mo- do atque ratione, qua, cui
mise- runt, is flores exciperet, missos- 'm idoxn. xal UTtcrv xivyGag
avzov. UtixQaz tg, xcc% tv- dn$ ; — Ov drjza, ?; d’ os- — Olo&cc ovv
a (101 6 tSo- Kica ; — Ti (laluSza ; i'ipy. — £v ijiol doxus , >}v
d’ iyto , ifiov igaOrris a^tog ytyovivai (lovog , . xal (ioi (palvu
oxvstv /avt;(>&t]vtu xqos fic. lyd> 81 ovxaoi i/to' mxvv
dvoryzov yyov(iai tlval 601 fiij ou xal zovzo XaglfcO&ai xal tl' xi
alio fj xtjg ovGiag xrjs tuijs dtoto y xav (pllav xav Ifiav. ifiol (ilv
yccg ovdtv lou, xge- D GjivxeQov xov a>s oxi fiilx usxov ifis
yivLo&ai, zovxov 8 ’ olfiul (io 1 OvllrjitzoQa 0 vSivu xvquozcqov
ilvui Gov. iya 8y xolqvuo avdgl itolv (idllov dv (iy %uql£6[ie-
qae interpretaretur , voluntatem eius explorare solebant»
xal einov xivf/das av- xov. De xiveiv verbi sicnifi- cata
vide annotat, p. 29. , ubi etiam hic locus laudatus est. xi
paXidx a ; Itpr/. Ma - Xtdxa interrogationi additum ef- ficit, ut
is, qui interroget, cu- riositatem prodat sciendi, quid sit id,
quod modo audive- rit , aut quo sensu dicatur, cfr. riat, Menon, p.
80. D. 2. 7tcf vovpyoS e 1 , cS Mlvcjv t xal 6- X iyov iZTjTtdxrjtiaS
pe. M. xi pdXidxa , c3 2ooxpaxt5 ; xai poi tpaivei
oxvelv pvT/dSijv ai icpds pe. cfr* Alcibiad. I. init. 2. nai KXei
- viovy olpaL <Se SavpaZeiv , oxi 7rp(Zxo's ipadx?js dov
yevope~ voG y xcjy aAAcov nexccvplvcDVy povoS ovx ctnaXXdxxopai ,
xal oxi ol plv dXXot 8t o^Aot» iye- vovxo 6ot SiaXeyopevoi ,
iyaa xodovuov ixcov ov8l irpoZ~ einov. iy co 81
ovxcodl 7t:dvv avo?/ xov . Praeclare Stallbaumius ad h. I. : Quae
inserviunt, inquit, explicandis verbis ovxcodl &X 60 j ea de more advvSixcoS
adduntur. Quam loquendi rationem , quum nou te- nerent grammatici ,
pro scripserunt , quod in vett. editt. migravit.
6v8iv Idxt xpedfl vxe- p ov . Mihi nihil antiquius est, proprie :
nihil, cui malim primi loci honorem concedere, quam huic. Vide annotat,
p. 128. xovxov 8’ olpal pot dvXXi/itxopa x. x. X.
Sensus est : neminem esse rcor, qui mihi integrae huius
reiadiutor te sit potior. In oinuibus fere codicibus pov legitur
pro poi , quod Stallbaumio unice probatur propter structuram
dvXXtxpfiavEiv verbi* Coniongitur enitn plerumque cum genitivo rei
atque cum dativo personae. Hiickertus dativum pronomidis cum elvai
verbo cohaerere censet. Dativus pronominis commodi potius, quem vocant, dativas
est, atque recte ad totum verborum complexum re- fertur. Apposite
Stallbaumius vog al6yvvotfirjv tovg (pgovipovg , rj %agi^6pBvog
tovg tb itoXXovg xal acpgovag. Kal ovtog axovdag pdXcc tlgovtxmg
xal Gcpodga lama slco&otag IXb^bv * f Sl {pile ’AXxifhadr] 9
xivdvvivug ta ovrt ov (pavXog dvai 9 E bixeq abj&ij tvy%avsc qvxcl a
A iysig xegi epov, xal t ig i(tv* iv ipol dvvaptg , <5V qg dv dv
ytvoio dfislvav, dfirjxccvov tb xaXXog ogarjg dv Iv Ipo i xal vijg
xaga dol BvpLOQ(plctg itapnoXv dcafpegov. il dfj xa&ogriiv avto
xoivaGadftai %b poi im%eigeig xal aXXd£aGftai xaXXog dvxl xiXXovg y ovx
oXiycp pov xXbovbxvbiv diavoeZ , iXX laadat Xenoph. Memor. II. 2.
12* ira — ctyaSov doi yiyvrjxca dvAXt/nz&p* i
dprjxavov te xdWoC o- p gStjS a y . Locus admodum salebrosus,
quem sine novorum codicum accessione nunquam ita restitutum iri
puto, ut, quid Plato scripserit, legere tibi videare. Ia Bodleiano
cod. aliisque perpaucis pro re legitur roi, Aid. Bas. alii non
pauci rl exhibent, quod Bek- kerus recepit colo post a/uivGov
posito. Aliam rationem Schleier- macherus iniit, qui dpijxavdv te
cet. verba cum praecedenti- bus 8i’ rjS dv dv ykvoio ajxei- vgdv
connectenda censet hoc sen- su: — wenn das wahr ist, was da von mir
sagst , und es eine Eigenschaft in mir giebt, durch welche da
besser werdea konn- test, und dann eine gar aonderbare Schonheit an mir
erblick- test, die deine Wohlgestalt um gar vieles ubertrifft.
Stallbau- mius veterem lectionem, h. e. zl 9 retinendam ceoset
eamque distinctionem singularum orationis par- tium edidit, ut verba
dpTjxavov te cet. e praegresso ehtep aptentur. Sententiam verborum
hanc esse ait: videris profecto non contemnendas esse, si
quidem vera sunt, quae dicis de me, hoc est, si in me vis quaedam
inest, quae te reddat meliorem atque cernere in me potes et
conspicere immensam p ul cr i C ud i ne m tuaque formositate multo
praestantiorem. Recta Stali- bauraium via incedere mihi qui- dem
persuasissimum est, sed est tamen, quod me male habeat; av
particula cum ei potest quidem coniungi , uti docueruut , quos
/itallbaumius laudat, Schae- ferus Melett. Critt. p. 50., Ap-
parat. ad Demosth. III. p. 155., Schneiderus in Addoud. ad Xe-
noph. Politic. p. 472., Heindor- fius ad Protag. p. 535., Herman-
nus ad Vig. p. 830., sed admo- dum dubitari potest, num ea hoc loco
Plato usus sit, ubi verba praecedunt 6i' tfS dv dv yi- voio
apeivov. Quis enim non videt, av particulam, quae in his verbis
comparet, facillime ad no- stra verba transferri potuisse ?
avtl 6 6 $tjS aXr}$ eiav HtzXcovh. e., Stallbaumius in- avr\
tioJ-rjg aAqfteiccv xuAcov xx aoftai iiti%siQBig , xal 210 tg) ovrt %qv
6sa xaAxetav dia{ts[ps6ftca voslg. &AA’ , cS fiaXCiQLE ,
ttflBLVOV tiXOTCEL, (ITJ 6 £ AavftaVG) Ov 6 iv G)V. ij rot rrjg
diavoiag oipig aq%ttai o£i fiAixsiv, oxav tj tixiv dppaziQV tijg dx^iijg
Aqyuv liuxsLQy* <5v di xov- rav Hxi Jto$QCO. Kayco axo v<Sag>
Tct fiiv tcccq* Ipov, i(prjv, tttvz 9 Itixlv, ©i; ot5(5«> aAAag
Bifnjxai tj cog dia- voovfuxi ' 6v di avxog ovxgj (IovAevov , o n OoL
xs &qi(5xov xal ifiol rjyBt. *Ak A f y £cprj y xovxo ys sv
AiyEig. Iv yCCQ TG) IsUOVU ZQOVCp POVAEVOIIEVOL TCQa^OyLBV o
Sv qnit, arx\ xaAdav, a 8oxd xa * A a elvai , xxadSai
imxeipels xa - A*r, a l6xiv aJs aArfScoS. In proximis alludit ad
Ilom. II, «?. t. 234. m Ev$r* avte FXavxcj KpoviSjjS
(ppira* i&iAexo ZevS ds npoS Tvdeidtfv 4i o/u/Sea xevx**
upsifie Xpvdea x a Axei&v 9 hxaxopfiot ivveapoicov.
r\xot x ijs dtavoiaS oif>iS X» X. A. Errant interpretes,
qni potant, verbum reperiri verna- culum, quod xoi vocabulo
re- spondeat. Neque probem , quae Stailbanmii sententia est,
ailir- mandi vim et significationem ha- bere xoi vocabulum in
sententiis communibus. Significat potius, sententiam, cni additum
sit, communem esse, eamque ideo et alias et nunc valere. Rectissime
Schleiermacherus spretis vocabulis, quae xoi particulae respondere
arbi- trati sunt interpretes , j a , j a doch, aliis, verba
reddidit: Das Auge des Geistes f ii n g t erst an scharf zu sehen,
wenn das leibliche von seiner Schiirfe schon v e r- lieren willj
minus apte, quae sequuntur, hoc modo annectit: und davon tiist du
noch welt entfernt. Fines enim sententiae communis hoc additamento
sub- latos habes atqne omnem seuten- tiam cum reliqua oratione
male commixtam. Recte in contexte oratione colo praemisso
scribitur 6v 81 xovxaov hi xoffyao. Re- stat, ut verbo commemorem
Rtik- kerti opinionem censentis , xoi h. 1, argumentationi
inservire, cuius loco etiam ydp particulam poni licuerit. Qua
ratione Rtikjcertns vehementer errat, si Pro- methei verba in Aesch.
Prom* Vinct. r. 700. explicanda censet, A iy\ ixdidadxs' xois
vodovdl xoi yAvxv ( ro' Aotuov akyoS npovZeni- (SradSat
xopcoS. cZ>v ovdlv a AA«? efpq- xa ix. X . A. cfr, p. 218. C.
:UdoiU yoi xpijvat itoi- xiAAeir xpos avxov, aAA' iAev-
SipcoS eindv a poi idonei. Sensus est: Dixi, quae dixi, neque
quicquam eorum aliter, atque sentio, edi- ctum est. 6v
8 i avxoS ovtoo ftov - Aevov. Verba convertit Fici-* B tpalvrjxai
vav xcsqL ts xovtcov xal xeqi xdv aU.uv uqlGzov. ’Eya (ilv 8t] xavtcc
axovOas re x«l tlmav, y.al dtpilg Sgnsg ficXt] xizgaG&at avxov
Ojirjv. xal dvciGxdg ye , ovdh Ixizgtipas rovtio tintiv ovdtv Ixi,
K[icpd<Sas xo iy.dxLOV xo ipavxov xovxo — xal yug ijv nus : tu
autem ita dei i b e- ra, ut et tibi et mihi m e- lius fore censes.
AvxoS vocabulum reddere omisit, iu qua positus est acceutns
orationis. Alcibiades enim cum dixisset, quid sibi videretur, ne
ulterius progrederetur atque nimiae auda- ciae crimeu fugiens : tu
autem, inquit, quasi meam senten- tiam non aperuissem, ad
meam voluntatem pror- sus non respiciens, ipse te cum
delibera. axov6aS re xal e Iit id v. Exspectaveris fortasse
inversum ordinem participiorum, quem re- vera in conversione
exhibuit Schleiermacherus ; Nach dieser E ede und Antwort. Felicius
rem expediit Schulthessius; Das war die Antwort auf meiue
Ucde. xal atpels &S7tep fiiXy, ' Inteilige x ovS
Xoyovf. Solent enim ^ verba Stallbaumii sunt, quae vel acute vel
acerbe in ali- quem dicuntur, cum telis com- parari. Similiter
Latini dicunt verba iacnlari, vibrare, torquere. — cfr. Piat.
Pro- tag. p. 34-2. E. ei ydp iScXei xiS Aaxedaipovi&v tc.l
cpavXo- rccTcp tivyyevEtiSai, x d y\v no\- Arr iv xols XoyoiS
evprjdEi av- rov (paivvptvov , terra:, oitov av rvxv tdSr A
eyojiircoV, kvk- fiaXe pijfia dt,iov Xoyov fipaxu xal dvvedxpappkvo
v ooSizep 8ei- voS axortusi/js ; Similis Grae- corum
Latinorumque dicendi usui formula est, qua nostrates ntnn- tur de
bullis paparum: deuBann- strahl schleudern. Ceterum pauciorum codicum
lectio est pkXij, vulgo fitXet legitur, quod emen- dandum esse
Abreschius Lect. Aristaen. p. 207. primus vidit. d p <pti
6 aS rd Ipdxiov xo i p avxov xovxo. Libro- rum plurimorum lectio
est X ov- xov j vulgo xovxo, quod et Fi- ciuus habet iu
conversione: sur- gensque ue verbum quidetn ulte- rius loqui
permisi: et hunc amictum, quem videtis, circumdans (erat enim liiems
) snb strato huius pallio veteri recubui. Vulgatam lectiouem reieccrunt
editores, quod non veri- simile esset, Alcibiadem eodem pallio usum
esse, quod aliquot annis ante gestasset. Sed vide, ue praepostera
haec sit xovxo vocabuli interpretatio. De eo- dem quidem pallio
verba acci- pienda sunt Piat. Protag. p. 335. D. xal Itpa xavxa
elncov avi- 6xdpt)v cd? dniGQY. xal poo dvioxapivov iTuXapfitxvixai
6 KaXXiaS xi}S x&ipoS xy 6et,nx t xy 6’ dpidztpa dvzeXd/jtzo
zuv zplficovoS zovzovl, xal thcev w verba nostri loci non item.
Tovio enim nihil aliud significare vi- detur, qunm Alcibiadem tum
trni- poiris simili pallio indutum lu- isse, atque quo nunc
utatur. Quiil igitur proh.bet, quominus yU/lUV — VICO TOV
TQtfiaVK XOUCjtklViig TOV TOVTOvt, TCiQijicdiov rta %£iQ£ tovup tu
dcafiovico wg txb/9ag xai &av(ia<STtp , xartxdfuiv tijv vv/.vce
okt/v. sml ov&s C ravta w Zoixgareg , Igdg ori lpivSofiai. 7
iou)okv- rog de brj Tuvtce i/iov ovrog toGovtov TCtgityLvtTo^
censeamus, pallio suo, quali hibertio tempore uti consuesceret,
iudutum Alcibiadem Socraticum te- gumentum subiisse? Tov- tov autem
lectionem ideo improbamus, quod dubitari nequit, quin alius verbi
participio usu- rus fuisset Alcibiades, si expri- mere voluisset,
se Socrati in lectulo iacenti pallium superim- posuisse, Sin forte
statuas, Al- cibiadem eodem pallio, quo ipse esset indutus, etiam
Socratem involvisse, repugnantem ordinem verborum habebis, quatenus
qui- dem scriptum esse deberet: vito tov Tpiftoova xaraxXivels
tov rovrovt, a/uputia? r o ipatiov ro ipavzov tovzov x. r. A.
vito tov Tpifiaova. Schol. ad h. 1. Tplficjv , inquit, idrl
(StoXij TiS foveto Grpitla cj$ ypajiijiuzior Tpificovtov 81 l/td-
tiov itaXatov xai zezpip/iivov. Hoc scholion iam Fischerus im-
pugnavit annotat, ad h. 1. rectissime, Non est autem dubium, quin recta
sit Stallbaumiana rpi- fSoov vocabuli interpretatio: pal- lium
longo usu detritum, quale solebant gestare philosophi. Hinc iocum
expeudus Aristophanicum in Nubb. v. 175. ed. Reisig. atque risum
auditorum , qui cum audissent, Socratem nocturno tempore lunae vias
atque cursum ore hiante spe- ctantem a stellione maculatum esse,
iiuuc etiytra pallio illo detrito privatum docerentur, quod ille in-
ter docendam deposuerat. Ver- sus Aristopliauici adhuc non sa- tis
emendati, ut videtur, ab in- terpretibus hoc modo scribendi snnt
: M. ix$eS 6£ y* tjph> 8a7itvov ovx tjv hCntpaZ .
2. elev • zl qvv npos xa\<piz inaXapydaTO ; M.
xaxd xijs rpait&tyS xara- nadaS Xenxijv t ecppctv xdutftaS
ofteXidxov , eira diafitfirjv XafSoovZx tiS itaXaidrpas Solpa- tiov
vipdXezo. Quoniam autem sentit Strepsia- * des, a discipulo
aliquo pallium ablatum esse, pa^TjTUVy inquit, h. e. discipulus
esse cupio So- craticus, ut eodem modo aliquid furari discam,
xa\ o v 8 £ T a.v x a, do 2 co- xpctx£& Bekkerus post
zavza posuit au, quam voculam vulgo edi solitam Stallbaumius ex
plu- rimorum codicum ' auctoritate ta- cite expunxit. Eam reposuit
in texta Ruckertus. Iuiuria. Nam si scriptum exstaret : xai
ovx ipels av , gJ 2boxpaxa $ , ozi zavza ifievSopat, illa
particula vix csrcre possemus. Oude zavza autem cum legatur, ov6i
voca- bulum illam particulam in vicinia poni nullo modo patitur.
todovtov itepieyiv et o. Ia his rodoviov dictum est
8ai- xzixuS et per quandam exclama- 24 ts xa\ xaTS<pQ
0 VT]as xid xaxtyikaae xijg l(t!jg agas xu\ vfigioe' xaljteg ixsivo ye
$(ir]v xi elvat , a SvSqis Sr/MOtai' dixocaxal yag laxe xrjg Eaxgaxovg
vxsgr t - tpavictg. tv yag Xaxe, (id 9eovg , fid &eag , ovSlv £
xtgixxoxegov ‘ xaradedagdxjxdg uvtaxqv fiexd Eaxga- xovg ij tl (iexcc
nsngbg xa&?jvdov ij &8ek<pov xgecsflv- regov.
tionem , ut sigpificet: mirum quantum me vicit. S t a 1 1 b.
Dubito, nura huias structurae ex- empla reperiantur apud scripto-
res. Ut nobis videtur, aliam verborum structuram camque le- gitimam
quidem Alcibiades in mente habuit, qua altera quaedam enuntiati pars per
«oSfce par- ticulam praecedentibus annexa ef- fectam tov
iCeptysvid^at de- scriberet. Fortasse ita dicturas erat : noiydavxoS
8 'k x avtct ipot 1 ovxoS rodovrov leepieylvexo , <3 sxe xal
xaxatppovydai xal xa- xaytXdoai xrjS if.njs &paS xal %
'fipidai. Amat autem interdum oratio concitatior legitimae ora-
tionis vincula spernere, atque prout in buccam venerint, verba
verbis adiungere, id quod no- stro loco factum est. xalitep
ixeivo <ppyv n ttvai. cfr. p. 217. A. ig>pd- vovv yap 8rj ixl
xy upa $av- paOtov odor, quibus verbis opti- me expositam babes ,
quid sit, quod nostro loco adhibitum est rl slvai . Discas autem
ex huius loci sententia repetita, quanti olim Alcibiades
formosi- tatem suam uestimaverit, Cete- Tum ne mireris , Ixetvo
vocis neutrum genus positum esse, non femininum : exeivyr nihil
aliud denotaret, quam xyv cjpav> ixei- vo coptra paullo latioris
signi- ficatas est atque cum emphasi ad verba refertur : #
ipy wpat. f)v8lr itepixt ot£pov, Colon ponendum curavimus
post itepixxdxepov, quo vigorem ora- tiouis incredibiliter augeri
sen- ties, atque quoniam fortiora sunt, quae sunt breviora,
sententiae vim maguo opere corroborari. Scitote etiim, Alcibiades
inquit, nihil praeterea. Quae sequuntur verba, praecedentibus
verbis explicationis caussa addita, de more adwdtXGjS an-
nectuntur. y el pexa icatpoS. Ne- pos ad hunc locum
respiciens, Vit. Alcibiad. c. 2, In e ante, iuquit, adolescentia
amatus est a multis more Graecorum, in eis a Socrate, de quo mentionem
facit Flato in Symposio. Nsm- que eum induxit comme-
morantem, se pernoctasse cum Socrate, neque ali- ter ab eo sarrexisse,
ac filicfs a parente debuerit. y aSeXipov it ped fivri- pov.
Ne mireris, hoc loco ira- trem natu maiorem commemo- rari, cum
possit sola fratris no- tio ad rem sufficiens videri : npedftvxipov
non ideo additum est, ut significetur, quod de fra- Cap.
XXXV. To St] (lixa rovr o riva o&is&e fie Siavoiav £%uv,
^yovfuvov fiiv otjrifuxo&ai dyct/ievov de xi)v rovrov tptioiv re xai
eocpQoOwijV xai avdQilav, lvrtxv%riitbzct dv&Qejncf) roLOVtu , oZ »
eyw ovx av afirjv note Iv- rv%elv tlg <pqom]0lv xai elg xaQrtQMV ; wg
re ovff’ oza>g tre natu maiore valeat, id non item de
fratre natu minore va- lere , sed ad Socratis aetatem Alcibiades
respiciens , cum cum patre atque fatre natu maiore comparat.
riva ofedS- £ jie 6ia- voiav De interroga-
tionibus mediae orationi inter- positis saepius iara diximus.
Vide annotat, p. 60. Paullo supra eo- dem modo p. 216. D.
legitur SvSoSev 8k aroLxStkk TCoOrjS ot- e6$e ykfiEi f a avtfJES
Ovpno- tat, 6<*)<ppo6vv?]S ; Efficitur autem his dicendi formulis,
ut at- tentiores ad rem auditores red- dantur, aut, quod in nostrum
locum cadit , ut rei narratae vis amplificetur. xrjv xovtov
(pvdiv. Verba convertit Schleiermaclierus : und doch aucb an des
Manues Natur — mich erfreute. Dubito, num vernaculum nomen Graeco
nomini satis respondeat. Solent Graeci commemorato nomine aliquo,
quod totam aliquam rem in se conti- neret, per xi — Ticd — nat
eas eius partes annectere, quae in- primis extollendae sint atque
ur- gendae. Igitur verba convertenda censuerim : da icb mich
verachtet glaubte, und doch des JY1 annes ganzem Wesen besonders
seiuer besouuenheit und Charakterfestigkeit mit aller Liebe zu- gethan
bin. olo) i yco ovh av gj p r) v nox\ iv xvxeiy. Proprie
verba hoc ordine proferenda erant: olco iyco cjprjv ovh av nox E ivxvXElV
, quod moneo, ut facilius iutclligas, quorsum av par- ticula referenda
sit. Amant au- tem Graeci verbum dinitum , o quo alia quaedam verba
apta sunt, mediis illis verbis inter- ponere haud raro, quo
ordine verborum vis enuntiati magnopere augetur. Ceterum ut
eximiam laudem Socratis, ita non parvam aequalium vituperationem
his verbis contineri senties. on&S ovv 6 pyiZoiprjv. Prorsus
eodem modo ovv in su- spensa oratione reperitur in PJat, Protag. p.
322. G. ipeara ovv *EpyfjS Aia, xlva ovv xponov doitf SbtTfv nal
aioc 5 av$pco~ 7l0iS. Noli, Stallbaumius inquit annotat, ad b. 1.,
Ovv sollicitare, quod Stephanus vacare iudicabat. Indicat enim
ratiocinationem lo- quentis, qui quasi secum con- silia pectore
agitans inducitur. Quippe ea est virtus linguae Grae- cae, ut
multa, quae alii populi nonnisi oratione recta possunt enuntiare,
ea etiam oratione ob- liqua exprimere valeat. Quod quid sibi velit,
hoc uno exem- 24 * m ouv vQyt£ol(i>jV Ei%ov xai
uaoan(jTjd'th]V Ttjg tovrov <Swov6tug, ov$’ o Tty trQogttyayolftr/V
avrov tvxvgow. E tv yt':Q ySij, ori XQt//icc6i re Tto/.ii (tullov
rcrparog i]v Mivtuxij rj CidijQCJ 6 Aiug , «a te difiijv avrov
fluvio ixAcotiEO&cu, SiankpEvyi fit. tjnoQovv &>], xaraSiSov^a-
(dvos ts vito tov dv^gunov us ovSels vn' ovdsvog p!o satia patet.
Recta enim ora- tione dici aic debebat ; irroS ovv opylgGjjjai nat
ctnuOzrpTj^co rijS rovrav dvvovtiaS ; quomodo igitur ei irascar ei
usque consuetudine mc absti- neam? Quae convertens Alci-
biades in suspensam orationem eleganter retinet voculam igi- tur,
quae animi consilia agitan- tis gravius indicium facit, ov6’
ony itpoSayctyol- fl 7J V ac V TOV Evito p ovv . TlpoSctyeiv riva
sensim sensimqne aliquem sibi assuefacere, lente aliquem sibi conciliare
praeten- tis quibnsdam illecebris significat. Hinc iudicabis
de <x7C0(Srepri^Eii]v verbi significatu, quod illi oppositum
est» Cete- rum opyiZoifiTjv verbum primo obtutu habet, quo
ollendaris, quandoquidem haud verisimile est, Alcibiadem ob
repulsam a So- crate acceptam eidem non iratum fuisse. Fortas sq o
pyrgo iprjv xa\ dno6rep7f$eirjv positum accipere possis pro
dpyiZoptvos ano- dzepijSelrjv y nt sensus sit totius loci : »o dass
ich weder weiss, wie ich mich in hochster Auf- wallung seiuer ganz
erledigen, noch wie ich mich seiner allge- mach bemaclitigen soli.
His adde, quae supra leguntnr p. 216. B. ^paicEttvco ovv avrov xal
<psv- yco et quae sequuntur. ev ydp ori xpy)pa- di
re. Vulgo ye legitur pro re, quod e septem codicum aucto- ritate,
quorum in numero Bod- leianus est, Bekkerns, Stallbau- xnius, alii
iu ordinem vetborum receperunt. Riickertus ye vul- gatum reposuit
annotans : Non haec est sententia: Et pecunia eum capi non
posse mlellige - banij et quo solo cet., iramo po- tius haec:
quomodo eum mihi conciliarem , non videbam , Probe enim sciebam ,
pecunia quidem eum nullo jpodo capi posse ; quoque solo eum captum iri
pu- taveram , id ejju gerat . Vereor equidem, ut praecedente Xpr/padi
ye non w re o opyv ponendum fuerit, sed qj di, cuius scripturae nullum iu
codicibus vestigium comparet. arpGoroS rjv navraxy 7f
dldlfpa) 6 AlaS . Aiacern Telamonis lilium invulnerabilem fuisse ,
compluribus locis narra- tur. Vide Nitsch. mythol. YVor- terb.
Ortam puto inde fabulam, quod in Iliade Aiux non vulne- ratur;
pugu&Ds licet fortissime cum fortiss.inis. Riickert. Ad re-
ctiorem verborum interpretatio- nem navraxy verbum spoute du- cere
videtur, quo) verbo de scuto immenso monemur, quod gerens Aiax ab
omni telo tutus erat, 8 tau i<p evy i //£. Haec paucorum
librorum lectio est , i r iun 0110 a t . 373
rj.kov iteouja. 1 rartd rt ydg /toi ctncivta Ttgovytyovu, xnl f utcI
T.rtvTu (Irganiu tj/iiv dg JlotiSaiav lyivvto Xvivrj } cal
(JvvtffiTovfisv txd. Ugcoxov /ih' ouv xou; itovoig ov fiorov fuoiT
ittQtijv, tlkf.d stal tav iiXkav ujidvtav. ojcote yovv avayxcc-
O&dqftev axokeup&tvtes stov, ola 8tj dtQaxBtctg,
2Jo '« quam editores immerito reiecisse videntur. Plurimi
8iene<pevyei pe exhibent, quod Stallbaumius, unus Siatetpevyei
pe , quod Bekkerua iu textam recepit. Nolo, quod dedi, tanqaam
certum atque ex- tra omnem dubitationem positum lectoribus
commendare , dedi tamen, quod Alcibiadis animo ap- prime convenire
videbatur. Ille enim rem actam neque quicquam spei sibi relictum
esse docens haec ait: Experientia do- ctas sum, eam
pecunia inalto minas commoveri posse, quum Aiacem, scuto immenso
tectam i‘erro vulnerari, et qua re sola eum capi putabam, eam
eludeus elapsus est, tavtd te ydp poi. Nemo interpretum de
ydp particula quicquam annotavit, quae quo iure h. I, posita sit ,
non statim intclligitur. Schleiermacliems in conversione eam
prorsus non reddidit: Dies nun war alles frii- licr gesebehen cet.
Dubitari au- tem nequit, qnin verbis, ad quae relationem habet ,
praemissa sit, de quo usu loquendi vide Indices s. v. ydp. Consuetior
ver-*- horum ordo foret, opinor: Jial pera tavta — tavtd te ydp
poi uTtavta npovyeyovai — <5tpa- teia ijfiiv eis Tloridaiav
iyi- veto n. r, A. Potidaeam urbem quod attinet fttqno bellum,
quem contra incolas eius gesserunt Atheniensis, andi
Riickertum an- notantem ad hunc locum: Potidaea Corinthiorum colonia in
Pal- lene paeninsula ad sinum Ther- maeum postquam
Atheuiensiuin dominationem pertulit cum cete- ris illius orae
civitatibus ali- quamdiu, defecit 01. 86. 2. a* Chr, 435. belloque
pressa per quiuqueiHiiuni iterum in ditionem venit 01. 37. 3- a
Clir, 430. In horum igitur aliquem amiuin incidunt, quae hic
ab Alcibiade narrantur. o jr <5 r e yovv ar ay xct •
6 3 e i?j per. Rursum locum ha- bes, in quo edendo novorum codicum
auxilium maxime desideratur. Quam edidi, Stallbaumianae editionis lectio est,
quae me- liorum codicum auctoritate niti- tur. Sed cum vulgo
legatur ondtav yovv avayxatiSefo/pev, quis audeat, praesertim cum
exempla reperiantur apud bouos scriptores onotav cum optativo coniuncti,
vide Mattii. Giamm. ampl, $. 521. Aun. I. p. 1007., quis aipl eat,
inquam , utra lectio verior sit, cum aliqua certe veritatis specie
dijudicare ? Tovv in codicibus melioribus, quorum auctoritate
nititur 6 itote lectio, omittitur. Quod, quoniam vix abesse potest
, si receperis , co ipso oitote lectionis auctoritatem infringes.
Optime autem yovv ciSiTBiv, ovdtv ijeav o£ (ikkoL n gdg tu xagregeiv. tv
r av r uls tvcoyfaig (i6vog dnokaveiv ottig r’ rjv , td % akl.a ,
xcd nlvtiv ovx t&tkav , unor’ avuyxuGfrtlti, n dv- rag IxQ&t ei,
xal i 6’ ndvtav dav/xatirutarov, 2kaxgart] (itfrvovra ovSslg noinot’
icogaxtv civftQoiJtav. rovrov fitv ovv it oi doxei xcu avrlxa 6 %ksy%og
i'<fe<S&ai. ngog 6 i av rdg rov %iL(iuvog xagregijGsig — 0uvol
ydg av- Stallbnmnius explicat: Confir- mat yovv ,
inquit, ut Latinorum i certe quideui, antecedentia cum aliqua
restrictione, hoc est ita, ut indicet, hoc certe, quod nunc
commemoretur, veritatem s eorum, quae antea dicta sint, sa- tis
testari ; sed nlia etiam posse afferri^ quae tamen nunc reti- cenda
esse videantur. dn o\ e i cp % k v x sS 7tOV, Astius
drtoArfipSiifxeS scribendum coniecit, quod hodie ab editoribus omnibus ia
ordinem verborum receptum est. Sed codices miro consensu
ditoAEi<p$ivxE$ exhibent, quod, quoniam explicari posse arbitramur, in
textu retinuimus. Rectum quid esset, Heusdius vidit, qui
scribendum coniecit dnoAsup^ivxES Cixov ; sed mutatione nulla opus
estj e sequente enim afStxetv infinitivo 6ltov genitivus facillime
ad dito- AtupSiv T£$ suppletur, Ficinus habet ; et si quo in
loco, ut accideresolet i u bello, ccfro meatus deficeret*
iv r* av tais ev G>xiaiS. Ad haec quoque verba recte re-
feruntur, quae praecedunt; ola 6q ini dxpaxeiats, h. e. pro va- ria
fortuna belli. Militum enim ea fortuna, ut nunc omnium rerum
felicissima copia abundent, nunc no habeant quidem, quae ad
sustentandam vitam necessa- ria suat. Huiu? rei fortunam nemo
Socrate melius perferre potuit. navxaS in patet. Rarior
structora est npatEiv verbi cum quarto casu ea de caussa , quod
Graeci hoc verbum saepius prae- gnanti, quem vocant, quam pro- prio
significatu adhibere sole- bant, Kpaxelv ttvoS enim idem fere est
atque npaxovvxa elvai XtvoS , victorem esse ali- cuius, de quo
significata vide annotat, p. 87. KpcciEiv xivd contra proprio
significatu adhi- bitum prorsus dicitur ut Latino- rum vincere ali
que ni. ov 8 eIs nd nox e hd pa- ne v. Codicum auctoritate
mo- tus , in quorum numero Bodle- iauus est, Bek.kerus kapdxei
in textum recepit, quae lectio item Riickerto probatur. Non
placet. Non enim haec est mens Alci- biadis , Socratem tum
temporis a nemine 'visum esse vino gra- vatum , sed nunquam gravari
vi- no dicitur in universum , eius- que rei luculentissimum
indicium mox convivas habituros esse Al- cibiades promittit,
Seivot yap avxoSi x ei ~ p dives. XEipwveS articulo suo
privatum latiore significatu acci- piendum est, ut verba, couver-
<S zo&> yup&veg — ftav padia elgydteto xtx te $
AAa , xai fs itote ovtog Tiayov oTov Suvmutov , xal xavtav y ovx
1'iiivtov EvSo&ev, >] , d tis ittoi , i)p<piEOpivav xe &av(icc6xa
Sij ooct xal vxoSsSepivGni xai IvEikiypEvcov xovg xoSag Eig xikovg xal
uQvaxlSag , ovtog 6 Iv xovtoig 11] jei lyav [pclt iov ptv totovrov, olov
xeq xal XQortQOV eIoj&ei <poQUv , awnoSrycog Se Sia tov xqv-
tcnda sint : denn W i n t e r in dortigcr Gegeud sind
fiirchter- lich. ra te aXXa, xai itote. Haec dicendi
brevitas etiam paul- lo supra in verbis conspicitur tu re dXX a,
xal itlveiv ovx Xgov, quae explicatius audire Stallbaumius docet
annotat. ad lu 1. t a re aXXa, xal 8t} xab rovto , ori nireir —
itavta S ixpdtei. Alias breviloquentiae exemplum in sequentibus
verbis continetur xai itote ovtoS na- yov olov 8 eiv ot dt ov ,
ubi. explicatius verba enarrata sonant: *xai note ortos itayov
toiov- roUy oluS biti 8eivbtatoS , de quo loquendi genere vide
Mattii. •Oranira. ampl. §. 473- Ann. 2. p. 885. Ceterum vulgo
legitur ortoS tov nayov. Bodlciani cod, aliorumque paucorum
auctorita- tem secuti Bckkerus , Stallbau- inius alii articulum e
textu re- iecerunt. Utramque lectionem commode explicari posse ,
nemo dubitabit, atque sententiam si spectas, perinde tere esse
cense- mus , utrum addatur an omitta- tur articulus. In huiusmodi
lo- cis codicum auctoritas cum ma- xime valere debet. Igitur et
nos articulum omisimus, quem Rii- ckertus in textu
reposuerat. t) ovx l Bti 6 v to)v £ v 6 o - $ev «c. e
tabernaculis, quo- rum notio facillimo mento sup- pletur.
"Ev8oSev Scliieicrmache- rus convertit hinaus. Recte quidem e
nostra loquendi consuetudine; aliam Graecorum fuis- se, H.v8o$ev vocabuli
notio do- cet, Etenim Graeci quicquid scri- pserunt dixeruntve ,
eius quasi imagiaem quandam ante oculos habuerunt prius, quam
scribe- rent loquerenturve. Dicturus igi- tur Alcibiades : neminem
militum e tabernaculis exiisse , rdm ita proponit, ut imaginem ante
ocu- los habuisse coniicias militum o tabernaculis exeuntium.
Hinc HvSoSev vocabulum Explicabis, Convenit cum nostro
loquendi usu, quod legitur p. 174. E. ol y\v ydp evSvS n<n8d uva
IV- 8o$ev dnavti\6avta dytiv x. r. X. Innumerabiles autem
loci opud scriptores Graecos repe- riuntur , quibus illa ingenii
in- doles probatur. Cfr. praeterea an ->notat, ad verba TLxpr\ ydp
ofc ScoxpatTf . p. 16. , eis niXovS xal apru- ni 8 a S.
Schol. ad h. 1. nlXoS Ipdtior IB» ipiov ntXrjdecoS yi- voperoVy eis
vetav xal *«/*<»“ VGor afxwav . dpvccxideS 8e apvGov HotSia.
Suidas, apva- xlS t inquit, ro' tov apvoS xqd- 8tov , to pefd xvv
ipicov 8eppa r. dra/.AOv quov Ijcoqbvsxo tj ol akkoi
vitoSstisfiivoL oi dl tiTQCCTUJTCCl VTttfikeitOV CCVtOV UQ
XCCZCC(pQaVOVVTCC c (Stpiuv. xai ravta plv drj tccvzcc.
Cap. XXXVI. Olov A’ av tu 8 ’ ipeUs xal ixX r/ xapTEpoS
avi/p Nostrum locum frustra, ut vide- tur, Valckenarius ad
Herod. III» p. 199. 95. Musonium imitatum esse censuit apud Stob.
I. p. 17. 51., cuius verba laudare invat tamen : ov8a/icuS xaXov
ovte iuS/fusdi noAXai? xaTadxinEiv TO dGOpa ovts TOLlviaiS
XOCXEl- Xeiv ovre x f tpttS te xal no8aZ nepiSidEt niXoov rj
v<padpaTGyv tivgjv paXaxvvsiv. Quod sequi- tur, ovtos 8*
Latinorum respon- det: hic, inquam, quo verbo pronomini addito, ut
8i particula, vis augetur pronominis et filum orationis verbis
interpositis com- pluribus dissectum rediutegratur. V7Z £
fi\E7t OV CtVTOV (Di xotr atp pov ovyt a d<pav . Limis
oculis eum intue- bafitur, quum eos suae ipsorum mollitiei
pude- ret, odeo que Socratis p a- tieutiam et fortitudinem
moleste ferrent, quippe quem ipsos despicere opi- narentur. Ceterum
Socratem algoris ct caloris fuisse patien- tissimum testatur etiam
Xenophon Memorab. I. 2. 1. ct I. 6. 2. al. Stallb* Conferri Rii-
ckertus iubet annotatione ad h. 1» Piat. Criton. p. 53< B. xal odoi
- 7CEp XljdoVTOLl TtoV aVTGDV TCU- Xeoov f vuopkbfrovTai Ce 8 ia~
tpSopta yyov/uvoi r uv vegov, olov 8* a v 1 6 8 3 l’ p £ £ e
X. t. A. Versus Homericus est, culus initium Alcibiades immutavit,
ut versus cum cetera ora- tione melius consociaretur. Legi- tur
autem in Odyss, IV. v. 245. dk A* olov to 8 * lpz£,E xal
irXrf xapTEpoS dvrjp SrjftGj ivi TpoSaov , uBi nu- &X €
T£ nt/par ’ Axaioi . ixei ini drpar e laS, Solent Graeci,
quando cum gra- vitate aliquam actionem descri- pturi sunt, huic
praemittere vo- cabulum, quod actionis rationem in universam
indicaret, post actionem ipsam accuratius defi- nitam exhibere. Sic
legitur p» 177. E. ndyrcfS /tt/ 8id piSr/S nou/dad^ai Ti/v iv tgj
napdvn dvvovdlav . dXX ovra>, nivov- taS TtpoS ?}6ov)jv, ad quae
ver- ba vide annotat, p. 43. Idem valet de locis, quorum
mentio- nem graviorem ita faciunt scri- ptores, ut praemisso verbo,
quod iu universum locum aliquem si- gnificat, accuratiorem loci
de- scriptionem exhibeant. Sic igitnr hoc loco ixsl — ini
drpaTtiaS legitur, quo docearis, ad Poti- dneam gestum esse, quod
nuuc Alcibiades narraturus sit. £vvv 07 } d ctS — e\6t )/
xci 2,7/TCk jv, Socrates aliquid cum animo suo reputans a primo
maue narratur meditabundus consti- tisse, atque re non feliciter
pro- ccdeute , quasi defatigationem exe! norh Eithjt
(StQcctslag , fil-iov axovdca' £wvcy<5ag yccQ avtofh Sa&bv n
e[6x)]xei 6xojtcov , xai insi- di} ov xqov%(6qsi avtcS , oyx aviti , (Md
efotijxti %7)t&v . xai rjdy f\v iiEtirjuPQla , xai av&QCMiot,
ycfta- vovtOy xai &av^d^ovtsg aXXog dkXco tksyEV , oti Zco-
xganjg iafhvov (fgovrltcov ti eOrrjTce . teXsvTMvzEg corporis sentiret nullam,
in stataria meditatione perstitisse. Huius consuetudinis mentunem fa- cit
etiam Apollodorus , qui cum Agatho servos iussisset Socratem vocare
p. 175. B. laxe avxov, inquit, £3of yap n xovx* £*«. ivloxe
aitodxcis o7roi dv xvxv %6 xmiev. Quae addit verba ijtiei 81
ccvxlxa , &s iycjpat, non ita# accipienda sunt, quasi Apollodorus
revera opinatus esset, Socratem mox venturum esse. Qui enim Heri
potuisset, ut compertum habuisset Apollodorus, quo tempore Socrates
meditationum Unem reperturus sit ? Neque ne- sciebat, quippe doctus
experien- tia, Socratem, si constitisset semel meditabundus, iuterdum
multum temporis meditando consu- mere. Nihil igitur aliud voluit
ij£,ei 8i avxixcc , ck* iycfypae ver- bis efficere, quam Socraticae
meditationi consulere, ne forte servorum acclamatione turbaretur.
icccl i} 8 r\ — y6$ av ovxo. Non verterim cum Stallhoumio:
und schon war es Miltug , ais mau es er st merkte ; corrumpitur enim, ut
ego existimo, vera sententia addita voce erst, quae in Graecis non
repentur; iromo »*nd schon war es Mittag, und die Leute fingens on
zu merken (malim: und den Leuten fiel es auf ); non enim quautum
tem- poris ante praeterierit , quam sentirent homines, Alcibiades
significat, sed quam diu steterit, et quid acciderit, quod partim
loco movere Socratem debuerit, partim rei augeat miraculum. Idem
verba significant, ac si narret Alcibiades: Iam meridies erat; attamen
perseverabat; iam sentiebant homines; at non discessit. Hanc
Riickerti annotationem, cum idem indicare intellexissem, atque quod ipse
seraper de huius loci explicatione statuendam censerem, viri doctissimi
assensu gavisus , integram recepi. Zajxp axi]? l&> IgdSiv
ov q> p ov x l % a v xi $ d x tj x e . Haec tanquam ipsa verba
laudari censemus hominum Socratis axo- Tclctv mirantium. Hoc
colligere possis e structura verborum, quum si forte ad firmaudam
sententiam nostram facere negas, ei certe non repugnare concedes.
Hoc sa- tis nunc nobis. Suhest enim gravius aliquod argumentum ,
quo ipsa hominum illorum verba laudari probemus, tppovxi^GJV par-
ticipium. De quo quoniam pau!- lo fusius dicendum est , longio- rem
autem explicationem plagellae huius angustiae non capiunt, in Comment. de
Piat. Symposio disseremus. xeXe vx g 3 vxeS 8k xtves Xt
ov 'i&YGor. Consentaneum est, non Athenienses, quibus mas
«78 6i uves «w 'Javtav , htuSt) ttiniga Suxvrfiavtts, D nal
yctQ &{qo s rore yi rjv , yctutvvia i£evtyxu[itvoi tlfia (itv iv Z(p
i)v%Ei uct&ijvSov , a(ia 8s ItpviatTov avzov, st xal njv vvxza
t<5r>;|o4. 6 <5a e ianjy.cc fitXQi eas lytvixo xal tjkioe
dvioxtv hiutu c>xtz ’ amdv ille Socraticus notissimus
erat, nunc observatum ivisse e taber- naculis atque sub dio
lectulos stravisse; sed Ionum, qui una cum Atheniensibus Potidaeam
ob- sidebant, aliqui narrantur, cum ex Atticis militibus de more
illo audissent, nt oculis viderent, quod fando audissent, sub
dio pernoctasse. xal ydp SipoS tote y$ T/r. Annotatione p.
SI* indicavimus, solere haud raro scriptores Graecos partem orationis
eam, quae caussam alicuius rei conti- neat, parti orationis rem
ipsam describente praefigere. Exemplum est huius loquendi usus p.
175* C. xov ovv 'AyaSojya, rvyxd- veir ydp £6x aToy .xaxaHtipe-
vov , jiovov * devp , £<pt/ (pa- rat, 2fcjxpattS x . r. A. Sed
huuc locum cum nostri loci con- formatione non recte conferri, vel
obiter instituta comparatio docebit. Quaeritur, quo pacto xal ydp
StpoS tote ye i}v ex- plicandum sit. Tacent interpre- tes, quo
silentio non nihil uni- mus commovetur mens. Num verba tam plaua
sunt, ut explicatione non indigeaut? Schleier- macherus in conversione
exhibet; Eudlich ais es Abend war und n an gespeiset hatte ,
trngeii einige Ionier, denn da- ma Is war es Sommer, ihre
Schla fdecken hinaus, theils um im Kulilen zu schlafen cet., qua
couversione mitigatam habes mutato verborum ordine difficul- tatem
loci, non item explicatam, SchuUhessius vertendo; es war eben
Sommer, explicaudi genus admisit, quod sane levissimum est.
Dillicultatem enim vdp particu- lae ita, ut ydp reddere omittas,
noa expediveris. Scriptum autem exspectabamus : 6ei7ivr t 6av teS
xal, SepoS ydp tote ye ip', 4Xapevvia i^evEyxdpEvoi. Sed cave
non rectum ceuseas verbo- rum ordioem, quem libri exhi- bent.
Participia §EWVi]($avT£Z , l&tYEyxdpEVOi, de more advv- 6 etcjS
posita suut, in verbis au- tem xal ydp StpoS tote y£ ?/v, caussae
indicium prae ceteris verbis scriptor, eminere voluit, idqirt) ideo in
principe loco enuntiati posuit, h. e. in initio. Cuius lo- ci
quoniam suapte vi non potest caussalis particula sustinere gra-
vitatem , xal explicativum prae- positum est, quo illa eodem modo
susteutatur atque Latino- rum enim, addito e t (etenim) fortius
iit, atque principi enuu- tiati loco idoneum. Vide de xal expletivo
annotat p. 6. cfr. prae- terea p. 219. B. ap<pt?<SaS ro
IpecTiov ro ipavtov tovto xal ydp 7/v x £l M ( & v r » A . Contra ubi
verbum aliquod in enuiitiatione parcuthetica conti- netur, quod
significatus gravitate ceteris verbis autecedit, id prin- cipe loco
poni solet. Sic legitur p. 220. A.Seivoi ydp av TuSt — rtQogEvldtnvos rw yllco. tl SI (iovktfi&e
Iv retis f*«- %aig ' tovto yceg Sij Sixcuov yt avrc5 dxoSovvat. ort
yctQ i) ftfczv 'h v i VS f/td xal zagiOreict 'iSoiSav oi evQomjyot,
ovSbIs aklog ifii laaow dv&gmxcav y ovrog, rs tgafuvov ovx i&tkav
azohntlv , a).ku GwSdauGe E eiSiffov \s<S$s iv ratS
/udxttiS. Bene Stallbmiroius orationem hoc modo explendam censet j
ei 61' (3ovA.e6$e axov- Cai , oloS iv x ais puxaii V v % ifjui xal
x ov$* vpiv. Nollem tamen per aposiopesiu verba ex- plicanda esse
dixisset. Certum esse reor , tl particulam aposio- pesin nunquam
admittere» con- ditionalis enim enuntiatio ex ordi e temperatiorum
dictionum est» quae cum aposiopeseos vehemen- tia non conveniunt.
Possis etiam verba ad praecedentia referre p. 220. C. xal xavxa plv
Si/xavccr oiov 6 ’ av x 68* £pt£,e xal izXrj XQtptepoS dvrjp ixel
noxa iitl OTpaxtiaS , aB,iov attovdai. Quae verba cum Alcibiades
hoc modo edixisse sibi videretnr: ei (iov- A e6$e dxoveiv , olor 8*
av xo8 * UpeB,e xal £rA?/ xapxepos avtjp 9 nunc ita perrexit: ei
6fe fiov XetiSe (sc. dxoveiv , olov 6* av x 68 * Bpe&e xal
ix\rj xapxe - opo$ cevrjp ixel xoxh) iv xal? paxaiS, (sc. ipa xal
tov$’ vplv. y oxe yap fj fiaxv V v - Hia pugna. Ponit
euim rem pro certa otnnibusque nota. Narrat, quorum hic meminit
Alcibiades, Plutarclt. Alcib. p 194. C. F., sed ita , ut aut omnem
materiem ex hoc loco hauriat, aut studiose cum in narrando
respiciat. Riickert, i B, ys i po i xal xdp i- 6 X e ia. ’Ex
praepositio hoc loco temporali potestate posita est, quod moneo
contra Riickertum, qui annotat ad h. 1. : Secundum quam. Caussam
euim pugna praebuit, cor darentur Al- cibiadi virtutis praemia. —
Sed bene monitos lectores velim, ne ix quovis loco temporali
potestate poni posse opinentur. Ponitur tum tantummodo, quum
tempo- ris indicio simul adhaeret notio quaedam, quae ix
praepositioni propria est. Minus accurate Schlciermacherus : hei
welchem ( Gefecht ) mir die Heerftihrer deu Preis zuerkanuten
; non rectius Schulthessius : dena in der Schlacht, wo mir
cet.Restat ut de xal vocula dicamus, quam u nemine interprete
explicatam video. Supplemento aliquo opus est, quo advocato, quid
xal si- gnificet, statim intelligetur: ure yap i/ paxv rjv , y
avry, i£ r/S i/ioi xal xdpuS^ua ISoOav. denn ais ieue Schlacht wnr,
die- sclbe, ais die, nach wclcher die Heerfuhrer mir deo Preis
zuer- kannten. x ex pat fiiv ov ovx i$i- A cdv. Vulgo
haec verba inverso ordiue exhibentur) codices plu- rimi atque
optimi texpcofiivov ovx iSiXtov. Vehementer errant, qui uter
verboi*um ordo rectior sit, e sententiae ratione dignosci posse
arbitrantur. Nam uterque, quo se commendet lectori, habet. Sola
igitur meliorum codicum au n a at a no r xai T a ZnXa xai avtov
l[it. xai tyul /xh’ , w £(6xgrt- Tfg, xai T('m Ixtktvov Coi didovac
zagtOzt ia tovg Ozgazrjyovs , xai zovzo ys (ioi oiizt [itfiipH oiks
igsig (In t luvSojiai ' dkXd ydg tmv tizgazr/ywv xgog z<>
i/wv iit ioifia dzojV.ixuvzeJv xai (iov/.vulvcjv ifiol dtdovca
ctoritas respicienda est, quorara lectionem Bekkrrus, Stallbaumius
alii in textam receperunt. a A Ad tivv 8 ikC a> Ce xai t it onAa
xai avTov i fi i. Priori loco xd oicAa commemorautur ea dc caussa , quam
ex- positam habes annotat, p. 63. De verbrs cum 8ia
praepositione confundit annotat, adip. 7* Verba converterim; und er
braclite WaflVn und Menschen, beides, retteod hiudurch. Ceterum
iucst aliquid his verbis, quod si ab- esset, omnes uno ore
Graecis- mum laudarent atque locis ex Homero inprimis petitis
confir- marent. Nullum in codicibus vestigium depravationis, nihil
igi- tur mutandum, praesertim cum negari nequeat, non minus Graece
dici, quod nunc legitur, quam quod milii in mentem venit dAAa
CvvSikCcoCe xai xd uxAct xai avtov. xai rore. Annotat
Stallbaumius ad h. 1. Ne quis , inquit, in his haereat, xai «d
universam sententiam, non ad solum xoxe referendum est, at
respondeat proximo xai in verbis xai tovxd ys pot ovte fitjjipei. Verita-
tem huitu sententiae Ruckertus agnoscit ; nobis aliter de expli-
candis ual tore verbis statuen- dum videtur. Meus Alcibiadis haec «
st . Non solam praesenti tempore se ita iudicare, ut Socratem dignissimum
censeat ptaemiorum Hlornm, sed etiam tum temporis ita se censuisse
atque tussisse quidem, nt duces So- cratem pruefniis illis
dignentur. Quae sequuntur verba pepibei at- que ovn ipet* ijxi
Tpf.v6opai nostrum explicationem confirmant. Mkptpei enim ad
praesens Alci- biadis iudicium referendam est, qno Socrate negatur
praemio- rum illorum aliquis dignior esse, verba autem ovx ipEiS
oxi ijjEv- Sopai recte ad verba retuleris ixkAevov Coi SiSovat
rapior eia x ovS CrpaujyovS. itpoS T 6 ipov dZi&pa.
cfr. PJat. Alcib. I. p. 104* B. Ineixa (sc. (p?}s elvai') veavi-
xcDtdxov yivovS Iv xy Ceovtov itoAei ovCy pcyiCty xaSv 'EA^-
ArfvidcDV' xai ivxavSa itpoS narpoS xk Coi (piAovS xai B,vy- yeveis
tcAeICxovS elvai xai dpi - 6x ov£, ot , et xi 8kot, vmjpexoiev av
Coi . xovtoov 81 Totif xpoS fitfxpoS ov8\v xdpovS ot56* iAax- rovS
' Zvpitdvxarv 81 mv elnov ptiZoi) otei Coi Svvapiv vitap- TlepixAka
xov AavShtnov, or 6 Ttaxrjp iitixponov xaxkAmk Coi, oS ov povov iv
xy8e xy icoAei dvvaxai itpaxxeiv o n av fiovArjxaiy aA A* iv naCy
xy 'EAAddi, xai tqjv fjctpfidp&v iv noAAolS xai peyaAoiS
ykveCiv, Mutre nsus est Alcibiades Dino- mache, Megaclis filia
celeber- rima, patre Clinia, cuius virtus in pugaa ad Artemisium
pugnata zTMnozroN. 881 xdgtGxHa,
avxo g noo&vtioxiQog lyhttv xwv 0TQCtrr t y{Zv tui /.ajitiv jj
GavTuv. Ixi xoivw , <J avdgtg , cchov 9/i' tituGaGftca ZaxQclxtj , oxe
ano /JgMov qnyf/ ave- £21 Xoigei xo OxQCtronedov. £xv%ov yag
nagaytvofievog innov . l'zarv , ovtog <5 a onAa. dvtyoigu ovv
iaxtdaouivav f inclaruit. Non sine caussa igitur Socrates in Piat.
Alcibi&d. I. init. Alcibiadem allnquens dicit: ' 11 7tcti
KXetriov, Vide, quae de dicendi formulis rtaxpoSev et nal? xivo?
docet Wachsinnthiua in libro: Hellen. Alteithumsk. L I. p. 320.
Beil. 10. i ph Xafielv i} tiavxov. Nihil certius est,
quam Platonem aveo? scripsisse vel ovx av- ToS , uUi
oppositionis rationem habiturus fuisset, quae quanto- pere angeatur
tiCtVTo? scriptura nemo est, quiu videat. Alio loco de hac
structura oppositionis augen- dae caussa admissa locuti sumus. Vide
Indices s. v, Accus. prou. - uf£ ano J //Aio v tpvyy ct r
exGjpei. *Avaxeepeiy proprie est : in locum altiorem se con- ferre,
iuprimisque de piscatori- bus obvuluit, qui undis ora su-
perantibus celerrimu iiiga altiora loca petierunt. Hinc ad rem mi-
litarem tranr.lutum verbum lugam militum describit, qui e pere-
grina terra, tanquam undas mare, hostes evomente quasi iu altio-
rem atque tutiorem locum, in pa- triam terram fugif^es se confe-
runt. Deinde, quMnam, qui na- ves relinqniiut atque mare, cum
patriam terram petituri sunt, al- tiores regiones petuut, factum
est , ut redeundi verba plerum- que cum ara praepositione con-
iungercutur. — Schol. s. v. drj- Xtov • x Q opLov xjjS LouaxiaS,
Athenienses ad Delium urbem a Thebanis^prorfio victos Thncyd.
\ narrat IV. 76 seqq. Proelium scimus fuisse Ol. LXXXIX. , 1. Idem
proelium u Lachete comme- morilnr in Piat. Lach. p. 181.B. xui ptjv, go
Avtiipaxi , p?} atpUoo ye- xavSpoS' gjS iyos &XX oSl ye avxov
iStacdptji' ov povov tov naxlpa dXXd xal xi)v Tzaxptda’ opSovvxa.
iv ydp xf/ and Jr/Xiov <f>vyy pix ipov cvvavexcjpiti xayaZ
<5ot Xiyco, oxi , ei ol aXXoi iJSeXov rotovxot tlveti , dp$j) av
ijpwv 7 } TtoXi? r,r xal ovx av initia tote xo xoiovxov nxdopa.
De re ipsa Engelhurdtus ad h. I. ed. p. 14 : Cum Boeotorum,
inquit, nonnulli imperium Lacedaemo- niorum aegre ferentes ope
Athe- niensium democr&tiam in Boeo- tiae civitatibus instituere
ctipe- rent, inter eos atque Atheiiieu- sium duces Demosthenem et
Hip- pocratem convenit, ut ipsi Athe- niemibus urbes Siphas ad
sinum Ciisuenm, et Cbaeroncam prope Orchomenum Minycum traderent,
Athenienses nutem eodem «lio Delium Apollinis sacrum iu fini- bus
Boeotiae et Atticae vernus Euboeam situm vi occuparent. Sed
ct Demostheni ad Siphas oc- cupandas profecto res Boeotis iam
prodita infeliciter cessit, et Hippocrates , qui serius , quam
convenerat, Delium pervenit, postquam vallo praemunire atque
praeauliu instruere contigit, Boeo- *t a 4 ijdrj
tcov av&Q(07tG)v ovtos n apa xal Aaxrjg * Xfti 2yw 7 teQitvy%dv &
, xal Ida tv ex>ftvg vtagaxefavopuL rs avTolv ftaQQeiv xal SXsyov ,
art oi5x djtotefyco avzoj. Ivzavfta St} xal xdkXiov l&EaOuprjv
EttXQazrj ?; JTozidala • avrog yap ^trtn/ Iv gro/xo 7} dia ro Ig^’
' wnrou £itm* jrpwrov juv otfov ntQiijv Aaxrjzog za B HpxpQCov sivat *
Sjtsiza Zpoiye idoxsi , oJ *AQi6zocpavsg — to tfov 6'ij rovto — xal
.&cct diajtoQ£v£<S&ai (Sgzeg xal tis fere omnibus interca ad
De- lium collectis, turpi clade in fu- gam conversus est. Quos
autem Delii relinquerat Athenienses, castello die post proelium
XVII. yi expugnato, partim interfecti, partim capti sunt exceptis
iis, qui ad naves pervenerunt. xal iyco ns pixvy xdv p»
Nota praesens historicum , quo incredibiliter orationis vigor augetur.
Exempla huius dicendi usus Matthiaeus collegit Oram ni. ampl. $.
504« 1. p, 955. Eo tempore Alcibiades etiam p. 2 17. C. utitur:
npoxaXovpai 8t) av- tov 7tpuS x 6 dvvdeizveiv, dxe~ Xv&S
ooSTCEp ipa6xt/S nai8ixoii inifiovXevGov Hoc tempore utuntur, qui narrant
aliquid, non nt rem de industria tanquam praesentem auditoribus exponant,
sed narratoribus rei memoria abreptis res tanquam praesens
obversatur, tanquam praesentem igitur ex- ponunt. Sed inter
loquendum saepe ad se rursum redeunt et ad auditores, atque
temporis rationem agnoscunt, quo lacto ad praeterita tempora verborum
su- bito recurrunt, ut hoc fit loco nostro: xal idcov ev$vS
napa- xeXEvopai te avxolv Sapptiv xal £A syov. insita ipoiys
idoxez — ro* <Sov 6 7 } tovxo — . Verba ro 6or 81 f xovto
lineolia adhibitis a praecedentium et nb insequentium verborum
iunctura seclusimus , no quis forte haco Verba ex i8oxei apta
censeat. Ad iSoxst enim o JSa?xpdr?/f supplendum est ; Xo 6ov 81}
Tov- X O autem absolute positum est prorsus nt ro' Af yopevov et
aliao huiusmodi figurae dicendi. Ver- sus, ad quem respicit
Alcibiades in Nubibus Aristophanicis fcou- tinetur 561.
oxi fipEvSvEi x iv xaitiiv 080IS xal XM<p$a\pGo
napapaXAEiS, ad quae verba Schol. annotat: fipevSvEt *
anotispvvvEiS 6eav- xov iv ro3 6xppaxi xal xav- pij8ov opaS.
xopitdBftiS xal yjtEpoizxixuS fiaSifyiS. Idem ad Aristoph. Pac. v.
25. xovxo 8* vito <ppovi]paxo£ ftpsv- SvEtai xe xal <payEiv
ovx a£,ioi annotat: ro fipsvSvEXai avii xov pkya
(ppovEi. ol pb* ano (IpivSovS rosi cpvxov , ol 6f, (iique
ialsisflpi quidem, ut pa- tere opinor ex annotat, p.4. et 5.) pvpov
E1S0S , c5 xpi ° v a 1 ywaixES xal in 9 avxcp piya <ppovov6iv.
Timaeus L. V. Pi. fipevSvopevoS • yavpovpivoS xal uyxvXopsvoS pexa
fidpovS. Recte igitur Stalibaumis f ipev- Ivftads ,
Poev&viifitvog xal t(3q>9ak(id> xaQafidlkov , ygifia
jrapafJjtojrcw xal tovg '<plkov g xal tovg xoki/ifovg, Sijlog <dv
ttavt l xal 3taw it6$ga&ev, ort, «l Tig atpetai xovtov rov dvdgog,
ftdXa i^gauivag apvvti tai. dio xal doqiaXag dstysi xal ovrog xal 6
etegog. a%t8bv ydg ti tav ovxa Siaxufttvav Iv tm ttoUfia ovdi
axroy- tai , dkbx tovg itQoigaxddyv ysvyovta g Siuxovo:. C xokld
(uv otw L > tig xal cikkcc typi Ecjxgaty Izm~ SveCBcn est,
inquit, superbire maguoque cara fastu i u » cedere. Minus recte, at
vide- tur, tcotp^aXfito napaftdX\oov esse ait torvo vultu
oculos huc et illuo coniiciens, Recte Scliol. x avpT/dov
dpti?. Bobus torvum vultum esse nemo concedet, qui huius animalis
oculos accuratius inspexerit. Tavpqdov autem Scliol. dixit, ut
esset, quocum tranquillitas vultus compararetur rov fipivSov. Exprimitur autem
illa tranquillitas cum incessu superbo, tum oculis iu obliquum
conversis, quales iu ci- coniis persaepe auimad vertimus. Sententiae
nostrae verba favent t/pEpa TtapatixoTzeiov, quibus ma- nifesta
continetur proxime praecedentium explicatio. Miror au- tem, etiam
Stallbaumiura probusso coniecturara Bekkeri , 7t epitixo- irdjv
scribentis, quae, si quid video, e Fichii conversioue hausta est ; deinde
mihi visus est> o Aristophanes, quod et ipse ais, ibi non aliter
quam hic incedere superbus , et o cpl is. quiete omnia
circumlustrans , cauteque examinans singula. Qui cir- cumspicit, non
providentiam solum prodit, quae ipsa apud pro- bos scriptores
circumspectio audit, sed etiam timiditatem quandam animi quippe
undecunque do periculo vitae metneif. Ceterum xal dupliciter posito in
comparutione: xal Ixel duxno peveOSai
wSnep xal £v$a8t, nihil frequentius apud scriptores Graecos.
xal rov? tpiXov? xal xov? ito\£ fiiovS. Eadem re- ligio, qua
scribae propter inso- • quens 7to\Efjlov? scripsere qn- Mov?, recentioribus
impedimento fuit, quominus, quod vulgo le- gitur, tpL\oi>? iu
ordinem ver- borum recipereut. Yide annotat, p. 13.
8f/Xo? cjv — itavv n J/3- fia^Er, Similiter Apollodorus» qui
Socratis incessura imitatus est xgjv ovv yvGopljx oov xi?, inquit,
OKl6$E xaxid GJV p,E 710 P(J G0- Sev ixaXs6Er, x. r. A. it
por p ondbrjv . Annotat Schol. ad h I. npoxpoitdSijv • TtpoSvflGD?,
dpEXadXpETtti , /lEXtZ nporponij? r/ eI? xovpnpooHiY. Ficiuus verba
convertit : Fer. ne enim qui ita incedunt, nemo eos iuvadit , sed
eos , qui efl isa fuga deferuntur. Tt pronomen indefinitum ad
perli- nens, neque Latino neque vernaculo sermone reddi potest
satas commode. Efficitur autem eo, ut ov verbi potestas paol-
lisper imoiinuatur. Sensus est viocci xal davfiatiia • akXa t Crv fdv
aXXtov iitmjStv- Hurav t u% uv ug xal itigl ciXlov rouzvra rfjtoi'
ro de (itjStvl civ&Qu>ituv ofioiov tivai , (itjte uxrv uta-
X.ttlMV UljTB TCOV VVV OVTCuV , TOVTO CC^LOV ftttV TOg &aV- ficcrog.
ciog yciQ ’A%iXlivg totius enuntiati ; Denn es ge- schieht
ia wohl , dass auf die, welche sich so im Kriege be- nehmen , fast
nicht einmal ein Angrili' gemncht wird , soudern nur die werdeu
verfolgt , welche ia wilder Hast iliehen. TtoXXa fi\v ov v av
xiS xal d XX a. E nostra loquendi consuetudine Alcibiadis verba
au- dirent: noXXci a\Xa Savpdtita'. Vieles audere wunderbare. II
c- ctius Graeci xal vocula adhibita disiunxere verba , qua re
edici- tur, ut singulum quodque verbum suum pondus habeat
propriamque potestatem accipiat. Persaepe Luiosmodi dictionis
exempla reperiuntur; interdum tamen etiam, «]uue cum nostro usu
loquendi couveniant, reperias. cfr, Symp, p. 195. B, iyoa 81
<Pai8poj xoX- Xd a A Xa opoXoy&v xovxo ovx bjzoXoydi x . t.
A., quo loco rovzo pronominis vis nou passa est, opinor, ut xai
addito 7toXkct «AA a verba validius emineant. Jb. p. 201. D. y
xavxa te 6o<py yv xal dXXa 7toXXd. Cfr. praeterea Matth. Gramm,
ampl. 444. 4. p. 830. 22a>xpdxy inaiv e6 at.
"Vulgatae lectioni 2(*>xpdxouS praeferendum ducimus
meliorum librorum scripturam) exquisita **uirn dictio est neque
multo usu protrita inaivetv xivd xi, quam recte comparavit Astiu3
cum formula A dyuv xiva xi. Etiam io-tyivtxo , (i7C£ixcc(S£UV av tl$
fra p. 222. A. e melioribus li- bris recepimus a iyta
2<axpdxy InaivGj. S t a 1 1 b. «AAa xdov p.\y aXXcov
littxydev p ctXGDV. Genitivus cum sequente xoiavxa cohaeret; quod
quo sensu dicatur ut iotel- ligas celerius : expletior oratio
audit : aXXa x&v plv aXXcov Imxybevpdxwv a EAeyov, xdx
civ xiS xal 7tF.pl aXXov xoiavxa efjroi. Huius genitivi absoluti
qui quidem argumentum indicet sequentium verborum, multa ex- empla
Matth. collegit Grapnm. ampl. §. 342. 3. p. 650., quae quidem omnia
ita comparata esso videntur, ut e verbis facillime supplendis
aptentur. Dubitari igitur licet, num Graeci genitivo casu ita usi sint,
ut eo po- sito expresserint, quod Latinis ia asu est: quod spectat
ad, quod pertinet ad, cet. roiro d£ibv 7cavroS
SavfxaxoS. Ficiuus vei ba red- didit : Verum illa praecipua io isto, per
quae nemini aliorum hominum neque antiquo- rum neque novorum esse
similis reperitur. Quam conversionem si recte intelligo, Ficinus
sensum verborum esse ait hunc: Praeter ea, quae in Socrate , esse
Alcibia- des dixerit, alia nova esse, quae cum nemine comparari
possint. Sed proreus aliud quid Alcibia- dem dicere arbitror. Agit
nimi- rum de integritate hominis, quam Di t>-
889 «ai Bga6l8ccv xal aXXovg, xal otog av tlegixXijg, xai
NiiSxoga xal 'Avxrjvoga , dal 81 xal txtgot, • xai x&vg d aXXovg xara
ravx’ av ug djtBLxdfyi ' olog 8e ovxodl ytyovt. xrjv uxoidav
av&gamog, xai avxog xal ot Xoyoi avxov , ov8’ iyyvg av tvgoi ug
ir/xuv , ovxs xuv individualitatem vocant recentio- res»
Singala quidem ait , quae in Socrate sint, passim apud alios quoque
reperiri, integrum homi- nem autem si spectes, neminem esse, quocum
Socratem compa- rare possis» Bp adiS av, Brasidas rir Juvenis
fortissimus , dux Lacedaemoniorum, praematura morte ex- stinctus in pugna
ad Amphipolin 01. LXXXIX. 3. H. e. a. Ch. 422- Ceterum nota
iuversum no- minum ordinem, quo in altero enuntiati membro Achilles
priori loco positus est, in altero poste- riori Nestor et Antenor,
quo no- minum ordine hoc, opinor, indi- catur I Antiquitas viros
habet, qui cura nostrorum temporum hominibus quibusdam comparari
pos- sunt, rursum nostris temporibus sunt et fuertfnt, qui
antiquitatis viris similes esse reperiuntur. oloS ovrodl
ykyove xrjv dtonlav av$ pGoitoS, Ovxo 6 i paullo infra
accuratius definitur verbis avxoS" xccl ol Xoyoi avxov ,
quibus verbis ad- ditis Alcibiades aditum paraturos est ad ea
commemoranda, quae in superioribus commemorare omisit» Sic paullo infra
eodem modo legitur : avxov , — avxov xal XovS XoyovS. Laudat
Stallbaumius apposite Piat. Criton. p. 50. E. ovxl rpikxipoS rjtiSa
$ot>- Aof, avxos te xal ol 601 izpo- yoroi; Soph» Oed. Coi, v,
452* iita&oS p\v OlSlitovf xa- xoixtldai
avxoS xe naidks $r* aib*. et v. 864. xoiyap 6l ,
xocvtov xal yk - "vo? ro 6ov Becov d txavxa A evddojV
"HXtos doitj filov xoiovxov . In hoc genere
dicendi quoniam copulam bis posuisse videantar veteres, Riickerti
industria etiam nostro loco dupliciter poni iubet, atque revera
edidit avxov xe xal xovS A oyovSf quae scriptura in aliquot
codicibus comparet» Potuisse Platonem copulam bis ponere nemo
negabit, qui ex- empla supra laudata legerit $ sed cur non item
dicere licuerit Grae- cis avxov xal xov* A 6yovS> frustra rationem
quaeras. OVTE XGJV VVV OVXB X CQ V TCaXai gj v. Suspicionem moverit
haec verba depravationis, quae fieri potuit facillime, ut e
praecedentibus verbis p. 221. C. r 6 ptjdEvl avSpoditGov opotov
elvai pijtE xdrv itaXocuav fnjiE Xgdv vvv ovxojp, huc
transfer- rentur. Suspiciosa autem verba sunt, non, quod cum rls
pronomine indefinito coniungi debeant, tjuo facto sane sententia
existe- tet neUtiquam probabilis, neque, quod nimis remotum sit
iyyvs iromen, ex quo genitivi illi pen- dent, — tantam autem vim
habet kyyvf principe enuntiati loco po- litum, ut huiuamodi
structurae vvv ovte tm> a ahxiuv, fl /w/ uga olg ly o Xeya>
txxei- xagoi rtg ttvxw , av^ganav fiiv /ir/devl, toij da 2,'ec-
Xrjvolg xal EatvQoig, avtov xal tov$ Xoyovg. Cap. XXX VII.
ICal yag ovv xal rovto iv roig XQoitoig nagtiutov. pondus
facile sustineat, — sed Platonem scripsisse arbitror, si verba
addidisset ovte rc ov vvv ovte r&v tcaXaidctv : ovdiva ovd
lyyvS dv evpoixiS ZtfXGor. Ficinus exhibet in conversione: Sed qua-
lis Socratis est qoalisque eius mira dicendi ratio, nemo prope ad
eius similitudinem accedet ne- que veterum neque eorum , qui nunc
sunt. el ptr) dpa. Post dpa cod. Bodleianos aliique pauci ei
ha- bent, quod Bekkerus et Stall- baumius in ordinem verborum
re- ceperunt. Atque hic quidem ad ei firj apa e praecedentibus
repetendum censet: evpoi xi$. Ad- modum dubito, num cuiquam lentorum
placere possit, quod hoc supplemento edicitur, dicendi genus
impeditissimum. Riickertus alterum hoc ei e textu semovit. Recte,
ut videtur. xal yap ovv xal. Duplex xal ne quem offendat hoc
loco : xal yap ovv xal ex eo dicendi genere esse contendimus, de
quo supra dictum est annotat, p. 5. et 6. Recte autem nobis
vide- mur ibi annotavisse, prius xal in liuiusmodi dicendi formulis
ex- pletivum esse, atque particula- rum quarundam levitatem ita
ag- gravare, ut principis in enuntia- tioue sedis gravitatem sustinere
possint. In harum particularum numero etiam particula caussalia est
, quam veteres nunquam in enuntiationis alicuius initio posuere. Alteram
xal diximus gravitate quadam verbum, cui praepositum sit, ornar j , quae
cum aflirmatione sit coniuncta. Iatr» cum supra Alcibiades dixisset
p. 215. A. iav pivxoi dvaut - fivjjdxopevoS aWo a\\o$ev A i-
ycj, pTjStv Savpadyf, verisimile est, eundem nunc ad ea respe-
xisse, atque exemplo malam me- moriam comprobasse. Kal yap ovv xal
verborum paullo dilfi- cilior vernacula conversio est. In
Schleiermacheri conversione legi- tur l Und dies habe ich gleich
zuerst noch ubergaogen , quod cum Graecis verbis minus con- venire
arbitror. Mens Alcibiadis respicientis, quod accurate tenendum est, ad
verba p. 215. A. , haec est : Denn da ist ja nun der Beweis, dieses
habe ich zn Anfang ausgelassen. T oiS dioiy ojiev oi$. Sae-
pius iam de usu verborum annota- vimus, quo omittuntur alia quae-
dam verba, quorum additamen- tum, secundum nostram loquendi consuetudinem
si rem iudicas, ad rem necessarium est. Ut exem- plo utar,
dioiyexai dicitur pro 8iolye65ai Svvaxai, dioiyojii- vovS pro
StoiyeGSai dvvapti- vovSy quibus exemplis statim edo- cearis , qua
conditione hujusce- modi omissiones Graeci scripto- res admiserint.
Fusius (ie hoc dicendi genere supra diximus an- notat. p. 169., p.
207. , al. ei yap t5e\ei zt$. Haec ion xal ot loyoi avxov
otiowxaxot tlst xolg SuXrjvoTg xolg dwiyofiivoig. tl yag IfthXet, xig '
xav Eaxgdxovg e uxoveiv Xoycov, qiavEitv av itaw ytkoloi x 6
xcgmov’ xoiavxa xal ovufiaxa xal gijfiaxa ^a&ev rtegia/ixe-
%ovxui Zcetvgov av uva vfigiGtov dogav. ovovg yag plurimorum atque
optimorum co- dicum lectio est, prae qua multo deterius est, quod
vulgo edeba- tur ISlkoi, Diximus de ei par- ticula cum indicativo
coniuncta, praecedente vel subsequente opta- tivo et av 'annotat,
p. 38. ibi- que potestatem huius structurae explicavimus. Supra
Alcibiades dixit p. 216. A. xal In ye'rvv Hvvoid' ipavzoo , ozi, ei
i$6- Xoifit itapexwv za atra, ovx av xapZ7fp//(Saipi x. r. A. et
panllo infra filat ovv oa?nep ano zdav 2 'eipjjvcov , inidxopevo? za
arae oFxojuai tpevyoov x. z. A. , quae verba ideo laudo, ut melius
per- spicias, qui fiat, ut Alcibiades potissimum dicat ei yap
iSehei T i? x. z. A, h, e, denn wenn ei- ner wirklich das Ilerz hat
, die Reden des Socrates zu veroeh- roen. Quivis alius, qui non
ex- pertus esset, quae sibi accidisse Alcibiades narrat, non
dixisset ei yap i$£\et zi? x, z. A, 2azvpov av xivavfipt-
6tov 6opav, h. e., Stall- baumius inquit, ol A oyoi avxov totavza
ovopaza xal firjpaza ixovtiiv &snep av ei SZwSev 7tepiapn^x
otyTO 2azvpov ziva vfipidxov dopav : sermones eius talibus
nominibus et verbis compositi sunt, quasi Satyri quadam irrisoris
pelle extrinsecus amicti sigt. Porro ne quis av particulam
suspectum habeat, verbo omisso in oppositione po- sita,
sententiam hoc modo explicandam censet : oia av efrf Sazvpov zi?
ijfipitfzov 6opa .Ceterum quo magis pateat, propriam dictionem cum tropica
per elegantem quandara breviloquen- tiam conflatam esse,
interpunctio- nem post nepiapnlxovzai vulgo positam delevit*
Riickertus im- probata hac omissione interpunctionis comparationis
significa- tionem in ziva' pronomine in- definito deprehendisse
sibi vide- tur verbaque convertenda censet 1 talibus nominibus et
ver- bis extrinsecus involuti sunt, quasi Satyri quadam pelle»
Ficinus habet in conversione; Nomina quippe et verba exteriori
aspectu Satyri cuiusdam contumeliosi habitum prae se ferunt. Satis
nobis displi- cet ziva pronomen indefinitum, neque, quomodo
interpretibus satisfacere potuerit istud: Satyri quadam pelle ,
intelligimus ; Ficini pronomine offensi liberior conversio: Satyri
cuiusdam pelle; sed ne hoc quidem , si in Graecis legeretur XiVot ,
setia bene habere videtur. Respicitur enim ad Marsyam , cuius
men- tionem supra fecit Alcibiades. Av autem particula admodum
du- bito , num recte explicari possit* Pone recte a Stallbaumio
explicatam esse: o£nf av eXrj 2a-> rvpov xi? vfipidtov &opd
: hoc certissimum est, enuntiationem addita hac av particulae
notione frigidiorem fieri atque langui- njATaNOs I
xav&rjXiwe Afy» xal uvag xal dxvroropoug xal (IvQGodtipae ,
xai au dia dSorem. Itaqne non dnbium eat nobis, quia
verba dv ttva depra- vata sint. Scribendum est: tot- avtct xal
6v6f.ta.ta. xal faijfiatct HZaoSev 7t£piafi7texovtai f 2arv- pov
avtixa vftptdtov 8opav . Quam facile avtixa , cuius vo- cabuli usum
non intelligereat librarii, in av tiva mutari po- tuerit, ipse, lector,
vides. Adhi- buere autem illud vocabulum scriptores ia exemplis
argumentisque afferendis atque in comparatione haud raro. cfr.
incerti auctoris Alcib. II. p. 138. C, tSsnep tov OiSinovv avtixa
<pa6\v evB»a~ 6$ai SieXidZat ta na - tpoHa tovS vlelS x .
t. X. Ibid. p. 189. B. navtaS ovv av <pdv - reS , oj
AXxifiidSrj, rovS a<ppo - vaS ftaivedSat, opSwS av (pai- tjpev.
avtixa tc ov ddov 77 A 1 - xtootcov et tiveS tvyxdvovdtv acppovLS
ovteS, &Snep eidi, xal tgjv iti npedftvtipoov. Ibid. p. 144. C.
ovxovv ol firjtopes a y- rixa, ytoi eldotes &vftfiovXev- etv rj
obfSevteS eldivai x. t. A. Piat. Protag. p. 359. E. aXXd fikvtoi ,
i<prf, co 2c6xpateS, ntiv ye tovvavttov idtlv ini a ol te deiXol
ipxovtai , xal ol av - 6peioi. avtixa eis tov noXe- ftov ol fiev
iSeXovdiv levat, ol 0 61 ovx iSiXovdtv. Piat. Gorg. p. 472. D.
avtixa npcotov,nepl ov vvv 6 Xoyos idrl, dv ?}yet olov te eivai,
elvat ftaxapiov avdpa adixovvta te xal d6t- xov , etnep x. r. X.
fii loci ac- curate inspecti satis docent, per avtixa vocabulum
exempla af- ferri talia, qualia loquentia animo illico offeran-
tur. Quoniam autem exempla, tov avtav ta avtct <pai- quae
loquentis animo inter lo- quendum offeruntor, non sem- per
aptissima sunt neque omnium optima , quae afferri potuissent :
avtixa vocabulum indicat, alia exempla reperiri posse fortasse,
quae rectius nunc laudentur, sed loquentem, quod primum ipsi se
obtulisset, id exhibuisse, Inest simul caussae indicium , cur ex-
emplum laudatum scriptoris ani- mum primum subierit. Sic io Alcib.
II. p. 139* B. quoniam cum Alcibiade loquitur So-crates, rjXixidotai
Alcibiadis per avtixa vocabulum exempli caussa laudantur. In Piat.
Prot. p. 559. E. SelXqjv et avSpeicov nomina ultro ad bellum
laudandum loqoen- tem duxerunt. Rem extra dubitationem ponit , ut alios
locos praetermittam , Piat. Gorg. p. 472. D. avtixa npdotov ,
nepl ov vvv 6 XoyoS idtiv. Neque mirum , Socraticos sermones
cum Satyri pelle addito avtixa vocabulo comparari , cum ipse. So-
crates paullo ante cum Marsya comparatus sit. Iam nostro loco
avtixa pro dv ttva ubi posue- ris, verba vertenda sunt: So1che (b.
e. so litcherliche) Worte und Satze haogen auswen- dig durum heram,
eben eine wahresSatyrfell. Ce- terum quod Stallbaumius censet
nOn opus fuisse in hac compa- ratione 00 S particula : coS 2atv~
pov dv ttva vftptdtov dopav, quoniam et Graeci, et Latini
scriptores haud raro eam appo- sitioni vim tribuerent, ut habe- ret
simul comparatiqpis signifi- cationem : coS particulam nostro loco
ne ferri quidem posse con- veta* leyuv, agrs SltEigog «ai
dv<njTog Sv9qox og zdg &v tuv f.6yav xcaayeXdaus. duuyopivwg 81 Id
av av 222 Undtmn>. 'ili 2atvpan> Sopav foret : quasi
Satyri peJle amicti sint; 2axvpov Sopav autem similitudinem ita auget, ut
Satyri pelle r er er a amicti dicantur* Recte igitur a nobis in
conver- sione additam nomen : wahr. Eodem modo loci
explicandi sont, quos Stallbaumius laudat annotat, ed h. 1.:
Aristopb. Aw. y. 169. et Plat. v. SI 4. dv 6* *ApidxvX- XoS
vitoxddxcov ipeiS t ad quae yerba frustra Scliol. X sinet 81,
Inquit, to coS 6 *ApidxvXXoS ai- CxpovpyiaiS nexr}vo6s. Tibuli. I.
1. 7» ipse seram vites rusticus, quo loco illud ipse aeram quasi
rusticus ad- modum ieiunum foret. Horat. 6erm. I. 1. 99. hunc
liberta • ecuri divisit medium for- tissima Tyndaridarum.
ovovS yap xavSTjXlovS Scliol. s. v. navSrjXiovS * xovS
fipaSeiS , inquit, voijdai r) a - <pvels ano navSavoS, oS idxiv
tvoS, elprjpkvoi , oS naXiv ano to ov xav^njXiGov , xcjv inixiSe-
fikvcov avtqS inindpnxcev B,v- Xa)v , xovxidxi daypdxoov, ovo - paP
t Exai ovxcoS. Idem sub T, fivpdo8kif>aS* tovS xas fivpdaS
ipyapopkvovS nal paXazxov - taS, Socraticum hunc morem, res
vilissimas atque tritissimas cum aummis miscendi multi loci Pla-
tonis repraesentant. Sic io Piat. Euthyphr. p, 13. legitur: 2. nal
naXdiS yk poi, cJ EvSvtppov, <paiY£i Xkyeiv. aXXa dpixpov rivoS
ht Mei/S elpi. xrjv yap $epaneiav (sc. rc5v Seobv) oviccd G vritlfit
rjvxiva ovopapaS. ov yap itov Xkyeif ye , oleti nep nal ai nepl za
aXX* Sepanetai eidi, toiavxrjv nal nepl xovs SeovS. Xkyopev yap
itov , olor (papev , innovS ov naS inidxaxat Scpaneveiv , aXX’ d
inmxoS. r\ yap; E. navv ye, 2. r\ yap itov Innixi} Inncov Sepaneia;
E. vai. 2. ov8k ye nvvaS naS inidxaxat Sepanev- €iy , aXX* d
xwipyenxds. E. ovxgos. 2. ij yap nov nvvrjye- xim } xvvgoy
Sepaneia; E vai. 2. t\ 8k ye fiorjXaxim/} ^ocov ; E. navv ye. 2. rj
81 6 q odtoxnS re xal evdkfieia Segov c o Ev- Svtppov ; ovxooS
XkyeiS \ E. i- ycoye. nal dnvxoro fiovS cfr. Piat.
Gorg. p. 490. E. rov dxv- toxdpov IdcoS pkyidxa Sei vno - Sijpaxa
xal nXetdxa vnoStSe - pivov nepinaxeiv. K. nola vno- Sipiaxa
tpXvapeiS ix cor; quae Callidis verba optime transtulit
Stallbaumius annotat, ad h. 1. p. ed. 157. Was liast du nur, dass
du doch immer von Schuhen achwazzest. Quae seqnuntur ver- ba xal
dei 8id xcov avtcevxd avxa (paivezai Xkyeiv optimo probantur
Callidis verbis in Piat. Gorg. p. 490. E. cos dei xavxa XkyeiS , gj
2cdxpaxeS. 2. ov po~ vov ye, cJ KaXXixXetS , aXXa nal nepl xdev
avzaov. K. vi} rovS Seovf, dxexy&s ye ael tinvxkaS xs nal
nvatpkaS nal payeipovS Xkycev nal ipcxpovS ov8lv navet coS nepl
xovxcoy rpiiv dvxa xov Xoyov. StotyopkyovS dhiScev av
xiS. Bekkerua pro av, quae omnium librorum lectio est, av in
ordinem verborum recepit. Eum secuti sunt Astius et Din- dorhus.
Recte Riickertus videtor ttg xccl fvrog «vrinv yiyvv/isvog ngcorov pev
vovv fyorrag l'vdov (iwovg tv(n]au rav koycov, inuta ftu- otdtovg
xal nktloxa, ccycdjjiccta ugerrjg iv ctvrolg E%ovcag zcd Ini TtktiOtov
ttlvovcag, (idXlov di Ini jtav, oGov ngogr/xu GxonBcv tc 3 [liXXovu,
xcdco xayadqi iOECidcu. Tavt’ istiv , « avdgeg , a lya Evxgdr-q
incava’ pcv particulam etiam eo nomi- ne improbare, quod, si
eam exhibuisset scriptor, alio loco po- puisset : 8iozyo/.iivovs av
idejy. Male autem {Scov av ex- plicat : idv TiS I8y: si quis
forte viderit. Nihil enim certius est, quam IScjv dv idem
significare atque el fdot dv, quam dicendi formulam frustra negantur
scriptores Graecos interdum adhibuisse, Alio tempore explicatius de idv
TiS fd#, eI tiS I801 dv, Similibus dicendi formulis discemus, nunc hoc
tantummodo an- notare iuvat , eI particulam cum optativo et ay
coniungi, ubi heri aliquid pouitur, quod vix heri possit, et quod
si fiat, ex insperato accidisse putatio dum sit. h# 1
irroS ccvzgjv yi- yvopEvoS. Haec verba Schlei- ermacherus
convertit: Wenn sie aber eiuer geoflhet sieht u n d inwendighineintritt.
Hecte quidem verba Graeca conversa sunt, sed haec ipsa vehementer dubito, num
bene se habeant. diotyojxevovS participium satis docet, Alcibiadem
ad Silenos respicere in artificum officinis collocatos, Iam si quis
(jtydXjiaux in illis recondita volebat intueri, epistomio ab utrius- que
lateris foramine remoto ad alterum foramen propius acce- debat, non
in concavum Silenum descendebat ; scribendum Igitur videtur
esse: xa\ iyyvS Ctvtcoy yiyvojievoS. De ivtoS , iyyvS , al.
saepissima in libris commatatione vide aunotat. p. 122, fiOYOVS
evpjjaci TGOV X6ya)v. MuvovS Statlbaumius eodem modo dici censet,
atque p. 215. C, pova HaTExzGSoti ItoiEi , h. e. eximie. Sed
vide annotat, ad haec verba p. 341. Hoc potius Alcibiades dixisse
censendus est: Solum Socratis sermonem in se habere, quod vodv h. e.
iutelligentiam fere divinam prodat. Quod ita dici ab Alcibiade nemo
mirabitur, qui quidem legerit, quae p. 215. D. et E» de Socratico
seiraone dicuntur. Ey8ov Ruckertus ad- ditum censet propter
oppositio- nem sophistarum, quorum ora- tiones extrinsecus quidem
splen- deant , magnamque veri speciem prae se ferant, intus autem,
si quis accuratius exploraverit, omni veritate careant. Dubito,
num hac ratione ivdov vocabuli po- testatem satis recte
explicatura habeas, "Ev8ov potius additum, Ut lector moneatur
significantius, sermones Socraticos cum Silenis comparari, qui in
artificum of- ficinis sedentes intus in se simu- lacra recondita
habeant deorum. pdXXov 8 e . MdXXoy 8e eius est, qui
arctioribus finibus circamscrih^t, quae proxime prae- i
by'Cyo<j[c zrMnosioN . 'acu ccv, 8 (lificpofifu <Svf
lul^ccg, vfiiv ilitov a fis vj}gi6e. xal (dvtoi ovx Itis fiovov ratha
nsxolrjxev , alia xa i XccQfildtjv rov riavxuvos xal EvftvSr]fiov rov a
ho - xltOvg xal allovg naw xollovg, ovg ovrog l^axarov c5g sgaGTrjs
xaiSixa fiallov avzbg xu&iozutcu, dvz’ Iqu6tov. a 6rj xal Ool Isya, a
’Jyd&cn>, fitj locata- cedentibus minus accurate
erant atque latius patentia enarrata. Vide annotat, p. 15.
tavx* £dtlv y qj avdpeS — v (5 pld ev* Vulgo iuterpun— ctio
comparet post pipqiopai, quam BekJcerus iu textum rece- pit,
Stallbaumius delevit, Riicker- tus post dvppi£>aS transponen-
dam curavit. Nos et post dvp» pl&<xS et post av 3 quod cum
in- aequente eluor arctius coniun- geudum est , comma
ponendum curavimus. Sensus est: Haeo sunt, o viri, quae mihi
iu Socrate laude uda videntur et rursum dixi vobis, laudationi
vitupcrium adjungendo, quanta superbia necum egerit. Quam Wolfins foci
interpunctionem pro- bavit : a iycj 2ooxpdxrf iitaivQa t xal av a
pkpcpopai. tivppl&ctf vfiiv eItxov , a pe vfipidav , ea ne
rectam quidem sententiam fandi t. X a ppiSijv rov r\av
- xcdvoS. J)e Gharmidc. Glauco** uis lilio, vide Plat. Charmidem
p. 154. seqq. , p. 157. seqq., Xenopb. Memor, III. 7., Sympos. III.
9-> IV. 29. coli. Wytten- Lach. ad Select. Princip. Ilistor, p.
411. Iuvenis fuit et genere nobilissimo Gritiarum oriundus et
praeclara animi indole praeditus. Enthydemus intelligitur Dio- clis
filius j idem est , qui cum Socrate colloquens inducitor
apud Xenoph, Mera. IV. 2. 40* Male eum Wolfius confudit cum
Eu- thydemo Sophista, cuius nomine Platonis dialogus Euthydemus
in- scriptus est. Stallb. itaiSixa fiaXXov avr of.
Socrates hominibus pulcris ita insidiari solebat, ut eorum amore
captum se simulans ipsis vehementissimum amorem iniiceret sui. Respicitur
ad hanc rem iu Piat. Alcib. I. fin. A. xal itpoS tovxoiS psvxoi
toSe XeyG i, oxi XivdwEvdopEV fiExafiaXtiv xo 6]pjltu % g3
2<nxpocteS , ro plv dor £y<v , dv Sk xovpov . ov yap Idxiv
oncoS ov itaidaya)- yijdco ds ano xijsde trjS rjpi- paS, dv 6* vit
* ipov itaiSa- yayrjdEi. 2. yevvale , ice- Xapyov apa 6 ipoS ipnoS
ov- 6lv dioidei 9 si itapa dol £v- VEaxxtvdaS tpeoxa
vitoitXEpov vito tovtov Ttakiv $Epa7tEV- dsrau / a 8?j
— pr) £Za7tata- d$ai vico tovtov. Bodle- ianus codex, in quo
interdum manifesta indicia correctoris nou indocti reperiuutur ,
ttiaitaxa,- dSe exhibet , quod quamquam aptum est et bonum ,
tamen recte postponitur lectioni vulgatae. Per epexegesin enim pt }
iZartaxadSeii verba praecedenti relativo pronomini apposita sunt,
idque genus dicendi , quoniam i jiaathnoz raO&cn
vito tovxov, ali' dxo rov fjpexiQav Tca&yfiu- xav yvovtct
tvXaptj&yvai , xal (itj xotzd vqv 71uqoiuluv, SgitEQ injTCiov, xu&bvrci
yvuSvat. Cap. XXXVIII. C Ehtbvtog Srj xccvvu xov 'Alxifhudov ,
yikma ys- vlaftcu Ini xy na^Qyisla ccvxov , on idoxei in Igco-
xixws i%uv xov Suxquxovs. xov ovv Eaxqccxij, Ntj- suum quoddam
pondus habet, Graecia adamatam est magno opere. Eius ut unam
exemplum alleram, legitur io Sophocl. An- *ig. v. 446.
8v 8’ tini poi pfj pijxoS j aAAd dvvxopa ySyS xd xrjpvx^ivxa
, prj npatfaetr r a8e ; Ceterum quod relativum prono*,
mea attinet, quod ad praecedens tia semper refertur secundum praecepta
grammaticorum, prae- clare Stallbaumius annotat, ad b. 1. Plene,
inquit, Alcibiades dicere poterat sicj ex quibus quae consequuntur,
ea etium te moneo, videli- cet ue ah hoc decipiaris, oxctxd
rtjy TC a p oiplpr. Respicit Alcibiades ad Hom, '11, XYIJ. v. 32.
et XX. 198. aXKd d’ iytuy dvaxooptj* davxa xe\eva>
IS nXr/^vv liycu , pt/8’ mV- xioS tdxad’ i/tuo nplr xi
xaxdv naSietv- fie- X$tr di xe yi/nios lyra, $cho]. nd Ii. 1.
annotat; fiexShr Si Xf. vyttiQf iyvay ini reo r peia xu naSelr
dvviivxajy xd apaptrjpa. figd xd avxd txipu papoipia' d «Atetifr n
Ay- yeis y ovy ipvdft. qxxGt ydp aXiia ayxidxpevorxa,
inei~ Sdy dnddtp xo 5 A Ivoo xov ix$vv, xtf x n Pl npotayaydvxa
xaxi- Xeir , ira prj <pvyg . xvvxo 61 dvrtjSatS noiovyxa vno
dxop- xtiov icXr/yrjvat' xal tine onXti- yels yovv cpvdetS, xal
pr\- yixt npoSayeiy ig ixetvov xtjv Xtipa. — "E<Sxi xal
xpixrj opalo- idv prj naSyS, ov prj p a- Sr/S. iXix^t/ 61 ini
Tipatrof Xov ptdavSptdnov ptjxhi npoS- tepirov x ovi xoXaxaS,
Apud Hesiodum legitur, quod propius etiam videtur ad Platonis
verba accedere Opp, 216. naStdy Si Xt vr/moS lyvat, ini
xy nafi/tr/dlce av- xov. Ipse Alcibiades p. 217, E. xd 8' ivxtvSttv
, inquit, ovx av pov tjxovdaxe XiyovxoS, el ptj npdxor pb> xd A
eydpeyov ol- yoS avev xe nalScov xal pexa naiSatv r/v dXt/Btjs,
quibus verbis napfttjdiay excusari mani- festum est. xdy ovv
2<» xpdrijt Mira arte , quae sequuntur, excogitata sunt atque
praecedentibus an- nexa- Etenim cum orationem Alcibiades finiisset^
quae ingen- tem cautineret Socratis laudem, fieri non potuit, quin
Socrates aliquid responderet. Exspectabas urio fer« quid
responsurum esse, % m
q>t tv (ioi tipxs Ig, tpavai , <o ‘AhufiiaSri’ ov yctg Sv
nors ovza xouipcSg oxvxXty X£QifiaU.6[isvog utpavloai ivt%siQu; ov evexa
zavza navza dgtjxag, xal cSg tv uaQtQycp drj Uyov ixl zetevpjs avxo
Edjjxag, tog ov navza zovzov tvtxa elfnjxag, zov £(i'e xai h
fya&ava tiucpaXluv , olofitvog deiv tfii (itv Cov Iqav xal fitjSs-
o vog allov , 'Aya%ava 6'i vxo Oov iguodai xal ftijd’ i(p' tvog
aU.ov. alX’ ovx tXadtg , akla zo UazvQixov quale, qui laudantur,
edere so- lent, modestiae documentum. Id si Socratem proferentem
indu- xisset scriptor, verendum 6aue erat, ne rerum ab Alcibiade
ex- positarum fides imminueretur vel vis atque vigor
infringeretur. Contra si nihil respondeutem fe- cisset ad laudes
illas , neminem esse arbitror, qui Socraticum si- lentium non
superbiam et arro- gantiam sit interpretaturus. Ne igitur ad laudes
Socrates respon- deat atque ne superbire videatur, finem
Alcibiadeae orationis ag- gredientem Piato fingit, atque a
laudatione animos auditorum fe- liciter deflectentem. Qua ratio- ne
id fiat, exponere nolo} ipsi lectores verba examinent, stu- diose
singula expendant, Plato- nisque artificium, quod ipsi de-
prehenderint perse nserintque, ad- mirentur. ovx a xopip 00 ^
h. Stall- baumius inquit, tam scite artificiose. Idem
xo/iqfrev- e6$ca rectissime annotat. ad Piat, de rep, IV, p. 4 36.
D. de ora- tione festiva , arguta et ad ca- piendos auimos
auditorum apta interpretatur Timaei laudans L, V. Pl. p, 154. seqq.
Verba *«- kAo>7 nepifiacXXopevoS esse docet multis orationis
ambagi- bus usus. Fortasse ad Alcibiadis verba Socrates respicit p,
215. A. iav fUvxoi dvajJtipvTj- tixopxvoS aWo aWoSev XSyco, fiTjdlv
SavpdtiyS' ov yap xi fipSiov xrjv (??jv axoxiav gj< 5 * ftovn
evnopooS xai itpeZrjS xa- xapi%pij6au De a<pavi6ai ver- bi
potestate supra dictum est an- notat. p. 561. x.al cJ s iv
itaptpyop tdi} particulae ironicam significationem. de qua vide Indices
s. v. 6rj, etiam ex hoc loco cogno- scere possis. Sensus est
ver- borum : Et scilicet quasi praeter propositum at* que
consilium tuum, r ov ipl xal 'AydSoora § iap aWeiv . cfr.
Piat. de. rep. VI. p, 498. C. firj 6ia- fiaX\e, jjv 6* lyw, i/ih
xal Spa- Qvpayov apxi (plXovX yeyovo- xaf, Qvdfc Ttpq % ov
i%$pov$ ortas, oiofteros 6elr tfil. D. (Uiv verbi
potestate supra dictum est annotat, p, 12. Non sino acerbitate hoc
loco positam est, simulque vanitas opinandi Alci- biadea
perstringitur: indera du dir einbildest, ich miisse uuura- giinglich
cet, Prorsus eodem tpodo Alcibiades paullo infra p. 222- E, oiexai
pov 6elv nav- raxi KBpuwccu \ .* I Oov dQC!(ia tovto xal
OeiXrjvixbv xataStjkov lyivEto. ' bAA’ , tJ <plle 'Ayaftuv , fitjdlv
‘nUov avttp ytvrjtai, «AAa naoa<S>isva£ov , oxag ifih xal al
[lydels 6ia(id At; Tov ovv Ayd&uva. tlmlv , Kal firjV, i b ZdxQatEq ,
xiv- dwt vug cckrj&rj i.tyuv ’ rtxfiatnouai, 5s xal «a g xate- E
xltvrj Iv pii 1(o sftou rs xal tSo v , Zva %aq\q jj/iag 6iu- JLufiy.
ovdsv ovv xkiov avtcS Sotai, «AA’ lyd xagd dAAa ro Sarvpixdv
6ov 8 p a p a tovto xal SeiXtjvixoy . Recte intelli- pet haec verba
qui meminerit, non nisi ante actis fabulis tragicis Spapaxa 2atvpixa
edita esse. Duo autem sunt, quae iis commemoratis Socrates
reprehen- dit. Alterum, quod in fine orationis Alcibiades posuerit
ea, quae primarium locum obtinere debuissent, si apertius sensa
sua ille depromere voluisset. Alterum , quod Satyri Silenorumque
comparatio ea taatum de caussa instituta sit, ut orationis finis
Alcibiadisque consilium facilius tegi possit atque velari. Satyricum illam
poesin quod attinet, apud Zenob. legitur: tqvS Sazv- povSv6TEp6v
28o%tv ccvToiS npQ- EtsdyEiv, foce jit) 8ox&Giy liti-
\avSavE(5Sai t od $eov. Probat hanc sententiam Wachsmuthius in
libro: Hellen. Alterthumslr. II.2. p. 412. : Ais die Tragocdie des
urspriinglichen voti Dionysos haudelnden Inhalts sich entdussert hatte,
und wie eia freigewahltes und au den Dio- liysosfesten nur
ausserlich hinzu- gefiigtes Kuustgcbilde erschien, vrurdp, man mogte
sogen aus ei- ucr Art von religiosem Bedenken tmd zur Eriuneiung an
die an*- fftnglichc Beschafienheit des Chors das satyrische Drama
eingefiihrt, das freilich rait seineu StolTeu auch nicht nuf
den Kreia dio- nysischer Mythen beschrankt, und dessen iunerer Ton
und Haltung tveder von dem tragischen Ernste noch dem komischen
Scherze streng gesondert war, dessen ei- genthiimliches Weseu daher
wohl nnr in der Wiedereinfiihrung des ehemaligen Satyrchors zu
suchen sein mochte. pTjdlv itXkor avTQj yk - vrjxai ,
h. e , Stallbaumius in- quit, opa, pt) te TcKtov avTGj ykvijrai.
Dubito, nui n hao ratione veiba recte explicata sint. Scriptum
certe exspectaveris : pt/- 8lv tc\Lqy atheo ykm/rai, xal
xapadxF.vdctov , oizgdS ipk xat Ce pt/SsiS 8iafid\y. Non recte enim
in eadem enuntiatione consociari videntur opa — d A.A. d
itapaCxeva£ov> Mj/81y — yk- vr/xai in eum potius cadere videtur, qui
suarum rerum certissimus eloquitur, quod non sit futurum: Oewinn soli er
da von tilcht huben, \ Zvct x&pl* vpds 8ia- Xdfty, Dictum
hoc eleganter cum amphibolia qqadam, ut et de spatio possit
cogitari et do animorum disiunctione, Stallb. a\X’ ei pt/ ti
dAAo, g5 $ avpaCiE, Alcibiades cum Socratem se potiorexn esse
anim- adverteret in capiendis homi- num animi;, oj SavpdCu
op- ztmiiozion fi! iX&wv xccTaxhvfoofiai. Tlavv yi ,
<pavcu rov Ha- XQattj , Sivqo vnoxata ifiov xataxlivov. 'SI Xtv ,
cl~ mlv rov ’AXxi(iiadt]v , ola av na<S% co vxo rov
uv&q<6- jcov. o’uzai fiov Sslv xavzayfi «SQiBtvca * aXX’ tl
(itj n aXXo , o) &avuc((hE , Iv pioco rj(i<av tu
'Ayu&avcc xataxslo&ca. 'A XX’ aSvvazov , (pavae, rov
JkaxQanj. <Sv filv yccQ lui httjVEGas , 8b t fi’ i(i's av rov
Ixc dt^ta pellatione usus est, cnias po- testatem aut non
explicarunt in- terpretes , aut non satis recte* Gav/iageiv verbum
haud raro ita adhibetur, ut rem magicam significari indicetur. Sio
in Ari- stoph. Nubb. v. 180. ri 6t/t* ixetvov rov
QaXrjr Sav/HxZojxev 5 De Thalete praestigiatore sermo
est, quem axpov pr\xavix6v vocat Schol. ad hunc locum. Gav- fiaxa
praestigiae sunt. cfr. Plat. de rep. VII.p. 514. B. xap* 7jv
(sc. 060 ^) TEtxlov ita - poDxodoppjnirov y coSTtep xolG
$CtVpaTQ7tOlOlS 7CpO XCk)V CLV- $pGD7tG)v ifpoxeixai xd napa - 1
ppaypaxa , vitlp gov t a 2av- paxa SewvvaGiv. Sic etiam, opinor,
SavpadioS hoc loco ita ab Alcibiade adhibetur, 'ut prae-
stigiatorem significet Socratem, quippe qui mira arte hominum animos
deliniat atque vel nolen** tes ad se trahat. figi 5* ij.th av
rov iit\ 8 b£,zol. Vulgo avxov legitur pro av xoY, quod de
Bekkeri coniectura hodie omnibus probatur. Patet autem, a principio
ita consedisse Agathonem atque Socratem, ut hic ad Agathonis dextrum
latus cubaret. Alcibiade accedente, quem medium inter utrumque
consedisse rrperimus, ordo hic erat : Ad dextrum Alcibiadis latus
consedit Socrates, ad sinistrum Agatho. Iam cum laudasset
Alcibiades Socratem, et hic quidem Agathonem iuxta con- sidere
iussisset, patere opinor, ad dextrum latus ipsum considere iussisse
quippe hominem lauda- tione ornaturus. Iam iutelligitur, «juid
verba significent iv p&6a» 7JJ.IUV, Rogat enim Alcibiades, ut
Agatho ad sinistrum latns Socratis considat, quo facto ille medius
inter Alcibiadem atque Socratem consideret. Ilaic Socrates: Vellera
quidem, inquit, tibi obse- cundare, si possem; sed non possum ego.
Etenim me laudando tu, qui es magister bibendi, legem edidisti,
secundum quam dextrorsus alter alterum laudare debet. Necessitatem
igitur milii impo- sitam vides Agathonem laudandi. Iam.si
medius inter nos Agatho consideret, me laudandi provincia ad eum abiret.
Sed non sperandum est, qui modo a te laudatus sit, eum
alteram laudationem ex Agathone auditurum esse. Sine igitur,
Aga- tho ad dextram iuxta me considat, eiusque lauda- tioni
ne invideas. QV 6?} 7tov i fih za\iv iitatv i (Sex at. Supra
diximus *\ (o ixaivuv. tav ovv ino <Joi xaraxhvy 'Ayaftav ,
ov 6rj nov ifih Ttctiw Incuvidtrox , nglv in’ tfiov (iaU.ov
inaivt&ijvau aM.’ EaOov , d datfi6vis , xal [l t) <p&o- S33
vrjdys *<? fiBigaxlco in’ ifiov Ixaws&rjvaL • xal yag naw
iniAtvudi avtov lyxafuaGeu. 'Iov Iov , cpavat rov ‘Jya&ava,
'AXxifiuxSrj , ovx Ead’ onag av Iv&ade (tilvaifu, akka neturos
(ia?.lov fiiravaetTjOofiat , Zva ino JEaxgaxov g Inaivs&a. Tath’
bulva , (pavae rov 'AAxipucdrpv , ta elaftoza ' Zaxgarovg na.gov tog
rem da 67}7C0V Tocolarnm «ignifica- dis fortunam commiseratos
dltione annotat, p, 98. Provocat xisae videri possit: Wchc, vrehe, entem
plerumque ad alterius iu- armer Alcibiades, ich kann hier dicium, qni his
voculis utitur, nicht blciben, soodern muss um ita, ut rem extra
dubitationem alles den Platz wachseln , damit positam esse una significet.
Jif Socrates mich lobt. Diilicile est eutem voculae irouica potestas ad
diiudicandum , utra explicatio satis manifesta est converti con- rectior
sit. Hoc unum certum tra eum, qui forte, quod certis* est, contra
Alcibiadem haec omola simum sit, addubitare audeat vel dirigi, qui si
commiseratione manegare. MdXXov ante incagis commoveri censebitur, quam
veSijvat positum cohaeret cum laetitia Agathonis , non dubium dicendi
formula ^idXXov 8£, quam erit, quin iov iov hoc loco sit eius esse, qui
ipse se corrigat, 6x*xXia6xtxdv inifjfiTjfia, xavxct ixeiva — ra
tlao- Sora, Diximus de xavxa i - XEiva verbis annotat,
p.309., ixeiva autem dicitur, quia ad aliquid plerumque, quod
prius est cum acerbitate respicitur, curavimus licet commate
sequente; ea enim vis est syllabae finalis , quae accentus
vigorem paullisper infringi non patiatur. , % , IOV iov
Mfifana est eorum, Mn xovxo xo xaxov, quorum animus subito com- 0 ^
cctzoXqoXexev . inoretur, laetitiamque non mi- Sed perrara sunt
xovxo duplici- nus , quam tristitiam exprimit. ter positi exetppla.
Aliqua eaque Interpretes laetitiam iov iov vo- perpauca exempla
Matthiaeus lan- culis Agathonem prodidisse nrbi- dat Gramm. anipl. §o471.
11. trantur, neque nos huius expli- p, 874. Ceterum non diu quae-
catiouis veritatem negamus : hoc renda fuit vernacula dictio, qua-
tautummodo contendimus , etiam cum Graeca verba comparare posde contraria animi
commotione sis : Da haben wir das alte Lied. boo loco voculas accipi
posse, Satis trita haec hominum iuferio- quatenus quidem Agutho Alcibia-
rem ordinum locutio , cui eadem l Ad praesentem rem
respicient Strepsiades in Aristoph. Nubb. v. 26, ait ; supra
annotavimus p. 15. Couvertenda igitur verba sunt: ante quam a me potius
(rectius) lau- datus sit. ' iov iov t tpdvai x 6 v
'AydSaova, *lov scribendum xaldiv petaXafciv dSvvcnov Skhp. xai vvv
, tj? evao- qo£ xal niAtavwi loyov evpev , ogTB n cap uwr<p
voviovi xaraxeuS&aa. Cap. XXXIX. Tov (ilv ovv ‘Jya&ava tog
xtctaxuOoptvov stupa b ta HcoxQatei avhSrcca&ai' 'li-aifpvrjg 6s
xapcttitag ryxuv scap.stoD.ovg ixl rag fhjgag , xal ixixvyfivtuq
avtaypi- vaig, kfciovtog uvog tig to uvtcxpvq, scoQtveti&at
scapi atque Graecis verbis ironia ple- rumque admixta
est. ojS evitopcj$ xal itt vov Xoyov . Duo suut, quae
miratur Alcibiades , unum , quod tam facile rationem invenit, alte-
rum, quod tam probabilem et ad persnadendum aptam. Riickert.
Tov plv ovv — i£al- <pvrjf. Supra iam diximus anno- tat.
p. 318. de artificio, quo ad- hibito scriptor noster, quae su- bito
gesta esse narrantur, noa solum igacicpvTiS vocabuli usu exprimere,
sed actionum felicis- sima iuuctura legentium oculis quodammodo
exponere soleat atque vividissime describere. Sio cap. XXX. initio legitur:
e/- novxoS 61 ? ravta tov 2ojxpcc- rovS tovS jxlv inaivetVf tov
6& *Api6To<pavrf Xkyeiv tl liztxet- pelv , oti ipvtj6^Tf
avrov \£- yoDV 6 2ooHpd T7/S izepi tov Ao- yov , xal iZaitpvTjS %.
r. A. Eodem modo hic lB,cd<pvr\S vo- cabulo actionis alicuius
narratio praemissa est, cuius exitum eodem studio , atque illic
Aristophanica verba, lectores prosequuntur: cum subito factum esse
commemora- tur, quod illius actionis tenorem illico
interruperit. xoifiatitdf Ijxeiv TCajjt - froAAovf.
Grex comissatorum nemine vocanto poetae cabicaluin ingressus
incredibiles turbas excitat ordinemque omnem convivii pervertit. Noli
mirari, quod ali- qui ipsi se iuvitasse narrantur atque non vocati
multo cum strepitu in Agathonis domicilium' !r* rupisse. Lenaeis enim
Dionysio sacris vino solebant largius se invitare homiues ,
ebriique per plateas vagari atque intrare, ubi- cunque fores
adopertas reperi- reut, Neque erat, qui liuius rei miraretur
insolentiam. Viui enim hausti virtus haec est, ut homiucs cum hominibus
arctius coniungat, omnesque sibi amicissimos reddat. Adde Agathonis
liberalitatem, quam qui norunt, eo minus dubitarunt invocati eius domicilium
adire. £B,ioytoS tivoS xo &v nxpvs, ico p ave 6$
at. Cum aliquis eorum, qui apud Agathonem essent, exire
vellet, pessulo re- tracto fores aperiebat, atque per ens iam
exi- turus erat, cum conti- nuo turba comissatorum intro se
coniecit. Dubitant interpretes, utrum ad sequentia an tui
praecedentia referenda sint verba eis to avTtxpvS. Sohleier-
machcrus exhibet in conversione: iodem einer hinaosgegaogen
ih- 6(pag xal xataxXivtG%ai , «ai
dogvflov ficata aavza elvai, «ai mixtu Iv xuGaco ovdcvl
avayxa&G&ai. nl- vuv Ttafinolvv olvov. rbv fitv ovv , EgvlLy.ayov
xal tov OaldQov xal aU.ovg uvas %<pt] 6 'jQiatoSrjfios
oi%eG&ui aiubvraq , 2 <5 e vtcvov lafieiv, xal xataSag-. C ©e iv
navv xoXv , ats fiaxguv uov wxtuv ovabav, l^tygeG^ai 61 tcqos i/fiigav
fidi] aXixxgvbvav aSov- tav l&ygbfitvos de ISciv rovs fiiv aXXovg
xa&evdov- nen entgegen, waren
sie einge- drungen. Apud Ficinum legitur: nam pauIlo ante quis
coutra exierat. Stnllbaumius contra elS z 6 dvnxpvS cum TtopeveCSai
con- jungens verborum sensum esse ait: recta ad ipsos acces-
sisse, quod explicandi genus minime probamus, neque placet, quod exhibuerunt,
qui paullo supra laudati sunt. ’EZi6vroS nvoS eis to avzixpvS
imaginem proponit comissatorum, contra ni- tente eo, qui iam
exiturus erat, aditum vi ex- pugnantium» Comma igitur, quod
Riickertus post i%idvzoS TivoS ponendum curavit, recte expunxisse
nobis videmur. dvayxd2e6$ ai ziveiv na pitoXvv olvov.
Frustra subiectum quaeras, quod ad d~ vayxaZeGSai referas ; quare
Rii- ckertus auuotat. ad h. 1. explicandum esse censit: Se et reliquos
cogi coeptos esse. In recta, inquit, oratione avay - 9ide}£6$ai
foret rJvayxaZopsSa, Non se enim solum intelligere Aristodemum
videmus ex eo, quod aliorum statim mentio fit ita, ut lioc quoque
ad eos pertinuisse appareat; de solo coepto accipi- endum esse item
docent sequentia, ubi, quibus quisque viis ne- cessitatem aut eviturit
aut pertulerit, edocemur. Rectior
loci explicatio haec est: avayxa- &6Sai verbum absolute positam
est, ut idem fere significet atque dvdyxyv elvai. Haec bibendi nova
lex quibus displicebat, ii clanculum abierunt, quod moneo, ne quis
forte Ruckerti sententiam probet censentis : de solo coepto
dvayxd$e6$ai verbnm accipi- endum esse. rov p\v ovv
'Epvgipa- XOV . Eryximaehum et Phaedram recte scriptor abeuntes
fecit. Conf. verba p. 176. D. /pol plv yap 8rj zovzd ye olpai
xaza- SyXov yeyovivai ix zijs latpi- xijS , ori r oiS av^poS-
icoiS y piSy i6rl' xal ovte av- zoS Ixcjv elvai noppaa iSeXy-
6ctif.n dv itieiv , ovte dWoo 6vp- ($ov\ev6aij.n, d/.XcjS ze xal
xpai- TtaXaivza Izi ix zrjs nporepalaS . 9 JXXd pyv, £<py cpavai
vno\a - fiovza $aZ8pov rov Mvfifiivov- 6iov , iytayi 6oi etoSa
nei- $e6Sai ze xal azt r av ftepl iatpixijs XlyyS.
dttiovz at , 5? dfc vtcvov Xafieiv, Vulgo legitur uitidv -
zas oUxaSe vtcvov Xaftelv, Opti- mi codices illud habent. Ut iuter
se conciliaret utramqne lectionem, Comarius scribendam coniecit:
aniovzaS oixade , ,2 vtcvov Xafleiv. Sed verisimillimum vi- detur,
olxa8e glossema esse, quod ras xal ol%ofitvovg , 'Ayaftava 8s xal
'Agiotoipavti xai 2-axQdtrj In fiovovg iygrjyoQtvai , xal nuvtiv ex
qnulrjg [leyubjg ini da| ia. rov ovv Hay.Qazrj aviolg HialeyeG&cu.
xal ra ixiv ulla 6 AgLGroSrjfiog ovx iqyq (isfivi}6&at. rcov loycov
ovre yag t| ag^ijg nagayevi- tfOttt , vnovvGta^tiv re ’ x 6 {itvroi
xeqxilaiov Etpij, 0 mgogavayxa&iv rov Zkoxgattj 8(ioloyelv avtoiig,
rov tcvrov avdgog elvca xofiipSiav xal tgaycpSiav ini- sciolus olim
margini ad scripserit, videlicet ut intelligerent lectores,
Eryximachum atque Phaedrum •ivisse domum. axe paxpcov rcor
rv- xxoor ovdair. cfr. Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 2,
au Zev ftadi\e v, x 6 XPW a TGJY VVXTQdV
06OY. Aiorvdtaxov yap ortos xov 6 pa- pctxoS dvredtaA^ai xaS
rvxraS avayxrj 6ux to xoiovxv xcnpcS xmoniitteir xd Aiorvdta.
t/Stj dXexx pvo va>r ddor- xcor. Haec ut recte intelligantur,
tenendum est, incolas terra- rum versus Orientem sitarum ante solis
ortum exsuscitari solere, qui gallorum gallinaceorum cantu
iudicatur. cfr. Aristoph. Nubb. v. 4. xal pr\r TtaXai y dXexxpvo -
ros jjxovd ’ iyoj' ol 6 olxixai fiiyxovtiiy Igitur tardius se
surrexisse Ari- stodemus narrat, utpote qui, cum galli gallinacei
iam cecinissent diesqne illuxisset, somnum ex- pulerit.
iZeypoperos di idelr. De nominativo participii vide an-
notat. p. 22., qua explicatum reperies, cur participii structura non ad
praecedens £ pronomen directa sit. Positum autem illud prono- men
est, quod obiectum est, non aubiectum enuntiationis»
xa^evSovtaS xal olxo- filr ovS. Fipinus, quem receu- tiores
interpretes omnes secuti sunt, verba convertit: Somno ex- citum
invenisse, quod alii quidem partim dormiebant partim discesserant. — Qui
sciunt, quum saepe xai et ?j in libris commutata re- periantur
propter scripturae com- pendium, quo alterum vocabulum ab altero
interdum vix dignoscitur, nimiae audaciae eum non accusabunt, qui forte
scribendum censuerit : xaSevdorxaS rj ofro- jxevovS. Cogitari
potest etiam xai prima xaSevSorxaS participii syllaba Absorptum esse, ut
integra verba audiant: xal xa$ev8or- xaS xal olXouirovS . Sed
nihil mutandum videtur. Praecedente euim personarum
distinctione, Graeci quippe orationis leniter ac leviter
procedentis studiosi actio- num distinctionem non admise- runt.
Quam si addideris, vah, qnautum morae verbis inferes! *Ay a5
cor a xai ' 'Api - 6 x.o <p a rrj xal 2. Egregie haec
Socratis temperantiam , mo- derationem et constantiam de- clarant ,
qui quum per totam no- ctem cum hominibus epularum amant issimis
bibisset, tamen sobrius neque vino vigiliisque con- fectus a convivio discessit.
Ne talia quidem negligenda sunt iis, qui de dialogorum
Platonicorum <Sxa6dai stoieTv, xal xov xtyyr) XQayuSonoiov ovxct
xai KU/iuSonoiov tlvut, xavxa dq dvayxa£ofievovs ccvrov$ xal ot5
<S<po8Qa faopivov$ wOt xal hqcoxov ftev xaxadaQ&eiv xov
’AQi6roq>avri, ^8r/ 81 Tjiiegag yiyvo- (jLtvt]g xov 'Ayddcava. xov ovv
ZaxQaxt] xcczaxoLfirj- davx’ ixetvovg, avaiSxdvta aicdvai , xal avtog
& gittQ eludet, foetidat , xal eXdovxa elg Avxetov , axoviipa-
ftevov, ugmQ dlkoxt xrjv akX-qv 7](ieQav diaTQifhtv, xal o vra
StaxQhpavta elg ttixigav olxoi avanavetidau argumento et consilio
prudenter iudicare volunt. S t a 1 1 b. xa> ptp Siar xal
xpaytp- Siar initixatiSai noielv. Facillime intelligitur, qui factum
sit, ut de hac materie Socrates disputarit. Ipsa Lenaea aasam
dederunt de poesi ac de variis eius generibus disserendi, et quum
Socrates cum Aristophane disse- reret, comico poeta suae aetatis
celeberrimo, et cum Agathone, qui tragoediarum granditate nobilem
se fecit, colloquium quasi ultro eo delatum est, ut inprimis de
tragoedia atque de comoedia quae- stiones instituerentur. Ceterum
frustra Stallbaumius eorum sen- tentiam impugnat, qui e Schol. ad
Aristoph. Ran. v. 84. aliisque locis colligunt, Agathouem non solum
tragoedias sed etiam comoedias scripsisse. Nam quod etiam Agatho hoc
loco narratur Socrati oblocutus esse censenti, et comoedias et
tragoedias posse ab uno eodemque poeta scribi, id Iride , ne parum
validum rei ar- gumentum sit. Quid, si Agatho comoedias scripsit revera,
quas ipse tragoediis a se scriptis multo deteriores esse
intelligeret, nonne fortius potuit quippe experientia doctus
Socraticam illam senten- tiam impugnare ? x p ay gj$ oit oiov
ovxa xal x a pu>8on oior elvau Vulgo TpayGoSionoiov et
xgo/zco- SzoffotoV, quae formae ab At- ticorum usu alienissimae
sunt. Moeris habet : xoDpcodoitoioS' ! 'Atxixg
xcoptpdiojzoioS' 'ivi- \7fVlX(k>S> xal avxoS ,
toiitep slco- Sei, exedSat. cfr. p. 173- B. xapayeyorei 6* iv xjj
tivrov - 6 i(f 2a)xpdTovS ipa6xj]^ dSv iv toti /uxAtdta xdov xoxe,
gJ S ipol 6oxet. xal ovxa eli Av - Xtiov. De Lyceo,
gymnasio extra urbem sito vide Wucbs- muthii librum ; Hellen.
Alterthumsk. II, 2. p. 56. Ibi Socra- tem versatum Stallbaumius an-
notat propterea , quod sophistae in eo scholas habebant, quorum
inscitiam solebat couviucere , et quod plurimos illic adolescentes
nansciscebatur, quibuscum sermo- nes instituere
posset. EXCURSUS Scribendam confecimus p. 179. C. : xa\ xovx*
ipyatictpivTj r<> ipyov ovxcj xaXov £8o£er ipyadatiSai ov povov
dr^pcaxoiC, a XX a kolL Scois , goSxe noXXdav itoX Xa -noti xaXa
ipyadctplvwv evapiSyr/xoiS 81} xi6iv ZSotiav xovxo yipaS ol 3eol, IB,
AiSov nctXiv dvikvat n)v ipvxyv, aXXa xijv ixeiyrjs ctveitiav avay~
xad$krx e £ tgo Ipyco. Ad haec verba Scholiastes annotat :
*AXxrjdxiS 7 } IleXiov Sv- ycexrjp vnopcLvatiot vn\p tov l8iov av8poS
XEXsvxydoct 'HpaxXkovS lni8r]pi)davroS iv ry ©ExxaXin. Stadco^sxai
fiiadapkvov xovS *5o- viovS SeovS xal dcpeXofiEVOv xrjv yvvaixa. Hic mythus
veras esse videtur; quod Phaedrus dedit, mythi artificiosa
interpretatio est. Vix intellexit autem Scholiastes , quam utilis ille
mythus faturus esset explicationi verborum supra laudatorum. Confirmat
enim fiiadapkvov participium avayxad^kvxES scripturam, Herculem au-
tem quod attiuet , doceri possis herois mentione , quomodo olim populi
mythos genus hominum eruditius interpretatum sit. Recte nobis annotatione
p. 71. indicasse videmur: Phaedrum hunc mythum pro consilii sui ratione
ita interpretatum esse, ut Alcestidis virtutem cum Herculea
virtute compararet, alteramque Alteri substitueret. Quo cla- rior
res fiat atque ut simul iutelligas, artifices in artis operibns haud raro
eruditorum , quam populi iudicium secutos esse magis, AMORIS imaginem gemmae
incisam infra addendam curavimus sub Nr. I, Petita haec imago est e
Winckelmanni libro: Monumens inedits de l’antxquite Tom. I. Paris. Pellis
leonina, qna Amor indutns est, et clava, quam gerit, Herculis insignia
sunt. Claves quid sibi velint, iam videamus, Winckelmannus I. 1. p. 200.
haec habet : L’Amour portait ces cies ou pourouvrir qtfer- mer a
son gre 1’appartement de Venus, ou pour de- signer les plaisirs, dont il
etait le dispensateur, On peut-dtre aussi pour faire al Iasion aux cies
portes» par les pr£tres et les pr£ tresses. Horum nihil in nostram
26 f ' X *o t ~ . imaginem cadif, qnn« audaciam,
constantiam, duritiem, non dnlce* risn» Cupidinis prodit. Rectius igitur
« laves gerere AMOREM censeas et clavam et leoninam pullem, quod Herculea
vi inferos deos cogendo Orci p u r t n s recludit. De altera, quam
apposuimus. Imagine Winckelmannus sio fodicat : Cette pierre gravie reprisente
un petit amour avec un Jiam - beau allumi, hatant sa marche pour
embrasser un jeune homme extriment afflige , et dunt on aperpoit lea
efforts pour fuir . Cette al ligor ie peut assur ement a'
interpreter de diverses ma- ni eres , et prepare des torturcs a Vcaprit
des savans , Pour moi 9 j'y vois tout simplement l' expression de
la passion de V amour dont le disespoir est temperi par un rayon d'
csperance* La jeune homme , abandonni par V objet de ses tendres
affectione cherche d mettre fin d ses peines. Le monte au , dont il s ’
enve- loppe, annonce la froide humuditi de la nuit. L ’ attitude de
son corps plii en avant etait , selon Aristophane Lysistr. r. 1002,
propre d ceux qui, marclrant la nuit , portaient une lanterne , et tachaient d
’ empecher le vent d J en eteindre la lumiere, Le rocher , qu'on
aperpoit, devient le symbole de V expedient 9 qiCil a choisi pour se
donner la mort. Loraque le jeune homme veut se livrer d son desespoir , L’Amour
en arrete /* ejfet sinistre en faisant briller Vcspirance d ses yeux ;
son Jlambeau allumi de- vient le symbole du coeur de sa maf tresse, qui ,
blessee par V Amour, va brtcler pour lui du mime feu, dont il brhle pour
elle. Les deux passions contraires de V espirance et du desespoir sont
designees dans ce jeune homme , d*un cote, par V attitude de son bras ,
qu*il tient iloigne de son visage , et de l ’ aut re coti , par son
second bras , qui embrasse V Amour. Habet haec huius imaginis
explicatio, quo admodum sese com- mendet. Quaeritur tamen, num
infertilissima illa rupes non etiam de vilitate unius rei amoris
intelligi possit; fax certe elata et me- dia in imagiue posita non spei
solius symbolum est, sed etiam my- steriorum, Iam cfr. p. 209, E. Tama
p\v oZv x a. Ipooxixa tdaP, gj oxpaxeS, xav 6x> pvrjSdt}?, xa xlXea
xai litonrixd, cov evena xcri xavxa Zdxiv , Iav xiS opSaiS per ovx 016’
el oloS r* av eVtjS. A Et yap xov op^GoS lovxa liti xovxo xo
itpdypa apx^d^ai pkv vlov ovra levat lit\ xa xaXa dedpaxa, xal itpco
- xov phv, iav opS goS ijyijxat d ijyovpevoS , kvo£ av xgov Oaopa-
xojv ipav xal ivravSa yevvdv XoyovP xaAovS , liteixa Sei avxov
xaxavorjdat , oxi xo xctXAoS xo liti oxgoovv dcdpaxi xgj liti Ixipo)
dofpaxi abeXtpov Idxi x. r. X. Etenim non sine caussa duo Amores ab
artifice exhibiti sunt, alter laterna, alter face insignes. Necessitas
autem illa nimium unius corporis amorem remittendi quantos dolores
amatoris animo afferat, amatoris effigie vividissime 26 *
i expressam habes» Iam ipse, lector* vide, atram imago tibi pro-
posita aliquid lacis e Platonis verbis laudatis accipiat* necne. Nos unam
boc addendum liabemas, Magna virium contentiouc opus est, •i quis primum
initiationis gradum superare cupit. Quem ubi supe- raverit * laetius ,
liberius * circumspectius incedet , id * quod alte- rius Amoris figura
repraesentatum est» Flamma autem facis* ven- tis circumagitata, mox
nimium effulgens, mox paene exstincta, supe- rato primo initiationis
gradu laternae inclusa temperatius quidem? sed aequabilius
fulget. Legitur p. 193. A. xal itpo x ov t wSitep \£ym , ev 7/pty *
wvl 8& Sta xrjy dSixiay SicpxiC^ifpey vito xov Seov , xctSditep
'ApxadeS vito AaxedatpovicDy. Hoc loco utuntur interpretes ad definiendum
tempus, quo Symposium Plato conscripserit. Alii post 01. XCVIII. 4.
conscriptum censent, quo tempore scimus Mantineam a Lacedaemoniis
eversam esse, alii ante hoc tempus compositum potant, sed denuo
editum post 01» XCVIII. 4. Concidet haec temporis definitio simulatque
est demonstratum, verba depravata esse, ad quae illa defiuitio
directa est» Age igitur primum de anachronismo videamus verborum xa
Saitep *Apxa8eS vito AaxedaipoyiGOV 9 quid statuendum sit. Anachronismos passim
admisit Plato, de qua ro vide Engelhardti doctissimi annotationem ad Plat.
Menex. p. 236. Eos cur admiserit, daplex caussa cogitari potest. Aut
negligentia fecit atque per obli- vionem, aut de industria et assequendi
alicuius finis studiosus» Atque iu Meuexeno quidem Socratem de re
loquentem inducens, quae post huius mortem facta est, anachronismum
admisit, acer- bissimi ludibrii commodissimum vehiculum. Etenim in
oratores invehitor, scriptores laudationum locis communibus refertarum quibus
data occasione facili negotio atque satis leviter rei adaptatis
ntercutor. Ipsa audi Platonis verba cap. II. init,: xot\ fiijv, <a Me-
y{£eve, itoXXaxV xiySvvevei xaXuy elrai r 6 tv noXi.fiw dito- SrijtSxeiv.
xal yap racpi/S xaXijS re xal peyaXoxpexovs rvyxa- vn, xal iay xivtjS riS
cov reXevrt/ey, xal inaiyov av Ervx* xal iav ipavXoS y vx’ dvSpcov
6oq>oiv re xal ovx elxy ijtaivovvreor, aXXa Ix iroXXov xpoyov XoyovS
xapedxev a<5 pev cor , o? ooro xaXmS inaivo v 6 1 v, tSste — xal ta
hpoSoyra xal t a pij — s tepl txa'6rov XlyovteS, xaXXuSr d xai toti ovopou
>t xoixlXXov- TtS, yoqt evovdtr 1 } p <2v taS t/ivxaS x. t. X. Iam
cam dixisset Menexenus, oratoris electionem subito fieri, quo facto
orator non possit non subitaria oratione uti, Socrates omnibus oratoribas
orationes, napepya otiosi temporis, recondita facere conten- dit, atque
ipse huiusmodi orationem, h. e , sententiis communibus refertam profert,
quam, quo acerbius vituperiura sonet, ab Aspasia sibi traditam narrat.
Intelliges , opinor, anachronismi acumen. Ad nostrum locum ut revertar,
nihil reperitur, quo anachronismum excusare possis. Huc accedit, quod omnem
verisimilitudinem Platonicae narrationis ita pervertit, ut et habitum revera
sjmposinm docearis et non habitum. Negligentiane igitur anachronismum adhibitam
censeamus atque maculam artificio praestantissimo additam? Credant, qui
velint, nobis nunquam persuadebitur. Sed mittamus anachronismum ,
comparatio per verba xaSanep 'ApxaSeS vno AaxESaipoviatY instituta quid
sibi velit, videamus. Nolo ApxadtS nomen nimiam premere j fieri enim potuit,
ut avijp *A^rjvaloS de Mantineae eversione illa loquens pro MavtireiS
diceret ApxaSsS, sed, si eodem modo propter iniuriam homines dissecti esfce
narrantur a deo, quo modo Mantineenses in varios pagos distributi sint a
Lacedaemoniis, merito tertiam, quod vocatur, comparationis quaeras. Caussam
dissectionis si spectas: hominibus dissectis iniuria, qua ipsi utebantur,
perniciei fuit, Mantineen.sibus iniuria Lacedaemoniorum; diremtum ipsum
quod attinet, homines bifariam divisi sunt, Mantineenses Xenophonte teste
Hell. V. 2. 7. TETpaxi/ > auctores diremtus his dii, illis
Lacedaemonii fuere, divisi hic sunt omnes homines, illic Mantineenses. Una
restat dis- secandi dirimendique ratio. Utrique et humanum genus et
Manti- neenses vi et ferro dissecti sunt. 8ed num verisimile est, eius
rei describendae gratia, quam ia praegressis expositam habes, et
quae ipsa per se intelligitur, allatam esse Mantineae eversionem a
Lacedaemoniis patratam? Ut paucis rem absolvam, scripsisse Plato videtur: yvvl
8 £ 8ia tijv adtxiav 8ia>xi6^7]pEv vno tov Seov, xa- Sdnep 'ApxabeS
aito Aaxe8aipov}<aY . Arcadiam inter et Lace- daemonctn scimus
montes altissimos sitos esse, quibus utriusque terrae arctior coniunctio
prohibetur. Proverbialis autem dictio fuisse videtur xaSansp *Apxd8eS ano
Aaxa8aipovia)Y f quo utebantur, qui naturalem firmitatem alicuius
fissurae describebant atque impossibilitatem , (venia sit verbo,) restituendae
integritatis. Annotatione p. 806 et 807. Platonis verba, quae leguntur,
hoc modo scribenda censuimus: pera 81 r a iititrj8&vpara iit i ra(
imCnjfiaS dycty&v , 7va {8y av bn&cijp&v xaAAo?, xa\
fiXiitcov npoS itoXv ydrf tu xaXuv , pi\xkxi tu irap ' lv \ , wsnep
0 ixiryfi ctyaitcSv itaiSaptov xaXXoS ij av^pamov rivo 5 rj iitt-
rrjdev/xaxoS hrof, SovXevarv qiavXoS y xai opixpoXuyoS x. r. X. Constans
omnium librorum lectio est c ZsitEp olxkxT/S, quod Stall- baumius
ceteroqnin optime de huius loci explicatione meritas hoc modo explicandum
censet, ut apte additum dicat, quod, qui unius tantum rei admiretur
pulcritudiuem , is ei tanquam servus emancipatus rideatur. Sed
scripsisset, opinor, Plato, si hoc exprimere voluis- set, ooSTttp dudXoS.
JovXoS enim nomen proprium est de contu- meliosa servitute, quam hoo loco
requirimus, et quae explicatius descripta est a Pausania p. 183. A. ei ydp —
iSlXoi rtoieir olaxep 01 ipa6xecl itpoS x a iraidixd, ixexeiaS te
xat dvxipoXi/tiEis: iv tolis 6et/(5£(ji Ttoiovpevoiy xal opxovS opvvvxeS
xal xoifiijCEif iit\ SvpanS, xal iSkXovxaS SovXeiaS 8ov Xeveiv, oiaS ov8
av 8ov- Aof otldeif x. T. A. Olxixijf autem nomen apte cura
Latinorum familiaris confertur, de quo Macrob. Satum, I. 9.: nam et maiores,
inquit, nostri omnem dominis invidiam, omnem 6ervis
contumeliam detrahentes dominum patrem familias, servos familiares
appellaverunt. Non ignoramus quidem, hoc nominum discrimen hand
raro Graecos scriptores neglexisse, atque multis io locis olxixrjS
posuisse, ubi douAo? nomen exspectaveris. Sed hoc fecerunt de servis
lo- quentes, non fecerunt io comparatione, qualis hoc loco
reperitur. Quoniam igitur oix&TijS nomini hic nou locus est, ultro ad
o lxk~ Tt/S scripturam ducti sumus, quae et a corruptionis
verisimilitudine maxime commendatur ( vide Iacobsii Comment. ad Antbolog.
Gr. Melcagr. Epigr. XXXII, ) et ad significatum si respicis, ita
apta reperitur, ut haud sciam, an aliud verbum, quod magis ad rem quadret,
excogitari possit. Nota vis est amo- ris, Ea amatorum animi ita
percellantur turbanturqae , ut vitam non vitalem putent atque da salute
desperent, si forte repnlsam tulerint. Quidvis igitur faciunt, fingunt,
inveniant, at eius ani- mum sibi concilient, qnem amant, neque, ut
propitium sibi reddant, a precibns abstinent et a suppliciis, Quid
multis? Huiusmodi ama- torem simillimum esse reperimus homini, qni in
summa vitae versans discrimine ad deorum aras confugit, auxilium rogans, et
vitam et salutem j apte igitur bdtTjy vocari censemus. Loci desunt, quibus
de AMATORE AMASIUM perdite AMANTE Ixforjv nomen melioris «etatis
scriptoribus in usu fnisse probemus, J Apud seriores saepis- sime
reperitur, v, c, apud Meleagrum Epigr. IV. v 9 6., Aathol, Gr. lacobsii
T. I. p. 4., quod epigramma, quoniam falsissime a Iacobsio explicatum
est, de rectiore carminis explicatione et emendatione age, iam videamus. Versus
hoc modo apud Iacobsium leguntur; npoSoxai tfrvxv*> tcoo^qov xrJvef, ailv £v
££$3 KvnpidoS otpSaXpol /JA ippaxa xptoptyoi, Tfpnadax 1
aAAov "Epoox , apves Xvxor, ola xopoovrj dxopnloy, cJs - r kfppy nvp
vnoSocXnopeyoy. 6pa$' o xi nat fiovXedSe. r i poi ver oxtd pira
Sdxpva , itpos 6* Inkxijy avxopoXelcs taxos; onxadS Iv xctXXet,
xv<ped$‘ vnoxaiopiyox vvv, axpoS Inu ipvxyS idxl payeipoS
"EpwS. Argumentum epigrammatis Iacobsius ait esse hoc! Poeta in
oculos invehitur, novi semper amoris novique cruciatus auctores.
Rectius dixeris argumeutum epigrammatis esse; Invehi in oculos
poetam, qui, cum antea semper amasios petierint, uonc mutata
consuetudiuo amatoris animnm pellexerint. Probatur hoc inprimis disticho
secundo, quod huc modo scribendum est; i}pna0av 9 aXXoy
"Epoax* t apyes A vxov, ola xopo&rrj dxopnloy, c Js xktppij nvp
vnoSaXn operor. Non recte Iacobsius, apud quem x itppq legitur, sensum
verborum esse ceuset uovura AMOREM
rapuistis et excitastis veluti ignem sub cinere latentem; quae explicatio
cum praecedente disticho, in quo naidcjy nomen xorcodir habet, prorsus non
convenit. Quid euim sibi vult hoc: Oculi, qui semper pulejis pueris
insidiari soletis, novum amasium rapuistis ; nonne frigero sentis atque
languere ? AXXoS "EpooS haud dubium est, quin genus amandi mutatum
indicet, ut, qui antea amator fuerit puerorum, is nunc subito amasius
factus esse perhibeatur. Gopferri possis Aeliani Var. Hist. II, 12. xal x
<£> y p\r hxaip&y dnkdXTj (sc. 6 &epidxoxXijs ) , r/pa 61
ipGoxa Sxepor , roV xijs noXixeiaS xcov A^rfraiaur. Insequentia exempla
nostram interpretationem comprobant. *! ApveS Xvxor enim nihil aliud
siguiEcut, quam amasium pellexisse amatorem. Saepissime cum lupis amatores
comparantur, cum ovibus amasii. Vido Stallbaumium ad Piat. Phaedr. p. 241
V. , Iacobsium ad Anthol. Gr. V. II. P. III. p.123. Ad luporum atque ovium
comparationem, quae in proverbium abiisse videtur, ceten^ exempla directa sunt
ola xopoovtj dxopniov et ooS xk<pprj nvp vnoSaXno/ievov. Vides enim,
quod debilius natura est, atque natu miuus, fortius e Y. x nata maius dlcl superasse. Nihil
aptius est his exemplis ad describendam infirmitatem eius, qui, ot opud
Platonem legitur, ro itap iv\ fiXbcoov contumeliosam servitutem In se
suscepit. Sequens disticlion Brunckius ex Bouherii coniectura sio scribendum
esse putat: 6pd5' ott xev fiov\jj<5$8. tl p .01 vevoti6peva xdxe
daxpva, npoS 8* i\pxxr\v avxopoXelxe rdxce. censetque, suos poetam
alloqui oculos, quorum in amore ditXTjdxiay et itoXvfiavlav incuset.
Ingeniosa emendatio, Iacobsius inquit, et fortasse vera; quamvis et sic
aliquid relinquitor, quod palatum paullo morosius offendat, cum e}px xi/S
in hoc imaginum contextu vix satis apte mentio fiat. Recte Iacobsius xey
et sequentem coniunctivum improbat, non recte pro ixlxrj v fortasse
scribendum esse lipxiTjy putat. IxhrjS enim amator est, ad quem, poiita
frustra reluctante, oculi quam celerrime sese convertunt. Iam intelligetur,
quid sequens disticlion significet, quod sic scribendum est: Gj7ttd65 *
Iv xaXXei , tv<pe6^ t vnoxoLioptvoi rvv t axpoS ii nl ipvxijs idx t
pdyeipoS "EpcaS. Olim vobis ilammam attulit puerorum , quibus
insidiamini, pulcritudo, nunc fumum et lacrymas excitat admota flamma eius,
qui vobis insidiatur, nam sive amator sive amasius sis, animam Eros
mi- sere coqait. Pausania, do not multiply loves beyond
necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della
natura femmina, solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai
maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato
o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo
della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo.
Keywords: idealismo Toscano, atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus,
sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo,
origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il
soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia,
‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow –
correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --. Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade –
analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone, Ficino, il convito, convivium, Pausania,
Alicibiade, puerile, uomo puerile, Socrate, Agatone, Aristofane, il mito, il
maschio, il vocabolario dell’amore: amore, amare, amans, amante, amator,
amatore, amatum, amicus, amasium, amore mutuo. Desiderio, il vocabolario
latino, il vocabolario transliterato, erote, il vocabolario translato, il
vocabolario in Toscano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The
Swimming-Pool Library.
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