Friday, May 10, 2024

Grice e Livio

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NAZIONALE 

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MCOlAVfi  MACHIAVELLI 
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4 864. 


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DISCORSI 

SOPRA  LA  PRIMA  DECA 


DI  TITO  LIVIO 

pi 

NICCOLÒ  MACHIAVELLI. 
FIRENZE, 

G.  BARBÈRA,  EDITORE. 

4 864. 


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^Jo<roLo 


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S&M 


lt: 


NICCOLÒ  MACHIAVELLI 


A ZANOBI  BUONDELMONTI 
E COSIMO  RUCELLÀI 


SALUTE. 


lo  vi  mando  un  presente , il  quale  se 
non  corrisponde  agli  obblighi  clic  io  ho 
con  voi,  è tale  senza  dubbio,  quale  ha 
potuto  Niccolò  Machiavelli  mandarvi 
maggiore.  Perchè  in  quello  io  ho  espres- 
so quanto  io  so,  c quanto  io  ho  impa- 
ralo per  una  lunga  pratica  e continova 
lezione  delle  cose  del  mondo.  E non  por 
lendo  nè  voi  nè  altri  disiderare  da  me 
più,  non  vi  potete  dolere  se  io  non  vi 
ho  donato  più.  Bene  vi  può  incrcsccre 

della  povertà  dello  ingegno  mio,  quando 
M \chi avelli,  Discorsi. — i.  1 


ÌKÌRÌ 
■.»'  ■ 


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2 31CC0LÒ  MACHIAVELLI 

siano  queste  mie  narrazioni  povere ; e 
della  fallacia  del  giudizio , quando  io 
in  molte  parli , discorrendo , m'  inganni. 
Il  che  essendo , won  so  quale  di  noi  si 
abbia  ad  esser  meno  obbligato  all'  altro; 
o io  a voi , che  mi  avete  forzalo  a scri- 
vere quello  eh'  io  mai  per  me  medesimo 
non  arci  scritto;  o voi  a me,  quando 
scrivendo  non  abbi  soddisfatto . Pigliate, 
adunque,  questo  in  quello  modo  che  si 
pigliano  tulle  le  cose  degli  amici:  dove 
si  considera  più  sempre  la  intenzione 
di  chi  manda,  che  le  qualità  della  cosa 
che  è mandata.  E crediate  che  in  que- 
sto io  ho  una  salis fazione , quando  io 
penso  che,  sebbene  io  mi  fussi  ingan- 
nato in  molle  sue  circostanze,  in  questa 
sola  so  eh * io  non  ho  preso  errore,  di 
avere  delti  voi,  ai  quali  sopra  tutti  gli 
altri  questi  miei  Discorsi  indirizzi : sì 


A Z.  BUOSDELMOIHTI  E C.  BUCELLAI.  3 

perché,  facendo  questo,  ini  pnre  aver 
mostro  qualche  gratitudine  de*  benefizii 
ricevuti : si  perchè  e*  mi  pare  esser 
uscito  fuora  dell * uso  comune  di  coloro 
che  scrivono , i quali  sogliono  sempre 
le  loro  opere  a qualche  Principe  indi- 
rizzare ; e,  accecati  dall*  ambizione  c 
dall*  avarizia,  laudano  quello  di  tutte 
le  virtuose  qualitadi,  quando  di  ogni 
vituperevole  parte  doverrebbono  biasi- 
marlo. Onde  io,  per  non  incorrere  in 
questo  errore,  ho  eletti  non  quelli  che 
sono  Principi,  ma  quelli  che  per  le  in- 
finite buone  parti  loro  meriterebbono  di 
essere ; nè  quelli  che  polrebbono  di  gra- 
di, di  onori  e di  ricchezze  riempiermi, 
ma  quelli  che,  non  polendo,  vorrebbono 
farlo.  Perchè  gli  uomini,  volendo  giu- 
dicare dirittamente,  hanno  a stimare 
quelli  che  sono , non  quelli  che  possono 


A MCCOLÒ  MACHIAVELLI  EC. 

esser  liberali;  e così  quelli  che  sanno , 
non  quelli  che , senza  sapere,  possono 
governare  un  regno.  E gli  scrittori  lau- 
dano più  Icronc  Siracusano  quando  egli 
era  privato,  che  Perse  Macedone  quan- 
do egli  era  re:  perchè  a Icronc  a esser 
principe  non  mancava  altro  che  il  prin- 
cipato ; quell * altro  non  avera  parte 
alcuna  di  re,  altro  che  il  regno.  Gode- 
tevi, pertanto  quel  bene  o quel  male  che 
voi  medesimi  avete  voluto  : e se  voi  sta- 
rete in  questo  errore,  che  queste  mie 
oppinioni  vi  siano  grate , non  manche- 
rò di  seguire  il  resto  della  istoria,  se- 
condo che  nel  principio  vi  promisi. 
Valete. 


DEI  DISCOESI  ’!! 

LIBRO  PRIMO. 


Ancouaciiè,  per  la  invida  natura  de- 
gli uomini,  sia  sempre  stato  pericoloso 
il  ritrovare  modi  ed  ordini  nuovi,  quanto 
il  cercare  acque  e terre  incognite,  per 
essere  quelli  più  pronti  a biasimare  che 
a laudare  le  azioni  d’ altri  ; nondimeno, 
spinto  da  quel  naturale  desiderio  che 
fu  sempre  in  me  di  operare,  senza  al- 
cun rispetto,  quelle  cose  che  io  creda 
rechino  comune  benefìzio  a ciascuno,  ho 
deliberato  entrare  per  una  via,  la  quale, 
non  essendo  stata  per  ancora  da  al- 
cuno pesta,  se  la  mi  arrecherà  fastidio 
e di ffìcultù,  mi  potrebbe  ancora  arre- 


I • 


6 


DEI  DISCORSI 


care  premio,  mediante  quelli  che  uma- 
namente di  queste  mie  fatiche  conside- 
rassero. E se  T ingegno  povero,  la  poco 
esperienza  delle  cose  presenti,  la  de- 
bole notizia  delle  antiche,  faranno  que- 
sto mio  conato  difettivo  e di  non  molta 
utilità  ; daranno  almeno  la  via  ad  al- 
cuno, che  con  più  virtù,  più  discorso  e 
giudizio,  potrà  a questa  mia  intenzione 
satisfare:  il  che  se  non  mi  arrecherà 
laude,  non  mi  dovrebbe  partorire  bia- 
simo. E quando  io  considero  quanto 
onore  si  attribuisca  all’antichità,  c co- 
me molte  volte,  lasciando  andare  molti 
altri  esempi,  un  frammento  d’ una  an- 
tica statua  sia  stato  comperato  gran 
prezzo,  per  averlo  appresso  di  sè,  ono- 
rarne la  sua  casa,  poterlo  fare  imitare 
da  coloro  che  di  quella  arte  si  diletta- 
no; e come  quelli  poi  con  ogni  indu- 
stria si  sforzano  in  tutte  le  loro  opere 
rappresentarlo:  e vcggendo,  dall’altro 
canto,  le  virtuosissime  operazioni  che  le 
istorie  ci  mostrano,  che  sono  state  ope- 


LIBRO  PRIMO. 

rate  da  regni  c da  repubbliche  auliche, 
dai  re,  capitani,  cittadini,  datori  di  leggi, 
ed  ultri  che  si  sono  per  la  loro 
atfaticati,  esser  più  presto  ammirate  che 
imitate;  au/i  in  tanto  da  ciascuno  in 
ogni  parte  fuggite,  che  di  quella  antica 
virtù  non  ci  è rimaso  alcun  seguo: 
posso  fare  che  insieme  non  me  ne 
lavigli  e dolga;  e tanto  più,  quanto 
veggio  nelle  differenze  che  intra  i 
ladini  civilmente  nascono,  o nelle  ina 
lattie  nelle  quali  gli  uomini  incorrono, 
essersi  sempre  ricorso  a quelli  giudicii 
o a quelli  rimedi  che  dagli  antichi  sono 
stati  giudicati  o ordinati.  Perchè  le  leggi 
civili  non  sono  altro  che  sentenzio  date 
dagli  antichi  iurcconsulti,  le  quali,  ri- 
dotte in  ordine,  a’ presenti  nostri  iure- 
consulti  giudicare  insegnano;  nè  ancora 
la  medicina  è altro  che  cspcrienzia  fatta 
dagli  antichi  medici,  sopra  la  quale  fon- 
dano i medici  presenti  li  loro  giudicii. 
Nondimeno,  nello  ordinare  le  repubbli- 
che, nel  mantenere  gli  Stati,  nel  govcr- 


s 


DEI  DISCORSI 


nai  e i regni,  nell’  ordinare  la  milizia  ed 
amministrar  la  guerra,  nel  giudicare  i 
sudditi,  nello  accrescere  lo  imperio,  non 
si  trova  uè  principi,  nè  repubbliche,  nè 
capitani,  nè  cittadini  che  agli  esempi 
degli  antichi  ricorra.  Il  che  mi  persuado 
che  nasca  non  tanto  dalla  debolezza 
nella  quale  la  presente  educazione  ha 
condotto  il  mondo,  o da  quel  male  che 
uno  ambizioso  ozio  ha  fatto  a molte 
provincie  c città  cristiane,  quanto  dal 
nou  avere  vera  cognizione  delle  istorie, 
per  non  trarne,  leggendole,  quel  senso, 
nè  gustare  di  loro  quel  sapore  che  le 
hanno  in  sè.  Donde  nasce  che  infiniti 
che  leggono,  pigliano  piacere  di  udire 
quella  varietà  delli  accidenti  che  in  esse 
si  contengono,  senza  pensare  altrimeute 
d’ imitarle,  giudicando  la  imitazione  non 
solo  difficile  ma  impossibile:  come  se  il 
cielo,  il  sole,  gli  elementi,  gli  uomini 
fossero  variati  di  moto,  d’ordine  e di 
potenza,  da  quello  eli’ egli  erano  antica- 
mente. Volendo,  pertanto,  trarre  gli  uo- 


LIBRO  PRIMO.  9 


mini  di  questo  errore,  ho  giudicalo  ne- 
cessario scrivere  sopra  tutti  quelli  libri 
di  Tito  Livio  che  dalla  malignità  dei 
tempi  non  ci  sono  stati  interrotti,  quello 
che  io,  secondo  le  antiche  e moderne 
cose,  giudicherò  esser  necessario  per 
maggiore  intelligenzia  d'essi;  acciocché 
coloro  che  questi  miei  Discorsi  legge- 
ranno, possino  trarne  quella  utilità  per 
la  quale  si  debbe  ricercare  la  cogni- 
zione della  istoria.  G benché  questa  im- 
presa sia  difficile,  nondimeno,  aiutato  da 
coloro  che  mi  hanno  ad  entrare,  sotto  a 
questo  peso  confortato,  credo  portarlo 
in  modo,  che  ad  un  altro  resterà  breve 
cammino  a condurlo  al  luogo  destinato. 

Cap.  I.  — Quali  siano  stati  universal- 
mente i pr  incipit’  di  qualunque  città , 
c quale  fosse  quello  di  Roma. 

Coloro  che  leggeranno  qual  principio 
fosse  quello  della  città  di  Roma,  e da 
quali  legislatori  e come  ordinato,  non 


10 


DEI  DISCORSI 


si  maraviglieranno  che  tanta  virtù  si 
sia  per  più  secoli  mantenuta  in  quella 
città;  e che  dipoi  ne  sia  nato  quello  im- 
perio, al  quale  quella  repubblica  ag- 
giunse. E volendo  discorrere  prima  il 
nascimento  suo,  dico  che  tutte  le  città 
sono  edificate  o dagli  uomini  natii  del 
luogo  dove  le  si  edificano,  o dai  fore- 
stieri. 11  primo  caso  occorre  quando 
agli  abitatori  dispersi  in  molte  e pic- 
cole parli  non  par  vivere  sicuri,  non 
potendo  ciascuna  per  sè,  e per  il  sito 
e per  il  piccol  numero,  resistere  all’im- 
peto di  chi  le  assaltasse;  e ad  unirsi  per 
loro  difensione,  venendo  il  nemico,  non 
sono  a tempo;  o quando  fossero,  con- 
verrebbe loro  lnsciare  abbandonati  molti 
de’  loro  ridotti,  e cosi  verrebbero  ad  es- 
ser sùbita  preda  dei  loro  nemici:  tal- 
mente che,  per  fuggire  questi  pericoli, 
mossi  o da  loro  medesimi,  o da  alcuno 
che  sia  infra  di  loro  di  maggior  auto- 
rità, si  ristringono  ad  abitar  insieme  in 
luogo  eletto  da  loro,  più  comodo  a vi- 


LIBRO  PRIMO.  I l 

vere  e più  facile  a difendere.  Di  queste, 
infra  molle  altre,  sono  state  Atene  e Vi- 
ncaia. La  prima,  sotto  l’autorità  di  Te- 
seo, fu  per  simili  cagioni  dalli  abitatori 
dispersi  edificata;  l’altra,  sendosi  molti 
popoli  ridotti  in  certe  isolette  che  erano 
nella  punta  del  mare  Adriatico,  per  fug- 
gire quelle  guerre  che  ogni  dì,  per  lo 
avvenimento  di  nuovi  barbari,  dopo  la 
declinazione  dello  imperio  romano,  na- 
scevano in  Italia,  cominciarono  infra 
loro,  senza  altro  principe  particolare 
clic  gli  ordinassi,  a vivere  sotto  quelle 
leggi  che  parvono  loro  più  atte  a man- 
tenerli. Il  che  successe  loro  felicemente 
per  il  lungo  ozio  che  il  sito  dette  loro, 
non  avendo  quel  mare  uscita,  e non 
avendo  quelli  popoli  che  affliggevano 
Italia,  navigi  da  poterli  infestare:  talché 
ogni  picciolo  principio  li  potò  fare  ve- 
nire a quella  grandezza  nella  quale  sono. 
11  secondo  caso,  quando  da  genti  fore- 
stiere è edificata  una  città,  nasce  o da 
uomini  liberi,  oche  dipendano  da  altri: 


12  DEI  DISCORSI 

come  sono  le  colonie  mandate  o da  una 
repubblica  o da  un  principe,  per  Sgra- 
vare le  . loro  terre  d’abitatori,  o per  di- 
fesa di  quel  paese  che,  di  nuovo  acqui- 
stato, vogliono  sicuramente  e senza 
spesa  mantenersi;  delle  quali  città  il 
Popolo  romano  ne  edificò  assai,  e per 
tutto  l’imperio  suo:  ovvero  le  sono  edi- 
ficate da  un  principe,  non  per  abitarvi, 
nia  per  sua  gloria;  come  la  città  di 
Alessandria  da  Alessandro.  E per  non 
avere  queste  cittadl  la  loro  origine  libera, 
rade  volte  occorre  che  le  facciano  pro- 
gressi grandi,  e possinsi  intrai  capi  dei 
regni  numerare.  Simile  a queste  fu  V edi- 
ficazione di  Firenze,  perchè  (fi  edificata 
da’ soldati  di  Siila,  o,  a caso,  dagli  abita- 
tori dei  monti  di  Fiesole,  i quali,  confi- 
datisi in  quella  lunga  pace  che  sotto  Ot- 
taviano nacque  nel  mondo,  si  ridussero 
ad  abitare  nel  piano  sopra  Arno)  si  edi- 
ficò sotto  1*  imperio  romano;  nè  potette, 
ne’  principii  suoi,  fare  altri  augumenti 
che  quelli  che  per  cortesia  del  principe 


LIBRO  PRIMO.  13 

li  erano  concessi.  Sono  liberi  li  edifica- 
tori delle  cittadi,  quando  alcuni  popoli, 
o sotto  un  principe  o da  per  sé,  sono 
costretti,  o per  morbo  o per  fame  o per 
guerra,  od  abbandonare  il  paese  potrio, 
e cercarsi  nuova  sede  : questi  tali,  o 
egli  abitano  le  cittadi  elle  e’ trovano  nei 
paesi  eli’ egli  acquistano,  come  fece  Moi- 
sè;  o ne  edificano  di  nuovo,  come  fe 
Enea.  In  questo  caso  è dove  si  conosce 
la  virtù  dello  edificatore,  e la  fortuna 
dello  edificato:  la  quale  è più  o meno 
meravigliosa,  secondo  che  più  o meno 
è virtuoso  colui  che  ne  è stato  principio. 
La  virtù  del  quale  si  conosce  in  duoi 
modi:  il  primo  è nella  elezione  del  sito; 
F altro  nella  ordinazione  delle  leggi.  E 
perchè  gli  uomini  operano  o per  neces- 
sità o per  elezione;  e perchè  si  vede 
quivi  esser  maggiore  virtù  dove  la  ele- 
zione ha  meno  autorità;  è da  conside- 
rare se  sarebbe  meglio  eleggere,  per  la 
edificazione  delle  cittadi,  luoghi  sterili, 
acciocché  gli  uomini,  costretti  ad  indù* 


* 


1 4 dei  discorsi 

striarsi,  meno  occupati  dall’ozio,  vives- 
sino  più  uniti,  avendo,  per  la  povertà 
del  sito,  minore  cagione  di  discordie; 
come  intervenne  in  Raugia,  e in  molte 
altre  cittadi  in  simili  luoghi  edificate: 
la  quale  elezione  sarebbe  senza  dubbio 
più  savia  e più  utile,  quando  gli  uo-  . 
mini  fossero  contenti  a vivere  delloro, 
e non  volcssino  cercare  di  comandare 
altrui.  Pertanto,  non  potendo  gli  uomini 
assicurarsi  se  non  con  la  potenza,  è 
necessario  fuggire  questa  sterilità  del 
pnese,  e porsi  in  luoghi  fertilissimi  ; 
dove,  potendo  per  la  ubertà  del  sito  am- 
pliare, possa  e difendersi  da  chi  l’ assal- 
tasse, e opprimere  qualunque  alla  gran- 
dezza sua  si  opponesse.  G quanto  a 
quell’ozio  che  le  arrecasse  il  sito,  si 
debbe  ordinare  che  a quelle  necessitadi 
le  leggi  la  costringhino  che  ’l  sito  non 
la  costringesse;  ed  imitare  quelli  che 
sono  stati  savi,  ed  hanno  abitato  in  paesi 
amenissimi  e fertilissimi,  c alti  a prò 
durre  uomini  oziosi  ed  inabili  ad  ogni 


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LIBRO  PRIMO.  \ 5 

virtuoso  esercizio:  chè,  per  ovviare  a 
quelli  danni  i quali  l’amenità  del  paese, 
mediante  l’ozio,  arebbero  causati,  hanno 
posto  una  necessità  di  esercizio  a quelli 
che  avevano  a essere  soldati:  di  qualità 
che,  per  tale  ordine,  vi  sono  diventati 
migliori  soldati  che  in  quelli  paesi  i quali 
naturalmente  sono  stati  aspri  e sterili. 
Intra  i quali  fu  il  regno  degli  Egizi,  che 
non  ostante  che  il  paese  sia  amenissi- 
mo, tanto  potette  quella  necessità  ordi- 
nata dalle  leggi,  che  vi  nacquero  uo- 
mini eccellentissimi;  e se  li  nomi  loro 
non  fussino  dalla  antichità  spenti,  si 
vedrebbe  come  meriterebbero  più  laude 
che  Alessandro  Magno,  c molti  altri  dei 
quali  ancora*  è la  memoria  fresca.  E chi 
avesse  considerato  il  regno  del  Soldano, 
e l’ordine  de’Mammaluchi.  e di  quella 
loro  milizia,  avanti  che  da  Sali,  Gran 
Turco,  fusse  stata  spenta  ; arebbe  ve- 
duto ili  quello  molti  esercizi  circa  i sol- 
dati, ed  arebbe  in  fatto  conosciuto 
quanto  essi  temevano  quell’ozio  a che 


IO 


DEI  DISCORSI 


la  benignità  del  paese  gli  poteva  con- 
durre, se  non  vi  avessino  con  leggi  for- 
tissime ovviato.  Dico,  adunque,  essere 
più  prudente  elezione  porsi  in  luogo 
fertile,  quando  quella  fertilità  con  le 
leggi  infra*  debili  termini  si  restringe. 
Ad  Alessandro  Magno,  volendo  edificare 
una  città  per  sua  gloria,  venne  Dino- 
erate  architetto,  e gli  mostrò  come  ei 
la  poteva  fare  sopra  il  monte  Albo;  il 
quale  luogo,  oltre  allo  esser  forte,  po- 
trebbe ridursi  in  modo  che  a quella 
città  si  darebbe  forma  umana;  il  che 
sarebbe  cosa  meravigliosa  e raro,  e de- 
gna della  sua  grandezza:  e domandan- 
dolo Alessandro  di  quello  che  quelli  abi- 
tatori viverebbono,  rispose,  non  ci  avere 
pensato:  di  che  quello  si  rise,  e lasciato 
stare  quel  monte,  edificò  Alessandria, 
dove  gli  abitatori  avessero  a stare  vo- 
lentieri per  la  grassezza  del  paese,  e per 
la  comodità  del  mare  e del  Nilo.  Chi  esa- 
minerò, adunque,  la  edificazione  di  Ro- 
ma, se  si  prenderà  Enea  per  suo  primo 


LIBRO  PRIMO. 

progenitore,  sarà  di  quelle  citladi  edifi- 
cate da’  forestieri  ; se  Romolo,  di  quelle 
edificate  dagli  uomini  natii  del  luogo; 
ed  in  qualunciic  modo,  la  Vedrà  avere 
principio  libero,  senza  depcndere  da  al- 
cuno: vedrà  ancora,  come  di  sotto  si 
dirà,  a quante  necessitadi  le  leggi  fatte 
da  Romolo,  Numa,  e gli  altri,  la  costrin- 
gessino  ; talmente  clic  la  fertilità  del  sito, 
la  comodità  del  mare,  le  spesse  vittorie, 
la  grandezza  dello  imperio,  non  la  po- 
terono per  molti  secoli  corrompere,  e Ir»  -»  ** 
mantennero  piena  di  tante  virtù,  djp^ 
quante  mai  fusse  alcun’ altra  repubblica 
ornata.  E perchè  le  cose  operate  da  lejj,  ^ 
e che  sono  da  Tito  Livio  celebrate,  sono 
seguite  o per  pubblico  o per  privato 
consiglio,  o dentro  o fuori  della  cittade, 
io  comincerò  a discorrere  sopra  quelle 
cose  occorse  dentro,  e per  consiglio  pub- 
blico, le  quali  degne  di  maggiore  an- 
notazione giudicherò,  aggiungendovi  tut- 
to quello  che  da  loro  dependessi  : con 
i quali  Discorsi  questo  primo  libro, 
Uachiavklm,  Discorsi.  — 1.  2 


I 

I S DEI  DISCORSI 

ovvero  Questa  prima  parte,  si  termi- 
nerà. 

Cap.  II.  — Di  quante  spezie  sono  le  *e- 
pnbbtiche , e di  quale  fu  la  Repubblica 
Romana. 

Io  voglio  porre  da  parte  il  ragionare 
di  quelle  cittadi  clic  hanno  avuto  il  loro 
principio  sottoposto  ad  altri;  e parlerò 
di  quelle  che  hanno  avuto  il  principio 
'ontano  do  ogni  servitù  esterna,  nia  si 
; j sono  subito  governate  per  loro  arbitrio, 
o come  repubbliche  o come  principato: 

U quali  hanno  avuto,  come  diversi  prin- 
cipi, diverse  leggi  ed  ordini.  Perchè  ad 
alcune,  o nel  principio  d’esse,  o dopo 
non  molto  tempo,  sono  state  date  da  un 
solo  le  leggi,  e ad  un  tratto  ; come  quelle 
che  furono  date  da  Licurgo  agli  Spar- 
tani: alcune  le  hanno  avute  a caso,  ed 
in  più  volte,  e secondo  li  accidenti,  come 
Roma.  Talché,  felice  si  può  chiamare 
quella  repubblica,  la  quale  sortisce  uno 


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udrò  rniMo.  i9 

uomo  sì  prudente,  che  le  dia  leggi  or- 
dinate in  modo,  che  senza  avere  bisogno 
di  correggerle,  possa  vivere  sicuramente 
sotto  quelle.  E si  vede  che  Sparta  le 
osservò  più  che  ottocento  anni  senza 
corromperle,  o senza  alcuno  tumulto  pe- 
ricoloso: e,  pel  contrario,  tiene  qualche 
grado  d’  infelicità  quella  città,  che,  non 
si  sendo  abbattuta  ad  uno  ordinatore 
prudente,  è necessitata  da  sè  medesima 
riordinarsi:  e di  queste  ancora  è più 
infelice  quella  che  è più  discosto  dal- 
l’ordine; e quella  è più  discosto, 
con  suoi  ordini  è al  tutto  fuori  del  dritto 
cammino,  che  la  possi  condurre  al  per- 
fetto e vero  fine:  perchè  quelle  clic  sono 
iu  questo  grado,  è quasi  impossibile  che 
per  qualche  accidente  si  rassettino.  Quel 
le  altre  che,  se  le  non  hanno  V ordine 
perfetto,  hanno  preso  il  principio  buono, 
e atto  a diventare  migliori,  possono  per 
la  occorrenza  delli  accidenti  diventare 
perfette.  Ma  fia  ben  vero  questo, 
mai  non  si  ordineranno  senza  pericolo 


20  DEI  DISCORSI 

perchè  li  assai  uomini  non  si  accordano 
mai  ad  una  legge  nuova  che  riguardi 
uno  nuovo  ordine  nella  cit tà,  se  non  è 
mostro  loro  da  una  necessità  che  biso- 
gni farlo  ; e non  potendo  venire  questa 
necessità  senza  pericolo,  è facil  cosa  che 
quella  repubblica  rovini,  avanti  che  la 
si  sia  condotta  a una  perfezione  d’ or- 
dine. Di  che  ne  fa  fede  appieno  la  re- 
pubblica di  Firenze,  la  quale  fu  dallo 
accidente  d’  Arezzo,  nel  11,  riordinata,  e 
da  quel  di  Prato,  nel  XII,  disordinata. 
Volendo,  adunque,  discorrere  quali  fu- 
rono li  ordini  della  città  di  Roma,  e 
quali  accidenti  alla  sua  perfezione  la 
condussero)  dico,  come  alcuui  che  hanno 
scritto  delle  repubbliche,  dicono  essere 
in  quelle  uno  de'  tre  stati,  chiamati  da 
loro  Principato,  d’Ottimati  e Popolare; 
e come  coloro  che  ordinano  una  città, 
debbono  volgersi  ad  uno  di  questi,  se- 
condo pare  loro  più  a proposito.  Alcuni 
altri,  e secondo  la  oppinione  di  molti 
più  savi,  hanno  oppinione  che  siano  di 


LIBRO  PRIMO.  24 

sei  ragioni  governi;  delti  quali  tre  ne 
siano  pessimi;  tre  altri  siano  buoni  in 
loro  medesimi,  ma  sì  focili  a corrom- 
persi, che  vengono  ancora  essi  ad  es- 
sere perniziosi.  Quelli  che  sono  buoni, 
sono  i soprascritti  tre:  quelli  clic  sono 
rei,  sono  tre  altri,  i quali  da  questi  tre 
dependono;  c ciascuno  d’  essi  è in  modo 
simile  a quello  che  gli  è propinquo,  che 
facilmente  saltano  dall’  uno  all’  altro: 
perchè  il  Principato  facilmente  diventa 
tirannico;  li  Ottimati  con  facilità  diven- 
tano stato  di  pochi  ; il  Popolare  senza 
diflìcultà  in  licenzioso  si  converte.  Tal- 
mente che,  se  uno  ordinatore  di  repub- 
blica ordina  in  una  città  uno  di  quelli 
tre  stati,  ve  lo  ordina  per  poco  tempo; 
perchè  nessuno  rimedio  può  farvi,  a far 
che  non  sdruccioli  nel  suo  contrario, 
per  la  similitudine  che  ha  in  questo 
caso  la  virtù  ed  il  vizio.  Nacquono  que- 
ste variazioni  di  governi  a caso  intra 
li  uomini:  perchè  nel  principio  del  mon- 
do, sendo  li  abitatori  rari,  vissono  un 


22 


DEI  DISCORSI 


tempo  dispersi,  a similitudine  delle  be- 
stie; dipoi,  multiplicando  la  generazione, 
si  ragunorno  insieme,  e,  per  potersi 
meglio  difendere,  cominciorno  a riguar- 
dare fra  loro  quello  che  fusse  più  ro- 
busto c di  maggiore  cuore,  c fecionlo 
come  capo,  e lo  obedivano.  Da  questo 
nacque  la  cognizione  delle  cose  oneste 
e buone,  differenti  dalle  perniziose  e 
ree:  perchè,  veggendo  che  se  uno  no- 
I*  ceva  al  suo  benefattore,  ne  veniva  odio 
e compassione  intra  gli  uomini,  biasi- 
mando li  ingrati  ed  onorando  quelli  che 
fusscro  grati,  e pensando  ancora  che 
quelle  medesime  ingiurie  potevano  esser 
fatte  a loro;  per  fuggire  simile  male,  si 
riducevano  a fare  leggi,  ordinare  puni- 
zioni a chi  contea  facesse:  donde  venne 
la  cognizione  della  giustizia.  La  qual 
cosa  faceva  che  avendo  dipoi  ad  eleg- 
gere un  principe,  non  andavano  dietro 
al  più  gagliardo,  ma  a quello  che  fussi 
più  prudente  c più  giusto.  Ala  come  di- 
poi si  cominciò  a fare  il  principe  per 


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LIBRO  PRIMO.  23 

successione,  e non  pei*  elezione,  subito 
cominciorno  li  eredi  a degenerare  dai 
loro  antichi  ; e lasciando  1’  opere  vir- 
tuose, pensavano  che  i principi  non 
avessero  a fare  altro  clic  superare  li  altri 
di  sontuosità  e di  lascivia  c d’  ogni  altra' 
qualità  deliziosa:  in  modo  che,  comin- 
ciando il  principe  ad  essere  odialo,  e 
per  tale  odio  a temere,  e passando  to- 
sto dal  timore  all’  offese,  ne  nasceva 
presto  una  tirannide.  Da  questo  nacquero 
appresso  i principi»  delle  rovine,  c delle 
conspirazioni  e congiure  contea  i prin- 
cipi; non  fatte  da  coloro  clic  fussero  o 
timidi  o deboli,  ma  da  coloro  che  per 
genei'osità,  grandezza  d’  animo,  ricchezza 
e nobiltà,  avanzavano  gli  altri;  i quali 
non  potevano  sopportare  la  inonesta  vita 
di  quel  principe.  La  moltitudine,  adun- 
que, seguendo  l’ autorità  di  questi  po- 
tenti, si  armava  contra  al  principe,  c 
quello  spento,  ubbidiva  loro  come  a suoi 
liberatori.  E quelli,  avendo  in  odio  il 
nome  d’  uno  solo  capo,  constituivano  di 


u 


DEI  DISCORSI 


loro  medesimi  un  governo;  e nel  piin- 
cipio,  avendo  rispetto  alla  passata  tirati- 
nide,  si  governavano  secondo  le  leggi 
ordinate  da  loro,  posponendo  ogni  loro 
comodo  alla  comune  utilità  ; e le  cose 
private  e le  pubbliche  con  somma  dili- 
genzia  governavano  c conservavano.  Ve- 
nuta  dipoi  questa  amministrazione  ai 
loro  figliuoli,  i quali,  non  conoscendo  la 
variazione  della  fortuna,  non  avendo 
mai  provato  il  male,  e non  volendo  stare 
contenti  alla  civile  equalità,  ma  rivoltisi 
alla  avarizia,  alla  ambizione,  alla  usur- 
pazione delle  donne,  feciono  clic  d’  uno 
governo  d’  Ottimati  diventassi  un  go- 
verno di  pochi,  senza  avere  rispetto  ad 
alcuna  civiltà  : tal  che  in  breve  tempo 
intervenne  loro  come  al  tiranno;  perchè 
infastidita  da’  loro  governi  la  moltitu- 
dine, si  fe  ministra  di  qualunque  dise- 
gnassi in  alcun  modo  offendere  quelli 
governatori;  e cosi  si  levò  presto  al- 
cuno che,  con  I’  aiuto  della  moltitudine, 
li  spense.  Ed  essendo  ancora  fresca  la 


LIBRO  PRIMO.  25 

memoria  del  principe  e delle  ingiurie 
ricevute  da  quello,  avendo  disfatto  lo 
Stato  de’  pochi  e non  volendo  rifare  quel 
del  principe,  si  volsero  allo  Stato  popo- 
lare; c quello  ordinarono  in  modo,  che 
nè  i pochi  potenti,  nè  uno  principe  vi 
avesse  alcuna  autorità.  E perchè  tutti 
gli  Stali  nel  principio  hanno  qualche  re- 
verenza, si  mantenne  questo  Stato  po- 
polare un  poco,  ma  non  molto,  massi- 
me spenta  che  fu  quella  generazione  che 
l’aveva  ordinato;  perchè  subito  si  ven- 
ne alla  licenzia,  dove  non  si  temevano 
nè  li  uomini  privati  nè  i pubblici;  di 
qualità  che,  vivendo  ciascuno  a suo  modo, 
si  facevano  ogni  di  mille  ingiurie:  tal- 
ché, costretti  per  necessità,  o per  sug 
gestione  d’ alcuno  buono  uomo,  o per 
fuggire  tale  licenzia,  si  ritorna  di  nuovo 
al  principato;  e da  quello,  di  grado  in 
grado,  si  riviene  verso  la  licenzia,  nei 
modi  e per  le  cagioni  dette.  E questo  è 
il  cerchio  nel  quale  girando  tutte  le  re- 
pubbliche si  sono  governate,  e si  go- 


tifi  OKI  DISCORSI 

vernano:  ina  rade  volte  ritornano  nei 
governi  medesimi;  perchè  quasi  nes- 
suna repubblica  può  essere  di  tanta  vita, 
che  possa  passare  molle  volte  per  que- 
ste mutazioni,  c rimanere  in  piede.  Ma 
bene  interviene  che,  nel  travagliare,  una 
repubblica,  mancandoli  sempre  consiglio 
e forze,  diventa  suddita  d'uno  Stato  pro- 
pinquo, clic  sia  meglio  ordinato  di  lei  : 
ina  dato  che  questo  non  fusse,  sarebbe 
atta  una  repubblica  a rigirarsi  infinito 
tempo  in  questi  governi.  Dico,  adunque, 
che  lutti  i detti  modi  sono  pestiferi,  per 
la  brevità  della  vita  che  è ne’  tre  buoni, 
e per  la  malignità  che  è ne*  tre  rei.  Tal- 
ché, avendo  quelli  che  prudentemente 
ordinano  leggi  conosciuto  questo  difetto, 
fuggendo  ciascuno  di  questi  modi  per 
se  stesso,  n’  elessero  uno  che  partiei- 
passe  di  lutti,  giudicandolo  più  fermo  e 
più  stabile  ; perchè  l’  uno  guarda  l’altro, 
scudo  in  una  medesima  città  il  Princi- 
pato, li  Ottimati  ed  il  Governo  Popo- 
lare. Infra  quelli  che  hanno  per  simili 


LIBRO  PRIMO.  27 

constituzioni  meritato  più  laude,  è Li- 
curgo; il  quale  ordinò  in  modo  le  sue 
leggi  in  Sparta,  che  dando  le  parti  sue 
ai  He,  agli  Ottimali  e al  Popolo,  fece 
uno  Stato  che  durò  più  che  ottocento 
anni,  con  somma  laude  sua,  e quiete  di 
quella  città.  Al  contrario  intervenne  a 
Solone,  il  quale  ordinò  le  leggi  in  Atene 
che  per  ordinarvi  solo  lo  Stato  popolare 
lo  fece  di  sì  breve  vita,  che  avanti  mo- 
risse vi  vide  nata  la  tirannide  di  Pisi- 
strato:  e benché  dipoi  anni  quaranta 
ne  fusscro  cacciati  gli  suoi  eredi,  c ri- 
tornasse Atene  in  libertà,  perchè  la  ri- 
prese lo  Stato  popolare,  secondo  gli  or- 
dini di  Solone;  non  lo  tenne  più  clic 
cento  anni,  ancora  che  per  mante- 
nerlo facesse  molte  constituzioni,  per 
le  quali  si  reprimeva  la  iusolenzia 
grandi  c la  licenzia  dell’  universale,  le 
quali  non  furou  da  Solonc  considerate 
nientedimeno,  perchè  la  non  le  mescolò 
con  la  potenzia  del  Principato  e con 
quella  dclli  Ottimali,  visse  Atene, 


« 


28 


DEI  DISCORSI 


spetto  di  Sparla,  brevissimo  tempo.  Ria 
vegniamo  a Roma  ; la  quale  nonostante 
che  non  avesse  uno  Licurgo  che  la  ordi- 
nasse in  modo,  ilei  principio,  che  la  po- 
tesse vivere  lungo  tempo  libera,  nondi- 
meno furon  tanti  gli  accidenti  che  in 
quella  nacquero,  per  la  disunione  che 
era  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che 
quello  che  non  aveva  fatto  uno  ordina- 
tore, lo  fece  il  caso.  Perchè,  se  Roma 
non  sortì  la  prima  fortuna,  sortì  la  se- 
conda; perchè  i primi  ordini  se  furono 
defettivi,  nondimeno  non  deviarono  dalla 
diritta  via  che  li  potesse  condurre  alla 
perfezione.  Perchè  Romolo  e tutti  gli  al- 
tri Re  fecero  molte  e buone  leggi,  con- 
formi ancora  al  vivere  libero:  ma  perchè 
il  fine  loro  fu  fondare  un  regno  e non 
una  repubblica,  quando  quella  città  ri- 
mase libera,  vi  mancavano  molte  cose 
che  era  necessario  ordinare  in  favore 
della  libertà,  le  quali  non  erano  state 
da  quelli  Re  ordinate.  E avvengachè 
quelli  suoi  Re  perdessero  V imperio  per 


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LIBRO  PRIMO.  29 

le  cagioni  e modi  discorsi;  nondimeno 
quelli  clic  li  cacciarono,  ordinandovi  su- 
bito duoi  Consoli,  che  stessino  nel  luogo 
del  Re,  vennero  a cacciare  di  Roma  il 
nome,  e non  la  potestà  regia:  talché, 
essendo  in  quella  Repubblica  i Consoli 
ed  il  Senato,  veniva  solo  ad  esser  mista 
di  due  qualità  delle  tre  soprascritte: 
cioè  di  Principato  e di  Ottimali.  Resta- 
vali  solo  a dare  luogo  al  Governo  Popo- 
lare: onde,  essendo  diventatala  Nobiltà 
romana  insolente  per  le  cagioni  che  di 
sotto  si  diranno,  si  levò  il  Popolo  con- 
tro di  quella  ; talché,  per  non  perdere 
il  tutto,  fu  costretta  concedere  al  Popolo 
la  sua  parte;  e,  dall’altra  parte,  il  Se- 
nato e i Consoli  restassino  con  tanta 
autorità,  che  potcssino  tenere  in  quella 
Repubblica  il  grado  loro.  E cosi  nacque 
la  creazione  de’  Tribuni  della  plebe  ; dopo 
la  quale  creazione  venne  a essere  più 
stabilito  lo  stato  di  quella  Repubblica, 
avendovi  tutte  le  tre  qualità  di  governo 
la  parte  sua.  E tanto  li  fu  favorevole  la 


DE!  DISCORSI 


30 

fortuna,  che  benché  si  passasse  dal  go- 
verno de’ Re  e delli  Ottimati  al  Popolo, 
per  quelli  medesimi  gradi  e per  quelle 
medesime  cagioni  che  di  sopra  si  sono 
discorse  : nondimeno  non  si  tolse  mai, 
per  dare  autorità  alli  Ottimati,  tutta 
l’autorità  alle  qualità  regie;  nè  si  dimi- 
nuì l’autorità  in  tutto  alli  Ottimati,  per 
darla  al  Popolo;  ina  rimanendo  mista, 
fece  una  repubblica  perfetta  : alla  quale 
perfezione  venne  per  la  disunione  della 
Plebe  e del  Senato,  come  nei  duoi  pros- 
simi seguenti  capitoli  largamente  si  di- 
mostrerà. 

C.aP.  III.  — Quali  accidenti  facessino 

creare  in  Roma  i Tribuni  della  plebe ; 

il  che  fece  la  Repubblica  più  perfetta. 

Come  dimostrano  lutti  coloro  che  ra- 
gionano del  vivere  civile,  e come  ne  è 
piena  di  esempi  ogni  istoria,  è necessa- 
rio a chi  dispone  una  repubblica,  ed 
ordina  leggi  in  quella,  presupporre  tutti 


LIBRO  PRIMO.  31 

gli  uomini  essere  cattivi,  e clic  li  abbino 
sempre  od  usure  la  malignità  dello  ani- 
mo loro,  qualunchc  volta  ne  abbino  li- 
bera occasione:  e quando  alcuna  mali- 
gnità sta  occulta  un  tempo,  procede  da 
una  occulta  cagione,  ebe,  per  non  si  es- 
sere veduta  esperienza  del  contrario, 
non  si  conosce;  ma  la  fa  poi  scoprire 
il  tempo,  il  quale  dicono  essere  padre 
d’ogni  verità.  Pareva  clic  fusse  in  Roma 
intra  la  Plebe  cd  il  Senato,  cacciati  i 
Tarquiili,  una  unione  grandissima;  e 
che  i Nobili,  avessino  deposta  quella  loro 
superbia,  c russino  diventati  d'animo 
popolare,  c sopportabili  da  qualuncbc, 
ancora  ebe  infimo.  Stette  nascoso  que- 
sto inganno,  nè  se  ne  vide  la  cagione, 
infino  ebe  i Tarquini  vissono;  de’ quali 
temendo  la  Nobiltà,  ed  avendo  paura 
che  la  Plebe  mal  trattata  non  si  acco- 
stasse loro,  si  portava  umanamente  con 
quella:  ma  come  prima  furono  morti  i 
Tarquini,  e die  a’ Nobili  fu  la  paura 
fuggita,  cominciarono  a sputare  contro 


32 


DEI  DISCORSI 


r 


Olla  Plebe  quel  veleno  che  si  avevàno 
tenuto  nel  petto,  ed  in  tutti  i modi  che 
potevano  la  offendevano:  la  qual  cosa  fa 
testimonianza  a quello  che  di  sopra  ho 
detto,  che  gli  uomini  non  operano  mai 
nulla  bene,  se  non  per  necessità;  ma 
dove  la  elezione  abbonda,  e che  vi  si 
può  usare  licenzia,  si  riempie  subito  ogni 
cosa  di  confusione  e di  disordine.  Però  si 
dice  che  la  fame  e la  povertà  fu  gli  uo- 
mini industriosi,  e le  leggi  gli  fanno 
buoni.  E dove  una  cosa  per  sè  medesima 
senza  la  legge  opera  bene,  non  è neces- 
saria la  legge;  ma  quando  quella  buona 
consuetudine  manca,  è subito  la  legge 
necessaria.  Però,  mancati  i Tarqnini, 
che  con  la  paura  di  loro  tenevano  la 
Nobiltà  a freno,  convenne  pensare  a uno 
nuovo  ordine  ehe  facessi  quel  medesimo 
effetto  che  facevano  i Tarquini  quando 
erano  vivi.  E però,  dopo  molte  confu- 
sioni, romori  e pericoli  di  scandali,  che 
nacquero  intra  la  Plebe  c la  Nobiltà,  si 
venne  per  sicurtà  della  Plebe  alla  crea- 


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unno  primo.  3 3 

zionc  ile* Tribuni  ; e quelli  ordinarono 
con  laute  preminenze  e tanta  riputa- 
zione, che  potcssino  essere  sempre  di 
poi  mezzi  intra  la  Plebe  e il  Senato,  e 
ovviare  alla  insolenzia  de’ Nobili. 


€ap.  IV.  — Che  la  disunione  della  Plebe 
c del  Senato  romano  fece  libera  e 
polente  quella  Repubblica. 

H0U  njt  fil  ùi  òVvil  tf,  ; il  "iit* 

lo  non  voglio  mancare  di  discorrere 

sopra  questi  tumulti  che  furono  in  Ro- 
ma dalla  morte  de’ Tarquini  alla  crea- 
zione de’  Tribuni;  e di  poi  alcune  cose 
contro  la  oppinionc  di  molti  clic  dicono. 
Roma  esser  stata  una  repubblica  tumul- 
tuaria, e piena  di  tanta  confusione,  clic 
se  la  buona  fortuna  c la  virtù  militare 
non  avesse  supplito  a’  loro  difetti,  sa- 
rebbe stata  inferiore  ad  ogni  altra  re- 
pubblica. Io  non  posso  negare  che  la 
fortuna  e la  milizia  non  fussero  cagioni 
dell’imperio  romano;  ma  e’ mi  pare 
bene,  che  costoro  non  si  avvegghino, 
Macuutelii,  Discorsi.— 1.  3 


34 


dei  nisconsi 


clic  dove  è buona  milizia,  conviene  clic 
sia  buono  ordine,  e rade  volte  anco  oc- 
corre clic  non  vi  sia  buona  fortuna.  Ma 
vegniamo  all i altri  particolari  di  quella 
città.  Io  dico  clic  coloro  clic  dannano  i 
tumulti  intra  i Nobili  c la  Plebe,  mi 
pare  clic  biasimino  quelle  cose  che  fu- 
rono prima  cagione  di  tenere  libera  Ro- 
ma ; c clic  considerino  più  a’  romori  ed 
alle  grida  clic  di  tali  tumulti  nascevano, 
che  a’ buoni  effetti  clic  quelli  partori- 
vano: e che  non  considerino  come  ei 
sono  in  ogni  repubblica  duoi  umori  di- 
versi, quello  del  popolo,  c quello  dei 
grandi  ; c come  tutte  le  leggi  che  si  fanno 
in  favore  delia  libertà,  nascono  dalla 
disunione  loro,  come  facilmente  si  può 
vedere  essere  seguito  in  Roma:  perchè 
da’Tarquini  ai  Gracchi,  che  furono  più 
di  trecento  anni,  i tumulti  di  Roma  rade 
volte  partorivano  esilio,  radissime  san- 
gue. Nè  si  possono,  per  tanto,  giudicare 
questi  tumulti  nocivi,  nè  una  repubblica 
divisa,  che  in  tanto  tempo  per  le  sue 


Lineo  pr. imo.  35 

differenze  non  mondò  in  esilio  più  che 
otto  o dieci  cittadini,  e ne  ammazzò  po- 
chissimi, e non  molti  ancora  condennò 
in  danari.  Nè  si  può  chiamare  in  alcun 
modo,  con  ragione,  una  repubblica  inor- 
dinata, dove  siano  tanti  esempi  di  virtù; 
perchè  li  buoni  esempi  nascono  dalla 
buona  educazione;  la  buona  educazione 
dalle  buone  leggi  ; e le  buone  leggi  da 
quelli  tumulti  che  molti  inconsiderata- 
mente dannano:  perchè  chi  esaminerò 
bene  il  fine  d’essi,  non  troverà  ch’egli 
abbino  partorito  alcuno  esilio  o violenza 
in  disfavore  del  comune  bene,  ma  leggi 
ed  ordini  in  benefizio  della  pubblica  li- 
bertà. E se  alcuno  dicesse  : i modi  erano 
straordinari,  e quasi  efferati,  vedere  il 
Popolo  insieme  gridare  contro  il  Senato, 
il  Senato  contra  il  Popolo,  correre  tu- 
multuariamente per  le  strade,  serrare  le 
botteghe,  partirsi  tutta  la  Plebe  di  Ro- 
ma. le  quali  tutte  cose  spaventano,  non 
clic  altro,  chi  legge;  dico  come  ogni 
città  debbe  avere  i suoi  modi,  con  i 


DEI  DISCORSI 


36 

quali  il  popolo  possa  sfogare  l’ambi- 
zione sua,  e massime  quelle  ciltadi  che 
uelle  cose  importanti  si  vogliono  va- 
lere del  popolo:  intra  le  quali  la  città 
di  Roma  aveva  questo  modo,  che  quan- 
do quel  Popolo  voleva  ottenere  una  leg- 
ge, o e’  faceva  alcuna  delle  predette  co- 
se, o e’  non  voleva  dare  il  nome  per 
andare  alla  guerra,  tanto  che  a placarlo 
bisognava  in  qualche  parte  satisfargli.  E 
i desiderò  de’  popoli  liberi,  rade  volle 
sono  perniziosi  alla  libertà,  perchè  e’na- 
seono  o da  essere  oppressi,  o da  suspi- 
zionc  di  avere  a essere  oppressi.  E quando 
queste  oppinioni  fussero  false,  e’  vi  è il 
rimedio  delle  concioni,  che  sorga  qualche 
uomo  da  bene,  che,  orando,  dimostri 
loro  come  c’  s’  ingannano:  e li  popoli, 
come  dice  Tullio,  benché  siano  igno- 
ranti, sono  capaci  della  verità,  e facil- 
mente cedono,  quando  da  uomo  degno 
di  fede  è detto  loro  il  vero.  Debbesi, 
adunque,  più  parcamente  biasimare  il 
governo  romano,  e considerare  che  tanti 


LIBRO  PRIMO. 

buoni  effetti  quanti  uscivano  di  quella 
repubblica,  non  erano  causati  se  non  da 
ottime  cagioni.  E se  i tumulti  furono  ca- 
gione della  creazione  dei  Tribuni,  meri- 
tano somma  laude;  perchè,  oltre  al  dare 
la  parte  sua  all’ amministrazione  popo- 
lare, furono  constituiti  per  guardia  della 
libertà  romana,  come  nel  seguente  ca- 
pitolo si  mostrerà. 

'•  •"  [ *»  » . ì t % l * , * ) 

C\p.  V.  — Dove  più  sccurnmentc  si  pon- 
ga la  guardia  della  libertà , o nel 

Popolo  o ne * Grandi  ; c c/uali  hanno 
maggior  cagione  di  tumultuare , o chi 
vuole  acquistare  o chi  vuole  mantenere. 

~~  • ìr>7 1 

Quelli  clic  prudentemente  hanno  con- 

stituita  una  repubblica,  intra  le  più 

necessarie  cose  ordinate  da  loro,  è stato 
constituire  una  guardia  alla  liberta:  e 
secondo  che  questa  è bene  collocala, 
dura  più  o meno  quel  vivere  libero.  E 
perché  in  ogni  repubblica  sono  uomin 
grandi  e popolari,  si  è dubitato  nelle 


38 


DEI  DISCORSI 


mani  di  quali  sia  meglio  collocata  detta 
guardia.  Ed  appresso  i Lacedemoni,  c, 
ne’  nostri  tempi,  appresso  de’  Viniziani, 
la  è stata  messa  nelle  mani  de’  Nobili  ; 
ma  appresso  de’ Romani  fu  messa  nelle 
mani  della  Plebe.  Per  tanto,  è necessa- 
rio esaminare,  quale  di  queste  repub- 
bliche avesse  migliore  elezione.  E se  si 
andassi  dietro  alle  ragioni,  ci  è che 
dire  da  ogni  pajte:  ma  se  si  esaminassi 
il  fine  loro,  si  piglierebbe  la  parte 
de’  Nobili,  per  aver  avuta  la  libertà  di 
Sparla  c di  Vinegia  più  lunga  vita  che 
quella  di  Roma.  E venendo  alle  ragio- 
ni, dico,  pigliando  prima  la  parte  de’  Ro- 
mani, come  e’  si  debbe  mettere  in  guar- 
dia coloro  d’  una  cosa,  che  hanno  meno 
appetito  di  usurparla.  E senza  dubbio, 
se  si  considera  il  fine  de’  nobili  e deili 
ignobili,  si  vedrà  in  quelli  desiderio 
grande  di  dominare,  cd  in  questi  solo 
desiderio  di  non  essere  dominati;  e,  per 
conseguente,  maggiore  volontà  di  vivere 
liberi,  potendo  meno  sperare  d’ usur- 


unno  primo.  30 

parla  che  non  possono  li  granili:  tal- 
ché, essendo  i popolani  preposti  a guar- 
dia d’ una  libertà,  ò ragionevole  ne 
abbino  più  cura  : e non  la  putendo  occu- 
pare loro,  non  permettino  clic  altri  la 
occupi.  Dall’  altra  parte,  chi  difende 
l’ordine  sparlano  e veneto,  dice  clic 
coloro  che  mettono  la  guardia  in  inano 
de’  potenti,  fanno  due  opere  buone: 
I’  una,  che  satisfanno  più  all’  ambizione 
di  coloro  che  avendo  più  parte  nella 
repubblica,  per  avere  questo  bastone  in 
mano,  hanno  cagione  di  contentarsi  più; 
I’  altra,  clic  bevano  una  qualità  di  au- 
torità dagli  animi  inquieti  della  plebe, 
che  è cagione  d’ infinite  dissensioni  e 
scandali  in  una  repubblica,  e alta  a ri- 
durre la  nobiltà  a qualche  disperazio- 
ne, che  col  tempo  faccia  cattivi  eliciti. 
E ne  danno  per  esempio  la  medesima 
Roma,  che  per  avere  i Tribuni  della 
plebe  questa  autorità  nelle  mani,  non 
bastò  loro  aver  un  Consolo  plcbeio,  che 
gli  vollono  avere  ambedue.  Da  questo, 


40 


DEI  DISCORSI 


c*  voltano  la  Censura,  il  Pretore,  e tutti 
li  altri  gradi  dell’imperio  della  città: 
nè  bastò  loro  questo,  chè,  menati  dal 
medesimo  furore,  cominciorno  poi,  col 
tempo,  a adorare  quelli  uomini  che  ve- 
devano atti  a battere  la  Nobiltà  ; donde 
nacque  la  potenza  di  Alarlo,  e la  rovina 
di  Roma.  E veramente,  chi  discorresse 
bene  I’  una  cosa  c l’ altra,  potrebbe 
stare  dubbio,  quale  da  lui  fusse  eletto 
per  guardia  tale  di  libertà,  non  sapen- 
do quale  qualità  d’  uomini  sia  più  no- 
civa in  una  repubblica,  o quella  ohe 
desidera  acquistare  quello  che  non  ha, 
‘ o quella  che  desidera  mantenere  V ono- 
re già  acquistato.  Ed  in  fine,  chi  sot- 
tilmente esaminerà  tutto,  ne  farà  que- 
sta conclusione:  o tu  ragioni  d’  una 
repubblica  che  vogli  fare  uno  imperio, 
come  Roma  ; o d’  una  che  li  basti  man- 
tenersi. Nel  primo  caso,  gli  è necessa- 
rio fare  ogni  cosa  come  Roma;  nel  se- 
condo, può  imitare  Yinegia  e Sparta 
per  quelle  cagioni,  e come  nel  seguente 


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LIBRO  PRIMO.  41 

capitolo  si  dirà.  .Ma,  per  tornare  a di- 
scorrere quali  uomini  siano  in  una  re- 
pubblica piu  nocivi,  o quelli  clic  desi- 
derano d’acquistare,  o quelli  clic  te- 
mono di  perdere  lo  acquistato;  dico 
die,  scudo  fatto  Marco  Meiiennio  ditta- 
tore, e Marco  Fulvio  maestro  de’ caval- 
li, tutti  duoi  plebei,  per  ricercare  certe 
congiure  clic  si  erano  falle  in  Capova 
conlro  a Roma,  fu  dato  ancora  loro  au- 
torità dal  Popolo  di  poter  ricercare  chi 
in  Roma  per  ambizione  e modi  straor- 
dinari s’  ingegnasse  di  venire  al  con- 
solato, ed  agli  altri  onori  della  città.  E 
parendo  alla  Nobiltà,  che  tale  autorità 
fusse  data  al  Dittatore  contro  a lei, 
sparsero  per  Roma,  clic  non  i nobili 
erano  quelli  che  cercavano  gli  onori 
per  ambizione  e modi  straordinari,  ma 
gl’  ignobili,  i quali,  non  confidatisi  nel 
sangue  e nella  virtù  loro,  cercavano  per 
vie  straordinarie  venire  a quelli  gradi; 
e particolarmente  accusavano  il  Ditta- 
tore. E tanto  fu  potente  questa  accusa, 


4“2 


DEI  DISCORSI 


che  Mencnnio,  fatta  una  conclone  c do- 
lutosi deite  calunnie  dategli  da*  Nobili, 
depose  la  dittatura,  e sottomessesi  ai 
giudizio  che  di  lui  fussi  fatto  dal  Po* 
polo;  c dipoi,  agitala  la  causa  sua,  ne 
fu  assoluto:  dove  si  disputò  assai,  quale 
sia  più  ambizioso,  o quel  che  vuole 
mantenere  o quel  che  vuole  acquistare; 
perchè  facilmente  1*  uno  e V altro  ap- 
petito può  essere  cagione  di  tumulti 
grandissimi.  Pur  nondimeno,  il  più  delle 
volte  sono  causali  da  chi  possiede,  per- 
chè la  paura  del  perdere  genera  in  loro 
le  medesime  voglie  che  sono  in  quelli 
che  desiderano  acquistare;  perchè  non 
pare  agli  uomini  possedere  sicuramente 
quello  clic  P uomo  ha,  se  non  si  acqui- 
sta di  nuovo  dell’  altro.  E di  più  vi  è, 
che  possedendo  molto,  possono  con  mag- 
gior potenzia  c maggiore  moto  fare  al- 
terazione. Ed  ancora  vi  è di  più,  che 
li  loro  scorretti  e ambiziosi  portamenti 
accendono  ne’  petti  di  chi  non  possiede 
voglia  di  possedere,  o per  vendicarsi 


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LIBRO  PRIMO.  43 


contro  di  loro  spogliandoli,  o per  po- 
tere ancora  loro  entrare  in  quella  ric- 
chezza c in  quelli  onori  clic  veggono 
essere  male  usati  dagli  altri. 

Cap.  VI.  — Se  in  1 ionia  si  poteva  ordi- 
nare uno  stalo  che  togliesse  via  le 
inimicizie  intra  il  Popolo  ed  il  Senato. 

Noi  abbiamo  discorsi  di  sopra  gli  ef- 
fetti che  facevano  le  controversie  intra 
il  Popolo  ed  il  Senato.  Ora,  sendo  quelle 
seguitate  in  fino  al  tempo  de’ Gracchi, 
dove  furono  cagione  della  rovina  del  vi- 
vere libero,  potrebbe  alcuno  desiderare 
che  Roma  avesse  fatti  gli  effetti  grandi  che 
la  fece,  senza  che  in  quella  fussino  tali 
inimicizie.  Però  mi  è parso  cosa  degna  di 
considerazione,  vedere  se  in  Roma  si  po- 
teva ordinare  uno  stato  che  togliesse  via 
dette  controversie.  Ed  a volere  esaminare 
questo,  è necessario  ricorrere  a quelle 
repubbliche  le  quali  senza  tante  inimi- 
cizie c tumulti  sono  state  lungamente  li- 


il 


DEI  DISCORSI 


bere,  e vedere  quale  stato  era  il  loro,  e 
se  si  poteva  introdurre  in  Roma.  In 
esempio  tra  lì  antichi  ci  è Sparta,  tra 
i moderni  Yinegia,  state  da  me  di  sopra 
uominate.  Sparla  fece  uno  Re,  con  un 
picciolo  Senato,  che  la  governasse.  Vi- 
negia  non  ha  diviso  il  governo  con  i 
nomi  ; ma,  sotto  una  appellazione,  lutti 
quelli  che  possono  avere  amministra- 
zione si  chiamano  Gentiluomini.  Il  quale 
modo  lo  dette  il  caso,  più  che  la  pru- 
denza di  elùdette  loro  le  leggi:  perchè, 
sendosi  ridotti  in  su  quegli  scogli  dove 
è ora  quella  città,  per  le  cagioni  dette 
di  sopra,  molti  abitatori;  come  furon 
cresciuti  in  tanto  numero,  che  a volere 
vivere  insieme  bisognasse  loro  far  leggi, 
ordinorono  una  forma  di  governo;  c 
convenendo  spesso  insieme  ne’  consigli  a 
deliberare  della  città,  quando  parve  loro 
essere  tanti  che  fussero  a sufficienza  ad 
un  vivere  politico,  chiusono  la  via  a tutti 
quelli  altri  che  vi  venissino  ad  abitare 
di  nuovo,  di  potere  convenire  ne’ loro 


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LIBRO  PRIMO. 

governi:  e,  col  tempo,  trovandosi  in 
quel  luogo  assai  abitatori  fuori  del  go- 
verno, per  dare  riputazione  a quelli  clic 
governavano,  gli  chiamarono  Gentiluo- 
mini, e gli  altri  Popolani.  Potette  questo 
modo  nascere  e mantenersi  senza  tu- 
multo, perchè  quando  e’  nacque,  qua- 
lunque allora  abitava  in  Vinegia  fu  fatto 
del  governo,  di  modo  che  nessuno  si  po- 
teva dolere;  quelli  che.  dipoi  vi  vennero 
ad  abitare,  trovando  lo  Stato  fermo  c 
terminato,  non  avevano  cagione  nè  co- 
modità di  fare  tumulto.  La  cagione  non 
y*  era,  perchè  non  era  stato  loro  tolto 
cosa  alcuna:  la  comodità  non  v’era, 
perché  chi  reggeva  gli  teneva  in  freno, 
c non  gli  adoperava  in  cose  dove  e’ po- 
tessino  pigliare  autorità.  Oltre  di  que- 
sto, quelli  che  dipoi  vennono  ad  abitare 
Vinegia,  non  sono  stali  molli,  c di  tanto 
numero,  che  vi  sia  disproporzione  da 
chi  gli  governa  a loro  che  sono  gover- 
nati; perchè  il  numero  de’ Gentiluomini 
o egli  è eguale  a loro,  o egli  è supe- 


f- 


46 


DEI  DISCORSI 


riore:  sicché,  per  queste  cagioni,  Vine- 
gia  potette  ordinare  quello  Stalo,  e man- 
tenerlo unito.  Sparta,  come  ho  detto,  es- 
sendo governata  da  un  Re  c da  una 
stretto  Senato,  potette  mantenersi  così 
lungo  tempo,  perchè  essendo  in  Sparta 
pochi  abitatori,  ed  avendo  tolta  la  via 
n chi  vi  venisse  ad  abitare,  ed  avendo 
prese  le  leggi  di  Licurgo  con  repu- 
tazione, le  quali  osservando,  levavano 
via  tutte  le  cagioni  de’  tumulti,  po- 
terono vivere  uniti  lungo  tempo:  perchè 
Licurgo  con  le  sue  leggi  fece  in  Sparta 
più  cqualità  di  sustanze,  e meno  equa- 
lità  di  grado;  perchè  quivi  era  una 
eguale  povertà,  ed  i plebei  erano  manco 
ambiziosi,  perchè  i gradi  della  città  si 
distendevano  in  pochi  cittadini,  ed  erano 
tenuti  discosto  dalla  plebe,  uè  gli  nobili 
col  trattargli  male  dettero  mai  loro  de- 
siderio di  avergli.  Questo  nacque  dai  Re 
spartani,  i quali  essendo  collocati  in 
quel  principato  e posti  in  mezzo  di 
quella  nobiltà,  non  avevano  maggiore  ri- 


LIBRO  PRIMO.  47 

medio  a tenere  fermo  la  loro  degnità, 
ehc  tenere  la  plebe  difesa  da  ogni  in- 
giuria : il  che  faceva  che  la  plebe  non 
temeva,  c non  desiderava  imperio  ; e non 
avendo  imperio  nè  temendo,  era  levata 
via  la  gara  che  la  potessi  avere  con  !u 
nobiltà,  c la  cagione  de’ tumulti;  e po- 
terono vivere  uniti  lungo  tempo.  Ma  due 
cose  principali  causarono  questa  unione: 
T una  esser  pochi  gli  abitatori  di  Sparta, 
e per  questo  poterono  esser  governati 
da  pochi;  l’altra,  che  non  accettando 
forestieri  nella  loro  repubblica,  non  ave- 
vano occasione  nè  di  corrompersi,  nè  di 
crescere  in  tanto  che  la  fusse  insoppor- 
tabile a quelli  pochi  che  la  governavano. 
Considerando,  adunque,  tutte  queste  cose , 
si  vede  come  a’ legislatori  di  Roma  era 
necessario  fare  una  delle  due  cose,  a vo- 
lere che  Roma  stessi  quieta  come  le  so- 
praddette repubbliche:  o non  adoperare 
la  plebe  in  guerra,  corne  i Viniziani;o 
non  aprire  la  via  a’ forestieri,  come  gli 
Spartani.  E loro  feceno  1’una  e l’altra; 


|MH[ 


48 


DEI  DISCOBSI 


il  che  dette  alla  plebe  forza  ed  augu- 
mento,  ed  infinite  occasioni  di  tumul- 
tuare. E se  lo  stato  romano  veniva  ad 
essere  più  quieto,  ne  seguiva  questo  in- 
conveniente, ch’egli  era  anco  più  debile, 
perchè  gli  si  troncava  la  via  di  potere 
venire  a quella  grandezza  dove  ei  per- 
venne: in  modo  che  volendo  Roma  le- 
vare le  cagioni  de’  tumulti,  levava  anco 
le  cagioni  dello  ampliare.  Ed  in  tutte  le 
cose  umane  si  vede  questo,  chi  le  esa- 
minerà bene:  che  non  si  può  mai  can- 
cellare uno  inconveniente,  che  non  ne 
surga  un  altro.  Per  tanto,  se  tu  vuoi 
fare  un  popolo  numeroso  ed  armato  per 
potere  fare  un  grande  imperio,  lo  fai 
di  qualità  che  tu  non  lo  puoi  poi  ma- 
neggiare a tuo  modo:  se  tu  lo  mantieni 
o piccolo  o disarmato  per  potere  ma- 
neggiarlo, se  egli  acquista  dominio,  non 
lo  puoi  tenere,  o diventa  sì  vile,  che  tu 
sei  preda  di  quaiunche  ti  assalta.  E però, 
in  ogni  nostra  deliberazione  si  debbe 
considerare  dove  sono  meno  inconve- 


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LIBRO  PniMO. 


49 


nienti,  c pigliare  quello  per  migliore 
partito:  perchè  tutto  netto,  tutto  senza 
sospetto  non  si  trova  mai.  Poteva,  adun- 
que, Roma  a similitudine  di  Sparta  fare 
un  Principe  a vita,  fare  un  Senato  pic- 
colo; ma  non  poteva,  come  quella,  non 
crescere  il  numero  de’  cittadini  suoi,  vo- 
lendo fare  un  grande  imperio;  il  che 
faceva  che  il-  Re  a vita  ed  il  picciol  nu- 
mero del  Senato,  quanto  alla  unione,  gli 
sarebbe  giovato  poco.  Se  alcuno  volesse, 
per  tanto,  ordinare  una  repubblica  di 
nuovo,  arebbe  a esaminare  se  volesse 
ch’ella  ampliasse,  come  Roma,  di  domi- 
nio e di  potenza,  ovvero  ch’ella  stesse 
dentro  a brevi  termini.  Nel  primo  caso, 
è necessario  ordinarla  come  Roma,  e 
dare  luogo  a’ tumulti  e alle  dissensioni 
universali,  il  meglio  che  si  può;  perchè 
senza  gran  numero  di  uomini,  e bene 
armati,  non  mai  una  repubblica  potrà 
crescere,  o se  la  crescerà,  mantenersi. 
Nel  secondo  caso,  la  puoi  ordinare  come 
Sparta  c come  Yinegia:  ma  perchè  l’ani- 
Macbhvelli,  Discorsi.  — 1.  * 


50 


DEI  DISCORSI 


pitale  è il  veleno  di  simili  repubbliche, 
tlebbc,  in  tutti  quelli  modi  che  si  può, 
citi  le  ordina  proibire  loro  lo  acqui' 
stare;  perchè  tali  acquisti  fondati  sopra 
una  repubblica  debole,  sono  al  tutto  la 
rovina  sua.  Come  intervenne  a Sparta 
ed  a Yinegia  : delle  quali  la  prima  aven- 
dosi sottomessa  quasi  tutta  la  Grecia, 
mostrò  in  su  uno  minimo  accidente  il 
debole  fondamento  suo  ; perchè,  seguita 
la  ribellione  di  Tebe,  causata  da  Pelo- 
pitia,  ribellandosi  V altre  cittadi,  rovinò 
al  tutto  quella  repubblica.  Similmente 
Yinegia,  avendo  occupato  gran  parte 
d’Italia,  e la  maggior  parte  non  con 
guerra  ma  con  danari  e con  astuzia, 
come  la  ebbe  a fare  prova  delle  forze 
sue,  perdette  in  una  giornata  ogni  cosa. 
Crederei  bene,  che  a fare  una  repub- 
blica che  durasse  lungo  tempo,  fussi  il 
miglior  modo  ordinarla  dentro  come 
Sparla  o come  Yinegia  ; porla  in  luogo 
forte,  e di  tale  potenza,  che  nessuno  cre- 
desse poterla  subito  opprimere;  e dal- 


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« »» 


LIBRO  PRIMO.  51 

l’altra  parte,  non  fussi  si  grande,  che 
la  fussi  formidabile  a’  vicini  : c così  po- 
trebbe  lungamente  godersi  il  suo  stato. 
Perchè,  per  due  cagioni  si  fa  guerra 
ad  una  repubblica:  Cuna  per  diven- 
tarne signore,  l’altra  per  paura  ch’ella 
non  ti  occupi.  Queste  due  cagioni  il  so- 
praddetto modo  quasi  in  tutto  toglie  via; 
perchè,  se  la  è difficile  ad  espugnarsi, 
come  io  la  presuppongo,  sendo  bene  or- 
dinata alla  difesa,  rade  volte  accadere, 
o non  mai,  che  uno  possa  fare  disegno 
d’ acquistarla.  Se  la  si  starà  intra  i ter- 
mini suoi,  e veggasi  per  esperienza,  che 
in  lei  non  sia  ambizione,  non  occorrerà 
mai  che  uno  per  paura  di  sè  gli  faccia 
guerra  : e tanto  più  sarebbe  questo,  se 
e’  fusse  in  lei  constituzione  o legge  che 
le  proibisse  l’ampliare.  E senza  dubbio 
credo,  clic  polendosi  tenere  la  cosa  bi- 
lanciata in  questo  modo,  che  e’ sarebbe 
il  vero  vivere  politico,  e la  vera  quiete 
di  una  città.  Ma  scudo  tutte  le  cose  de- 
gli uomini  in  moto,  c non  potendo  stare 


52 


DEI  DISCORSI 


salde,  conviene  che  le  saglino  o clic  le 
scendino  ; e a molte  cose  che  la  ragione 
non  t' induce,  t’  induce  lo  necessità:  tal- 
mente che,  avendo  ordinata  una  repub- 
blica atta  a mantenersi  non  ampliando, 
e la  necessità  la  conducesse  ad  ampliare, 
si  verrebbe  a torre  via  i fondamenti 
suoi,  ed  a farla  rovinare  più  presto. 
Così,  dall’altra  parte,  quando  il  Cielo  le 
fusse  si  benigno,  che  la  non  avesse  a 
fare  guerra,  ne  nascerebbe  che  l’olio  la 
farebbe  o effeminata  o divisa;  le  quali 
due  cose  insieme,  o ciascuna  per  sè, 
sorebbono  cagione  della  sua  rovina.  Per- 
tanto, non  si  potendo,  come  io  credo, 
bilanciare  questa  cosa,  nò  mantenere 
questa  via  del  mezzo  a punto  ; bisogna, 
nello  ordinare  la  repubblica,  pensare 
alla  parte  più  onorevole;  ed  ordinaria 
in  modo,  che  quando  pure  la  necessità 
la  inducesse  ad  ampliare,  ella  potesse 
quello  ch’ella  avesse  occupato,  conser- 
vare. E,  per  tornare  al  primo  ragiona- 
mento, credo  che  sia  necessario  seguire 


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LIBRO  PRIMO.  • 53 

l'ordine  romano,  e non  quello  dell’altre 
repubbliche;  perchè  trovare  un  modo, 
mezzo  infra  l’uno  e l’altro,  non  credo 
si  possa:  e quelle  inimicizie  che  intra  il 
popolo  ed  il  senato  nascessino,  tolle- 
rarle, pigliandole  per  uno  inconveniente 
necessario  a pervenire  alla  romana  gran- 
dezza. Perchè,  oltre  all’ altre  ragioni  alle- 
gate dove  si  dimostra  Y autorità  tribun 
zia  essere  stata  necessaria  per  la  guardia 
della  libertà,  si  può  facilmente  consi- 
derare il  benefizio  che  fa  nelle  repub- 
bliche l’autorità  dello  accusare,  la  quale 
era  intra  gli  altri  commessa  a’  Tribuni  ; 
come  nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. 


Gap.  VII.  — Quanto  siano  necessarie  in 
una  repubblica  le  accuse  per  mante- 
nere la  libertà. 


A coloro  che  in  una  città  sono  pre- 
posti per  guardia  della  sua  libertà,  non 
si  può  dare  autorità  più  utile  e neces- 
saria, quanto  è quella  di  potere  acca- 


54 


. DEI  DISCORSI 


sare  i cittadini  ai  popolo,  o a qualun- 
que magistrato  o consiglio,  quando  che 
pcccassino  in  alcuna  cosa  contea  allo 
stato  libero.  Questo  ordine  fa  duoi  ef- 
fetti utilissimi  ad  una  repubblica.  Il 
primo  è che  i cittadini,  per  paura  di 
non  essere  accusati,  non  tentano  cose 
contro  allo  Stato:  e tentandole,  sono  in- 
continente e senza  rispetto  oppressi. 
1/  altro  è che  si  dà  via  onde  sfogare  a 
quelli  umori  che  crescono  nelle  citladi, 
in  qualunque  modo,  contea  a qualun- 
que cittadino:  e quando  questi  umori 
non  hanno  onde  sfogarsi  ordinariamen- 
te, ricorrono  a’  modi  straordinari,  che 
fanno  rovinare  in  tutto  una  repubblica. 
G non  è cosa  che  faccia  tanto  stabile  e 
ferma  una  repubblica,  quanto  ordinare 
quella  in  modo,  che  l’ alterazione  di 
questi  umori  che  la  agitano,  abbia  una 
via  da  sfogarsi  ordinata  dalie  leggi.  Il 
che  si  può  per  molti  esempi  dimostra- 
re, e massime  per  quello  che  adduce 
Tito  Livio  di  Coriolano,  dove  ei  dice, 


LIBRO  PRIMO.  55 

che  essendo  irritala  contro  alla  Plebe 
la  Nobiltà  romana,  per  parerle  che  la 
Plebe  avesse  troppa  autorità  mediante 
la  creazione  de’  Tribuni  che  la  difende- 
vano; ed  essendo  Roma,  come  avviene, 
venuta  in  penuria  grande  di  vettova- 
glie, ed  avendo  il  Senato  mandato  per 
grani  in  Sicilia;  Coriolano,  nimico  alla 
fazione  popolare,  consigliò  come  egli 
era  venuto  il  tempo  da  potere  gasti- 
gare  la  Plebe,  e torte  quella  autorità 
die  ella  si  aveva  acquistata  c in  pre- 
giudizio della  nobiltà  presa,  tenendola 
affamata,  c non  li  distribuendo  il  fru- 
mento; la  qual  sentenza  sendo  venuta 
alii  orecchi  del  Popolo,  venne  in  tanta 
indegnazione  contro  a Coriolano,  che 
allo  uscire  del  Senato  lo  arebbero  tu- 
multuariamente morto,  se  gli  Tribuni 
non  1’  avessero  citato  a comparire  a di- 
fendere la  causa  sua.  Sopra  il  quale 
accidente,  si  nota  quello  che  di  sopra 
si  è detto, #quanto  sia  utile  e necessa- 
rio che  le  repubbliche,  con  le  leggi  loro, 


56 


DEI  DISCORSI 


diano  onde  sfogarsi  oli’  ira  clic  concepc 
la  universalità  contra  a uno  cittadino; 
perchè  quando  questi  modi  ordinari  non 
vi  siano,  si  ricorre  agli  estraordinari; 
c senza  dubbio  questi  fanno  molto  peg- 
giori effetti  che  non  fanno  quelli.  Per- 
chè, se  ordinariamente  uno  cittadino  è 
oppresso,  ancora  che  li  fusse  fatto  tor- 
to, ne  seguita  o poco  o nessuno  disor- 
dine in  la  repubblica:  perchè  la  esecu- 
zione si  fa  senza  forze  private,  e senza 
forze  forestiere,  che  sono  quelle  che 
rovinano  il  vivere  libero;  ma  si  fa  con 
forze  ed  ordini  pubblici,  che  hanno  i 
termini  loro  particolari,  nè  trascendono 
a cosa  che  rovini  la  repubblica.  E quan- 
to a corroborare  questa  oppinione  con 
gli  esempi,  voglio  che  degli  antichi  mi 
basti  questo  di  Coriolano;  sopra  il  quale 
ciascuno  consideri,  quanto  male  saria 
resultato  alla  repubblica  romana,  se 
tumultuariamente  ci  fussi  stato  morto; 
perchè  ne  nasceva  offesa  ila  privati  a 
privati,  la  quale  offesa  genera  paura; 


LIBRO  PRIMO.  57 

la  paura  cerca  difesa;  per  la  difesa  si 
procacciano  i partigiani;  dai  partigiani 
nascono  le  parti  nelle  cittadi;  dalle 
parti  la  rovina  di  quelle.  Ma  sendosi 
governata  la  cosa  mediante  chi  ne  ave- 
va autorità,  si  vennero  a tór  via  tutti 
quelli  mali  che  ne  potevano  nascere  go- 
vernandola con  autorità  privata.  Noi 
avemo  visto  ne’  nostri  tempi,  quale  no- 
vità ha  fatto  alla  repubblica  di  Firenze 
non  potere  la  moltitudine  sfogare  l’ nni- 
ino  suo  ordinariamente  contra  a un  suo 
cittadino;  come  accadde  nel  tempo  di 
Francesco  Valori,  clic  era  come  prin- 
cipe della  città  : il  quale  essendo  giudi- 
calo ambizioso  da  molti,  e uomo  che 
volesse  con  la  sua  audacia  e animosità 
trascendere  il  vivere  civile;  e non  es- 
sendo nella  repubblica  via  a poterli  re- 
sistere se  non  con  una  setta  contraria 
alla  sua  ; ne  nacque  che  non  avendo 
paura  quello,  se  non  di  modi  straordi- 
nari, si  cominciò  a fare  fautori  che  lo 
difendessino;  dall’  altra  parte,  quelli  clic 


DEI  DISCOIDI 


ó8 

lo  oppugnavano  non  avendo  via  ordi- 
naria a reprimerlo,  pensarono  alle  vie 
straordinarie  : intanto  che  si  venne  alle 
armi.  E dove,  quando  per  l’ordinario 
si  fusse  potuto  opporseli,  sarebbe  la  sua 
autorità  spenta  con  suo  danno  solo; 
avendosi  a spegnere  per  lo  straordina- 
rio, seguì  con  danno  non  solamente 
suo,  ma  di  molti  altri  nobili  cittadini. 
Potrebbesi  ancora  allegare,  a fortifica- 
zione della  soprascritta  conclusione, 
l’ accidente  seguito  pur  in  Firenze  so- 
pra Piero  Soderini;  il  quale  al  tutto 
segui  per  non  essere  in  quella  Repub- 
blica alcuno  modo  di  accuse  contra  alla 
ambizione  de’ potenti  cittadini:  perchè 
lo  accusare  un  potente  a otto  giudici 
in  una  repubblica,  non  basta  : bisogna 
che  i giudici  siano  assai,  perchè  pochi 
sempre  fanno  a modo  de’  pochi.  Tanfo 
che,  se  tali  modi  vi  fussono  stati,  o i 
cittadini  lo  arebbono  accusato,  vivendo 
egli  male;  e per  tal  mezzo,  senza  far 
venire  l’ esercito  spagnuolo,  arebbono 


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LIBRO  PRIMO.  59 

sfogato  l’animo  loro:  o non  vivendo 
male,  non  arebbono  avuto  ardire  ope- 
rarli contra,  per  paura  di  non  essere 
accusati  essi  : e cosi  sarebbe  da  ogni 
parte  cessato  quello  appetito  che  fu  ca- 
gione di  scandalo.  Tanto  che  si  può 
concludere  questo,  che  qualunque  volta 
si  vede  che  le  forze  esterne  siano  chia- 
mate da  una  parte  d’ uomini  che  vi- 
vono in  una  città,  si  può  credere  na- 
sca da’  cattivi  ordini  di  quella,  per  non 
esser  dentro  a quello  cerchio,  ordine 
da  potere  senza  modi  islraordinari  sfo- 
gare i maligni  umori  che  nascono  nelli 
uomini:  a che  si  provvede  al  tutto  con 
ordinarvi  le  accuse  alii  assai  giudici,  e 
dare  riputazione  a quelle.  Li  quali  modi 
furono  in  Roma  sì  bene  ordinati,  che 
in  tante  dissensioni  della  Plebe  e del 
Senato,  mai  o il  Senato  o la  Plebe  o 
alcuno  particolare  cittadino  non  dise- 
gnò valersi  di  forze  esterne;  perche 
avendo  il  rimedio  in  casa,  non  erano 
necessitati  andare  per  quello  fuori.  E 


DEI  DISCORSI 


60 

benché  gli  esempi  soprascritti  siano  as- 
sai sufficienti  a provarlo,  nondimeno 
ne  voglio  addurre  un  altro,  recitato  da 
Tito  Livio  nella  sua  istoria:  il  quale 
riferisce  come,  scudo  stato  in  Chiusi, 
città  in  quelli  tempi  nobilissima  in  To- 
scana, da  uno  Lucumone  violata  una 
sorella  di  Aruntc,  c non  potendo  Arunte 
vendicarsi  per  la  potenia  del  violatore, 
se  n'andò  a trovare  i Franciosi,  che  al- 
lora regnavano  in  quello  luogo  che  oggi 
si  chiama  Lombardia;  e quelli  confortò 
a venire  con  annata  mano  a Chiusi, 
mostrando  loro  come  con  loro  utile  lo 
potevano  vendicare  della  ingiuria  rice- 
vuta : che  se  Arunte  avesse  veduto  po- 
tersi vendicare  con  i modi  della  città, 
non  arebbe  cerco  le  forre  barbare.  Ma 
come  queste  accuse  sono  utili  in  una 
repubblica,  così  sono  inutili  e dannose 
le  calunnie  ; come  nel  capitolo  seguente 
discorreremo. 


- 


6 


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\ 


LIBRO  PRIMO. 


Cap.  Vili.  — Quanto  le  accuse  sono 
utili  alle  repubbliche,  tanto  sono  per 
niziose  le  calunnie. 

Non  ostante  che  la  virtù  di 
Cnmmillo,  poi  ch’egli  ebbe  libera  Roma 
dalla  oppressione  de’ Franciosi,  avesse 
fatto  che  tutti  i cittadini  romani, 
parer  loro  tòrsi  reputazione  o 
cedevano  a quello;  nondimeno  Maulio 
Capitolino  non  poteva  sopportare  che 


gli  fusse  attribuito  tanto  onore  e tanta 
gloria;  parendogli,  quanto  alla  salute 
di  Roma,  per  avere  salvato  il  Campi- 
doglio, aver  meritato  quanto  Cammillo; 
c quanto  all’  altre  belliche  laudi,  non 
essere  inferiore  a lui.  Di  modo  che,  ca- 
rico d’  invidia,  non  potendo  quietarsi 
per  la  gloria  di  quello,  c veggendo  non 
potere  seminare  discordia  infra  i Padri, 
si  volse  alla  Plebe,  seminando  varie 
oppinioni  sinistre  intra  quelfb.  E intra 
V altre  cose  che  diceva,  era  come  il  tc- 


■Digitizc 


G2 


DEI  DISCORSI 


soro  il  quale  si  era  adunato  insieme 
per  dare  ai  Franciosi,  e poi  non  dato 
loro,  era  stato  usurpalo  da  privati 
cittadini  ; e quando  si  riavesse,  si  po- 
teva convertirlo  in  pubblica  utilità,  al- 
leggerendo la  Plebe  da’  tributi,  o da 

\ ' 

qualche  privato  debito.  Queste  parole 
poterono  assai  nella  Plebe;  talché  co- 
minciò avere  concorso,  ed  a fare  u 
sua  posta  tumulti  assai  nella  città:  la 
qual  cosa  dispiacendo  al  Senato,  e pa- 
rendogli di  momento  e pericolosa,  creò 
uno  Dittatore,  perchè  ei  riconoscesse 
questo  caso,  e frenasse  lo  impeto  di 
Manlio.  Onde  che  subito  il  Dittatore  lo 
fece  citare,  e eondussonsi  in  pubblico 
all’incontro  l’uno  dell’altro;  il  Ditta- 
tore in  mezzo  de’  Nobili,  e Manlio  in 
mezzo  della  Plebe.  Fu  domandato  Manlio 
che  dovesse  dire,  appresso  a chi  fusse 
questo  tesoro  che  ei  diceva,  perchè  ne 
era  cosi  desideroso  il  Senato  d’ inten- 
derlo come  la  Plebe:  a che  Manlio  non 
rispondeva  particularmenfe;  ma,  an- 


LIBRO  PRIMO.  63 

dando  fuggendo,  diceva  come  non  era 
necessario  dire  loro  quello  die  e’  si  sa- 
pevano: tanto  che  il  Dittatore  lo  fece 
mettere  in  carcere.  È da  notare  per 
questo  testo,  quanto  siano  nelle  città 
libere,  ed  in  ogni  altro  modo  di  vivere, 
detestabili  le  calunnie;  e come  per  re- 
primerle, si  debbe  non  perdonare  a or- 
dine alcuno  che  vi  faccia  a proposito. 
Nè  può  essere  migliore  ordine  a torle 
via,  che  aprire  assai  luoghi  alle  accu- 
se; perchè  quanto  le  accuse  giovano 
alle  repubbliche,  tanto  le  calunnie  nuo- 
cono:  e dall’ altra  parte  è questa  diffe- 
renza, che  le  calunnie  non  hanno  biso- 
gno di  testimone,  nè  di  alcuno  altro 
particulare  riscontro  a provarle,  in  modo 
che  ciascuno  da  ciascuno  può  essere 
calunniato;  ma  non  può  già  essere  ac- 
cusato, avendo  le  accuse  bisogno  di  ri- 
scontri veri,  e di  circostanze,  che  mo- 
strino la  verità  dell’  accusa.  Accusatisi 
gli  uomini  a’  magistrati,  a’ popoli,  a’ con- 
sigli ; calunniatisi  per  le  piazze  è per  le 


G4 


DEI  DISCORSI 


logge.  Usasi  più  questa  calunnia  dove 
si  usa  meno  1’  accusa,  c dove  le  città 
sono  meno  ordinate  a riceverle*  Però, 
uno  ordinatore  d’  una  repubblica  debbe 
ordinare  che  si  possa  in  quella  accu- 
sare ogni  cittadino,  senza  alcuna  paura 
o senza  alcuno  sospetto;  e fatto  questo 
e bene  osservato,  debbe  punire  aere- 
mente  i calunniatori:  i quali  non  si 
possono  dolere  quando  siano  puniti, 
avendo  i luoghi  aperti  a udire  le  ac- 
cuse di  colui  che  gli  avesse  per  le  logge 
calunniato.  E dove  non  è bene  ordinata 
questa  parte,  seguitano  sempre  disor- 
dini grandi  : perchè  le  calunnie  irrita- 
no, c non  castigano  i cittadini;  e gli 
irritali  pensano  di  valersi,  odiando  più 
presto,  che  temendo  le  cose  che  si  di- 
cono contea  a loro.  Questa  parte,  come 
è detto,  era  bene  ordinata  in  Roma  ; 
ed  è stata  sempre  male  ordinala  nella 
nostra  città  di  Firenze.  E come  a Roma 
questo  ordine  fece  molto  bene,  a Fi- 
renze questo  disordine  fece  molto  male. 


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LIBRO  PRIMO.  65 

E chi  legge  le  istorie  di  questa  città, 
vedrà  quante  calunnie  sono  state  in 
ogni  tempo  date  a’  suoi  cittadini  che  si 
sono  adoperati  nelle  cose  importanti  di 
quella.  Dell’  uno  dicevano,  ch’egli  aveva 
rubati  danari  al  comune;  dell’  altro,  che 
non  aveva  vinto  una  impresa  per  es- 
sere stato  corrotto;  e che  quell’  altro 
per  sua  ambizione  aveva  fatto  il  tale  e 
tale  inconveniente.  Del  che  ne  nasceva 
che  da  ogni  parte  ne  surgeva  odio  : 
donde  si  veniva  alla  divisione;  dalla  di- 
visione alle  sètte;  dalle  sètte  alla  rovi- 
na. Che  se  fusse  stato  in  Firenze  or- 
dine d’  accusare  i cittadini,  c punire  i 
calunniatori,  non  seguivano  infiniti  scan- 
dali che  sono  seguiti:  perchè  quelli  cit- 
tadini, o condennati  o assoluti  che  rus- 
sino, non  arebbono  potuto  nuocere  alla 
città;  e sarebbono  stati  accusati  meno 
assai  clic  non  ne  erano  calunniali,  non 
si  potendo,  come  ho  detto,  accusare 
come  calunniare  ciascuno.  Ed  intra  l’ al- 
tre cose  di  clic  si  è valuto  alcuno  ci 

Al  ^CHIAVELLI,  Discorsi.  — 1.  s 


66  DEI  DISCO*#! 

tadino  per  ventre  alla  grandezza  sua, 
sono  state  queste  calunnie:  le  quali  ve- 
nendo conira  a’  cittadini  potenti  che 
allo  appetito  suo  si  opponevano,  face- 
vano assai  per  quello;  perchè,  piglian- 
do la  parte  del  Popolo,  e confirmandolo 
nella  mala  oppiatone  eh’  egli  aveva  di 
loro,  se  lo  fece  amico.  E benché  se  ne 
potesse  addurre  assai  esempi,  voglio 
essere  contento  solo  d’  uno.  Era  lo  eser- 
cito fiorentino  a campo  a Lucca,  coman- 
dato da  niesser  Giovanni  Guicciardini, 
commissario  di  quello.  Vollono  o i cat- 
tivi suoi  governi,  o la  cattiva  sua  for- 
tuna, che  Ja  espugnazione  di  quella 
città  non  seguisse.  Pur,  comunque  il 
caso  stesse,  ne  fu  incolpato  inesser  Gio- 
vanni, dicendo  com’  egli  era  stato  cor- 
rotto da’  Lucchesi:  la  quale  calunnia 
sendo  favorita  da’  nimici  suoi,  condusse 
messer  Giovanni  quasi  in  ultima  dispe- 
razione. E benché,  per  giustificarsi,  ei 
si  volessi  mettere  nelle  mani  del  Capi- 
tano; nondimeno  non  si  potette  mai 


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LIBRO  PRIMO.  67 

giustificare,  per  non  essere  modi  in 
quella  repubblica  da  poterlo  fare.  Di 
che  ne  nacque  assai  sdegno  intra  li 
amici  di  messer  Giovanni,  che  erano  la 
maggior  parte  delli  uomini  Grandi,  ed 
infra  coloro  che  desideravano  fare  no- 
vità in  Firenze.  La  qual  cosa,  e per 
queste  e per  altre  simili  cagioni,  tanto 
crebbe,  che  ne  seguì  la  rovina  di  quella 
repubblica.  Era  dunque  Manlio  Capito- 
lino calunniatore,  e non  accusatore*,  ed 
i Romani  mostrarono  in  questo  caso 
appunto,  come  i calunniatori  si  debbono 
punire.  Perchè  si  debbe  fargli  diventare 
accusatori;  e quando  1’  accusa  si  riscon- 
tri vera,  o premiarli,  o non  punirli  : 
ma  quando  la  non  si  riscontri  vera 


Uf»5 


65 


DEI  DISCORSI 


Cap.  IX.  — Come  egli  è necessario  esser 
solo  a volere  ordinare  una  repubblica 
di  nuovo , o al  lutto  fuori  delti  anti- 
chi suoi  ordini  riformarla. 

E’ porrà  forse  ad  alcuno,-  che  io  sia 
troppo  trascorso  dentro  nella  istoria  ro- 
mana, non  avendo  fatto  alcuna  menzione 
ancora  degli  ordinatori  di  quella  Repub- 
blica, nè  di  quelli  ordini  che  o alla  re- 
ligione o alla  milizia  riguardassero.  E 
però,  non  volendo  tenere  più  sospesi  gli 
animi  di  coloro  che  sopra  questu  parte 
volessino  intendere  alcune  cose;  dico, 
come  molti  per  avventura  giudicheranno 
di  cattivo  esempio,  che  uno  fondatore 
d’  un  vivere  civile,  quale  fu  Romolo,  ab- 
bia prima  morto  un  suo  fratello,  dipoi 
consentito  alla  morte  di  Tito  Tazio  Sa- 
bino, eletto  da  lui  compagno  nel  regno; 
giudicando  per  questo,  che  gli  suoi  cit- 
tadini potessero  con  T autorità  del  loro 
principe,  per  ambizione  e desiderio  di 


LIBRO  PRIMO.  60 

comandare,  offendere  quelli  che  alla  loro 
autorità  si  opponessino.  La  quale  oppi- 
nionc  sarebbe  vera,  quando  non  si  con- 
siderasse che  line  l’avesse  indotto  a fare 
lai  omicidio.  E debbesi  pigliare  questo 
per  una  regola  generale:  clic  non  mai  o 
di  rado  occorre  che  alcuna  repubblica 
o regno  sia  da  principio  ordinato  bene,  o 
al  tutto  di  nuovo  fuori  delti  ordini  vecchi 
riformato,  se  non  è ordinato  da  uno;  anzi 
è necessario  che  uno  solo  sia  quello  clic 
dia  il  modo,  e dalla  cui  mente  dependa 
qualunque  simile  ordinazione.  Però,  uno 
prudente  ordinatore  d’ una  repubblica,  e 
che  abbia  questo  animo  di  volere  gio- 
vare non  a sé  ma  al  bene  comune,  non 
alla  sua  propria  successione  ma  alla  co- 
mune patria,  debbe  ingegnarsi  di  avere 
l’autorità  solo;  nè  mai  uno  ingegno  sa- 
vio riprenderà  alcuno  di  alcuna  azione 
istraordinaria,  che  per  ordinare  un  re- 
gno o constituire  una  repubblica  usasse. 
Conviene  bene,  che,  accusandolo  il  fallo, 
lo  effetto  lo  scusi  ; e quando  sia  buono, 


DEI  DISCORSI 


70 

come  quello  di  Romolo,  sempre  lo  scu- 
serà: perchè  colui  che  è violento  per 
guastare,  non  quello  che  è per  raccon- 
ciare, si  debbe  riprendere.  Debbe  bene 
in  tanto  esser  prudente  e virtuoso,  che 
quella  autorità  che  si  ha  presa,  non  la 
lasci  ereditaria  ad  un  altro  : perchè,  es- 
sendo gli  uomini  più  proni  al  male  che 
al  bene,  potrebbe  il  suo  successore  usare 
ambiziosamente  quello  che  da  lui  vir- 
tuosamente fusse  stato  usato.  Oltre  di 
questo,  se  uno  è atto  ad  ordinare,  uoti 
è la  cosa  ordinata  per  durare  molto, 
quando  la  rimanga  sopra  le  spalle  d’  uno; 
ma  si  bene,  quando  la  rimane  alla  cura 
di  molti,  e che  a molti  stia  il  mante- 
nerla. Perchè,  cosi  come  molti  non  sono 
atti  ad  ordinare  una  cosa,  per  non  co- 
noscere il  bene  di  quella,  causato  dalle 
diverse  oppinioni  che  sono  fra  loro; 
cosi  conosciuto  che  lo  hanno,  non  si 
accordano  a lasciarlo.  E che  Romolo 
fusse  di  quelli  che  nella  morte  del  fra- 
tello e del  compagno  meritasse  scusa; 


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LIMO  MIMO. 


71 


e che  quello  che  fece,  fusse  per  il  bene 
comune,  e non  per  ambizione  propria  ; 
lo  dimostra  lo  avere  quello  subito  or- 
dinato uno  Senato,  con  il  quale  si  con- 
sigliasse, e secondo  l’oppinione  del  quale 
deliberasse.  E chi  considera  bene  P au- 
torità che  Romolo  si  riserbò,  vedrà  non 
se  ne  essere  riserbata  alcun’  altra  che 
comandare  alli  eserciti  quando  si  era 
deliberata  la  guerra,  e di  ragunare  il 
Senato.  Il  che  si  vide  poi,  quando  Roma 
divenne  libera  per  la  cacciata  de’  Tar- 
quini;  dove  da’  Romani  non  fu  inno- 
vato alcun  ordine  dello  antico,  se  non 
che  in  luogo  d’  uno  Re  perpetuo,  fus- 
sero  duoi  Consoli  annuali;  il  che  testi- 
fica, tutti  gli  ordini  primi  di  quella 
città  essere  stati  più  conformi  ad  uno 
vivere  civile  e libero,  che  ad  uno  as- 
soluto e tirannico.  Polrebbesi  dare  in 
corroborazione  delle  cose  sopraddette 
infiniti  esempi;  come  Moisè,  Licurgo, 
Solonc,  ed  nitri  fondatori  di  regni  e di 
repubbliche,  i quali  poterono,  per  aversi 


72 


DEI  DISCORSI 


attribuito  un’  autorità,  formare  leggi  a 
proposito  del  bene  comune;  ma  gli  vo- 
glio lasciare  indietro,  come  cosa  nota. 
Addurronne  solamente  • uno,  non  si  ce* 
lebre,  ma  da  considerarsi  per  coloro 
che  desiderassero  essere  di  buone  leggi 
ordinatori:  il  quale  è,  che  desiderando 
Agide  re  di  Sparta  ridurre  gli  Spar- 
tani intra  quelli  termini  che  le  leggi  di 
Mcurgo  gli  avessero  rinchiusi,  paren- 
doli che  per  esserne  in  parte  deviati, 
la  sua  città  avesse  perduto  assai  di 
quella  antica  virtù,  e,  per  conseguente, 
di  forze  e d’ imperio  ; fu  ne'  suoi  primi 
principii  ammazzato  dalli  Efori  sparta- 
ni, come  uomo  che  volesse  occupare  la 
tirannide.  .Ma  succedendo  dopo  lui  . nel 
regno  Cleomene  c nascendogli  il  mede- 
simo desiderio  per  gli  ricordi  e scritti 
eh’  egli  aveva  trovati  di  Agide,  dove  si 
vedeva  quale  era  la  mente  ed  intenzione 
sua,  conobbe  non  potere  fare  questo 
bene  alla  sua  patria  se  non  diventava 
solo  di  autorità;  parendogli,  per  1*  ara- 


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LIBRO  PRIMO.  73 

bizione  degli  uomini,  non  potere  fare 
utile  a molti  contra  alla  voglia  di  po- 
chi:  e presa  occasione  conveniente,  fece 
ammazzare  tutti  gli  Efori,  e qualunque 
altro  gli  potesse  contrastare  ; dipoi  rin- 
novò in  tutto  le  leggi  di  Licurgo.  La 
quale  deliberazione  era  atta  a fare  ri- 
suscitare Sparta,  e dare  a Clcomcne 
quella  reputazione  che  ebbe  Licurgo, 
se  non  fussc  stato  la  potenza  de’  Mace- 
doni e la  debolezza  delle  altre  repub- 
bliche greche.  Perchè,  essendo  dopo 
tale  ordine  assaltato  da’  Macedoni,  e tro- 
vandosi per  sè  stesso  inferiore  di  for- 
ze, c non  avendo  a chi  rifuggire,  fu 
vinto;  e restò  quel  suo  disegno,  quan- 
tunque giusto  e laudabile,  imperfetto. 
Considerato  adunque  tutte  queste  cose, 
conchiudo,  come  a ordinare  una  repub- 
blica è necessario  essere  solo;  c Romolo 
per  la  morte  di  Remo  e di  Tazio  me- 
ritare iscusa,  e non  biasmo. 

rv  i ..  f"-  V,  * .V?  '•■*‘“■5/  . 


74 


DEI  DISCORSI 


Cap.  X.  — Quanto  sono  laudabili  * fon- 
datori d*  una  repubblica  o dJ  uno  re- 
gno, tanto  quelli  dJ  una  tirannide 
sono  vituperabili. 

Intra  tutti  gli  uomini  laudati,  sono  i 
laudatissimi  quelli  die  sono  stati  capi 
e ordinatori  delle  religioni.  Appresso 
dipoi,  quelli  che  hanno  fondato  o re- 
pubbliche o regni.  Dopo  costoro,  sono 
celebri  quelli  che,  preposti  alti  esercì* 
ti,  hanno  ampliato  o il  regno  loro,  o 
quello  della  patria.  A questi  si  aggiun- 
gono gli  uomini  iilterati;  e perchè  que* 
- sti  sono  di  più  ragioni,  sono  celebrati 
ciascuno  d’ essi  secondo  il  grado  suo. 
A qualunque  altro  uomo,  il  numero 
de’  quali  è infinito,  si  attribuisce  quut* 
che  parte  di  laude,  la  quale  gli  arreca 
l’ arte  e V esercizio  suo.  Sono,  per  lo 
contrario,  infumi  e detestabili  gli  uo- 
mini destruttori  delle  religioni,  dissipa- 
tori de’  regni  e delie  repubbliche,  ini- 


LIBRO  PRIMO.  75 

mici  delle  virtù,  delle  lettere,  e d'ogni 
altra  arte  che  arrechi  utilità  ed  onore 
alla  umana  generazione;  come  sono  gli 
empii  e violenti,  gl*  ignoranti,  gli  ozio- 
si, i vili,  e i dappochi.  E nessuno  sarà 
mai  sì  pazzo  o si  savio,  si  tristo  o si 
buono,  che,  propostogli  la  elezione  delle 
due  qualità  d’  uomini,  non  laudi  quella 
che  è da  laudare,  e Biasini  quella  che  è 
da  biasmare:  nientedimeno,  dipoi,  quasi 
tutti,  ingannati  da  un  falso  bene  e da 
una  falsa  gloria,  si  lasciano  andare, 
o voluntariamente  o ignorantemente, 
ne’ gradi  di  coloro  che  meritano  più  bia- 
simo che  laude;  c potendo  fare,  con 
perpetuo  loro  onore,  o una  repubblica 
o un  regno,  si  volgono  alla  tirannide: 
nè  si  avveggono  per  questo  partito 
quanta  fama,  quanta  gloria,  quanto  ono- 
re, sicurtà,  quiete,  con  satisfazione  d’ani- 
mo, e’fuggono;  e in  quanta  infamia, 
vituperio,  biasimo,  pericolo  e inquietu- 
dine incorrono.  Ed  è impossibile  che 
quelli  che  in  stato  privato  vivono  in  una 


mmmm 


DEI  DISCORSI 


76 

repubblica,  o che  per  fortuna  o virtù 
ne  diventano  principi,  se  leggcssino 
l’ istorie,  e delle  memorie  delle  antiche 
cose  facessino  capitale,  che  non  voles- 
sero  quelli  tali  privati,  vivere  nella 
loro  patria  piuttosto  Soipioni  che  Ce- 
sari; e quelli  che  sono  principi,  piut- 
tosto Agesilai,  Timolconi  e Dioni,  clic 
Nabidi,  Falari  e Dionisi  : perchè  ve- 
drebbono  questi  essere  sommamente  vi- 
tuperati, e quelli  eccessivamente  laudati. 
Vedrebbono  ancora  come  Timoleone  e 
gli  altri  non  ebbero  nella  patria  loro 
meno  autorità  che  si  avessiuo  Dionisio 
e Falari;  ma  vedrebbono  di  lungo  avervi 
avuto  più  sicurtà.  Nè  sia  alcuno  che  si 
inganni  per  la  gloria  di  Cesare,  senten- 
dolo, massime,  celebrare  dagli  scrittori: 
perchè  questi  che  lo  laudano,  sono  cor- 
rotti dalla  fortuna  sua,  e spauriti  dalla 
lunghezza  dello  imperio,  il  quale  reg- 
gendosi sotto  quel  nome,  non  permet- 
teva che  gli  scrittori  parlassero  libera-* 
mente  di  lui.  Ma  chi  vuole  conoscere 


libro  primo.  77 

quello  che  gli  scrittori  liberi  ne  direb- 
bono,  vegga  quello  che  dicono  di  Cali* 
lina:  E tanto  è più  detestabile  Cesare, 
quanto  più  è da  biasimare  quello  che 
ha  fatto,  che  quello  che  ha  voluto  fare 
un  inule.  Vegga  ancora  con  quante  laudi 
celebrano  Bruto;  talché,  non  potendo  bia- 
simare  quello  per  la  sua  potenza,  e’ ce- 
lebrano il  nemico  suo.  Consideri  ancora 
quello  eh’  è diventato  principe  in  una 
repubblica,  quante  laudi,  poiché  Roma 
fu  diventata  imperio,  meritarono  più 
quelli  imperadori  che  vissero  sotto  le 
leggi  e come  principi  buoni,  che  quelli 
che  vissero  al  contrario:  e vedrà  come 
a Tito,  Nerva,  Traiano,  Adriano,  Anto- 
nino e Marco,  non  erano  necessari  i sol- 
dati pretoriani  nè  la  moltitudine  delle 
legioni  a difenderli,  perchè  i costumi 
L loro,  la  benivolenza  del  Popolo,  lo  amore 
i del  Senato  gli  difendeva.  Vedrà  ancora 
come  a Caligola,  Nerone,  Vitellio,  ed  a 
tanti  altri  scellerati  imperadori,  non  ba- 
starono gli  eserciti  orientali  ed  occiden- 


7S 


DEI  DISCORSI 


Itili  a salvarli  conira  a quelli  nemici,  che 
li  loro  rei  costumi,  la  loro  malvagia  vita 
aveva  loro  generati.  E se  la  istoria  di 
costoro  fusse  ben  considerata,  sarebbe 
assai  ammaestramento  a qualunque  priu- 
cipe,  a mostrargli  la  via  della  gloria  o 
del  biasmo,  e della  sicurtà  o del  timore 
suo.  Perchè,  di  ventisei  imperadori  che 
furono  da  Cesare  a Massimiuo,  sedici  ne 
furono  ammazzati,  dicci  morirono  ordi- 
nariamente; c se  di  quelli  che  furono 
morti  ve  ne  fu  alcuno  buono,  come 
Galba  e Pertinace,  fu  morto  da  quella 
corruzione  che  lo  antecessore  suo  aveva 
lasciata  nc’ soldati.  E se  tra  quelli  che 
morirono  ordinariamente  ve  ne  fu  al- 
cuno scellerato, nome  Severo,  nacque  da 
una  sua  grandissima  fortuna  e virtù  ; le 
quali  due  cose  pochi  uomini  accompa- 
gnano. Vedrà  ancora,  per  la  lezione  di 
questa  istoria,  come  si  può  ordinare  un 
regno  buono:  perchè  tutti  gl' imperadori 
che  succederono  all*  imperio  per  eredità, 
eccetto  Tito,  furono  cattivi  ; quelli  che  per 


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LIBHO  PRIMO.  79 

adozione, furono  tutti  buoni,  come  furono 
quei  cinque  da  Nervo  a Marco:  e come 
P imperio  cadde  negli  eredi,  ei  ritornò 
nella  sua  rovina.  Pongasi,  adunque,  in- 
nanzi un  principe  i tempi  da  Nerva  a 
Marco,  e conferiscagli  con  quelli  che 
erano  stati  prima  e che  furono  poi;  e 
dipoi  elegga  in  quali  volesse  essere  nato, 
o a quali  volesse  essere  preposto.  Per- 
chè in  quelli  governali  da’ buoni,  vedrà 
un  principe  sicuro  in  mezzo  de’ suoi  si- 
curi cittadini,  ripieno  di  pace  e di  giu- 
stizia il  mondo:  vedrà  il  Senato  con  la 
sua  autorità,  i magistrati  con  i suoi  ono- 
ri ; godersi  i cittadini  ricchi  le  loro  ric- 
chezze ; la  nobiltà  c la  virtù  esaltata  : 
vedrà  ogni  quiete  ed  ogni  bene;  e,  dal- 
l’altra parte,  ogni  rancore,  ogni  licenza, 
corruzione  e ambizione  spenta:  vedrà  i 
tempi  aurei,  dove  ciascuno  può  tenere  e 
difendere  quella  oppinione  che  vuole.  Ve- 
drà, in  fine,  trionfare  il  mondo;  pieno 
di  riverenza  e di  gloria  il  principe, 
d’  amore  e di  sveurilà  i popoli.  Se  con- 


80 


DEI  DISCORSI 


sidererà,  dipoi,  tritamente  i tempi  degli 
altri  imperadori,  gli  vedrà  atroci  per  le 
guerre,  discordi  per  le  sedizioni,  nella 
pace  e nella  guerra  crudeli:  tanti  prin- 
cipi morti  col  ferro,  tante  guerre  civili, 
tante  esterne  ; P Italia  afflitta,  e piena  di 
nuovi  infortunii  ; rovinate  e saccheggiate 
le  città  di  quella.  Vedrà  Roma  arsa,  il 
Campidoglio  da’ suoi  cittadini  disfatto, 
desolati  gli  antichi  templi,  corrotte  le 
cerimonie,  ripiene  le  città  di  adulterii: 
vedrà  il  mare  pieno  di  esilii,  gli  scogli 
pieni  di  sangue.  Vedrà  in  Roma  seguire 
innumerabili  crudeltadi  ; e la  nobiltà,  le 
ricchezze,  gli  onori,  e sopra  tutto  ia  virtù 
essere  imputata  a peccato  capitale.  Ve- 
drà premiare  li  accusatori,  essere  cor- 
rotti i sèrvi  contro  al  signore,  i liberi 
contro  al  padrone;  e quelli  a chi  fus- 
scro  mancati  i nemici,  essere  oppressi 
dagli  amici.  E conoscerà  allora  benis- 
simo quanti  obblighi  Roma,  Italia,  e il 
mondo  abbia  con  Cesare.  E senza,  dub- 
bio, se  e*  sarà  nato  d’uomo,  si  sbigottirà 


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LIBRO  PRIMO. 


I da  ogni  imitazione  dei  tempi  cattivi,  c 
accenderassi  d’uno  immenso  desiderio  di 

* I - 

seguire  i buoni.  E veramente,  cercando 
un  principe  la  gloria  del  mondo,  dover- 
rebbe  desiderare  di  possedere  una  città 
corrotta,  non  per  guastarla  in  tutto  co- 
me Cesare,  ma  per  riordinarla  come  llo- 
inolo.  E veramente  i cieli  non  possono 
dare  all i uomini  maggiore  occasione  di 
gloria,  nè  li  uomini  la  possono  maggiore 
desiderare.  E se,  a volere  ordinare  bene 
una  città,  si  avesse  di  necessità  n dc- 
porrc  il  principato,  meriterebbe  quello 
clic  non  la  ordinasse,  per  non  cadere 
di  quel  grado,  qualche  scusa:  ma  po- 
tendosi tenere  il  principato  ed  ordinarla, 
non  si  merita  scusa  alcuna.  E in  som- 
ma, considerino  quelli  a chi  i cieli  dan- 
no tale  occasione,  come  sono  loro  pro- 
poste due  vie:  1’  una  che  gli  fa  vivere 
sicuri,  e dopo  la  morte  gli  rende  glo- 
riosi ; I’  altra  gli  fa  vivere  in  continove 
angustie,  e dopo  la  morte  lasciare  di  sè 
una  sempiterna  infamia. 

\ 31  *CHtAVELLf , Discorsi.  — i. 


S2 


DEI  DISCORSI 


Gap.  XI.  — Delta  religione  de*  Romani. 

Ancora  che  Roma  avesse  il  primo  suo 
ordinatore  Romolo,  e che  da  quello  abbi 
a riconoscere  come  figliuola  il  nasci- 
mento e la  educazione  sua;  nondimeno, 
giudicando  i cieli  che  gli  ordini  di  Ro- 
molo non  bastavano  a tanto  imperio, 
niessono  nel  petto  del  Senato  romano  di 
eleggere  Numa  Pompilio  per  successore 
a Romolo,  acciocché  quelle  cose  che  da 
lui  fossero  state  lasciate  indietro,  fossero 
da  Numa  ordinate.  II  quale  trovando  un 
popolo  ferocissimo,  e volendolo  ridurre 
nelle  ubbidienze  civili  con  le  arti  della 
pace,  si  volse  alla  religione,  come  oosa 
al  tutto  necessaria  a volere  mantenere 
una  civiltà  ; e la  costituì  in  modo,  che 
per  più  secoli  non  fu  mai  tanto  timore 
di  Dio  quanto  in  quella  Repubblica  : il 
che  facilitò  qualunque  impresa  che  il 
Senato  o quelli  grandi  uomini  romani 
disegnassero  fare.  E ehi  discorrerà  in- 


-j 


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Libro  primo. 


finite  azioni,  e del  popolo  di  Roma  lutto 
insieme,  e di  molli  de’ Romani  di  per  sé, 
vedrà  come  quelli  cittadini  temevano  più 
assai  rompere  il  giuramento  che  le  leggi  ; 
come  coloro  clic  stimavano  più  la  po- 
tenza di  Dio,  che  quella  degli  uomini: 
come  si  vede  manifestamente  per  gli 
esempi  di  Scipione  e di  Manlio  Torquuto. 
Perchè,  dopo  la  rotta  che  Annibale  aveva 
dato  a’ Romani  a Canne,  molti  cittadini 
si  erano  adunati  insieme,  c sbigottiti  e 
paurosi  si  erano  convenuti  abbandonare 
l’Italia,  e girsene  in  Sicilia:  il  che  sen- 
tendo Scipione,  gli  andò  a trovare,  e 
col  ferro  ignudo  in  mano  gli  costrinse 
a giurare  di  non  abbandonare  la  patria. 
Lucio  Manlio,  padre  di  Tito  Manlio,  che 
fu  dipoi  chiamato  Torquato,  era  stato 
accusato  da  Marco  Pomponio,  Tribuno 
della  plebe  ; ed  innanzi  che  venissi  il 
di  del  giudizio,  Tito  andò  a trovare 
Marco,  e minacciando  d’ ammazzarlo  se 
non  giurava  di  levare  l’accusa  al  padre, 
lo  costrinse  al  giuramento  ; e quello, 


84 


DEI  DISCORSI 


per  timore  avendo  giurato,  gli  levò  t'ac- 
cusa. E cosi  quelli  cittadini  i quali 
l'amore  della  patria  e le  leggi  di  quella 
non  ritenevano  in  Italia,  vi  furon  rite- 
nuti da  un  giuramento  che  furono  for- 
zati a pigliare;  e quel  Tribuno  pose  da 
parte  l'odio  che  egli  aveva  col  padre, 
la  ingiuria  che  gli  aveva  fatta  il  figliuolo, 
c i’  onore  suo,  per  ubbidire  al  giura- 
mento preso:  il  che  non  nacque  da  al- 
tro, che  da  quella  religione  che  Numa 
aveva  introdotta  in  quella  città.  E ve- 
desi,  chi  considera  bene  le  istorie  ro- 
mane, quanto  serviva  la  religione  a co- 
mandare agli  eserciti,  a riunire  la  plebe, 
a mantenere  gli  uomini  buoni,  a fare 
vergognare  li  tristi.  Talché,  se  si  avesse 
a disputare  a quale  principe  Roma  fusse 
più  obbligata,  o a Romolo  o a Numa, 
credo  più  tosto  Numa  otterrebbe  il  pri- 
mo grado:  perchè  dove  è religione,  fa- 
cilmente si  possono  introdurre  l’armi; 
e dove  sono  l’armi  e non  religione,  con 
diflìcultà  si  può  introdurre  quella.  E si 


LIBRO  PRIMO. 

vede  che  a Romolo  per  ordinare  il  Se- 
nato, e per  fare  altri  ordini  civili  e mi- 
litari, non  gli  fu  necessario  dell’ autorità 
di  Dio;  ma  fu  bene  necessario  a Numa, 
il  quale  simulò  di  avere  congresso  con 
una  Ninfa,  la  quale  lo  consigliava  di 
quello  ch’egli  avesse  a consigliare  il 
popolo  : e tutto  nasceva  perchè  voleva 
mettere  ordini  nuovi  ed  inusitati  in 
quella  città,  e dubitava  che  la  sua  auto- 
rità non  bastasse.  G veramente,  mai  non 
fu  alcuno  ordinatore  di  leggi  straordi- 
narie in  uno  popolo,  che  non  ricorresse 
a Dio  ; perchè  altrimenlc  non  sarebbero 
accettate:  perchè  sono  molli  beni  cono- 
sciuti da  uno  prudente,  i quali  non 
hanno  in  sè  ragioni  evidenti  da  potergli 
persuadere  ad  altri.  Però  gli  uomini 
savi,  che  vogliono  torre  questa  diflìcultà, 
ricorrono  a Dio.  Cosi  fece  Licurgo,  cosi 
Solone,  cosi  molti  altri  che  hanno  avuto 
il  medesimo  fine  di  loro.  Ammirando, 
adunque,  il  popolo  romano  la  bontà  e la 
prudenza  sua,  cedeva  ad  ogni  sua  deli- 


86 


DEI  DISCORSI 


Iterazione,  Ben  è vero  che  l’essere  quelli 
tempi  pieni  di  religione,  e quelli  uomini, 
con  i quali  egli  aveva  a travagliare, 
grossi,  gli  detlono  facilità  grande  a con- 
seguire i disegni  suoi,  potendo  impri- 
mere in  loro  facilmente  qualunche  nuova 
forma.  E senza  dubbio,  ehi  volesse  ne’pre- 
senti  tempi  fare  una  repubblica,  più  fa- 
cilità troverebbe  negli  uomini  monta- 
nari, dove  non  è alcuna  civilità,  che  in 
quelli  che  sono  usi  a vivere  nelle  città, 
dove  la  civilità  è corrotta:  ed  uno  scul- 
tore trarrà  più  facilmente  una  bella  sta- 
tua d’  uno  marmo  rozzo,  che  d’ uno  male 
abbozzato  d’altrui.  Considerato  adun- 
que tutto,  conchiudo  che  la  religione 
introdotta  da  Piuma  fu  intra  le  prime 
cagioni  della  felicità  di  quella  città:  per- 
chè quella  causò  buoni  ordini;  i buoni 
ordini  fanno  buona  fortuna  ; e dalla 
buona  fortuna  nacquero  i felici  successi 
delle  imprese.  E come  la  osservanza  del 
culto  divino  è cagione  delia  grandezza 
delle  repubbliche,  cosi  il  dispregio  di 


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LIBRO  PRIMO.  87 

quella  è cagione  della  rovina  d’esse.  Per- 
chè, dove  manca  il  timore  di  Dio,  con- 
viene che  o quel  regno  rovini,  o che 
sia  sostenuto  dal  timore  d’  un  principe 
che  supplisca  a’ difetti  della  religione.  E 
perchè  i principi  sono  di  corta  vita, 
conviene  che  quel  regno  manchi  presto, 
secondo  che  manca  la  virtù  d’  esso.  Don- 
de nasce  che  i regni  i quali  dependono 
solo  dalla  virtù  d’ uno  uomo,  sono  poco 
durabili,  perchè  quella  virtù  manca  con 
la  vita  di  quello  ; e rade  volte  accade 
che  la  sia  rinfrescata  con  la  successione, 
come  prudentemente  Dante  dice: 

tt  Rade  volte  risurge  per  li  rami 

L'umana  probitade:  e questo  vuolo 
Quel  che  la  dà,  perchè  da  lui  si  chiami.  „ 

Non  è,  adunque,  la  salute  di  una  repub- 
blica o d’uno  regno  avere  uno  principe 
che  prudentemente  governi  mentre  vive  ; 
ma  uno  che  l’ordini  in  modo,  clic,  mo- 
rendo ancora,  la  si  mantenga.  E benché 
agli  uomini  rozzi  più  facilmente  si  per- 
suade uno  ordine  o una  oppinione  nuo- 


bS  DEI  DISCORSI 

va,  non  è per  questo  impossibile  per- 
suaderla ancora  agli  uomini  civili,  e che 
si  presumono  non  essere  rozzi.  Al  po- 
polo di  Firenze  non  pare  essere  nè  igno- 
rante nè  rozzo:  nondimeno  da  frate  Gi- 
rolamo Savonarola  fu  persuaso  che  par- 
lava con  Dio.  lo  non  voglio  giudicare 
s’egli  era  vero  o no,  perchè  d’ un  tanto 
uomo  se  ne  debbe  parlare  con  reve- 
renza : ma  io  dico  bene,  che  infiniti  lo 
credevano,  senza  avere  visto  cosa  nes- 
suna istraordinaria  da  farlo  loro  cre- 
dere; perchè  la  vita  sua,  la  dottrina,  il 
soggetto  che  prese,  erano  sufhzienti  a 
fargli  prestare  fede.  Non  sia,  pertanto, 
nessuno  che  si  sbigottisca  di  non  potere 
conseguire  quello  che  è stato  conseguito 
da  altri  ; perchè  gli  uomini,  come  nella 
Prefazione  nostra  si  disse,  nacquero, 
vissero  e morirono  sempre  con  un  me- 
desimo ordine. 


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LIBRO  PRIMO. 


Cap.  XIF.  — Di  quanta  importanza  sia 
tenere  conto  della  religione j e come 
la  Italia  per  esserne  mancata  mediante 
la  Chiesa  romana y è rovinata. 


Quelli  principi,  o quelle  repubbliche, 
le  quali  si  vogliono  manienere  incorrot- 
te, hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a man- 
tenere incorrotte  le  cerimonie  della  re- 
ligione, e tenerle  sempre  nella  loro 
venerazione;  perchè  nissuno  maggiore 
indizio  si  puote  avere  della  rovina  d’una 
provincia,  che  vedere  dispregiato  il  culto 
divino.  Questo  è facile  a intendere,  co- 
nosciuto che  si  è in  su  che  sia  fondata 
la  religione  dove  V uomo  è nato;  perchè 
ogni  religione  ha  il  fondamento  della 
vita  sua  in  su  qualche  principale  ordine 
suo.  La  vita  della  religione  gentile  era 
fondata  sopra  i responsi  delti  oracoli 
e sopra  la  setta  delli  aridi  e delli 
aruspici:  tutte  le  altre  loro  cerimonie, 
sacrifìcii,  riti,  dependevano  da  questi; 


90 


DEI  DISCORSI 


perchè  loro  facilmente  credevano  che 
quello  Dio  che  ti  poteva  predire  il  tuo 
futuro  bene  o il  tuo  futuro  male,  te 
lo  potessi  ancora  concedere.  Di  qui 
nascevano  i tempii,  di  qui  i sacrifici!, 
di  qui  le  supplicazioni,  ed  ogni  altra 
cerimonia  in  venerarli:  perchè  l’oracolo 
di  Deio,  il  tempio  di  Giove  Aminone,  ed 
altri  celebri  oracoli,  tenevano  il  mondo 
in  ammirazione,  e devoto.  Come  costoro 
cominciarono  dipoi  a parlare  n modo 
de’  potenti,  e questa  falsità  si  fu  sco- 
perta ne’  popoli,  divennero  gli  uomini 
increduli,  ed  atti  a perturbare  ogni  or- 
dine  buono.  Debbono,  adunque,  i Prin- 
cipi d’uria  repubblica  o d’un  regno,  i 
fondamenti  della  religione  che  loro  ten- 
gono, mantenerli;  e fatto  questo,  sarà 
loro  facil  cosa  a mantenere  la  loro  re- 
pubblica religiosa,  e,  per  conseguente, 
buona  ed  unita.  C debbono,  tutte  le 
cose  che  nascono  in  favore  di  quella, 
come  che  le  giudicassino  false,  favorirle 
ed  accrescerle;  e tanto  più  Io  debbono 


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LIBRO  PRIMO.  91 

fare,  quanto  più  prudenti  sono,  e quanto 
più  conoscitori  delle  cose  naturali.  E 
perchè  questo  modo  c stato  osservato 
dagli  uomini  savi,  ne  è nata  l’oppinione 
dei  miracoli,  che  si  celebrano  nelle  re- 
ligioni eziandio  false:  perchè  i prudenti 
gli  aumentano,  da  qualunche  principio 
e’ si  nascano;  e l’autorità  loro  dà  poi 
a quelli  fede  appresso  a qualunque.  Di 
questi  miracoli  ne  fu  a Roma  assai;  e 
intra  gli  altri  fu,  che  saccheggiando  i 
soldati  romani  la  città  de’ Veienti,  alcuni 
di  loro  entrarono  nel  tempio  di  Giuno- 
ne, ed  accostandosi  alla  immagine  di 
quella,  e dicendole  vis  venire  Romani , 
parve  od  alcuno  vedere  che  la  accen- 
nasse; ad  alcun  altro,  che  ella  dicesse 
di  si.  Perchè,  sendo  quelli  uomini  ri- 
pieni di  religione  (il  che  dimostra  Tito 
Livio»  perchè  nell’entrare  nel  tempio, 
vi  entrarono  senza  tumulto,  tutti  devoti 
e pieni  di  reverenza),  parve  loro  udire 
quella  risposta  che  alla  domanda  loro 
per  avventura  si  avevano  presupposta  : 


92 


DEI  DISCORSI 


la  quale  oppiuione  e credulità,  da  Cam* 
millo  e dagli  altri  principi  della  città  fu 
ni  tutto  favorita  ed  accresciuta.  La  quale 
religione  se  ne’ Principi  della  repubblica 
cristiana  si  fusse  mantenuta,  secondo  che 
dal  datore  d’ essa  ne  fu  ordinato,  sa- 
rebbero gli  stati  e le  repubbliche  cri- 
stiane più  unite  e più  felici  assai  ch’elle 
non  sono.  Nè  si  può  fare  altra  maggio- 
re conieltura  della  declinazione  d’essa, 
quanto  è vedere  come  quelli  popoli  che 
sono  più  propinqui  alla  Chiesa  romana, 
capo  della  religione  nostra,  hanno  meno 
religione.  E chi  considerasse  i fonda- 
menti suoi,  e vedesse  l’ uso  presente 
quanto  è diverso  da  quelli,  giudiche- 
rebbe esser  propinquo,  senza  dubbio,  o 
la  rovina  o il  flagello.  E perchè  sono 
alcuni  d’oppinione,  che  ’l  ben  essere 
delle  cose  d’ Italia  dipende  dalla  Chiesa 
di  Roma,  voglio  contro  ad  essa  discor- 
rere quelle  ragioni  che  mi  occorrono  : 
e ne  allegherò  due  potentissime,  le  quali, 
secondo  me,  non  hanno  repugnanza.  La 


UDRÒ  PRIMO. 

, prima  è,  che  per  gli  esempi  rei  di  quella 
i corte,  questa  provincia  ha  perduto  ogu 
I divozione  ed  ogni  religione:  il  clic  si 
i lira  dietro  infiniti  inconvenienti  e infi- 

niti disordini;  perchè,  così  come 
religione  si  presuppone  ogni  bene, 
dove  ella  manca  si  presuppone  il  con- 
trario. Abbiamo,  adunque,  con  la  Chiesa 
e con  i preti  noi  Italiani  questo  primo 
obbligo,  d’essere  diventati  senza  reli- 
gione c cattivi:  ma  ne  abbiamo  ancora 
un  maggiore,  il  quale  è cagione  della 
rovina  nostra.  Questo  è die  la  Chiesa 
ha  tenuto  e tiene  questa  nostra  provin- 
cia divisa. E veramente,  alcuna  provincia 
non  fu  mai  unita  o felice,  se  la  non 
viene  tutta  alla  obedienza  d’  una  repub- 
blica o d’uno  principe,  come  è avvenuto 
alla  Francia  cd  alla  Spagna.  E la  ca- 
gione che  la  Italia  non  sia  in  quel  me- 
desimo termine,  nè  abbia  aneli’  ella  o 
una  repubblica  o uno  principe  che  la 
governi,  è solamente  la  Chiesa  ; perchè, 
avendovi  abitalo  e tenuto  imperio  tem- 


94 


DEI  DISCORSI 


ponile,  non  è stata  sì  potente  nè  dì  tal 
virtù,  che  l'abbia  potuto  occupare  il  re- 
stante d’Italia,  e farsene  principe;  e 
non  è stata,  dall’altra  parte,  si  debile, 
che,  per  paura  di  non  perder  il  domi- 
nio delie  cose  temporali,  la  non  abbi 
potuto  convocare  uno  potente  che  la  di- 
fenda contra  a quello  che  in  Italia  fusse 
diventato  troppo  potente:  come  si  è ve- 
duto anticamente  per  assai  esperienze, 
quando  mediante  Carlo  Magno  la  ne  cac- 
ciò i Lombardi,  eh’ era  no  già  quasi  re 
di  tutta  Italia;  e quando  ne’ tempi  no- 
stri ella  tolse  la  potenza  a’  Veneziani  con 
l’aiuto  di  Francia;  dipoi  ne  cacciò  i 
Franciosi  eoa  l’aiuto  de’ Svizzeri.  Non 
essendo,  dunque,  stata  la  Chiesa  potente 
da  potere  occupare  l’ Italia,  nè  avendo 
permesso  che  un  altro  la  occupi,  è stata 
cagione  che  la  non  è potuta  venire  sotto 
un  capo;  ma  è stata  sotto  più  principi 
e signori,  da’ quali  è nata  tanta  disu- 
nione e tanta  debolezza,  che  la  si  è con- 
dotta ad  essere  stata  preda,  non  sola- 


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LIBRO  PRIMO.  95 

melile  di  barbari  polenti,  ma  di  qualun- 
que I*  assalta.  Di  clic  noi  altri  Italiani 
abbiamo  obbligo  con  la  Chiesa,  c non 
con  altri.  E chi  ne  volesse  per  esperienza 
certa  vedere  più  pronta  la  verità,  biso- 
gnerebbe che  fusse  di  tanta  potenza,  che 
mandasse  ad  abitare  la  corte  romana,  con 
l’autorità  che  l’ha  in  Italia,  in  le  terre 
de’ Svizzeri;  i quali  oggi  sono  quelli  soli 
popoli  che  vivono,  e quanto  alla  religione 
e quanto  agli  ordini  militari,  secondo  gli 
antichi  : e vedrebbe  che  in  poco  tempo 
furebbero  più  disordine  in  quella  pro- 
vincia i costumi  tristi  di  quella  corte, 
che  qualunchc  altro  accidente  clic  in 
qualunche  tempo  vi  potessi  surgere. 


Cap.  XIII.  — Come  t Romani  si  servi- 
rono della  religione  per  ordinare  la 
città,  e per  seguire  le  loro  imprese  e 
fermare  i tumulti. 

Ei  non  mi  pare  fuor  di  proposito  ad- 
durre alcuno  esempio  dove  i Romani  si 


SJ6  DEI  DISCORSI 

servirono  della  religione  per  riordinare 
la  cillà,  e per  seguire  l’imprese  loro;  e 
quantunque  in  Tito  Livio  ne  siano  molti, 
nondimeno  voglio  essere  contento  a que- 
sti. Avendo  creato  il  Popolo  romano  i 
Tribuni,  di  potestà  consolare,  e,  fuorché 
uno,  tutti  plebei;  ed  essendo  occorso 
quello  anno  peste  c fame,  e venuti  certi 
prodigii  ; usorono  questa  occasione  i No- 
bili nella  nuova  creazione  de’  Tribuni, 
dicendo  che  li  Dii  erano  adirati  per  aver 
Roma  male  usata  la  maestà  del  suo  im- 
perio, e che  non  era  altro  rimedio  a 
placare  gli  Dii,  che  ridurre  la  elezione 
de’ Tribuni  nel  luogo  suo:  di  che  nacque 
che  la  Plebe,  sbigottita  da  questa  reli- 
gione, creò  i Tribuni  tutti  nobili.  Vedesi 
ancora  nella  espugnazione  della  città 
de’  Ycienti,  come  i capitani  degli  eserciti 
si  valevano  della  religione  per  tenergli 
disposti  ad  una  impresa  : ehè  essendo  il 
lago  Albano,  quello  anno,  cresciuto  mira- 
bilmente, ed  essendo  i soldati  romani  in- 
fastiditi per  la  lunga  ossidione,  e volendo 


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LIBRO  PRIMO.  97 

tornarsene  a Roma,  trovarono  i Romani, 
come  Apollo  e certi  altri  responsi  dicevano 
che  quell*  anno  si  espugnerebbe  la  città 
de’ Veienti,  che  si  derivasse  il  Ingo  Albano  : 
la  qual  cosa  fece  ai  soldati  sopportare  i 
fastidi  della  guerra  e della  ossidione, 
presi  da  questa  speranza  di  espugnare 
la  terra  ; e stettono  contenti  a seguire  la 
impresa,  tanto  che  Cammillo  fatto  Ditta- 
tore espugnò  detta  città,  dopo  dieci  anni 
che  l’era  stala  assediata.  E cosi  la  reli- 
gione, usata  bene,  giovò  e per  la  espu- 
gnazione di  quella  città,  e per  la  resti- 
tuzione dei  Tribuni  nella  Nobiltà:  chè 
senza  detto  mezzo  difficilmente  si  sa- 
rebbe condotto  e l’uno  e l’altro.  Non 
voglio  mancare  di  addurre  a questo 
proposito  un  altro  esempio.  Erano  nati 
in  Roma  assai  tumulti  per  cagione  di 
Terentillo  Tribuno,  volendo  lui  promul- 
gare certa  legge,  per  le  cagioni  che  di 
sotto  nel  suo  luogo  si  diranno  ; e tra  i 
primi  rimedi  che  vi  usò  la  Nobiltà,  fu 
la  religione:  della  quale  si  servirono  in 
SI achutelli,  Discorsi.  — !•  7 


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DEI  DISCORSI 


y.s 

duo  modi.  Nel  primo  fecero  vedere  i li- 
bri Sibillini,  e rispondere,  come  alla 
città,  mediante  la  civile  sedizione,  sopra- 
stavano quello  anno  pericoli  di  non  per- 
dere la  libertà  : la  qual  cosa,  ancora  che 
fusse  scoperta  da’ Tribuni,  nondimeno 
messe  tanto  terrore  ne*  petti  della  plebe, 
che  la  raffreddò  nel  seguirli.  L’altro 
modo  fu,  che  avendo  uno  Appio  Erdo- 
nio,  con  una  moltitudine  di  sbanditi  e 
di  servi,  in  numero  di  quattromila  uo- 
mini, occupato  di  notte  il  Campidoglio, 
in  tanto  che  si  poteva  temere,  che  se 
gli  Equi  ed  i Volsci,  perpetui  nemici  al 
nome  romano,  ne  fossero  venuti  a Ro- 
ma, la  arebbono  espugnata  ; e non  ces- 
sando i Tribuni  per  questo  di  insistere 
nella  pertinacia  loro  di  promulgare  la 
legge  Terentilla,  dicendo  che  quello  in- 
sulto era  fittizio  c non  vero:  uscì  fuori 
del  Senato  uno  Publio  Rubezio,  cittadino 
grave  e di  autorità,  con  parole  parte 
amorevoli,  parte  minacciatiti,  mostran- 
doli i pericoli  della  città,  e la  intempe- 


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LIBRO  PRIMO. 


99 

stiva  domanda  loro;  tanto  che  e’ con- 
strinse la  Plebe  a giurare  di  non  si  par- 
tire dalla  voglia  del  Consolo:  onde  che 
la  Plebe  obediente,  per  forza  ricuperò 
il  Campidoglio.  Ma  essendo  in  tale  espu- 
gnazione morto  Publio  Valerio  consolo, 
subito  fu  rifatto  consolo  Tito  Quinzio;  il 
quale  per  non  lasciare  riposare  la  Plebe, 
nè  darle  spazio  a ripensare  alla  legge  Te- 
rentilla,  le  comandò  s’  uscissi  di  Roma 
per  andare  contra  a’  Volsci,  dicendo  che 
per  quel  giuramento  aveva  fatto  di  non 
abbandonare  il  Consolo,  era  obbligata  a 
seguirlo:  a che  i Tribuni  si  oppone- 
vano, dicendo  come  quel  giuramento 
s’era  dato  al  Consolo  morto,  e non  a 
lui.  Nondimeno  Tito  Livio  mostra,  come 
la  Plebe  per  paura  della  religione  volle 
più  presto  obedire  al  Consolo,  che  cre- 
dere a’ Tribuni;  dicendo  in  favore  della 
antica  religione  queste  parole:  Nondum 
htiDPj  quce  nunc  tenet  sceculum,  negli- 
gcntict  Dcùm  venerai , nec  interpretando 
sibi  quisque  jasjurandum  et  legcs  aplas 


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100 


DEI  DISCORSI 


faciebal.  Per  la  qual  cosa  dubitando  i 
Tribuni  di  non  perdere  allora  tutta  la 
lor  degnila,  si  accordarono  col  Consolo 
di  stare  alla  obedienza  di  quello;  e che 
per  uno  anno  non  si  ragionasse  della 
legge  Terentilla,  ed  i Consoli  per  uno 
anno  non  potessero  trarre  fuori  la  Plebe 
alla  guerra.  E cosi  la  religione  fece  al 
Senato  vincere  quella  diffìcultà,  che  sen- 
za essa  mai  non  arebbe  vinto. 

Cap.  XIV.  — I Romani  interpretavano 
gli  auspicii  secondo  la  necessità , c 
con  la  prudenza  mostravano  di  osser- 
vare la  religione j quando  forzali  non 
V osservavano  ; c se  alcuno  (emwa- 
riamente  la  dispregiava , lo  punivano. 

Non  solamente  gli  auguri!,  come  di  so- 
pra si  è discorso,  erano  il  fondamento 
in  buona  parte  dell'antica  religione 
de’ Gentili,  ma  ancora  erano  quelli  che 
erano  cagione  del  bene  essere  della  Re- 
pubblica romana.  Donde  i Romani  ne 


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LIBRO  PRIMO.  101 

uvevano  più  cura  che  di  alcuno  altro  or- 
dine di  quella;  ed  usavangli  ne’ comizi 
consolari,  nel  principiare  le  imprese, 
nel  trai*  fuori  gli  eserciti,  nel  fare  le 
giornate,  ed  in  ogni  azione  loro  impor- 
tante, o civile  o militare;  nè  maisareb- 
bono  iti  ad  una  espedizionc,  che  non 
avessino  persuaso  ai  soldati  che  gli  Dei 
promettevano  loro  la  vittoria.  Ed  infra 
gli  altri  nuspicii,  avevano  negli  eserciti 
certi  ordini  di  aruspici,  che  e’ chiama- 
vano Pollarii:  e qualunque  volta  eglino 
ordinavano  di  fare  la  giornata  col  ne- 
mico, volevano  che  i Pollarii  fucessino 
i loro  auspicii;  e beccando  i polli,  com- 
battevano con  buono  augurio:  non  bec- 
cando, si  astenevano  dalla  zuffa.  Nondi- 
meno, quando  la  ragione  mostrava  loro 
una  cosa  doversi  fare,  non  ostante  che 
gli  auspicii  fossero  avversi,  la  facevano 
in  ogni  modo;  ma  rivoltavanla  con 
termini  e modi  tanto  attamente,  che 
non  paresse  che  la  fucessino  con  di- 
spregio dello  religione  : il  quale  ter- 


102 


DEI  DISCORSI 


mine  fu  usato  da  Papirio  consolo  in 
una  zuffa  clic  fece  importantissima  coi 
Sanniti,  dopo  la  quale  restorno  in  lutto 
deboli  ed  afflitti.  Perchè  sendo  Papirio 
in  su’  campi  rincontro  ai  Sanniti,  e pa- 
rendogli avere  nella  zuffa  la  vittoria 
certa,  e volendo  per  questo  fare  la  gior- 
nata, comandò  ai  Pollarii  che  fucessino 
i loro  auspicii;  ma  non  beccando  i polli, 
e veggendo  il  principe  de’ Pollarii  la 
gran  disposizione  dello  esercito  di -com- 
battere, e la  oppinione  che  era  nei  ca- 
pitano cd  in  tutti  i soldati  di  vincere, 
per  non  torre  occasione  di  bene  operare 
a quello  esercito,  riferi  al  Consolo  come 
gli  auspicii  procedevano  bene:  talché 
Papirio  ordinando  le  squadre,  ed  es- 
sendo da  alcuni  de' Pollarii  detto  a certi 
soldati,  i polli  non  aver  beccato,  quelli 
lo  dissono  a Spurio  Papirio  nipote  del 
Consolo;  e quello  riferendolo  al  Con- 
solo, rispose  subito,  eh’  egli  attendesse 
a fare  l’oflìzto  suo  bene,  e che  quanto 
a lui  ed  allo  esercito  gli  auspicii  erano 


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LIBRO  PRIMO.  J03 

rolli;  e se  il  Pollarlo  aveva  detto  le  bu- 
gie, ritornerebbono  in  pregiudicio  suo. 
E perchè  lo  effetto  corrispondesse  al 
pronostico,  comandò  ni  legati  clic  con* 
stituìssino  i Pollarii  nella  primo  fronte 
della  zuffa.  Onde  nacque  che,  andando 
contra  ai  nemici,  sendo  da  un  soldato 
romano  tratto  uno  dardo,  a caso  am- 
mazzò il  principe  de’ Pollarii;  la  qual 
cosa  udita  il  Console,  disse  come  ogni 
cosa  procedeva  bene,  e col  favore  degli 
Dii;  perchè  lo  esercito  con  la  morte  di 
quel  bugiardo  si  era  purgato  da  ogni 
colpa,  e da  ogni  ira  che  quelli  avessi- 
no preso  contra  di  lui.  E cosi,  col  sa- 
pere bene  accomodare  t disegni  suoi 
agli  auspicii,  prese  partito  di  azzuffarsi, 
senza  clic  quello  esercito  si  avvedesse 
che  in  alcuna  parte  quello  avesse  ne- 
gletti gli  ordini  della  loro  religione.  Al 
contrario  fece  Àppio  Pillerò  in  Sicilia, 
nella  prima  guerra  punica:  che  volendo 
azzuffarsi  con  P esercito  cartaginese,  fece 
fare  gli  auspicii  a’ Pollarii;  e referendo- 


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104  DEI  DISCORSI 

gli  quelli,  come  i polli  non  beccavano, 
disse  : veggiamo  se  volessero  bere  ; e 
gli  fece  giUare  in  mare.  Donde  che,  az- 
zuffandosi, perdette  la  giornata  : di  che 
egli  ne  fu  a Roma  condennato,  e Papirio 
onorato;  non  tanto  per  aver  V uno  vinto 
e P altro  perduto,  quanto  per  aver  1’  uno 
fatto  contra  agli  auspicii  prudentemente 
e l’altro  temerariamente.  Nè  ad  altro 
line  tendeva  questo  modo  dello  aruspi- 
care, che  di  fare  i soldati  confidente- 
mente ire  alla  zuffa  ; dalla  quale  confi- 
denza quasi  sempre  uasce  la  vittoria.  La 
qual  cosa  fu  non  solamente  usala  dai 
Romani,  ma  dalli  esterni  : di  che  mi  pare 
di  addurre  uno  esempio  nel  seguente 
capitolo. 

Cap.  XV.  — Come  i Sanniti,  per  estre- 
mo rimedio  alle  cose  loro  afflitte,  ri - 
corsono  alla  religione. 

Avendo  i Sanniti  avute  più  rotte  dai 
Romani,  ed  essendo  stati  per  ultimo  di- 


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Linuo  piumo.  105 

strutti  in  Toscana,  e morti  i loro  eserciti 
e gli  loro  capitani  ; ed  essendo  stali  vinti  i 
loro  compagni,  come  Toscani,  Franciosi 
ed  Umbri  ; ncc  suis,  nec  extcrnis  viri- 
bus  jam  slare  polcrant  : t amen  bello  non 
abstinebantj  adeo  ne  infeliciler  quidem 
defensae  libcrtatis  tcedcbalj  et  vinci > 
quarti  non  tentare  victorianij  malebant. 
Onde  deliberarono  far  ultima  prova:  e 
perché  ei  sapevano  che  a voler  vincere 
era  necessario  indurre  ostinazione  negli 
animi  de’ soldati,  c che  a indurla  non 
v’ era  miglior  mezzo  che  la  religione; 
pensarono  di  ripetere  uno  antico  loro  sa- 
crifìcio, mediante  Ovio  Faccio,  loro  sa- 
cerdote. Il  quale  ordinarono  in  questa 
forma  : che,  fatto  il  sacrificio  solenne,  e 
fatto  intra  le  vittime  morte  e gli  altari 
accesi  giurare  lutti  i capi  dello  esercito, 
di  non  abbandonare  mai  la  zuffa,  cita- 
rono i soldati  ad  uno  ad  uno  ; ed  intra 
quelli  altari,  nel  mezzo  di  più  centurioni 
con  le  spade  nude  in  mano,  gli  face- 
vano prima  giurare  che  non  ridirebbono 


I 0(1  DEI  DISCORSI 

cosa  che  vedessino  o sentissino;  dipoi, 
con  parole  esecrabili  e versi  pieni  di  spa- 
vento, gli  facevano  giurare  e promettere 
agli  Dii,  d’essere  presti  dove  gli  impe- 
radori  gli  comandassino,  c di  non  si  fug- 
gire mai  dalla  zuffa,  e d’ ammazzare 
qualunque  vedessino  che  si  fuggisse:  la 
qual  cosa  non  osservata,  tornasse  sopra 
il  capo  della  sua  famiglia  e della  sua 
stirpe.  Ed  essendo  sbigottiti  alcuni  di 
loro,  non  volendo  giurare,  subito  da’ loro 
centurioni  erano  morti;  talché  gli  altri 
che  succedevano  poi,  impauriti  dalla  fe- 
rocità dello  spettacolo,  giurarono  tutti. 
E per  fare  questo  loro  assembramento 
più  magnifico,  sendo  quarantamila  uo- 
mini, ne  vestirono  la  metà  di  panni 
bianchi,  con  creste  e pennacchi  sopra  le 
celate  ; e così  ordinati  si  posero  presso 
ad  Aquilonia.  Contra  a costoro  venne 
Papirio;  il  quale,  nel  confortare  i suoi 
soldati,  disse:  Non  enim  crislas  vulnera 
facere,  et  pietà  alque  aurata  scuta  tran- 
sirc  ttomanum  pileum.  E per  debilitare 


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nono  primo.  407 

la  oppinione  clic  avevano  i suoi  soldati 
de’ nemici  per  i)  giuramento. preso,  disse 
che  quello  era  per  essere  loro  a timore, 
non  a fortezza;  perchè  in  quel  medesi- 
mo tempo  avevano  uvere  paura  de’ cit- 
tadini, degli  Dii,  c de*  nemici.  E venuti 
al  conflitto,  furono  superati  i Sanniti; 
perchè  la  virtù  romana,  ed  il  timore 
conccputo  per  le  passate  rotte,  superò 
qualunque  ostinazione  ei  potessino  avere 
presa  per  virtù  della  religione  e per  il 
giuramento  preso.  Nondimeno  si  vede 
come  a lóro  non  parve  potere  avere  al- 
tro rifugio,  nè  tentare  altro  rimedio  a 
poter  pigliare  speranza  di  ricuperare  la 
perduta  virtù.  Il  che  testifica  appieno, 
quanta  confidcnzia  si  possa  avere  me- 
diante la  religione  bene  usata.  E benché 
questa  parte  piuttosto,  per  avventura,  si 
richiederebbe  esser  posta  intra  le  cose 
estrinseche  ; nondimeno,  dependendo  da 
uno  ordine  de’  più  importanti  della 
Repubblica  di  Roma,  mi  è parso  da 
commetterlo  in  questo  luogo,  per  non 


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^7 


108  DEI  DISCORSI 

dividere  questa  materia,  cd  averci  a 
ritornare  più  volte. 

Gap.  XVI.  — Un  popolo  uso  a vìvere 
sotto  un  principe,  se  per  qualche  ac- 
cidente diventa  libero,  con  difficultà 
mantiene  la  libertà. 

Quanta  difficultà  sia  ad  uno  popolo 
uso  a vivere  sotto  un  principe,  preser- 
vare dipoi  la  libertà,  se  per  alcuno  ac- 
cidente l’acquista,  come  l’acquistò  Ro- 
ma dopo  la  cacciala  de’Tarquini;  io 
dimostrano  infiniti  esempi  che  si  leggono 
nelle  memorie  delle  antiche  istorie.  E 
tale  difficultà  è ragionevole;  perchè  quel 
popolo  è non  altrimenti  che  uno  ani- 
male bruto,  il  quale,  ancora  che  di  fe- 
roce natura  e silvestre,  sia  stato  nu- 
drito  sempre  in  carcere  ed  in  servitù, 
che  dipoi  lasciato  a sorte  in  una  cam- 
pagna libero,  non  essendo  uso  a pa- 
scersi, nè  sappiendo  le  latebre  dove  si 
abbia  a rifuggire,  diventa  preda  del 


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LIBRO  PRIMO.  Ì09 

primo  che  cerca  rincatenarlo.  Questo  me- 
desimo interviene  ad  uno  popolo,  il  quale 
setido  uso  a vivere  sotto  i governi  d’al- 
tri, non  snppiendo  ragionare  nè  delle 
difese  o offese  pubbliche,  non  cogno- 
scendo  i principi  nè  essendo  conosciuto 
ila  loro,  ritorna  presto  sotto  un  giogo, 
il  quale  il  più  delle  volte  è più  grave 
che  quello  che  per  poco  innanzi  si  aveva 
levato  d’ in  su  ’1  collo  : e trovasi  in  que- 
ste difficullà,  ancora  che  la  materia  non 
sia  in  tutto  corrotta;  perchè  in  uno 
popolo  dove  in  lutto  è entrata  la  corru- 
zione, non  può,  non  che  picciol  tempo, 
ma  punto  vivere  libero,  come  di  sotto  si 
discorrerà:  e però  i ragionamenti  no- 
stri sono  di  quelli  popoli  dove  la  corru- 
zione non  sia  ampliata  assai,  c dove  sia 
più  del  buono  che  del  guasto.  Aggiun- 
gesi  alla  soprascritta,  un’  altra  difficultò; 
la  quale  è,  che  lo  Stato  che  diventa  li- 
bero, si  fa  partigiani  nemici,  e non 
partigiani  amici.  Partigiani  nemici  gli 
diventano  tutti  coloro  che  dello  Stalo  ti- 


no 


dei  dìscorsi 


Tannico  si  prevalevano,  pascendosi  delle 
ricchezze  del  principe;  a’ quali  sendo 
tolta  la  facoltà  del  valersi,  non  possono 
vivere  contenti,  e sono  forzati  ciascuno 
di  tentare  di  riassumere  la  tirannide, 
per  ritornare  nell’ autorità  loro.  Non  si 
acquista,  come  ho  detto,  partigiani  ami- 
ci ; perchè  il  vivere  libero  propone  onori 
e premii,  mediami  alcune  oneste  e de- 
. terminate  cagioni,  e fuori  di  quelle  non 
premia  nè  onora  alcuno;  e quando  uno 
ha  quelli  onori  e quelli  utili  che  gli  pare 
meritare,  non  confessa  avere  obbligo  con 
coloro  che  lo  rimunerano.  Oltre  a que- 
sto, quella  comune  utilità  che  del  vivere 
libero  si  trae,  non  è da  alcuno,  mentre 
che  ella  si  possiede,  conosciuta:  la  quale 
è di  potere  godere  liberamente  le  cose 
sue  senza  alcuno  sospetto,  non  dubitare 
dell’onore  delle  donne,  di  quel  de’ fi- 
gliuoli, non  temere  di  sè;  perchè  nis- 
suno  confesserà  mai  aver  obbligo  con 
uno  che  non  1’  offenda.  Però,  come  di 
sopra  si  dice,  viene  ad  avere  lo  Stato 


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LIBRO  PRIMO. 


libero  c che  «li  nuovo  surge,  partigiani 


non  partigiani  amici.  E vo 


nemici 

lendo  rimediare  a questi  inconvenienti, 
c a quegli  disordini  che  le  soprascritte 
diflìculta  si  arrecherebbono  seco,  non  ci 
è più  potente  rimedio,  nè  più  valido,  nè 
più  sano,  nè  più  necessario,  che  am- 
mazzare i figliuoli  di  Bruto:  i quali, 
come  l’istoria  mostra,  non  furono  in- 
dotti, insieme  con  altri  gioveni  romani, 
n congiurare  contra  alla  patria  per  al- 
tro, se  non  perchè  non  si  potevano  va- 
lere straordinariamente  sotto  i Consoli, 
come  sotto  i Re;  in  modo  che  la  libertà 
di  quel  popolo  pareva  che  fusse  diven- 
tata la  loro  servitù.  E chi  prende  a go- 
vernare una  moltitudine,  o per  via„di 
libertà  o per  via  di  principato,  e non 
si  assicura  di  coloro  che  a quell’ ordine 
nuovo  sono  nemici,  fa  uno  Stato  di  poca 
vita.  Vero  è ch’io  giudico  infelici  quelli 
principi,  che  per  assicurare  lo  Stato  loro 
hanno  a tenere  vie  straordinarie,  avendo 
per.  nemici  la  moltitudine:  perchè  quello 


112 


DEI  DISCORSI 


che  ha  per  nemici  i pochi,  facilmente 
e senza  molti  scandali,  si  assicura;  ma 
chi  ha  per  nemico  1’  universale,  non  si 
assicura  mai;  e quanta  più  crudeltà  usa, 
tanto  diventa  più  debole  il  suo  princi* 
palo.  Talché  il  maggior  rimedio  che  si 
abbia,  è cercare  di  farsi  il  popolo  amico. 
E benché  questo  discorso  sia  disformo 
dal  soprascritto,  parlando  qui  d’  un 
principe  e quivi  d’ una  repubblica  ; non- 
dimeno, per  non  avere  a tornare  più  in 
su  questa  materia,  ne  voglio  parlare  bre- 
vemente. Volendo,  pertanto,  un  principe 
guadagnarsi  un  popolo  che  gli  fusse  ne- 
mico, parlando  di  quelli  principi  che 
sono  diventati  della  loro  patria  tiranni  ; 
dico  eh’ ci  debbe  esaminare  prima  quello 
che  il  popolo  desidera,  e troverà  sem- 
pre ch’ei  desidera  due  cose;  Y una  ven- 
dicarsi contro  a coloro  che  sono  cagione 
che  sia  servo;  l’altra  di  riavere  la  sua 
libertà.  Al  primo  desiderio  il  principe 
può  satisfare  in  tutto,  al  secondo  in 
parte.  Quanto  al  primo,  ce  n’  è lo  csem- 


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LIBRO  PRIMO. 


m 

pio  appunto.  Clearco,  tiranno  di  Era- 
elea,  scudo  in  esilio,  occorse  che,  per 
controversia  venuta  intra  il  popolo  e gli 
ottimati  di  Eraclea,  veggendosi  gli  otti- 
mati inferiori,  si  volsono  a favorire 
Clearco,  c congiuratisi  seco  lo  missono, 
contea  alla  disposizione  popolare,  in 
Eraclea,  c toisono  la  libertà  al  popolo. 
In  modo  che,  trovandosi  Clearco  intra 
la  insolenzia  degli  ottimati,  i quali  non 
poteva  in  alcun  modo  nè  contentare  nè 
correggere,  c la  rabbia  de’  popolari,  che 
non  potevano  sopportare  lo  avere  per- 
duta la  libertà,  deliberò  ad  un  tratto 
liberarsi  dal  fastidio  de’ grondi,  c gua- 
dagnarsi il  popolo.  E presa  sopra  que- 
sto conveniente  occasione,  tagliò  a pezzi 
tutti  gli  ottimali,  con  una  estrema  sati- 
sfazione  de’ popolari.  E così  egli  per  que- 
sta via  satisfece  ad  una  delle  voglie  che 
hanno  i popoli,  cioè  di  vendicarsi.  Ma 
quanto  all’altro  popolare  desiderio  di 
riavere  la  sua  libertà,  non  potendo  il 
principe  satisfargli,  debbe  esaminare 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1. 


Hi 


DEI  DISCORSI 


quali  cagioni  sono  quelle  che  gli  fanno 
desiderare  d’essere  liberi;  e troverà  che 
una  piccola  parte  di  loro  desidera  d’es- 
sere libera  per  comandare;  ma  tutti  gli 
altri,  che  sono  infiniti,  desiderano  la  li- 
bertà per  vivere  securi.  Perchè  in  tutte 
le  repubbliche,  in  qualunque  modo  or- 
dinate, ai  gradi  del  comandare  non  ag- 
giungono mai  quaranta  o cinquanta  cit- 
tadini: e perchè  questo  è piccolo  nu- 
mero, è facil  cosa  assicurarsene,  o con 
levargli  via*  o con  far  lor  parte  di  tanti 
onori,  che  secondo  le  condizioni  loro  essi 
abbino  in  buona  parte  a contentarsi. 
Quelli  altri,  ai  quali  basta  vivere  securi, 
si  satisfanno  facilmente,  facendo  ordini 
e leggi,  dove  insieme  con  la  potenza  sua 
si  comprenda  la  sicurtà  universale.  E 
quando  uno  principe  faccia  questo,  e 
che  il  popolo  vegga  che  per  accidente 
nessuno  ei  non  rompa  tali  leggi,  comin- 
cerà  in  breve  tempo  a vivere  sccuro  e 
contento.  In  esempio  ci  è il  regno  di 
Francia,  il  quale  non  vive  securo  per 


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LIBItO  PRIMO. 


145 


altro,  che  per  essersi  quelli  Re  obbligati 
ad  infinite  leggi,  nelle  quali  si  com- 
prende la  securtn  di  tutti  i suoi  popoli. 
E chi  ordinò  quello  Stato,  volle  che  quelli 
Re,  dell’  arme  e del  danaio  facessino  a 
loro  modo,  ma  che  d’ogni  altra  cosa 
non  ne  potessino  altrimenti  disporre  che 
le  leggi  si  ordinassino.  Quello  principe, 
adunque,  o quella  repubblica  che  non 
si  assicura  nel  principio  dello  stato  suo, 
conviene  che  si  assicuri  nella  prima  oc- 
casione, come  fecero  i Romani.  Chi  lascia 
passare  quella,  si  pente  tardi  di  non 
aver  fatto  quello  che  doveva  fare.  Sendo, 
pertanto,  il  popolo  romano  ancora  non 
corrotto  quando  ci  recuperò  la  libertà, 
potette  mantenerla,  morti  i figliuoli  di 
Bruto  e spenti  i Tarquini,  con  tutti 
quelli  rimedi  ed  ordini  che  altra  volta 
si  sono  discorsi.  Ma  se  fussc  stato  quel 
popolo  corrotto,  nè  in  Roma  nè  altrove 
si  trovano  rimedi  validi  a mantenerla; 
come  nel  seguente  capitolo  mostreremo. 


IIG 


DEI  DISCORSI 


Cai».  XVII.  — Uno  popolo  coitoIIo , ve- 
nuto in  libertà,  si  può  con  difficullà 
( grandissima  mantenere  libera. 

lo  giudico  che  gli  era  necessario,  o 
die  i Re  si  estinguessino  in  Roma,  o che 
Roma  in  brevissimo  tempo  divenissi  de- 
bole, e di  nessuno  valore:  perchè,  con- 
siderando a quanta  corruzione  erano 
venuti  quelli  Re,  se  l'ussero  seguitati 
così  due  o tre  successioni,  e che  quella 
corruzione  che  era  in  loro,  si  fossi  co- 
minciata a distendere  per  le  membra; 
come  le  membra  fussino  state  corrotte, 
era  impossibile  mai  più  riformarla.  Ma 
perdendo  il  capo  quando  il  busto  era 
intero,  poterono  facilmente  ridursi  a vi- 
vere liberi  cd  ordinati.  E debbesi  pre- 
supporre per  cosa  verissima,  che  una 
città  corrotta  che  vive  sotto  un  prin- 
cipe, ancora  che  quel  principe  con  tutta 
la  sua  stirpe  si  spenga,  inai  non  si  può 
ridurre  libera;  anzi  conviene  che  Putì 


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LIBRO  PRIMO.  117 

principe  spenga  l’ allro;  e senza  crea- 
zione d’un  nuovo  signore  non  si  posa 
mai,  se  già  la  bontà  d’  uno,  insieme  con 
la  virtù,  non  la  tenessi  libera  ; ma  du- 
rerà tanto  quella  libertà,  quanto  durerà 
la  vita  di  quello:  come  intervenne  a Si- 
racusa di  Dione  e di  Timoleone,  la  virtù 
de’  quali  in  diversi  tempi,  mentre  vis- 
sero, tenne  libera  quella  città;  morti  clic 
furono,  si  ritornò  nell'antica  tirannide. 
Ma  non  si  vede  il  più  forte  esempio  che 
quello  di  Roma;  la  quale  cacciati  i Tar- 
quini,  potette  subito  prendere  e mante- 
nere quella  libertà:  ma  morto  Cesare, 
morto  Caligula,  morto  Nerone,  spenta 
tutta  la  stirpe  cesarea,  non  potette  inai, 
non  solamente  mantenere,  ma  pure  dare 
principio  alla  libertà.  Nè  tanta  diversità 
di  evento  in  una  medesima  città  nacque 
da  altro,  se  non  da  non  essere  ne’ tempi 
de’Tarquini  il  popolo  romano  ancora 
corrotto;  ed  in  questi  ultimi  tempi  es- 
sere corrottissimo.  Perchè  allora,  a man- 
tenerlo saldo  e disposto  a fuggire  i Re, 


iis 


DEI  DISCORSI 


bastò  solo  furio  giurare  che  non  eon- 
sentirebbe  mai  che  a Roma  alcuno  re- 
gnasse; e negli  altri  tempi,  non  bastò 
T autorità  e severità  di  Bruto,  con  tutte 
le  legioni  orientali,  a tenerlo  disposto  a 
volere  mantenersi  quella  libertà  che  es- 
so, a similitudine  del  primo  Bruto,  gli 
aveva  rendutu.  Il  che  nacque  da  quella 
corruzione  che  le  parli  mariane  avevano 
messa  nel  popolo;  delle  quali  essendo 
capo  Cesare  potette  accecare  quella  mol- 
titudine, eh* ella  non  conobbe  il  giogo 
che  da  sè  medesima  si  metteva  in  sul 
collo.  E benché  questo  esempio  di  Roma 
sia  da  preporre  a qualunque  altro  esem- 
pio, nondimeno  voglio  a questo  proposito 
addurre  innanzi  popoli  conosciuti  ne*  no- 
stri tempi.  Pertanto  dico,  che  nessuno  ac- 
cidente, benché  grave  e violento,  potrebbe 
redurre  mai  Milano  o Napoli  libere,  per 
essere  quelle  membra  tutte  corrotte.  H 
che  si  vide  dopo  la  morte  di  Filippo  Vi- 
sconti; che  volendosi  ridurre  Milano  alia 
libertà,  non  potette  e non  seppe  man- 


LIBRO  PRIMO.  i i 9 

tenerla.  Però,  fu  felicità  grande  quella 
di  Koma,  che  questi  Re  diventassero 
corrotti  presto,  acciò  ne  fussino  cacciati, 
cd  innanzi  che  la  loro  corruzione  fosse 
passata  nelle  viscere  di  quella  città:  la 
quale  incorruzione  fu  cagione  che  gl’ in- 
finiti tumulti  che  furono  in  Roma,  avendo 
gli  uomini  il  fine  buono,  non  nocerouo, 
anzi  giovarono  alla  Repubblica.  E si  può 
fare  questa  conclusione,  che  dove  la 
materia  non  è corrotta,  i tumulti  cd 
altri  scandali  non  nuòcono:  dove  la  è 
corrotta,  le  leggi  bene  ordinate  non  gio- 
vano, se  già  le  non  son  mosse  da  uno 
che  con  una  estrema  forza  le  facci  os- 
servare, tanto  che  la  materia  diventi 
buona.  Il  che  non  so  se  sie  mai  inter- 
venuto, o se  fusse  possibile  ch’egli  in- 
tervenisse: perchè  c’  si  vede,  come  poco 
di  sopra  dissi,  che  una  città  venuta  in 
declinazione  per  corruzione  di  materia, 
se  mai  occorre  che  la  si  levi,  occorre 
per  la  virtù  d’ uno  uomo  eh’  è vivo  al- 
lora, non  per  la  virtù  dello  universale 


DEI  DISCORSI 


1 20 

clic  sostengo  gli  ordini  buoni  ; c subito 
che  quei  tale  è morto,  la  si  ritorna  nei 
suo  pristino  abito;  come  intervenne  a 
Tebe,  la  quale  per  la  virtù  di  Epami- 
nonda, mentre  lui  visse,  potette  tenere 
forma  di  repubblica  e di  imperio  ; ma 
morto  quello,  la  si  ritornò  ne’  primi  di- 
sordini suoi.  La  cagione  è,  che  non  può 
essere  un  uomo  di  tanta  vita,  che  ’l 
tempo  basti  ad  avvezzare  bene  una  città 
lungo  tempo  male  avvezza.  E se  uno 
d’  una  lunghissima  vita,  o due  succes- 
sioni virtuose  conlinove  non  la  dispon- 
gono; come  una  manca  di  loro,  come 
di  sopra  è detto,  subito  rovina,  se  già 
con  molti  pericoli  c molto  sangue  c’  non 
la  facesse  rinascere.  Perchè  tale  corru- 
zione e poca  attitudine  olla  vita  libera, 
nasce  da  una  inequulità  che  è in  quella 
città:  e volendola  ridurre  equale,  è ne- 
cessario usare  grandissimi  estraordi- 
nari; i quali  pochi  sanno  o vogliono 
usare,  come  in  altro  luogo  più  partico- 
larmente si  dirà. 


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LIBRO  PRIMO. 


Cap.  XVIII.  — In  che  modo  «ci.c;  min 
corrotte  si  potesse  mantenere  tino  stalo 
liòerOj  essendovi;  o non  essendovi , 
ordinartelo. 


Io  credo  clic  non  sia  fuori  di  propo- 
sito, nè  disformo  dal  soprascritto  di- 
scorso, considerare  se  in  una  città  cor- 
rotta si  può  mantenere  lo  stato  libero, 
scndovi  ; o quando  e’  non  vi  fosse,  se 
vi  si  può  ordinare.  Sopra  la  qual  cosa 
dico,  come  gli  è mollo  difficile  fare  o 
l’uno  o l' altro:  e benché  sia  quasi  im- 
possibile darne  regola,  perchè  sarebbe 
necessario  procedere  secondo  i gradi 
della  corruzione;  nondimnneo,  essendo 
bene  ragionare  d’ogni  cosa,  non  voglio 
lasciare  questa  indietro.  E presuppongo 
una  città  corrottissima,  donde  verrò  ad 
accrescere  più  tale  difficoltà;  perché  non 
si  trovano  nè  leggi  nè  ordini  che  ba- 
stino a frenare  una  universale  corru- 
zione. Perchè,  così  come  gli  buoni  co- 


122 


DEI  DISCORSI 


stumf,  per  mantenersi,  hanno  bisogno 
delle  leggi;  cosi  le  leggi,  per  osservarsi, 
hanno  bisogno  de’  buoni  costumi.  Oltre 
di  questo,  gli  ordini  e le  leggi  fatte  in 
una  repubblica  nel  nascimento  suo, 
quando  erano  gli  uomini  buoni,  non  sono 
dipoi  più  a proposito,  divenuti  che  sono 
tristi.  E se  le  leggi  secondo  gli  accidenti 
in  una  città  variano,  non  variano  mai, 

0 rade  volte,  gli  ordini  suoi:  il  che  fa 
che  le  nuove  leggi  non  bastano,  perchè 
gli  ordini,  che  stanno  saldi,  le  corrom- 
pono. E per  dare  ad  intendere  meglio 
questa  parte,  dico  come  in  Roma  era 
l’ordine  del  governo,  o vero  dello  Stato; 
c le  leggi  dipoi,  che  con  i magistrati 
frenavano  i cittadini.  L’ordine  dello 
Stato  era  l’ autorità  del  Popolo,  del  Se- 
nato, dei  Tribuni,  dei  Consoli,  il  modo 
di  chiedere  e del  creare  i magistrati, 
ed  il  modo  di  fare  le  leggi.  Questi  or- 
dini poco  o nulla  variarono  nelii  acci- 
denti. Variarono  le  leggi  che  frenavano 

1 cittadini;  come  fu  la  legge  degli  adul- 


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LIBRO  PRIMO.  123 

feri!,  la  suntuaria,  quella  della  ambi- 
zione, e molte  altre  ; secondo  clic  di 
mano  in  mano  i cittadini  diventavano 
corrotti.  Ma  lenendo  fermi  gli  ordini 
dello  Stato,  che  nella  corruzione  non 
erano  più  buoni,  quelle  leggi  che  si  rin- 
novavano, non  bastavano  a mantenere 
gli  uomini  buoni;  ma  sarebbonn  bene 
giovate,  se  con  la  innovazione  delle  leggi 
si  fussero  rimutati  gli  ordini.  G che  sia 
il  vero  che  tali  ordini  nella-  città  cor- 
rotta non  fossero  buoni,  e’ si  vede 
espresso  in  due  capi  principali.  Quanto 
al  creare  i magistrati  e le  leggi,  non 
dava  il  Popolo  romano  il  consolato,  e gli 
altri  primi  gradi  della  città,  se  non  a 
quelli  che  lo  dimandavano.  Questo  or- 
dine fu  nel  principio  buono,  perchè 
e’ non  gli  domandavano  se  non  quelli 
cittadini  che  se  ne  giudicavano  degni, 
ed  averne  la  repulsa  era  ignominioso; 
si  che,  per  esserne  giudicati  degni,  cia- 
scuno operava  bene.  Diventò  questo 
modo,  poi,  nella  città  corrotta  pernizio* 


424 


DEI  DISCORSI 


-f7 


sissiiuo  ; perchè  non  quelli  che  avevano 
più  virtù,  ma  quelli  che  avevano  più 
potenza,  domandavano  i magistrali;  e 
gl’ impotenti,  comecché  virtuosi,  se  ne 
astenevano  di  domandargli  per  paura. 
Vcnnesi  a questo  inconveniente,  non  ad 
un  tratto,  ma  per  i mezzi,  come  si  cade 
in  tutti  gli  altri  iuconveiiienti  : perchè 
avendo  i Romani  domata  l’Affrica  e l’Asia, 
e ridotta  quasi  tutta  la  Grecia  a sua  ohi* 
dienza,  erano  divenuti  sicuri  della  li- 
bertà loro,  nè  pareva  loro  avere  più 
nimici  che  dovessero  fare  loro  paura. 
Questa  securtà  e questa  debolezza  de’  ne- 
mici fece  che  il  Popolo  romano,  nel  dare 
il  consolato,  non  riguardava  più  la  virtù, 
ma  la  grazia  ; tirando  a quel  grado 
quelli  che  meglio  sapevano  iutrattenere 
gli  uomini,  non  quelli  che  sapevano  me- 
glio vincere  i nemici:  di  poi,  da  quelli 
che  avevano  più  grazia,  discesero  a dar- 
gli a quelli  che  avevano  più  potenza; 
talché  i buoni,  per  difetto  di  tale  ordi- 
ne, ne  rimasero  al  tutto  esclusi.  Poteva 


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LIBRO  PRIMO.  425 

uno  Tribuno,  e qualunque  altro  citta- 
dino, proporre  al  Popolo  una  legge;  so- 
pra la  quale  ogni  cittadino  poteva  par- 
lare, o in  favore  o incontro,  innanzi  che 
la  si  deliberasse.  Era  questo  ordine  buo- 
no, quando  i cittadini  erano  buoni  ; per- 
che sempre  fu  bene,  che  ciascuno  clic 
intende  uno  bene  per  il  pubblico,  lo 
possa  proporre;  ed  è bene  che  ciascuno 
sopra  quello  possa  dire  l’oppinione  sua, 
acciocché  il  Popolo,  inteso  ciascuno, 
possa  poi  eleggere  il  meglio.  Ma  diven- 
tati i cittadini  cattivi,  diventò  tale  or- 
dine pessimo,  perchè  solo  i potenti  pro- 
ponevano leggi,  non  per  la  comune  li- 
bertà, ina  perla  potenza  loro;ccontra 
a quelle  non  poteva  parlare  alcuno  per 
paura  di  quelli  : talché  il  Popolo  veniva 
o ingannato  o sforzato  a deliberare  la 
sua  rovina.  Ero  necessario,  pertanto,  a 
volere  che  Roma  nella  corruzione  si 
mantenesse  libera,  che,  cosi  come  aveva 
nel  processo  del  vivere  suo  fatte  nuove 
leggi,  l’avesse  fatti  nuovi  ordini:  per- 


126  DEI  DISCORSI 

«thè  altri  ordini  e modi  di  vivere  si 
debbe  ordinare  in  un  soggetto  cattivo, 
che  in  un  buono  ; nè  può  essere  la  for- 
ma simile  in  una  materia  al  tutto  con- 
traria. Ma  perchè  questi  ordini,  o e’ si 
hanno  a rinnovare  tutti  ad  un  tratto, 
scoperti  che  sono  non  esser  più  buoni, 
o a poco  a poco,  in  prima  che  si  co- 
noschiuo  per  ciascuno  ; dico  che  1*  una 
e l’altra  di  queste  due  cose  è quasi  im- 
possibile. Perchè,  a volergli  rinnovare 
a poco  a poco,  conviene  che  ne  sia  ca- 
gione uno  prudente,  che  veggio  questo 
inconveniente  assai  discosto,  e quando 
e’ nasce.  Di  questi  tali  è facilissima  cosa 
che  in  una  città  non  ne  surga  mai  nes- 
suno : e quando  pure  ve  ne  surgesse, 
non  potrebbe  persuadere  mai  ad  altrui 
quello  che  egli  proprio  intendesse;  per- 
chè gli  uomini  usi  a vivere  in  un  mo- 
do, non  lo  vogliono  variare;  e tanto  più 
non  veggiendo  il  male  in  viso,  ma  avendo 
ad  essere  loro  mostro  per  con  letture. 
Quando  ad  innovare  questi  ordini  ad  un 


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LIBRO  PRIMO.  I 27 

(ratio,  quando  ciascuno  conosce  clic  non 
sono  buoni,  dico  che  questa  inutilità, 
clic  facilmente  si  conosce,  è diffìcile  a 
ricorreggerla:  perchè  a fare  questo,  non 
basta  usare  termini  ordinari,  essendo  i 
modi  ordinari  cattivi;  ma  è necessario 
venire  allo  istraordinario,  come  è alla 
violenza  ed  all’ armi,  e diventare  in* 
nanzi  ad  ogni  cosa  principe  di  quella 
città,  e poterne  disporre  a suo  modo.  E 
perchè  il  riordinare  una  città  al  vivere 
politico  presuppone  uno  uomo  buono, 
ed  il  diventare  per  violenza  principe  di 
una  repubblica  presuppone  un  uomo 
cattivo;  per  questo  si  troverà  che  radis- 
sime volte  accaggia,  che  uno  uomo  buono 
voglia  diventare  principe  per  vie  cattive, 
ancoraché  il  fine  suo  fusse  buono;  e che 
uno  reo  divenuto  principe,  voglia  ope- 
rare bene,  e che  gli  caggia  mai  nell’ani- 
mo usare  quella  autorità  bene,  che  egli 
ha  male  acquistata.  Da  tutte  le  sopra- 
scritte  cose  nasce  la  diffìcultà,  o impos- 
sibilità, che  è nelle  città  corrotte,  a 


1*28 


DKI  DISCORSI 


mantenervi  una  repubblica,  o a crear- 
vela  di  nuovo.  E quando  pure  la  vi  si 
avesse  a creare  o a mantenere,  sarebbe 
necessario  ridurla  più  verso  lo  stato  re- 
gio, che  verso  lo  stato  popolare;  accioc- 
ché quelli  uomini  i quali  dalle  leggi,  per 
la  loro  insolenzia,  non  possono  essere 
corretti,  lusserò  da  una  podestà  quasi 
regia  in  qualche  modo  frenati.  Ed  a vo- 
lergli fare  per  altra  via  diventare  buo- 
ni, sarebbe  o crudelissima  impresa,  o 
al  tutto  impossibile;  come  io  dissi  di  so- 
pra che  fece  Cleomene;  il  quale  se,  per 
essere  solo,  ammazzò  gli  Efori;  e se  Ro- 
molo, per  le  medesime  cagioni,  ammazzò 
il  fratello  e Tito  Tazio  Sabino,  e dipoi 
usarono  bene  quella  loro  autorità  ; non- 
dimeno si  debbe  avvertire  che  V uno  e 
T altro  di  costoro  non  avevano  il  sog- 
getto di  quella  corruzione  macchiato 
della  quale  in  questo  capitolo  ragionia- 
mo, e però  poterono  volere  e,  volendo, 
colorire  il  disegno  loro. 


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Linno  primo. 


Cai*.  XIX.  — Dopo  uno  eccellente  prin- 
cipio si  può  mantenere  un  principe 
debole ; ma  dopo  un  debole,  non  si 
può  con  un  (diro  debole  mantenere 
alcun  regno. 

» jt  4 I*  f..«  I n i f < K F ijk  | • * (•» 

Considerato  la  virtù  ed  il  modo  del 
procedere  di  Romolo,  Ninna  c di  Tulio, 
i primi  tre  Re  romani;  si  vede  come 
Roma  sortì  una  fortuna  grandissima, 
avendo  il  primo  Re  ferocissimo  e belli- 
coso, 1’  altro  quieto  e religioso,  il  terzo 
simile  di  ferocia  a Romolo,  e più  ama- 
tore della  guerra  che  della  pace.  Perchè 
in  Roma  era  necessario  che  surgesse 
ne’  primi  principii  suoi  un  ordinatore 
«lei  vivere  civile,  ina  era  bene  poi 
necessario  che  gli  altri  Re  ripiglias- 
sero la  virtù  di  Romolo;  altrimenti, 
quella  città  sarebbe  diventala  effeminata, 
e preda  de’  suoi  vicini.  Donde  si  può 
notare,  che  uno  successore  non  di  tanta 
virtù  quanto  il  primo,  può  mantenere 

• è 9 

Machiavelli,  Discorm. — ». 


1 30 


DE!  DISCORSI 


uno  Stato  per  la  virtù  di  colui  che  PIm 
retto  innanzi,  e si  può  godere  te  sue 
fatiche:  ma  s’ egli  avviene  o che  sia  di 
lunga  vita,  o che  dopo  lui  non  surga 
un  altro  che  ripigli  la  virtù  di  quel  pri- 
mo, è necessitato  quel  regno  a rovinare. 
Cosi,  per  il  contrario,  se  due,  1*  uno  dopo 
P altro,  sono  di  gran  virtù,  si  vede  spesso 
che  fanno  cose  grandissime,  e che  ne 
vanno  con  la  fama  in  fino  al  cielo.  Da- 
vit,  senza  dubbio,  fu  un  uomo  per  arme, 
per  dottrina,  per  giudizio  eccellentissi- 
mo; e fu  tanta  la  sua  virtù,  che,  avendo 
vinti  ed  abbattuti  tutti  i suoi  vicini,  la- 
sciò a Salomone  suo  figliuolo  un  regno 
pacifico:  quale  egli  si  potette  con  le  arti 
«Iella  pace,  e non  della  guerra,  conser- 
vare; e si  potette  godere  felicemente  la 
virtù  di  suo  padre.  Ma  non  potette  già 
lasciarlo  a Roboan  suo  figliuolo;  il  quale 
non  essendo  per  virtù  simile  allo  avolo, 
nè  per  fortuna  simile  al  padre,  rimase 
con  fatica  erede  della  sesta  parte  del 
rt'guo.  Baisit,  sultan  de’ Turchi,  ancora 


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LIBRO  PRIMO.  131 

die  fusse  più  amatore  della  pace  che 
della  guerra,  potette  godersi  le  fatiche 
di  Maumelto  suo  padre;  il  quale  avendo, 
come  Davit,  battuti  i suoi  vicini,  gli  la- 
sciò un  regno  fermo,  e da  poterlo  con 
F arte  della  pace  facilmente  conservare. 
Ma  se  il  figliuolo  suo  Salì,  presente  si- 
gnore, fusse  stalo  simile  al  padre,  c non 
all’avolo,  quel  regno  rovinava  : ma  e’ si 
vede  costui  essere  per  superare  la  glo- 
ria dell'avolo.  Dico  pertanto  con  questi 
esempi,  clic  dopo  uno  eccellente  principe 
si  può  mantenere  un  principe  debole; 
ma  dopo  un  debole  non  si  può  con  un 
altro  debole  mantenere  alcun  regno,  se 
già  e’  non  fusse  come  quello  di  Francia, 
che  gli  ordini  suoi  antichi  lo  mantenes- 
sero: e quelli  principi  sono  deboli,  che 
non  stanno  in  su  la  guerra.  Couchiudo 
pertanto  con  questo  discorso,  clic  la 
virtù  di  Romolo  fu  tanta,  che  la  po- 
tette dare  spazio  a Numa  Pompilio  di 
potere  molti  anni  con  1’  arte  della  pace 
reggere  Roma  : ma  dopo  lui  successe 


DEI  DISCORSI 


13*2 

Tulio,  il  quale  pei*  la  sua  ferocia  ri- 
prese la  reputazione  di  Romolo:  dopo 
il  quale  venne  Anco,  in  modo  dalla  na- 
tura dotato,  che  poteva  usare  la  pace, 
e sopportare  la  guerra.  E prima  si  di- 
rizzò a volere  tenere  la  via  della  pace: 
ma  subito  conobbe  come  i vicini,  giu- 
dicandolo effeminato,  lo  stimavano  poco: 
talmente  che  pensò  che,  a voler  mante- 
nere Roma,  bisognava  volgersi  alla  guer- 
ra, e somigliare  Romolo,  e non  Numa. 
Da  questo  piglino  esempio  tutti  i prin- 
cipi che  tengono  stato,  che  chi  somi- 
glierà Numa,  lo  terrà  o non  terrà,  se- 
condo ehe  i tempi  o la  fortuna  gli  girerà 
sotto:  ma  chi  somiglierà  Romolo,  e lui 
come  esso  armato  di  prudenza  e d’armi, 
lo  terrà  in  ogni  modo,  se  da  una  osti- 
nata ed  eccessiva  forza  non  gli  è tolto. 
K certamente  si  può  stimare,  che  se 
Roma  sortiva  per  terzo  suo  Re  un  uomo 
che  non  sapesse  con  le  armi  renderle 
la  sua  reputazione,  non  arebbe  mai  poi, 
o con  grandissima  dilTìcultà,  potuto  pi- 


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LIBRO  PRIMO.  133 

gliare  piede,  nè  fare  quelli  effetti  ch’ella 
fece.  E così,  in  mentre  eh’ ella  visse  sotto 
i Re,  la  portò  questi  pericoli  di  rovi- 
nare sotto  un  Re  o debole  o tristo. 


Cap.  XX.  — Due  continove  successioni  di 
principi  virtuosi  fanno  grandi  effetti: 
c come  le  repubbliche  bene  ordinate 
hanno  di  necessità  virtuose  successio- 
ni: c però  gli  acquisti  ctl  auQumcnli 
loro  sono  grandi. 


Poi  che  Roma  ebbe  cacciati  i Re,  mancò 
di  quelli  pericoli  i quali  di  sopra 
detti  che  la  portava,  succedendo  in  lei 
uno  Re  o debole  o tristo.  Perchè  la 
somma  dello  imperio  si  ridusse  nc’  Con- 
soli, i quali  non  per  eredità  o per  in- 
ganni o per  ambizione  violenta,  ma  per 
suffragi  liberi  venivano  a quello  impe- 
rio, ed  erano  sempre  uomini  eccellen- 
tissimi: de’quali  godendosi  Roma  la  virtù 
e la  fortuna  di  tempo  in  tempo,  potette 
venire  a quella  sua  ultima  grandezza  in 


DEI  DISCORSI 


IU 

altrettanti  unni,  che  la  era  stata  sotto  i 
Re.  Perchè  si  vede,  come  due  coutinove 
successioni  di  principi  virtuosi  sono  suf- 
fìzienti  ad  acquistare  il  mondo:  come  fu- 
rono Filippo  di  Macedonia  ed  Alessandro 
Magno,  il  clic  tanto  più  debbe  fare  una 
repubblica,  avendo  il  modo  dello  eleg- 
gere non  solamente  due  successioni,  ma 
infiniti  principi  virtuosissimi,  che  sono 
l’uno  dell'altro  successori:  la  quale  vir- 
tuosa successione  fia  sempre  in  ogni  re- 
pubblica bene  ordinata. 

Cap.  XXI.  — Quanto  biasimo  meriti  quel 
principe  e quella  repubblica  che  manca 
d'armi  proprie. 

Debbono  i presenti  principi  c le  mo- 
derne repubbliche,  le  quali  circa  le  di- 
fese ed  offese  mancano  di  soldati  pro- 
pri, vergognarsi  di  loro  medesime  j e 
pensare,  con  lo  esempio  di  Tulio,  tale 
difetto  essere  non  per  mancamento  d’uo- 
mini alti  alla  milizia,  ma  per  colpa  loro, 


.-J 


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LIBRO  PRIMO.  135 

che  non  hanno  saputo  fare  i loro  uo- 
mini militari.  Perchè  Tulio,  scudo  stata 
Roma  in  pace  quaranta  anni,  non  trovò, 
succedendo  lui  nel  regno,  uomo  che  fussc 
stato  mai  alla  guerra  : nondimeno,  dise- 
gnando lui  fare  guerra,  non  pensò  di 
valersi  nè  di  Sanniti,  nè  di  Toscani,  nè 
di  altri  che  fussero  consueti  stare  nel- 
l'armi;  ma  deliberò,  come  uomo  pru- 
dentissimo, di  valersi  de’ suoi.  E fu  tanta 
la  sua  virtù,  che  in  un  tratto  il  suo  go- 
verno gli  potè  fare  soldati  eccellentissi- 
mi. Ed  è più  vero  che  alcuna  altra  ve- 
rità, che  se  dove  sono  uomini  non  sono 
soldati,  nasce  per  difetto  del  principe, 
e non  per  altro  difetto  o di  sito  o di 
natura  : di  che  ce  n’*è  uno  esempio  fre- 
schissimo. Perchè  ognuno  sa,  come 
ne’ prossimi  tempi  il  re  d’Inghilterra  as- 
saltò il  regno  di  Francia,  nè  prese  altri 
soldati  clic  i popoli  suoi  ; e per  essere 
stato  quel  regno  più  clic  trenta  anni 
senza  far  guerra,  non  aveva  nè  soldato 
nè  capitano  che  avesse  mai  militato: 


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13G  DEI  DISCORSI 

nondimeno,  ei  non  dubitò  con  quelli  as- 
saltare uno  regno  pieno  di  capitani  e 
di  buoni  eserciti,  i quali  erano  stati 
continovamcnte  sotto  l'armi  nelle  guerre 
d’Italia.  Tutto  nacque  da  essere  quel  re 
prudente  uomo,  e quel  regno  bene  ordi- 
nato; il  quale  nel  tempo  della  pace  non 
intermette  gli  ordini  della  guerra.  Pelo- 

• pida  ed  Epaminonda  tebani,  poiché  gli 

* ebbero  libera  Tebe,  e trattola  dalla  ser- 
vitù dello  imperio  spartano;  trovandosi 
in  una  città  usa  a servire,  ed  in  mezzo 
di  popoli  effeminati  ; non  dubitarono, 
tanta  era  la  virtù  loro  ! di  ridurgli  sotto 
Parrai,  e con  quelli  andare  a trovare 
alla  campagna  gli  eserciti  spartani,  e 
vincergli  : e chi  he  scrive,  dice  come 
questi  due  in  breve  tempo  mostrarono, 
che  non  solamente  in  bacedemonia  na- 
scevano gli  uomini  di  guerra,  ma  in  ogni 
altra  parte  dove  nascessino  uomini, 
pur  che  si  trovasse  chi  li  sapesse  indi- 
rizzare alla  milizia,  come  si  vede  che 
Tulio  seppe  indirizzare  i Romani.  E Vir- 


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LIRR0  PRIMO. 


gilio  non  potrebbe  meglio  esprimere 

questa  oppinione,  nè  con  altre  parole 

mostrare  di  aderirsi  a quella,  dove  dice: 

u ...  . Desidesque  movebit 
Tullus  in  arma  viros.  „ 


Cap.  XXII.  — Quello  che  sia  da  notare 

nel  caso  dei  tre  Orazi  romani , e dei 

Ire  Curiazi  albani. 

Tulio,  re  di  Roma,  e Mezio,  re  di  Al- 
ba, convennero  che  quel  popolo  fusse  si- 
gnore dell’ altro,  di  cui  i soprascritti  tre 
uomini  vincessero.  Furono  morti  tutti  i 
Curiazi  albani,  restò  vivo  uno  degli 
Orazi  romani;  e per  questo,  restò  Me- 
zio, re  albaiio,  con  il  suo  popolo,  sug- 
gello ai  Romani.  E tornando  quello  Ora- 
zio  vincitore  in  Roma,  e scontrando  una 
sua  sorella,  che  era  ad  uno  de’ tre  Cu- 
riazi morti  maritata,  clic  piangeva  la 
morte  del  marito;  1* ammazzò.  Donde 
quello  Orazio  per  questo  fallo  fu  messo' 
in  giudizio,  e dopo  molte  dispute  fu  li* 


13S 


DEI  DISCORSI 


bero,  più  per  li  prìeglii  del  padre,  clic 
per  li  suoi  meriti.  Dove  sono  da  notare 
Ire  cose:  una,  che  mai  non  si  debbe 
con  parte  delle  sue  forze  arrischiare 
tutta  la  sua  fortuna  ; l’ altra,  che  non 
mai  in  una  città  bene  ordinata  li  dev 
meriti  con  li  ineriti  si  ricompensano;  la 
terza,  che  non  mai  sono  i partiti  savi, 
dove  si  debba  o possa  dubitare  della 
inosservanza.  Perchè,  gl’  importa  tanto 
a una  città  lo  essere  serva,  che  mai  non 
si  doveva  credere  che  alcuno  di  quelli 
Re  o di  quelli  Popoli  stessero  contenti 
che  tre  loro  cittadini  gli  avessino  sotto* 
messi  ; come  si  vide  che  volle  fare  Me- 
zio:  il  quale,  benché  subito  dopo  la  vit- 
toria de’ Romani  si  confessassi  vinto,  e 
promettessi  la  obedienza  a Tulio;  non- 
dimeno nella  prima  espedizione  che  egli 
ebbono  a convenire  contra  i Veienli,  si 
vide  come  ci  cercò  d’ ingannarlo  ; come 
quello  che  tardi  s’era  avveduto  della 
temerità  del  partito  preso  da  lui.  E per- 
chè di  questo  terzo  notabile  se  n’’è  pnr- 


j 


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LIBRO  PRIMO.  139 

luto  assai,  parleremo  solo  degli  altri  due 
ne’ seguenti  duoi  capitoli. 

Cap.  XXIII.  — Che  non  si  debbe  met- 
tere a pericolo  tutta  la  fortuna  e non 
tutte  le  forze  ; c per  questo j spesso  il 
guardare  i passi  è dannoso. 

Non  fu  mai  giudicato  partito  savio 
mettere  a pericolo  tutta  la  fortuna  tua, 
e non  tutte  le  forze.  Questo  si  fu  in  più 
modi.  L’uno  è facendo  come  Tulio  e Me- 
zio,  quando  e’  commissouo  la  fortuna 
tutta  della  patria  loro,  e la  virtù  di 
tanti  uomini  quanti  avea  l’uno  e l’altro 
di  costoro  negli  eserciti  suoi,  alla  virtù  e 
fortuna  di  tre  de’loro  cittadini,  clic  veniva 
ad  essere  una  minima  parte  delle  forze 
di  ciascuno  di  loro.  Nè  si  avvidono,  co- 
me per  questo  partito  tutta  la  fatica  che 
avevano  durata  i loro  antecessori  nel- 
l’ ordinare  la  repubblica,  per  farla  vivere 
lungamente  libera  e per  fare  i suoi  cit- 
tadini difensori  della  loro  libertà,  era 


DEI  DISCORSI 


uo 

quasi  che  suta  vana,  stando  nella  po- 
tenza di  sì  pochi  a perderla.  La  qual  cosa 
da  quelli  Re  non  potè  esser  peggio  con- 
siderata. Cadesi  ancora  in  questo  incon- 
veniente quasi  sempre  per  coloro,  che, 
venendo  il  nemico,  disegnano  di  tenere 
i luoghi  diffìcili,  e guardare  i passi:  per- 
chè quasi  sempre  questa  deliberazione 
sarà  dannosa,  se  giù  in  quello  luogo 
diffìcile  comodamente  tu  non  potessi  te- 
nere tutte  le  forze  tue.  In  questo  caso, 
tuie  partito  è da  prendere;  ma  scndo  il 
luogo  aspro,  e non  vi  potendo  tenere 
tutte  le  forze  tue,  il  partito  è dannoso. 
Questo  mi  fa  giudicare  cosi  lo  esempio 
di  coloro  che,  essendo  assaltati  da  un 
nemico  potente,  ed  essendo  il  paese  loro 
circondato  da’  monti  e luoghi  alpestri, 
noti  hanno  mai  tentato  di  combattere  il 
nemico  in  su’  passi  e in  su’  monti,  ma 
sono  iti  ad  incontrarlo  di  là  da  essi:  o, 
quando  non  hanno  voluto  far  questo,  lo 
hanno  aspettato  dentro  a essi  monti,  in 
luoghi  benigni  e non  alpestri.  E la  cu- 


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LIBRO  MIMO.  141 

gioite  ne  è suta  la  preallegata  : perchè, 
non  si  polendo  condurre  alla  guardia 
de’ luoghi  alpestri  molli  uomini,  sì  per 
non  vi  potere  vivere  lungo  tempo,  si 
per  essere  i luoghi  stretti  e capaci  di 
pochi;  non  è possibile  sostenere  un  ne- 
mico clic  venga  grosso  ad  urtarti:  ed  al 
nemico  è facile  il  venire  grosso,  perchè 
la  intenzione  sua  è passare,  e non  fer- 
marsi; ed  a chi  l’ aspetta  è impossibile 
aspettarlo  grosso,  avendo  ad  alloggiarsi 
per  più  tempo,  non  sapendo  quando  il 
nemico  voglia  passare  in  luoghi,  com’  io 
ho  detto,  stretti  e sterili.  Perdendo, 
adunque,  quel  passo  che  tu  ti  avevi 
presupposto  tenere,  e nel  quale  i tuoi 
popoli  e lo  esercito  tuo  confidava,  entra 
il  più  delle  volte  ne’ popoli  e nel  residuo 
delle  genti  tue  tanto  terrore,  che  senza 
potere  esperimentare  la  virtù  di  esse, 
rimani  perdente;  c così  vieni  ad  avere 
perduta  tutta  la  tua  fortuna  con  parte 
delle  tue  forze.  Ciascuno  sa  con  quanta 
diftìcultà  Annibaie  passasse  r Alpi  che 


142  DEI  DISCORSI 

dividono  la  Lombardia  dalia  Francia,  e 
con  quanta  difficoltà  passasse  quelle  che 
dividono  la  Lombardia  dalla  Toscana  : 
nondimeno  i Romani  l’aspettarono  prima 
in  sul  Tesino,  e dipoi  uel  piano  d’Arez- 
zo;  e vollon  più  tosto,  che  il  loro  eser- 
cito fusse  consumato  dal  nemico  nelli 
luoghi  dove  poteva  vincere,  che  con- 
durlo su  per  l’Alpi  ad  esser  destrutto 
dalla  malignità  del  sito.  E chi  leggerà 
sensatamente  tutte  le  istorie,  troverà  po- 
chissimi virtuosi  capitani  over  tentato 
di  tenere  simili  passi,  e per  le  ragioni 
dette,  e perchè  e'  non  si  possono  chiu- 
dere tutti;  sendo  i monti  come  campa- 
gne, ed  avendo  non  solamente  le  vie 
consuete  e frequentate,  ma  molte  altre, 
le  quali  se  non  sono  note  a’ forestieri, 
sono  note  a’ paesani  ; con  l’aiuto  de’quali 
sempre  sarai  condotto  in  qualunque  luo- 
go, contra  alla  voglia  di  citi  ti  si  op- 
pone. Di  che  se  ne  può  addurre  uno 
freschissimo  esempio,  nel  T 51 5 . Quando 
Francesco  re  di  Francia  disegnava  pas- 


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LIBRO  PRIMO. 


Wò 

sare  in  Italia  per  lu  recuperatone  dello 
Stalo  di  Lombardia,  il  maggiore  fonda- 
mento clic  facevano  coloro  eli’ erano  alla 
sua  impresa  contrari,  era  che  gli  Sviz- 
zeri lo  terrebbono  a’ passi  in  su’ monti.  E, 
come  per  esperienza  poi  si  vide,  quel  loro 
fondamento  restò  vano:  perché,  lasciato 
quel  re  da  parte  due  o tre  luoghi  guardati 
da  loro,  se  ne  venne  per  un’  altra  via 
incognita  ; e fu  prima  in  Italia,  e loro  ap- 
presso, che  lo  avessino  presentilo.  Talché 
loro  isbigottiti  si  ritirarono  in  Milano,  e 
tutti  i popoli  di  Lombardia  si  aderirono 
alle  genti  franciose;  sendo  mancali  di 
quella  oppinione  avevano,  che  i Franciosi 
dovessino  essere  tenuti  su’ monti. 

Cap.  XXIV.  — Le  repubbliche  bene  or- 
dinate costituiscono  premii  c pene 
aJ  loro  cittadini;  ne  compensano  mai 
r uno  con  l*  altro. 

Erano  stati  i meriti  di  Orazio  gran- 
dissimi, avendo  con  la  sua  virtù  vinti 


1U 


DLk  uisconsi 


i Curiazi.  Era  stato  il  fallo  suo  atroce, 
avendo  morto  la  sorella  : nondimeno  dis- 
piacque tanto  tale  omicidio  ai  Romani, 
che  io  condussero  a disputare  della  vita, 
non  ostante  che  gli  meriti  suoi  fossero 
tanto  grandi  c sì  freschi.  La  qual  cosa 
a chi  superficialmente  la  considerasse, 
parrebbe  uno  esempio  d’ ingratitudine 
popolare:  nondimeno  chi  la  esaminerà 
meglio,  e con  migliore  considerazione 
ricercherà  quali  debbono  essere  gli  or- 
dini delle  repubbliche,  biasimerà  quel 
popolo  più  tosto  per  averlo  assoluto, 
che  per  averlo  voluto  condeunare.  E la 
ragione  è questa,  che  nessuna  repub- 
blica bene  ordinata,  non  mai  cancellò  i 
demeriti  con  gli  meriti  de’ suoi  cittadi- 
ni; ma  avendo  ordinati  i preraii  ad 
una  buona  opera  e le  pene  ad  una  cat 
tiva,  ed  avendo  premiato  uno  per  aver 
bene  operato,  se  quel  medesimo  opera 
dipoi  male,  lo  gastica,  senza  avere  ri- 
guardo alcuno  alle  sue  buone  opere.  E 
quando  questi  ordini  sono  bene  osser- 


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LIBRO  PRIMO. 


445 

vati,  una  città  vive  libera  molto  tempo; 
altrimenti,  sempre  rovinerà  presto.  Per- 
chè, se  ad  un  cittadino  che  abbia  fatto 
qualche  egregia  opera  per  la  città,  si 
aggiugne,  oltre  alla  riputazione  che 
quella  cosa  gli  arreca,  una  audacia  e 
confidenza  di  potere,  senza  temer  pena, 
fare  qualche  opera  non  buona  ; diven- 
terà in  brievc  tempo  tanto  insolente,  che 
si  risolverà  ogni  civilità.  È ben  neces- 
sario, volendo  clic  sia  temuta  la  pena 
per  le  triste  opere,  osservare  i premii 
per  le  buone;  come  si  vede  che  fece 
Roma.  C benché  una  repubblica  sia  po- 
vera, e possa  dare  poco,  debbe  di  quel 
poco  non  astenersi;  perchè  sempre  ogni 
piccolo  dono,  dato  ad  alcuno  per  ricom- 
penso di  bene  ancora  che  grande,  sarà 
stimato,  da  chi  lo  riceve,  onorevole  e 
grandissimo.  È notissima  la  istoria  di 
Orazio  Code,  e quella  di  Muzio  Sccvola: 
come  V uno  sostenne  i nemici  sopra  un 
ponte,  tanto  che  si  tagliasse:  l’altro  si 
arse  la  mano,  avendo  errato,  volendo 

.VAcnuvELti,  Discorsi.  — 1.  10 


140 


DEI  DISCORSI 


ammazzare  Porscna,  re  delli  Toscani.  A 
costoro  per  queste  due  opere  tanto  egre- 
gie, fu  donato  dal  pubblico  due  staiora 
di  terra  per  ciascuno.  È nota  ancora  la 
istoria  di  Manlio  Capitolino.  A costui, 
per  aver  salvato  il  Campidoglio  da' Galli 
che  vi  erano  a campo,  fu  dato  da  quelli 
che  insieme  eon  lui  vi  erano  assediati 
dentro,  una  piccola  misura  di  farina,  il 
quale  premio,  secondo  la  fortuna  che  al- 
lora correva  in  Roma,  fu  grande;  e di 
qualità  che,  mosso  poi  Manlio,  o da  in- 
vidia o dalla  sua  cattiva  natura,  a far 
nascere  sedizione  in  Roma,  e cercando 
guadagnarsi  il  popolo,  fu,  senza  rispetto 
alcuno  de’ suoi  meriti,  gittato  precipite 
da  quello  Campidoglio  ch’egli  prima,  cou 
tanta  sua  gloria,  aveva  salvo. 


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LIBRO  PRIMO. 


147 

Cap.  XXV.  — Chi  vuole  riformare  uno 
stalo  antico  in  una  città  libera,  ri- 
tenga almeno  l’ombra  desmodi  an- 
tichi. 

Colui  che  desidera  o clic  vuole  rifor- 
mare uno  stato  d’una  città,  a volere  elle 
sia  accetto,  e poterlo  con  satisfazione  di 
ciascuno  mantenere,  è necessitato  a ri- 
tenere l’ombra  almanco  de’ modi  anti- 
chi, acciò  che  a’ popoli  non  paia  avere 
mutato  ordine,  ancora  che  in  fatto  gli 
ordini  nuovi  fussero  al  tutto  alieni  dai 
passati;  perchè  lo  universale  degli  uo- 
mini si  pasce  così  di  quel  che  pare,  co- 
me di  quello  che  è;  anzi  molte  volte  si 
muovono  più  per  le  cose  che  paiono, 
che  per  quelle  clic  sono.  Per  questa  ca- 
gione i Romani,  conoscendo  nel  princi- 
pio del  loro  vivere  libero  questa  neces- 
sità, avendo  in  cambio  d’ un  Re  creali 
duoi  Consoli,  non  vollono  ch’egli  aves- 
sino più  clic  dodici  littori,  per  non  pas- 


448 


DEI  DISCORSI 


sare  il  numero  di  quelli  che  ministra- 
vano ai  Re.  Olirà  di  questo,  facendosi 
in  Roma  uno  sacrifizio  anniversario,  il 
quale  non  poteva  esser  fatto  se  non 
dalla  persona  del  Re;  e volendo  i Ro- 
mani che  quel  popolo  non  avesse  a de- 
siderare per  la  assenzia  degli  Re  alcuna 
cosa  dell’  antiche j,  creorono  un  capo  di 
detto  sacrifìcio,  il  quale  loro  chiamo- 
rono  Re  Sacrifìcolo,  e lo  sottomessono  al 
sommo  Sacerdote  : talmentechè  quel  po- 
polo per  questa  via  venne  a satisfarsi 
di  quel  sacrifizio,  e non  avere  mai  ca- 
gione, per  mancamento  di  esso,  di  de- 
siderare la  tornata  dei  Re.  E questo  si 
debbe  osservare  da  tutti  coloro  che  vo- 
gliono scancellare  uno  antico  vivere  in 
una  città,  e ridurla  ad  uno  vivere  nuovo 
c libero.  Perchè  alterando  le  cose  nuove 
le  menti  degli  uomini,  ti  debbi  ingegnare 
che  quelle  alterazioni  ritenghino  più  del- 
r antico  sia  possibile;  e se  i magistrati 
variano  e di  numero  e d'autorità  e di 
tempo  dagli  antichi,  che  almeno  riten- 


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I 

UDRÒ  PRIMO.  -149 

gliino  il  nome.  E questo,  come  ho  detto, 
debbe  osservare  colui  che  vuole  ordi- 
nare  una  potenza  assoluta,  o per  via  di 
repubblica  o di  regno:  ma  quello  che  vuol 
fare  una  potestà  assoluta,  quale  dagli 
autori  è chiamala  tirannide,  debbe  rin- 
novare ogni  cosa,  come  nel  seguente  ca- 
pitolo si  dirò. 

I . .. 

I 

Cap.  XXVI.  — Un  principe  nuovo , in 
i ima  città  o provincia  presa  da  lui , 

1 debbe  fare  ogni  cosa  nuova. 


Qualunque  diventa  principe  o d’  una 
città  o d’uno  Stato,  e tanto  più  quando 
i fondamenti  suoi  lussino  deboli,  c non 
si  volga  o per  via  di  regno  o di  repub- 
blica alla  vita  civile;  il  mcgliore  rime- 
dio che  egli  abbia  a tenere  quel  prin- 
cipato, è,  sendo  egli  nuovo  principe, 
fare  ogni  cosa  di  nuovo  in  quello  Stalo: 
come  è,  nelle  città  fare  nuovi  governi 
con  nuovi  nomi,  con  nuove  autorità,  con 
nuovi  uomini;  fare  i poveri  ricchi, 


4 50 


DEI  DISCORSI 


fece  Davil  quando  ei  diventò  Re:  qui 
csuricnles  implevil  bonis,  et  divites  di * 
mirti  inanes  ; edificare  oltra  di  questo 
nuove  città,  disfare  delie  fatte,  cambiare 
gli  abitatori  da  un  luogo  ad  un  altro; 
ed  in  somma,  non  lasciare  cosa  niuna 
intatta  in  quella  provincia,  e che  non 
vi  sia  nè  grado,  nè  ordine,  nè  stato,  uè 
ricchezza,  che  chi  la  tiene  non  la  rico- 
nosca da  te;  c pigliare  per  sua  mira 
Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Alessan- 
dro, il  quale  con  questi  modi,  di  pic- 
colo Re,  diventò  principe  di  Grecia.  E 
chi  scrive  di  lui,  dice  che  tramutava  gli 
uomini  di  provincia  in  provincia,  come 
i mandriani  tramutano  le  mandrie  loro. 
Sono  questi  modi  crudelissimi,  e nemici 
d’ogni  vivere,  non  solamente  cristiano, 
ma  umano;  e debbegli  qualunche  uomo 
fuggire,  c volere  piuttosto  vivere  pri- 
vato, che  Re  con  tanta  rovina  degli  uo- 
mini : nondimeno,  colui  che  non  vuole 
pigliare  quella  prima  via  del  bene, 
quando  si  voglia  mantenere,  conviene 


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LIBRO  PRIMO.  151 

die  entri  in  questo  male.  >la  gli  uomini 
pigliano  certe  vie  del  mezzo,  clic  sono 
dannosissime;  perchè  non  sanno  essere 
nè  tutti  buoni  nè  tutti  cattivi:  come  nel 
seguente  capitolo,  per  esempio,  si  mo- 
strerà. 

Cap.  XXVII.  — Sanno  rarissime  volle 
gli  uomini  essere  al  lutto  tristi  o al 
fulto  buoni. 


Papa  Giulio  secondo,  andando  nel  1505 
a Bologna  per  cacciare  di  quello  Stato 
la  casa  de’Bentivogli,  la  quale  aveva  te- 
nuto il  principato  di  quella  città  cento 
anni,  voleva  ancora  trarre  Giovampa- 
goto  Buglioni  di  Perugia,  della  quale  era 
tiranno,  come  quello  che  aveva  congiu- 
rato contro  a tutti  gli  tiranni  che  occu- 
pavano le  terre  della  Chiesa.  E perve- 
nuto presso  a Perugia  con  questo  animo 
e deliberazione  nota  a ciascuno,  non 
aspettò  di  entrare  in  quella  città  con  lo 
esercito  suo  che  lo  guardasse,  mn  %i 


ibi 


DEI  DISCORSI 


entrò  disarmato,  non  ostante  vi  fusse 
dentro  Giovampagolo  con  genti  assai, 
quali  per  difesa  di  sè  aveva  ragunate. 
Sicché,  portato  da  quel  furore  con  il 
quale  governava  tutte  le  cose,  con  la 
semplice  sua  guardia  si  rimesse  nelle 
mani  del  nemico  ; il  quale  dipoi  ne  menò 
seco,  lasciando  un  governadore  in  quella 
citta,  che  rendesse  ragione  per  la  Chie- 
sa. Fu  notala  dagli  uomini  prudenti  che 
col  papa  erano,  la  temerità  del  papa  e 
la  viltà  di  Giovampagolo  ; uè  potevano 
stimare  donde  si  venisse  che  quello  noti 
avesse,  con  sua  perpetua  fama,  oppresso 
ad  un  tratto  il  nemico  suo,  e sè  arric- 
chito di  preda,  sendo  col  papa  tutti  li 
cardinali,  con  tutte  le  lor  delizie.  Nè  si 
poteva  credere  si  fusse  astenuto  o per 
bontà,  o per  conscienza  che  lo  ritenesse; 
perchè  in  un  petto  d’ un  uomo  facinoroso, 
che  si  teneva  la  sorella,  che  aveva  morti 
i cugini  cd  i nepoti  per  regnare,  non 
poteva  scendere  alcuno  pietoso  rispetto: 
ina  si  conchiuse,  che  gli  uomini  non 


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UDRÒ  PRIMO.  153 

sanno  essere  onorevolmente  tristi,  o per- 
fettamente buoni;  e come  una  tristizia 
ha  in  sè  grandezza,  o è in  alcuna  parte 
generosa,  eglino  non  vi  sanno  entrare. 
Cosi  Giovampagolo,  il  quale  non  stimava 
essere  incesto  e pubblico  parricida,  non 
seppe,  o,  a dir  meglio,  non  ardì,  aven- 
done giusta  occasione,  fare  una  impresa, 
dove  ciascuno  avesse  ammirato  l’animo 
suo,  e avesse  di  sè  lasciato  memoria 
eterna;  sendo  il  primo  che  avesse  dimo- 
stro ai  prelati,  quanto  sia  da  stimar 
poco  chi  vive  c regna  come  loro;  ed 
avesse  fatto  una  cosa,  la  cui  grandezza 
avesse  superato  ogni  infamia,  ogni  pe- 
ricolo, clic  da  quella  potesse  depeudere. 


Cap.  XXVIII.  — Per  qual  cagione  i Ro- 
mani furono  meno  ingrati  agli  loro 
cittadini  che  gli  Ateniesi. 

Qualunque  legge  le  cose  fatte  dalle 
repubbliche,  troverà  in  tutte  qualche 
spezie  di  ingratitudine  contro  a’  suoi  cit- 


154 


DEI  DISCORSI 


*¥  I 

. il 


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« 

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1 

I 

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ladini;  ma  ne  troverà  meno  in  Roma 
che  in  Atene>  e per  avventura  in  qua- 
lunque altra  repubblica.  E ricercando  la 
cagione  di  questo,  parlando  di  Roma  c 
di  Atene,  credo  accadesse  perchè  i Ro- 
mani avevano  meno  cagione  di  sospet- 
tare de’ suoi  cittadini,  che  gli  Ateniesi. 
Perchè  a Roma,  ragionando  di  lei  dalla 
cacciata  dei  Re  intino  a Siila  e Mario, 
non  fu  mai  tolta  la  libertà  da  alcuno 
.suo  cittadino:  in  modo  che  in  lei  non 
era  grande  cagione  di  sospettare  di  loro, 
e,  per  conseguente,  di  offendergli  incon- 
sideratamente. intervenne  bene  ad  Atene 
il  contrario:  perché,  sendole  tolta  la  li- 
bertà da  Pisistrato  nel  suo  più  florido 
tempo,  e sotto  uno  inganno  di  bontà  ; 
come  prima  la  diventò  poi  libera,  ricor- 
dandosi delle  ingiurie  ricevute  e della 
passata  servitù,  diventò  acerrima  vendi- 
catrice non  solamente  degli  errori,  ma 
delP  ombra  degli  errori  de' suoi  citta- 
dini. Di  qui  nacque  l’esilio  e la  morte 
di  tanti  eccellenti  uomini;  di  qui  Por- 


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LIBRO  PRIMO.  155 

dine  dello  ostracismo,  ed  ogni  altra  vio- 
lenza che  contra  i suoi  ottimati  in  vari 
tempi  da  quella  città  fu  fatta.  Ed  è ve- 
rissimo quello  che  dicono  questi  scrit- 
tori della  civiltà:  che  i popoli  mordono 
più  fieramente  poi  ch’egli  hanno  recu- 
perala la  libertà,  che  poi  che  l’hanno 
conservala.  Chi  considerrà  adunque, 
quanto  è detto,  non  biasimerà  in  que- 
sto Atene,  nè  lauderà  Roma;  ma  ne  ac- 
cuserà solo  la  necessità,  per  la  diversità 
degli  accidenti  che  in  queste  città  nacque- 
ro. Perchè  si  vedrà,  chi  considererà  le 
cose  sottilmente,  che  se  a Roma  fusse 
siila  tolta  la  libertà  come  a Atene,  non 
sarebbe  stata  Roma  più  pia  verso  i suoi 
cittadini,  che  si  fusse  quella.  Di  che  si 
può  fare  verissima  conieltura  per  quello 
che  occorse,  dopo  la  cacciata  dei  Re, 
contra  a Collatino  ed  a Publio  Valerio: 
de’ quali  il  primo,  ancora  elicsi  trovasse 
a liberare  Roma,  fu  mandato  in  esilio 
non  per  altra  cagione  che  per  tenere  il 
nome  de’  Tarquini  ; P altro,  avendo  solo 


156 


DEI  DISCORSI 


«lato  di  sè  sospetto  per  edificare  una 
casa  in  sul  monte  Celio,  fu  ancora  per 
essere  fatto  esule.  Talché  si  può  sti- 
mare, veduto  quanto  Roma  fu  in  questi 
due  sospettosa  e severa,  che  Farebbe 
usata  la  ingratitudine  come  Atene,  se 
da’suoi  cittadini,  come  quella  ne’ primi 
tempi  ed  innanzi  allo  augumento  suo, 
fosse  stata  ingiuriata.  G per  non  avere 
a tornare  più  sopra  questa  materia  della 
ingratitudine,  ne  dirò  quello  ne  occor- 
rerà nel  seguente  capitolo. 

Cap.  XXIX.  — Quale  sia  più  ingrato , 
o un  popolo j o un  principe. 

Egli  mi  pare,  a proposito  della  so- 
prascritta materia,  da  discorrere  quale 
usi  con  maggiori  esempi  questa  ingra- 
titudine, 0 un  popolo,  o un  principe.  E 
per  disputare  meglio  questa  parte,  dico, 
come  questo  vizio  della  ingratitudine 
nasce  o dalla  avarizia,  o dal  sospetto. 
Perchè,  quando  o un  popolo  o un  pria- 


LIBRO  PRIMO.  457 

cipe  ha  mandato  fuori  un  suo  capitano 
in  una  cspedizione  importante,  dove 
quel  capitano,  vincendola,  ne  abbia 
acquistata  assai  gloria  ; quel  principe  o 
quel  popolo  è tenuto  allo  incontro  a pre- 
miarlo: e se,  in  cambio  di  premio,  o ei 
lo  disonora  o ei  T offende,  mosso  dalla 
avarizia,  non  volendo,  ritenuto  da  que- 
sta cupidità,  satisfarli;  fa  uno  errore 
che  non  ha  scusa,  anzi  si  tira  dietro 
una  infamia  eterna.  Pure  si  trovano  mol- 
ti principi  che  ci  peccano.  E Cornelio 
Tacito  dice,  con  questa  sentenzia,  la  ca- 
gione: Proclivius  est  inj ur ite,  quarti  be- 
neficio vicem  cxsolvcre,  quia  grafia  one- 
ri, ultio  in  questu  fiabe  tur.  Ma  quando 
ei  non  lo  premia,  o,  a dir  meglio,  l’of- 
fende, non  mosso  da  avarizia,  ma  da  so- 
spetto; allora  merita,  e il  popolo  e il 
principe,  qualche  scusa.  E di  queste  in- 
gratitudini usate  per  tal  cagione,  se  ne 
legge  assai  : perchè  quello  capitano  il 
quale  virtuosamente  ha  acquistato  uno 
imperio  al  suo  signore,  superando  i ne- 


i58 


DEI  DISCORSI 


mici,  e riempiendo  sè  di  gloria  e gli 
suoi  soldati  di  ricchezze;  di  necessità,  e 
con  i soldati  suoi,  e con  i nemici,  e coi 
sudditi  propri  di  quel  principe  acquista 
tanta  reputazione,  che  quella  vittoria 
non  può  sapere  di  buono  a quel  signore 
che  lo  ha  mandato.  G perchè  la  natura 
degli  uomini  è ambiziosa  e sospettosa, 
e non  sa  porre  modo  a ntssuna  sua  for- 
tuna, è impossibile  che  quel  sospetto  che 
subito  nasce  nel  principe  dopo  la  vit- 
toria di  quel  suo  capitano,  non  sia  da 
quel  medesimo  accresciuto  per  qualche 
suo  modo  o termine  usato  insolente- 
mente.  Talché  il  principe  non  può  peu- 
sare  ad  altro  che  assicurarsene;  e per 
fare  questo,  pensa  o di  farlo  morire,  o 
di  torgli  la  reputazione  che  egli  si  ha 
guadagnala  nel  suo  esercito  e ne’ suoi 
popoli:  e con  ogni  industria  mostrare 
che  quella  vittoria  è nata  non  per  la 
virtù  di  quello,  ma  per  fortuna,  o per 
viltà  dei  nemici,  o per  prudenza  degli 
altri  capitani  clic  sono  stati  seco  in  tale 


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LIBRO  PRIMO.  151) 

l’azione.  Poiché  Vespasiano,  sendo  in  Giu- 
dea fu  dichiarato  dal  suo  esercito  im- 
peradore  ; Antonio  Primo,  che  si  trovava 
con  un  altro  esercito  in  llliria,  prese  le 
parti  sue,  e ne  venne  in  Italia  contea  a 
Vitellio  il  quale  regnava  a Roma,  e vir- 
luosissimamente  ruppe  due  eserciti  Vi- 
telliani,  c occupò  Roma  ; talché  Muziano, 
mandato  da  Vespasiano,  trovò  per  la 
virtù  d’Antonio  acquistato  • il  tutto,  e 
vinta  ogni  di ffìcultà.  11  premio  che  Au- 
tonio  ne  riportò,  fu  che  Muziano  gli 
tolse  subito  la  ubidienza  dello  esercito, 
e a poco  a poco  io  ridusse  in  Roma 
senza  alcuna  autorità:  talché  Antonio  ne 
andò  a trovare  Vespasiano,  il  quale  era 
ancora  in  Asia;  dal  quale  fu  in  modo 
ricevuto,  che,  in  breve  tempo,  ridotto  in 
nessun  grado,  quasi  disperato  morì.  E 
di  questi  esempi  ne  sono  piene  le  isto- 
rie.  Ne’  nostri  tempi,  ciascuno  che  al 
presente  vive,  sa  con  quanta  industria 
e virtù  Consalvo  Ferrante,  militando  nel 
regno  di  Napoli  contra  a’ Franciosi  per 


HO 


DEI  DISCORSI 


Ferrando  Re  di  Ragona,  conquistasse  e 
vincesse  quel  regno;  e come,  per  pre- 
mio di  vittoria,  ne  riportò  che  Ferrando 
si  parti  da  Ragona,  e,  venuto  a Napoli, 
in  prima  gli  levò  la  obedienza  delle 
genti  d’ arme,  c dipoi  gli  tolse  le  fortezze, 
ed  appresso  lo  menò  seco  in  Spagna; 
dove  poco  tempo  poi,  inonorato,  mori. 
È tanto,  dunque,  naturale  questo  so- 
spetto ne’ principi,  che  non  se  ne  pos- 
sono difendere;  ed  è impossibile  ch’egli 
usino  gratitudine  a quelli  che  con  vit- 
toria hanno  fatto  sotto  le  insegne  loro 
grandi  acquisti.  E da  quello  che  non  si 
difende  un  principe,  non  è miracolo,  nè 
cosa  degna  di  maggior  considerazione, 
s.e  un  popolo  non  se  ne  difende.  Perchè, 
avendo  una  città  che  vive  libera,  duoi 
fini,  V uno  lo  acquistare,  l’altro  il  man- 
tenersi libera  ; conviene  che  nell’  una 
cosa  e nell’  altra  per  troppo  amore  erri. 
Quanto  agli  errori  nello  acquistare,  se 
ne  dirà  nel  luogo  suo.  Quanto  agli  er- 
rori per  mantenersi  libera,  sono,  intra 


J 


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LIBRO  PRIMO. 


i 6 1 


gli  altri,  questi:  di  offendere  quei  cit- 
tadini elicla  doverrebbe  premiare;  aver 
sospetto  di  quelli  in  cui  si  doverrebbe 
confidare.  E benché  questi  modi  in  una 
repubblica  venuta  alla  corruzione  siano 
cagione  di  grandi  mali,  c che  molle 
volte  piuttosto  la  viene  alla  tirannide, 
come  intervenne  a Roma  di  Cesare,  che 
per  forza  si  tolse  quello  che  la  ingrati- 
tudine gli  negava;  nondimeno  in  una 
repubblica  non  corrotta  sono  cagione  di 
gran  beni,  e fanno  che  la  ne  vi\e  li- 
bera più,  mantenendosi  per  paura  ili 
punizione  gli  uomini  migliori,  e meno 
ambiziosi.  Vero  è che  infra  tutti  i po- 
poli che  mai  ebbero  imperio,  per  le  ca- 
gioni di  sopra  discorse,  Roma  fu  la  meno 
ingrata  : perchè  della  sua  ingratitudine 
si  può  dire  che  non  ci  sia  altro  esem- 
pio che  quello  di  Scipione;  perchè  Co- 
riolano  c Cammillo  fumo  fatti  esuli 
per  ingiuria  che  l’uno  e l’altro  aveva 
fatto  alla  Plebe.  Ma  all’  uno  non  fu  per- 
donato,  per  aversi  sempre  riserbato 

MACHIAVELLI,  Discorsi.—  1- 


DEI  DISCORSI 


% 


162 

contea  al  Popolo  l’animo  nemico;  Pai* 
teo  non  solamente  fu  richiamato,  ma 
per  tutto  il  tempo  della  sua  vita  ado* 
rato  come  principe.  Ma  la  ingratitudine 
usata  a Scipione,  nacque  da  un  sospetto 
che  i cittadini  cominciorno  avere  di  lui, 
che  degli  altri  non  s’era  avuto:  il  quale 
nacque  dalla  grandezza  del  nemico  che 
Scipione  aveva  vinto;  dalla  reputazione 
che  gli  aveva  data  la  vittoria  di  sì  lunga 
e pericolosa  guerra;  dalla  celerità  di 
essa  ; dai  favori  che  la  gioventù,  la  pru* 
denza,  e le  altre  sue  memorabili  virtuti 
gli  acquistavano.  Le  quali  cose  furono 
tante,  che,  non  che  altro,  i magistrati  di 
Roma  temevano  della  sua  autorità:  la 
qual  cosa  spiaceva  agli  uomini  savi, 
come  cosa  inconsueta  in  Roma.  E parve 
tanto  straordinario  il  vivere  suo,  che 
Catone  Prisco,  riputato  santo,  fu  il  primo 
a fargli  contra  ; e a dire  che  una  città 
non  si  poteva  chiamare  libera,  dove  era 
un  cittadino  che  fusse  temuto  dai  ma- 
gistrati. Talché,  se  il  popolo  di  Roma 


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LIBRO  PRIMO.  463 

1 seguì  in  questo  caso  la  opinione  di  Ca- 
tone, merita  quella  scusa  che  di  sopra 
ho  detto  meritare  quelli  popoli  e quelli 
principi  che  per  sospetto  sono  ingrati. 
Conchiudendo  adunque  questo  discorso, 
dico,  che  usandosi  questo  vizio  della  in- 
gratitudine o per  avarizia  o per  sospet- 
to, si  vedrà  come  i popoli  non  mai  per 
T avarizia  la  usorno,  e per  sospetto  assai 
i manco  che  i principi,  avendo  meno  ca- 
gione di  sospettare:  come  di  sotto  si 
dirà. 

• Irli  li ^ lì r J.& uiut  » 4 - ìlì'J 

Cap.  XXX.  — Quali  modi  debbo  usare 
un  principe  o una  repubblica  per  fug- 
gire questo  vizio  della  ingratitudine  : 
c quali  quel  capitano  o quel  cittadino 
per  non  essere  oppresso  da  quella. 


Un  principe,  per  fuggire  questa  ne- 
cessità di  avere  a vivere  con  sospetto, 
o esser  ingrato,  debbe  personalmente 
andare  nelle  espedizioni;  come  facevano 
nel  principio  quelli  imperadori  romani, 

I 


16t 


DEI  DISCORSI 


9 


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come  fu  ne’ tempi  nostri  il  Turco,  c co- 
me hanno  fatto  e fanno  quelli  che  sono 
virtuosi.  Perchè,  vincendo,  la  gloria  e lo 
acquisto  è tutto  loro;  e quando  non  vi 
sono,  sendo  la  gloria  d’altrui,  non  pare 
loro  potere  usare  quello  acquisto,  s’ ei 
non  spengono  in  altrui  quella  gloria  che 
loro  non  hanno  saputo  guadagnarsi,  e 
diventare  ingrati  ed  ingiusti  : e senza 
dubbio,  è maggiore  la  loro  perdita,  che 
il  guadagno.  Ma  quando,  o per  negli- 
genza o per  poca  prudenza,  e’ si  riman- 
gono a casa  oziosi,  c mandano  un  capi- 
tano; io  non  ho  che  precetto  dar  loro 
altro,  che  quello  che  per  lor  medesimi 
si  sanno.  .Ma  dico  bene  a quel  capitano, 
giudicando  io  che  non  possa  fuggire  i 
morsi  della  ingratitudine,  che  faccia  una 
delle  due  cose:  o subito  dopo  la  vittoria 
lasci  lo  esercito  c rimettasi  nelle  mani 
del  suo  principe,  guardandosi  da  ogni 
atto  insolente  o ambizioso;  acciocché 
quello,  spogliato  d’ogni  sospetto,  abbia 
cagione  o di  premiarlo  o di  non  lo  of- 


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LIBRO  PRIMO.  465 

fendere  : o,  quando  questo  non  gli  paia 
di  fare,  prenda  animosamente  la  parte 
contraria,  e tenga  tutti  quelli  modi  per 
li  quali  creda  che  quello  acquisto  sia 
suo  proprio  e non  del  principe  suo,  fa- 
cendosi benivoli  i soldati  ed  i sudditi; 
e faccia  nuove  amicizie  coi  vicini,  oc- 
cupi con  li  suoi  uomini  le  fortezze,  cor- 
rompa i principi  del  suo  esercito,  e di 
quelli  che  non  può  corrompere  si.  assi- 
curi; e per  questi  modi  cerchi  di  pu- 
nire il  suo  signore  di  quella  ingratitu- 
dine che  esso  gli  userebbe.  Altre  vie 
non  ci  sono:  ma,  come  di  sopra  si  disse, 
gli  uomini  non  sanno  essere  nè  al  tutto 
tristi,  nè  al  tutto  buoni:  e sempre  in- 
terviene che,  subito  dopo  la  vittoria, 
lasciare  lo  esercito  non  vogliono,  por- 
tarsi modestamente  non  possono,  usare 
termini  violenti  e che  abbino  in  sè  Tono- 
revole,  non  sanno;  talché,  stando  am- 
bigui, intra  quella  loro  dimora  ed  am- 
biguità, sono  oppressi.  Quanto  ad  una 
repubblica,  volendo  fuggire  questo  vizio 


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466  DEI  DISCORSI 

dello  ingrato,  non  si  può  dare  il  mede- 
simo rimedio  che  al  principe;  cioè  che 
vadia,  e non  mandi,  nelle  cspedizioni 
sue,  sendo  necessitate  a mandare  un  suo 
cittadino.  Conviene,  pertanto,  che  pei* 
rimedio  io  le  dia,  che  la  tenga  i mede- 
simi modi  che  tenne  la  repubblica  ro- 
mana, ad  esser  meno  ingrata  che  l’altre: 
il  che  nacque  dai  modi  del  suo  governo. 
Perchè,  adoperandosi  tutta  la  città,  e gli 
nobili  e gli  ignobili,  nella  guerra,  sur- 
geva sempre  in  Roma  in  ogni  età  tanti 
uomini  virtuosi,  ed  ornati  di  varie  vit- 
torie, che  il  popolo  non  avea  cagione  di 
dubitare  di  alcuno  di  loro,  sendo  assai, 
c guardando  P uuo  Patirò.  E in  tanto 
si  mantenevano  interi,  e respettivi  di 
non  dare,  ombra  di  alcuna  ambizione, 
uè  cagione  al  popolo,  come  ambiziosi, 
d*  offendergli  ; che  venendo  alla  dittatu- 
ra, quello  maggior  gloria  ne  riportava, 
che  più  tosto  la  deponeva.  E cosi,  non 
potendo  simili  modi  generare  sospetto, 
non  generavano  ingratitudine.  In  modo 


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LIBRO  PRIMO.  167 

che,  una  repubblica  che  nott  voglia 
avere  cagione  d’essere  ingrata,  si  debbo 
governare  come  Roma  ; c uno  cittadino 
che  voglia  fuggire  quelli  suoi  morsi, 
debbc  osservare  i termini  osservati  dai 
cittadini  romani. 

Cap.  XXXI.  — Che  » capitani  romani 
per  errore  commesso  ?io«  furono  mai 
istraordinariamcnlc  puniti;  nè  furono 
mai  ancora  puniti  quando,  per  la 
ignoranza  loro  o tristi  partiti  presi 
da  loro,  ne  fissino  seguiti  danni  alla 
repubblica. 

1 Romani,  non  solamente,  come  di  so- 
pra avemo  discorso,  furono  manco  in- 
grati die  V altre  repubbliche,  ma  furono 
ancora  più  pii  e più  respctlivi  nella  pu- 
nizione de’ loro  capitani  degli  eserciti, 
che  alcune  altre.  Perchè,  se  il  loro  er- 
rore fussc  stato  per  malizia,  e’  lo  ga- 
stigavano  umanamente;  se  gli  era  per 
ignoranza,  non  che  lo  punissino,  e’ lo 


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DEI  DISCORSI 


premiavano  ed  onoravauo.  Questo  modo 
del  procedere  era  bene  considerato  da 
-loro:  perchè  e' giudicavano  che  fusse  di 
tanta  importanza  a quelli  che  governa» 
vano  gli  eserciti  loro,  lo  avere  l’animo 
libero  ed  espedito,  e senza  altri  estrin- 
sechi rispetti  nel  pigliare  i parliti,  che 
non  volevano  aggiugnere  ad  una  cosa 
per  sè  stessa  difficile  e pericolosa,  nuove 
difficultà  c pericoli  ; pensando  che  ag- 
giugttendovcli,  nessuno  potesse  essere 
che  operasse  mai  virtuosamente.  Verbi- 
grazia,  e’ mandavano  uno  esercito  in 
Grecia  contra  a Filippo  di  Macedonia,  o 
in  Italia  contra  ad  Annibale,  o contro  a 
quelli  popoli  che  vinsono  prima.  Era 
questo  cupitano  clic  era  preposto  a tale 
espedizione,  angustiato  da  tutte  quelle 
cure  che  si  arrecavano  dietro  quelle 
faccende,  le  quali  sono  gravi  e impor- 
tantissime. Ora,  se  a tali  cure  si  fus» 
sino  aggiunti  più  esempi  di  Romani 
ch’eglino  avessino  crucifissi  o altrimenti 
morti  quelli  che  avessino  perdute  le 


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LIBRO  PRIMO. 


169 

giornale,  egli  era  impossibile  che  quello 
capitano  intra  tanti  sospetti  potesse  de- 
liberare strenuamente.  Però,  giudicando 
essi  che  a questi  tali  fusse  assai  pena 
la  ignominia  dello  avere  perduto,  non 
gli  vollono  con  altra  maggior  pena  sbi- 
gottire. Uno  esempio  ci  è,  quanto  allo 
errore  commesso  non  per  ignoranza. 
Erono  Sergio  e Virginio  a campo  a Veio, 
ciascuno  preposti  ad  una  parte  dello 
esercito;  de’ quali  Sergio  era  all’incon- 
tro donde  potevano  venire  i Toscani,  c 
Virginio  dall’  altra  parte.  Occorse  che 
sendo  assaltato  Sergio  dai  Falisci  e da 
altri  popoli,  sopportò  d’  essere  rotto  c 
fugato  prima  che  mandare  per  aiuto  a 
Virginio.  E dall’altra  parte,  Virginio 
aspettando  che  si  umiliasse,  volle  piut- 
tosto vedere,  il  disonore  della  patria  sua, 
e la  rovina  di  quello  esercito,  clic  soc- 
correrlo. Caso  veramente  esemplare  e 
tristo,  c da  fare  non  buona  coniettura 
della  Repubblica  romana,  se  1’  uno  c l’al- 
tro non  fusscro  stati  gasligali.  Vero  è 


no 


DEI  DISCORSI 


che,  dove  un’altra  repubblica  gli  a r ebbe 
puniti  di  pena  capitale,  quella  gli  punì 
in  danari.  II  che  nacque  non  perchè  i 
peccali  loro  non  meritassino  maggior 
punizione,  ma  perchè  -gli  Romani  voi* 
iono  in  questo  caso,  per  le  ragioni  già 
dette,  mantenere  gli  antichi  costumi  loro. 
E quanto  agii  errori  per  ignoranza,  non 
ci  è il  più  bello  esempio  che  quello  di 
Varrone:  per  la  temerità  del  quale  sendo 
rotti  i Romani  a Canne  da  Annibaie, 
dove  quella  Repubblica  portò  pericolo 
della  sua  libertà;  nondimeno,  perchè  vi 
fu  ignoranza  e non  malizia,  non  sola* 
mente  non  lo  gastigorno  ma  lo  onoror- 
no,  e gli  andò  incontro  nella  tornata 
sua  in  Roma  tutto  l’Ordine  senatorio; 
e non  lo  potendo  ringraziare  della  zuffa, 
Io  ringraziarono  eh’  egli  era  tornato  in 
Roma,  c non  si  era  disperato  delle  cose 
romane.  Quando  Papirio  Cursore  volevu 
fare  morire  Fabio,  per  avere  contea  al 
suo  comandamento  combattuto  coi  San- 
niti; intra  le  altre  ragioni  che  dal  pa- 


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Lior.o  PRIMO. 


171 


tire  di  Fabio  erano  assegnale  conira  alla 
ostinazione  del  Dittatore,  era  che  il  Po- 
polo romano  in  alcuna  perdita  de’ suoi 
Capitani  non  aveva  fatto  mai  quello  che 
Papirio  nella  vittoria  voleva  fare. 

Cap.  XXXII.  — Una  repubblica  o uno 
principe  non  < lebbe  differire  a bene- 
ficare gli  uomini  nelle  sue  necessitati. 

Ancora  che  ai  Romani  succedesse  fe- 
licemente essere  liberali  al  Popolo,  so- 
pravvenendo il  pericolo,  quando  Por- 
sena  venne  ad  assaltare  Roma  per 
rimettere  i Tarquini  ; dove  il  Senato  du- 
bitando della  Plebe,  che  non  volesse  piut- 
tosto accettare  i Re  che  sostenere  la 
guerra,  per  assicurarsene  la  sgravò  delle 
gabelle  del  sale,  e d’ogni  gravezza  ; di- 
cendo come  i poveri  assai  operavano  in 
benefizio  pubblico  se  ci  nutrivano  i loro 
figliuoli  ; e che  per  questo  benefizio  quel 
Popolo  si  esponesse  a sopportare  ossi- 
dione,  fame  e guerra:  non  sia  alcuno 


172 


DEI  DISCORSI 


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che,  confidatosi  in  questo  esempio,  diffe- 
risca ne’tempi  de’  pericoli  a guadagnarsi 
il  Popolo;  perchè  mai  gli  riuscirà  quello 
che  riuscì  ni  Romani.  Perchè  lo  univer- 
sale giudicherà  non  avere  quel  bene  da 
te,  ma  dogli  avversari  tuoi;  e dovendo 
temere  che,  passata  la  necessità,  tu  ri- 
tolga loro  quello  che  hai  forzatamente 
loro  dato,  non  arà  tcco  obbligo  alcuno. 
E la  cagione  perchè  ai  Romani  tornò 
bene  questo  partilo,  fu  perchè  lo  Stato 
era  nuovo,  e non  per  ancora  fermo;  ed 
aveva  veduto  quel  Popolo,  come  innanzi 
si  erano  fatte  leggi  in  benefizio  suo, 
come  quella  delia  appellagione  alla  Plebe; 
in  modo  che  ei  potette  persuadersi  che 
quel  bene  gli  era  fatto,  non  era  tanto 
causato  dalla  venuta  dei  nemici,  quanto 
dalla  disposizione  del  Senato  in  benefi- 
carli. Olirà  di  questo,  la  memoria  dei 
Re  era  fresca;  dai  quali  erano  stati  in 
molti  modi  vilipesi  ed  ingiuriati.  E per- 
chè simili  cagioni  accaggiono  rade  volte, 
occorrerà  ancora  rade  volte  che  simili 


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LIBRO  PRIMO.  173 

remedi  giovino.  Però,  debbe  qualunque 
tiene  stato,  cosi  repubblica  come  prin- 
cipe, considerare  inuanzi,  quali  tempi 
gli  possono  venire  addosso  contrari,  c 
di  quali  uomini  ne’ tempi  avversi  si  può 
avere  di  bisogno;  e dipoi  vivere  con 
loro  in  quel  modo  che  giudica,  soprav- 
vegnente  qualunque  caso,  essere  neces- 
sitato vivere.  E quello  che  altrimenti  si 
governa,  o principe  o repubblica,  e mas- 
sime un  principe;  e poi  in  sul  fatto 
crede,  quando  il  pericolo  sopravviene, 
coi  benefìzii  riguadagnarsi  gli  uomini; 
se  ne  inganna  : perchè  non  solamente 
non  se  ne  assicura,  ma  accelera  la  sua 
rovina. 

Cap.  XXXIII.  — Quando  uno  inconve- 
niente è cresciuto  o in  uno  Stalo  o 
con  tra  ad  uno  Stato  , è più  salutifero 
partito  temporeggiarlo  che  urtarlo. 

Crescendo  In  Repubblica  romana  in 
reputazione,  forze  ed  imperio,  i vicini,  i 


174 


DEI  DISCORSI 


quali  prima  non  avevano  pensato  quanto 
quella  nuova  Repubblica  potesse  arre- 
care loro  di  danno,  coniinciorno,  ma 
tardi,  a conoscere  lo  errore  loro  ; e vo- 
lendo rimediare  a quello  che  prima  non 
avevano  rimediato,  conspirorno  ben  qua- 
ranta popoli  contra  a Roma  : donde  i 
Romani,  intra  gli  altri  rimedi  soliti  farsi 
da  loro  negli  urgenti  pericoli,  si  volsono 
a creare  il  Dittatore  ; cioè  dare  potestà 
ad  uno  uomo  che  senza  alcuna  consulta 
potesse  deliberare,  e senza  alcuna  ap- 
pellagione  potesse  eseguire  le  sue  deli- 
berazioni. Il  quale  rimedio  come  allora 
fu  utile,  e fu  cagione  che  vincessero 
gl*  imminenti  pericoli,  cosi  fu  sempre 
utilissimo  in  tutti  quelli  accidenti  che, 
nello  augumento  dello  imperio,  in  qua- 
lunque tempo  surgessino  contra  alla  Re- 
pubblica. Sopra  il  qual  accidente  è da 
discorrere  prima,  come  quando  uno  in- 
conveniente che  surga,  o in  una  repub- 
blica o contra  ad  una  repubblica,  cau* 
sato  da  cagione  intrinseca  o estrinseca, 


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LIDI’.O  PRIMO.  475 

è diventalo  lauto  grande  clic  e’ cominci 
a far  paura  a ciascuno;  è mollo  più  si- 
curo partilo  temporeggiarsi  con  quello, 
che  tentare  di  estinguerlo.  Perchè,  quasi 
sempre  coloro  che  tentano  di  ammor- 
zarlo, fanno  le  sue  forze  maggiori,  e 
fanno  accelerare  quel  male  che  da  quello 
si  suspettava.  E di  questi  simili  acci- 
denti ne  nasce  nella  repubblica  più 
spesso  per  cagione  intrinseca,  che  estrin- 
seca : dove  molte  volte,  o e’ si  lascia  pi- 
gliare ad  uno  cittadino  più  forze  che 
non  è ragionevole,  o e’  si  comincia  a 
corrompere  uua  legge,  la  quale  è il  nervo 
e la  vita  del  vivere  libero;  e lasciasi 
trascorrere  questo  errore  in  tanto,  che 
gli  è più  dannoso  partito  il  volervi  ri- 
mediare, che  lasciarlo  seguire.  E tanto 
più  è difficile  il  conoscere  questi  incon- 
venienti quando  e’ nascono,  quanto  e’pa- 
re  più  naturale  agli  uomini  favorire 
sempre  i principii  delle  cose.  E tali  fa- 
vori possono,  più  che  in  alcuna  altra 
cosa,  nelle  opere  che  paiono  che  abbino 


176  DEI  DISCORSI 

in  sè  qualche  virtù,  e siano  operale 
da’ giovani:  perchè,  se  in  una  rcpub* 
blica  si  vede  surgere  un  giovane  nobile, 
quale  abbia  in  sè  virtù  istraordinaria, 
lutti  gli  occhi  de’  cittadini  si  cominciano 
a voltare  verso  di  lui,  e concorrono 
senza  alcuno  rispetto  ad  onorarlo  ; in 
modo  che,  se  in  quello  è punto  d*  ambi- 
zione, accozzati  i favori  che  gli  dà  la 
natura  e questo  accidente,  viene  subito 
in  luogo,  che  quando  i cittadini  si  av- 
veggono dell'errore  loro,  hanno  pochi 
rimedi  ad  ovviarvi;  e volendo  quelli 
tauti  ch’egli  hanno,  operarli,  non  fanno 
altro  che  accelerare  la  potenza  sua.  Di 
questo  se  ne  potrebbe  addurre  assai 
esempi,  ma  io  ne  voglio  dare  solamente 
uno  della  citta  nostra.  Cosimo  de’ Medici, 
dal  quale  la  casa  de’  Medici  in  la  nostra 
città  ebbe  il  principio  della  sua  gran- 
dezza, venne  in  tanta  reputazione  col 
favore  che  gli  dette  la  sua  prudenza  e 
la  ignoranza  degli  altri  cittadini,  che  ei 
cominciò  a fare  paura  allo  Stato;  in 


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LIBRO  PRIMO.  4 77 

modo  clic  gli  altri  cittadini  giudicavano 
l’offenderlo  pericoloso,  ed  il  lasciarlo 
stare  cosa  pericolosissima.  Ma  vivendo 
in  quei  tempi  Niccolò  da  Uzzano,'  il 
quale  nelle  cose  civili  era  tenuto  uomo 
espertissimo,  ed  avendo  fatto  il  primo 
errore  di  non  conoscere  i pericoli  clic 
dalla  reputazione  di  Cosimo  potevano 
nascere;  mentre  che  visse,  non  permesse 
mai  clic  si  facesse  il  secondo,  cioè  che 
si  tentasse  di  volerlo  spegnere,  giudi- 
cando tale  tentazione  essere  al  tutto  la 
rovina  dello  Stato  loro;  come  si  vide  in 
fatto  clic  fu,  dopo  la  sua  morte  : perchè, 
non  osservando  quelli  cittadini  che  ri- 
masono,  questo  suo  consiglio,  si  feciono 
forti  contra  a Cosimo,  e lo  cacciorno  da 
Firenze.  Donde  ne  nacque  che  la  sua 
parte,  per  questa  ingiuria  risentitasi, 
poco  dipoi  lo  chiamò,  e lo  fece  principe 
della  repubblica:  al  quale  grado  senza 
quella  manifesta  opposizione  non  sarebbe 
mai  potuto  ascendere.  Questo  medesimo 
intervenne  a Roma  con  Cesare;  chè  fa- 

SI  ACHIAVK.U  i,  Discorsi.  — 1.  12 


DEI  DISCORSI 


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vorita  da  Pompeio  e dagli  altri  quella 
sua  virtù,  si  convertì  poco  dipoi  quel 
favore  in  paura:  di  che  fa  testimonio 
Cicerone,  dicendo  che  Pompeio  aveva 
tardi  cominciato  a temer  Cesare.  La 
qual  paura  fece  che  pensorono  ai  ri- 
medi ; e gli  rimedi  che  feciono,  accele- 
rorno  la  rovina  della  loro  Repubblica. 
Dico  adunque,  che  dipoi  che  gii  è diffi- 
cile conoscere  questi  mali  quando  e’sur- 
gono,  causata  questa  difficultà  da  uno 
inganno  che  ti  fanno  le  cose  in  princi- 
pio ; è più  savio  partito  il  temporeg- 
giarle poiché  le  si  conoscono,  che  l’op- 
pugnarle : perchè  temporeggiaudole,  o 
per  lor  medesime  si  spengono,  o al- 
meno il  male  si  differisce  in  più  lungo 
tempo.  E in  tutte  le  cose  debbono  aprir 
gli  occhi  i principi  che  disegnano  can- 
cellarle, o alle  forze  ed  impeto  loro  op- 
porsi; di  non  dare  loro,  in  cambio  di 
detrimento,  augumento  ; e credendo  so- 
spingere una  cosa,  tirarsela  dietro,  ov- 
vero soffocare  una  pianta  con  anuaf- 


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unno  primo.  479 

fiarla.  Ma  si  debbe  considerare  bene  le 
forze  del  malore,  c quando  ti  vedi  suf- 
fizientc  a sanarlo,  mettervili  senza  ri- 
spetto: altrimenti,  lasciarlo  stare,  nò  in 
alcun  modo  tentarlo.  Perchè  interver- 
rebbe, come  di  sopra  si  discorre,  e 
come  intervenne  a’ vicini  di  Roma:  ai 
quali,  poiché  Roma  era  cresciuta  in 
tanta  potenza,  era  più  salutifero  con 
gli  modi  della  pace  cercare  di  placarla 
c ritenerla  addietro,  che  coi  modi 
della  guerra  farla  pensare  a nuovi  or- 
dini e nuove  difese.  Perchè  quella  loro 
congiura  non  fece  altro  che  farli  più 
uniti,  più  gagliardi,  e pensare  a modi 
nuovi,  medinoti  i quali  in  più  breve 
tempo  ampliorono  la  potenza  loro.  In- 
tra’quali  fu  la  creazione  del  Dittatore; 
per  lo  quale  nuovo  ordine  non  sola- 
mente superorono  gli  imminenti  peri- 
coli, ma  fu  cagione  di  ovviare  a infiniti 
mali , ne’  quali  senza  quello  rimedio 
quella  repubblica  sarebbe  incorsa, 
v-.j.  ;•  vk'u Urlimi*  llìl  tòt* . 


DEI  DISCORSI 


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Cap.  XXXIV.  — l/autorità  dittatoria  fece 
bene , c non  danno , alla  repubblica 
romana:  c come  le  autorità  che  i cit- 
tadini si  tolgono s non  quelle  che  sono 
loro  dai  suffragi  liberi  date , sono  alla 
vita  civile  perniciose. 

E’  sono  stati  dannati  da  alcuno  scrit- 
tore quelli  Romani  che  trovorono  in 
quella  città  il  modo  di  creare  il  Ditta- 
tore, come  cosa  che  fusse  cagione,  col 
tempo,  della  tirannide  di  Roma;  alle- 
gando, come  il  primo  tiranno  che  fusse 
in  quella  città,  la  comandò  sotto  questo 
titolo  dittatorio;  dicendo  che  se  non  vi 
fusse  stato  questo,  Cesare  non  arebbe 
potuto  sotto  alcuno  titolo  pubblico  adone- 
stare la  sua  tirannide.  La  qual  cosa  non 
fu  bene  da  colui  che  tenne  questa  op- 
pinione  esaminala,  e fu  fuori  d’ogni  ra- 
gione creduta.  Perchè,  e’  non  fu  il  nome 
nè  il  grado  del  Dittatore  che  facesse 
serva  Roma,  ma  fu  l’ autorità  presa  dai 


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LIBRO  PRIMO.  181 

cittadini  per  ia  diuturnità  dello  impe- 
rio: c se  in  Roma  fusse  mancato  il  no- 
me dittatorio,  ne  arebbon  preso  un  altro; 
perchè  e’  sono  le  forze  che  facilmente 
s’acquistano  i nomi,  non  i nomi  le  for- 
ze. E si  vedde  che  ’1  Dittatore,  mentre 
che  fu  dato  secondo  gli  ordini  pubblici, 
c non  per  autorità  propria,  fece  sempre 
bene  alla  città.  Perchè  e’  nuocono  alle 
repubbliche  i magistrati  che  si  fanno  e 
l’autoritati  che  si  danno  per  vie  istraor- 
dinarie;  non  quelle  che  vengono  per  vie 
ordinarie:  come  si  vede  che  segui  in 
Roma  in  tanto  progresso  di  tempo,  che 
mai  alcuno  Dittatore  fece  se  non  bene 
alla  Repubblica.  Di  che  ce  ne  sono  ra- 
gioni evidentissime.  Prima,  perchè  a vo- 
lere che  un  cittadino  possa  offendere  e 
pigliarsi  autorità  istraordinaria,  conviene 
ch’egli  abbia  molte  qualità  le  quali  in 
una  repubblica  non  corrotta  non  può 
mai  avere:  perchè  gli  bisogna  essere 
ricchissimo,  ed  avere  assai  aderenti  e 
partigiani,  i quali  non  può  avere  dove 


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DEI  DISCORSI 


le  leggi  si  osservano;  e quando  pure  ve 
gli  avesse,  simili  uomini  sono  in  modo 
formidabili,  che  i suffragi  liberi  non 
concorrono  in  quelli.  Oltra  di  questo, 
il  Dittatore  era  fatto  a tempo,  e non 
in  perpetuo,  e per  ovviare  solamente  a 
quella  cagione  mediante  la  quale  era 
creato  ; e la  sua  autorità  si  estendeva 
in  potere  deliberare  per  sè  stesso  circa 
i modi  di  quello  urgente  pericolo,  e fare 
ogni  cosa  senza  consulta,  e punire  cia- 
scuno senza  appellagione:  ma  non  po- 
teva far  cosa  che  fusse  in  diminuzione 
dello  Stato;  come  sarebbe  stato  torre 
autorità  al  Senato  o al  Popolo,  disfare 
gli  ordini  vecchi  della  città,  e farne 
de’  nuovi.  In  modo  che,  raccozzato  il 
breve  tempo  della  sua  dittatura,  c l’ au- 
torità limitata  che  egli  aveva,  ed  il  po- 
polo romano  non  corrotto;  era  impos- 
sibile ch’egli  uscisse  de’ termini  suoi,  e 
noccsse  alla  città:  e per  esperienza  si 
vede  che  sempre  mai  giovò.  E veramen- 
te, infra  gli  altri  ordini  romani,  questo 


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LIBRO  PRIMO.  183 

è uno  che  merita  esser  consideralo,  e 
connumerato  infra  quelli  che  furono  ca- 
gione della  grandezza  di  tanto  imperio; 
perchè  senza  un  simile  ordine  le  città 
con  difficoltà  usciranno  degli  accidenti 
istraordinari  : perchè  gli  ordini  consueti 
nelle  repubbliche  hanno  il  moto  tardo 
(non  potendo  alcuno  consiglio  nè  alcuno 
magistrato  per  sè  stesso  operare  ogni 
cosa,  ma  avendo  in  molle  cose  bisogno 
l’uno  dell’altro),  e perchè  nel  raccozzare 
insieme  questi  voleri  va  tempo,  sono  i 
rimedi  loro  pericolosissimi,  quando  egli 
hanno  a rimediare  a una  cosa  che  non 
aspetti  tempo.  E però  le  repubbliche 
debbono  intra’  loro  ordini  avere  un  sl- 
mile modo  : e la  Repubblica  veneziana, 
la  quale  intra  le  moderne  repubbliche 
è eccellente,  ha  riservato  autorità  a pa- 
chi  cittadini,  che  ne’  bisogni  urgenti, 
senza  maggiore  consulta,  tutti  d’accordo 
possino  deliberare.  Perchè  quando  in 
una  repubblica  manca  un  simil  modo, 
è necessario,  o servando  gli  ordini  ro- 


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U4 


DEI  DISCORSI 


vinate,  o per  non  rovinare  rompergli. 
Ed  in  una  repubblica  non  vorrebbe  mai 
accader  cosa,  che  coi  modi  estraordinari 
s’ avesse  a governare.  Perchè,  ancora 
che  il  modo  istraordinario  per  allora 
facesse  bene,  nondimeno  lo  esempio  fa 
male  ; perchè  si  mette  una  usanza  di 
rompere  gli  ordini  per  bene  che  poi 
sotto  quel  colore  si  rompono  per  male. 
Talché  mai  Ha  perfetta  una  repubblica, 
se  con  le  leggi  sue  non  ha  provvisto  a 
tutto,  e ad  ogni  accidente  posto  ti  ri* 
medio,  e dato  il  modo  a governarlo.  E 
però,  conchiudendo,  dico  che  quelle  re- 
pubbliche le  quali  negli  urgenti  pericoli 
non  hanno  rifugio  o al  Dittatore  o a 
simili  autoritati,  sempre  ne’  gravi  acci- 
denti rovineranno.  È da  notare  in  que- 
sto nuovo  ordine,  il  modo  dello  elegger- 
lo, quanto  dai  Romani  fu  saviamente 
provvisto.  Perchè,  sendo  la  creazione 
del  Dittatore  con  qualche  vergogna  dei 
Consoli,  avendo,  di  capi  della  città,  a 
venire  sotto  una  ubidienza  come  gli  al- 


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LIBRO  PRIMO. 


185 

tri  ; e presupponendo  che  di  questo 
avesse  a nascere  isdegno  fra  i cittadini; 
vollono  che  l' autorità  dello  eleggerlo 
fusse  nei  Consoli:  pensando  che  quando 
V accidente  venisse,  che  Roma  avesse 
bisogno  di  questa  regia  potestà,  e’  lo 
avessino  a fare  volentieri;  e facendolo 
loro,  che  dolessi  lor  meno.  Perchè  le 
ferite  ed  ogni  altro  male  che  Y uomo  si 
fa  da  sè  spontaneamente  e per  elezione, 
dolgono  di  gran  lunga  tneuo,  che  quelle 
che  ti  sono  fatte  da  altri.  Ancora  che 
poi  negli  ultimi  tempi  i Romani  usassi- 
no,  in  cambio  del  Dittatore,  di  dare 
tale  autorità  al  Cousole,  con  queste  pa- 
role: Videat  Constila  ne  Respublica  quid 
detrimenti  captai . E per  tornare  alla 
materia  nostra,  conchiudo,  come  i vicini 
di  Roma  cercando  opprimergli,  gli  fc- 
ciono  ordinare,  non  solamente  a potersi 
difendere,  ma  a potere,  con  più  forza, 
più  consiglio  e più  autorità,  offender 
loro. 


4 86 


DEI  DISCORSI 


Cip.  XXXV.- — La  cagione  perchè  in 
Roma  la  creazione  del  decemvirato  fa 
nociva  alla  libertà  di  quella  repub' 
blicaj  non  ostante  che  fosse  creato 
po'  suffragi  pubblichi  e liberi. 

E’ pare  contrario  a quel  clic  di  sopra 
è discorso;  che  quella  autorità  che  si 
occupa  con  violenza,  non  quella  eh’ è 
data  con  gli  suffragi,  nuoce  alle  repubbli- 
che; la  elezione  dei  dicci  cittadini  creati 
dal  Popolo  romano  per  fare  le  leggi  in 
Roma:  i quali  ne  diventorno  col  tempo 
tiranni,  e senza  alcun  rispetto  occu- 
porno  la  libertà  di  quella.  Dove  si  debbe 
considerare  i modi  del  dare  {'autorità, 
ed  il  tempo  perchè  la  si  dà.  E quando 
e’ si  dia  autorità  libera,  col  tempo  lungo, 
chiamando  il  tempo  lungo  un  anno,  o 
più;  sempre  fia  pericolosa;  e farà  gli 
effetti  o buoni  o tristi,  secondo  che  fieno 
tristi  o buoni  coloro  a chi  la  sarà  data. 
E se  si  considera  l’autorità  che  ebbero 
i Dicci,  e quella  che  avevano  i Ditta- 


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LIBRO  PRIMO.  187 

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lori,  si  vedrò  senza  comparazione  quella 
de’ Dieci  maggiore.  Perchè,  creato  il  Dit- 
tatore, rimanevano  i Tribuni,  i Consoli, 
il  Senato,  con  la  loro  autorità  ; nò  il 
Dittatore  la  poteva  torre  loro:  e s* egli 
avesse  potuto  privare  uno  del  consolato, 
uno  del  senato,  ei  non  poteva  annul- 
lare l’ordine  senatorio,  e fare  nuove 
leggi.  In  modo  che  il  Senato,  i Consoli 
ed  i Tribuni,  restando  con  l’autorità 
loro,  venivano  ad  essere  come  sua  guar- 
dia, a farlo  non  uscire  della  via  diritta. 
Ma  nella  creazione  dei  Dieci  occorse 
tutto  il  contrario  ; perchè  gli  annullorno 
i Consoli  cd  i Tribuni,  dettono  loro  au- 
torità di  fare  leggi,  ed  ogni  altra  cosa, 
come  il  Popolo  romano.  Talché,  trovan- 
dosi soli,  senza  Consoli,  senza  Tribuni, 
senza  appcllagionc  al  Popolo  ; e per 
questo  non  venendo  ad  avere  chi  osscr- 
vassegli,  ei  poterono,  il  secondo  anno, 
mossi  dall’  ambizione  di  Appio,  diventare 
insolenti.  E per  questo  si  debbo  notare, 
che  quando  e’ si  è detto  che  una  auto- 


188 


DEt  DISCORSI 


rità  data  da’  suffragi  liberi,  non  of- 
fese mai  alcuna  repubblica;  si  pre- 
suppone che  un  popolo  non  si  conduca 
inai  a darla,  se  non  con  le  debite  cir- 
constanzie,  e ne’ debiti  tempi:  ma 

quando,  o per  essere  ingannato,  o per 
qualche  altra  cagione  che  lo  accecasse, 
e’ si  conducesse  a darla  imprudentemen- 
te, e nel  modo  che  ’l  Popolo  romano  la 
dette  a’  Dieci,  gl’  interverria  sempre  co- 
me a quello.  Questo  si  prova  facilmente, 
considerando  quali  cagioni  mantenessero 
i Dittatori  buoni,  e quali  facessero  i 
Dieci  cattivi;  e considerando  ancora, 
come  hanno  fatto  quelle  repubbliche  che 
sono  state  tenute  bene  ordinate,  nel  dare 
1*  autorità  per  lungo  tempo;  come  dava- 
no gli  Spartani  agli  loro  Re,  e come  danno 
i Veniziani  ai  loro  Duci:  perchè  si  ve- 
drà, all*  uno  ed  all’  altro  modo  di  costoro 
esser  poste  guardie,  che  facevano  che  i 
Re  non  potevano  usare  male  quella  au- 
torità. Nè  giova  in  questo  caso,  che  la 
materia  non  sia  corrotta;  perchè  una 


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LIBRO  PRIMO. 


U9 

autorità  assoluta,  in  brevissimo  tempo 
corrompe  la  materia,  c si  fa  amici  c 
partigiani.  Nè  gli  nuoce  o esser  povero, 
o non  avere  parenti;  perché  le  ricchez- 
ze cd  ogni  altro  favore  subito  gli  corre 
dietro:  come  particolarmente  nella  crea- 
zione de’ detti  Dieci  discorreremo. 

Gap.  XXXVI.  — Pioti  debbono  i cittadini 
che  hanno  avuti  » maggiori  onori, 
sdegnarsi  de*  minori. 

Avevano  i Romani  fatti  Marco  Fabio 
e G.  Manilio  consoli,  e vinta  una  glorio- 
sissima giornata  contea  a’  Veicnti  e gli 
Etruschi;  nella  quale  fu  morto  Quinto 
Fabio,  fratello  del  consolo,  quale  Io  anno 
davanti  era  stato  consolo.  Dove  si  deb- 
be  considerare,  quanto  gli  ordini  di 
quella  città  erano  atti  a farla  grande; 
c quanto  le  altre  repubbliche  che  si  di- 
scostano dai  modi  suoi,  s’ingannano. 
Perchè,  ancora  che  i Romani  fussino 
amatori  grandi  della  gloria,  nondimeno 


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190  DEI  DISCORSI 

non  stimavano  cosa  disonorevole  ubbi- 
dire ora  a chi  altra  volta  essi  avevano 
comandato,  e trovarsi  a servire  in  quello 
esercito  del  quale  erano  stati  principi. 
11  qual  costume  è contrario  alla  oppi- 
nione,  ordini  e modi  de’  cittadini  de’tempi 
nostri:  ed  in  Vinegia  è ancora  questo 
errore,  che  uno  cittadino  avendo  avuto 
un  grado  grande,  si  vergogni  di  accet- 
tare uno  minore;  e la  citta  gli  consente 
che  se  ne  possa  discostare.  La  qual  cosa, 
quando  fusse  onorevole  per  il  privato, 
è al  tutto  inutile  per  il  pubblico.  Per- 
chè più  speranza  debbe  avere  una  re- 
pubblica, e più  confidare  in  uno  citta- 
dino che  da  un  grado  grande  scenda  a 
governare  uno  minore,  che  in  quello 
clic  da  uno  minore  salga  a governare  un 
maggiore.  Perchè  a costui  non  può  ra- 
gionevolmente credere,  se  non  li  vede 
uomini  intorno,  i qiiali  siano  di  tanta 
riverenza  o di  tanta  virtù,  che  la  novità 
di  colui  possa  essere  con  il  consiglio  ed 
autorità  loro  moderata.  E quando  in 


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LIBRO  PRIMO.  191 

Roma  fosse  stata  la  consuetudine  quale 
in  Vinegia,  e nell'  altre  repubbliche  c 
regni  moderni,  che  chi  era  stato  una 
volta  Consolo,  non  volesse  mai  più  an- 
dare negli  eserciti  se  non  consolo;  ne 
sarebbono  nate  infinite  cose  in  disfavore 
del  viver  libero;  e per  gli  errori  che 
arebbono  fatti  gli  uomini  nuovi,  e per 
P ambizione  che  loro  arebbono  potuto 
usare  meglio,  non  avendo  uomini  intor- 
no, nel  conspetto  de’ quali  ei  temessino 
errare;  e cosi  sarebbero  venuti  ad  es- 
sere più  sciolti  : il  che  sarebbe  tornato 
tutto  in  detrimento  pubblico. 

Cap.  XXXVII.  — Quali  scandali  partorì 
in  Roma  la  legge  agraria  : e come 
fare  una  logge  in  una  repubblica  che 
risguardi  assai  indietro > e sia  conira 
ad  una  consuetudine  antica  della  città , 
è scandalosissimo. 


Egli  è sentenza  degli  antichi  scrittori, 
come  gli  uomini  sogliono  affliggersi  nel 


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192  DEI  DISCORSI 

male  c stuccarsi  nel  benej  e come  dul- 
1’  una  e dall*  altra  di  queste  due  passioni 
nascono  i medesimi  effetti.  Perchè,  qua- 
lunque volta  è tolto  agli  uomini  il  com- 
battere per  necessità,  combattono  per 
ambizione:  la  quale  è tanto  potente  ne’ 
petti  umani,  che  mai,  a qualunque  grado 
si  salgano,  gli  abbandona.  La  cagione  è, 
perchè  la  natura  ha  creati  gli  uomini 
in  modo,  che  possono  desiderare  ogni 
cosa,  e non  possono  conseguire  ogni 
cosa  : talché,  essendo  sempre  maggiore 
il  desiderio  che  la  potenza  dello  acqui- 
stare, ne  risulta  la  mala  contentezza  di 
quello  che  si  possiede,  e la  poca  sati- 
sfazionc  di  esso.  Da  questo  nasce  il  va- 
riare della  fortuna  loro:  perchè  deside- 
rando gli  uomini,  parte  di  avere  più, 
parte  temendo  di  non  perdere  lo  acqui- 
stato, si  viene  alle  inimicizie  ed  alla 
guerra  ; dalla  quale  nasce  la  rovina  di 
quella  provincia,  e la  esaltazione  di  quel- 
1’  altra.  Questo  discorso  ho  fatto  perchè 
alla  Plebe  romana  non  bastò  assicurarsi 


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LIBRO  PRIMO.  193 

de’  Nobili  per  la  creazione  de’  Tribuni, 
al  quale  desiderio  fu  constretta  per  ne- 
cessità ; che  lei  subito,  ottenuto  quello, 
cominciò  a combattere  per  ambizione, 
e volere  con  la  Nobiltà  dividere  gli  onori 
e le  sustanze,  come  cosa  stimata  più 
dagli  uomini.  Da  questo  nacque  il  morbo 
che  partorì  la  contenzione  della  legge 
agraria,  ed  in  (ine  fu  causa  della  distru- 
zione della  Repubblica  romana.  E per- 
chè le  repubbliche  bene  ordinate  hanno 
a tenere  ricco  il  pubblico,  e li  loro  cit- 
tadini poveri  ; convenne  che  fusse  nella 
città  di  Roma  difetto  in  questa  legge: 
la  quale  o non  fusse  fatta  nel  principio 
in  modo  che  la  non  si  avesse  ogni  di  a 
ritrattare;  o che  la  si  differisse  tanto 
in  farla,  che  fusse  scandotoso  il  riguar- 
darsi indietro;  o sendo  ordinata  bene 
da  prima,  era  stata  poi  dall’  uso  cor- 
rotta; talché,  in  qualunque  modo  si  fus- 
se, mai  non  si  parlò  di  questa  legge  in 
Roma,  che  quella  città  non  andasse  sotto- 
sopra. Aveva  questa  legge  duoi  capi 


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Ai achi avelli > Discorsi.  — 1. 


13 


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obi  Diseonsr 

principali.  Ter  l’ uno  si  disponeva  clic 
non  si  potesse  possedere  per  alcun  cit- 
tadino più  che  tanti  iugeri  di  terra; 
per  V altro,  che  i campi  di  che  si  pri- 
vavano i nimici,  si  dividessino  intra  il 
popolo  romano.  Veniva  pertanto  a fare 
di  duoi  sorte  offese  ai  Nobili:  perchè 
quelli  che  possedevano  più  beni  non 
permetteva  la  legge  (quali  erano  la  mag- 
gior  parte  de’  Nobili),  ne  avevano  ad  es- 
ser privi  ; e dividendosi  intra  la  Plebe 
i beni  de’  nimici,  si  toglieva  a quelli  la 
via  dello  arricchire.  Sicché,  venendo  ad 
essere  queste  offese  contra  ad  uomini 
potenti,  e che  pareva  loro,  contrastan- 
dola, difendere  il  pubblico;  qualunque 
volta,  com’ è detto,  si  ricordava,  andava 
sottosopra  quella  città  : ed  i Nobili  con 
pazienza  ed  industria  la  temporeggiava- 
no, o con  trac  fuora  un  esercito,  o che 
a quel  Tribuno  che  la  proponeva  si  op- 
ponesse uno  altro  Tribuno;  o talvolta 
cederne  parte;  ovvero  mandare  una  co- 
lonia in  quel  luogo  che  si  avesse  a di* 


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LIBRO  PRIMO.  195 

stribuire:  come  intervenne  del  contado 
di  Anzio,  per  il  quale  surgendo  questa 
disputa  della  legge,  si  mandò  in  quel 
luogo  una  colonia  traila  di  Roma,  alla 
quale  si  consegnasse  detto  contado.  Do- 
ve Tito  Livio  usa  un  termine  notabile, 
dicendo  clic  con  ditTìcultà  si  trovò  in 
Roma  eli i desse  il  nome  per  ire  in  detta 
colonia:  tanto  era  quella  Plebe  più  pron- 
ta a volere  desiderare  le  cose  in  Homa, 
che  a possederle  in  Anzio  ! Andò  questo 
umore  di  questa  legge  così  travaglian- 
dosi un  tempo,  tanto  che  i Romani  co- 
minciarono a condurre  le  loro  armi  nelle 
estreme  parti  di  Italia,  o fuori  di  Italia; 
dopo  al  qual  tempo  parve  che  la  restasse. 
Il  che  nacque  perchè  i campi  che  pos- 
sedevano i nimici  di  Roma  essendo  di- 
scosti dagli  occhi  della  Plebe,  cd  in  luogo 
dove  non  gli  era  facile  il  coltivargli, 
veniva  meno  ad  esserne  desiderosa:  ed 
ancora  i Romani  erano  meno  punitori 
tic’ loro  nemici  in  siinil  modo;  e quando 
pure  spogliavano  alcuna  terra  del  suo 


106 


DEI  DISCORSI 


contado,  vi  distribuivano  colonia.  Tanto 
che  per  tali  cagioni  questa  legge  stette 
come  addormentata  inOno  a’  Gracchi: 
da’  quali  essendo  poi  svegliata,  rovinò 
al  tutto  la  libertà  romana;  perchè  la 
trovò  raddoppiata  la  potenza  de’  suoi 
avversari,  e si  accese  per  questo  tante 
odio  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che  si 
venne  all’  armi  ed  al  sangue,  fuor  d’ogni 
modo  e costume  civile.  Talché,  non  po- 
tendo i pubblici  magistrati  rimediarvi, 
nè  sperando  più  alcuna  delle  fazioni  in 
quelli,  si  ricorse  a’ rimedi  privati,  e cia- 
scuna delle  parti  pensò  di  farsi  uno  capo 
che  la  difendesse.  Pervenne  in  questo 
scandalo  e disordine  la  Plebe,  e volse  la 
sua  riputazione  a Mario,  tanto  che  la  lo 
fece  quattro  volte  Consolo;  ed  in  tanto 
continuò  con  pochi  intervalli  il  suo  con- 
solato, che  si  potette  per  sè  stesso  far 
Consolo  tre  altre  volte.  Contra  alla  qual 
peste  non  avendo  la  Nobiltà  alcuno  ri- 
medio, si  volse  a favorir  Siila;  e fatto 
quello  capo  della  parte  sua,  vennero  alle 


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LIBRO  PltlMO.  197 

guerre  civili  * e dopo  molto  sangue  e 
variar  di  fortuna,  rimase  superiore  la 
Nobiltà.  Risuscitorono  poi  questi  umori 
a tempo  di  Cesare  c di  Pompeo;  perchè, 
fattosi  Cesare  capo  della  parte  di  Mario, 
c Pompeo  di  quella  di  Siila,  venendo 
alle  mani  rimase  supcriore  Cesare:  il 
quale  fu  primo  (iranno  in  Roma;  talché 
mai  fu  poi  libera  quella  città.  Tale,  adun- 
que, principio  e fine  ebbe  la  legge  agra- 
ria. E benché  noi  mostrassimo  altrove, 
come  le  inimicizie  di  Roma  intra  il  Se- 
nato c la  Plebe  mantenessero  libera  Ro- 
ma, per  nascerne  da  quelle  leggi  in  fa- 
vore della  libertà  ; e per  questo  paia 
disforme  a tale  conclusione  il  fine  di 
questa  legge  agraria  ; dico  come,  per 
questo,  io  non  mi  rimuovo  da  tale  op- 
pinionc:  perchè  egli  è tanta  P ambizio- 
ne de’  grandi,  che  se  per  varie  vie  ed 
in  vari  modi  la  non  ò in  una  città  sbat- 
tuta, tosto  riduce  quella  città  alla  rovina 
sua.  In  modo  che,  se  la  contenzione  della 
legge  agraria  penò  trecento  anni  a fare 


DEI  DISCORSI 


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198 

Roma  serva,  si  sarebbe  condotta,  per 
avventura,  molto  più  tosto  iti  servitù, 
quando  la  Plebe,  e con  questa  legge  c 
con  altri  suoi  appetiti,  non  avesse  sem- 
pre frenato  la  ambizione  de’  Nobili.  Ve- 
dasi per  questo  ancora,  quanto  gli  uo- 
mini stimano  più  la  roba  che  gli  onori. 
Perchè  la  Nobiltà  romana  sempre  negli 
onori  eedè  senza  scandali  istraordinari 
alla  Plebe;  ma  come  si  venne  alla  ro- 
ba, fu  tanta  la  ostinazione  sua  nel  di- 
fenderla, che  la  Plebe  ricorse,  per  Sfo- 
gare 1’  appetito  suo,  a quelli  istraordi- 
nari che  di  sopra  si  discorrono.  Del  quale 
disordine  furono  motori  i Gracchi; 
de’  quali  si  dcbbe  laudare  più  la  inten- 
zione che  la  prudenza.  Perchè,  a voler 
levar  via  uno  disordine  cresciuto  in  una 
repubblica,  e per  questo  fare  una  legge 
che  riguardi  assai  indietro,  è partito 
male  considerato;  e,  come  di  sopra  lar- 
gamente si  discorse,  non  si  fa  altro  che 
accelerare  quel  male  a che  quel  disor- 
dine ti  conduce  : ma  temporeggiandolo, 


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LIBRO  PRIMO. 


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o il  male  viene  più  tardo,  o per  sè  me- 
desimo col  tempo,  avanti  che  venga  al 
fine  suo,  si  spegne. 

Cap.  XXXVIII.  — Le  repubbliche  deboli 
sono  male  risolute , e non  si  sanno 
deliberare  ; c se  le  pigliano  mai  al- 
cuno partito j nasce  più  da  necessità 
che  da  elezione. 

Essendo  in  Roma  una  gravissima  pe- 
stilenza, e parendo  per  questo  agli  Vol- 
aci ed  agli  Equi  che  fusse  venuto  il 
tempo  di  potere  oppressar  Roma;  fatti 
questi  due  popoli  uno  grossissimo  eser- 
cito, assalirono  gli  Latini  e gli  Ernici, 
e guastando  il  loro  paese,  furono  con- 
stretti gli  Latini  c gli  Ernici  farlo  in- 
tendere a Roma,  c pregare  che  fussero 
difesi  da' Romani:  ai  quali,  sendo  i Ro- 
mani gravati  dal  morbo,  risposero  che 
pigliassero  partito  di  difendersi  da  loro 
medesimi  e con  le  loro  armi,  perchè 
essi  non  li  potevano  difendere.  Dove  si 


200 


DE!  DISCÓRSI 


conosce  la  generosità  e prudenza  di 
quel  Senato,  e come  sempre  in  ogni  for- 
tuna volle  essere  quello  che  fusse  prin- 
cipe delle  deliberazioni  che  avessero  a 
pigliare  i suoi;  nè  si  vergognò  mai  de- 
liberare una  cosa  che  fusse  contraria 
al  suo  modo  di  vivere  o ad  altre  deli- 
berazioni fatte  da  lui,  quando  la  neces- 
sità gliene  comandava.  Questo  dico  per- 
chè altre  volte  il  medesimo  Senato  aveva 
vietato  ai  detti  popoli  l’armarsi  e di- 
fendersi ; talché  ad  uno  Senato  meno 
prudente  di  questo,  sarebbe  parso  ca- 
dere del  grado  suo  a concedere  loro 
tale  difensione.  Ma  quello  sempre  giu- 
dicò le  cose  come  si  debbono  giudicare, 
e sempre  prese  il  meno  reo  partilo  per 
migliore;  perchè  male  gli  sapeva  non 
potere  difendere  i suoi  sudditi;  male 
gli  sapeva  che  si  armassino  senza  loro, 
per  le  ragioni  dette,  e per  molte  altre 

che  si  intendono:  nondimeno,  conoscendo 

* 

che  si  sarebbono  armati,  per  necessità, 
a ogni  modo,  avendo  il  nimico  addos- 


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LIBRO  PRIMO.  201 

so;  prese  la  parte  onorevole,  e volle 
che  quello  clic  gli  avevano  a fare,  lo 
facessino  con  licenzia  sua,  acciocché 
avendo  disubbidito  per  necessità,  non 
si  avvezzassino  a disubbidire  per  ele- 
zione. E benché  questo  paia  partito  che 
da  ciascuna  repubblica  dovesse  esser 
preso;  nientedimeno  le  repubbliche  de- 
boli e male  consigliate  non  gli  sanno 
pigliare,  nè  si  sanno  onorare  di  simili 
necessità.  Aveva  il  duca  Valentino  presa 
Faenza,  e fatto  calare  Bologna  agli  ac- 
cordi suoi.  Dipoi,  volendosene  tornare  a 
Roma  per  la  Toscana,  mandò  in  Fi- 
renze uno  suo  uomo  a domandare  il 
passo  per  sé  e per  il  suo  esercito.  Con- 
sultossi  in  Firenze  come  si  avesse  a go- 
vernare questa  cosa,  nè  fu  mai  consi- 
gliato per  alcuno  di  concedergliene.  In 
che  non  si  seguì  il  modo  romano:  per- 
chè, sendo  il  Duca  armatissimo,  ed  i 
Fiorentini  in  modo  disarmati  che  non 
gli  potevano  vietare  il  passare,  era  molto 
piu  onore  loro,  che  paresse  che  passasse 


202 


DEI  DISCORSI 


con  permissione  di  quelli,  che  a forza; 
perchè,  dove  vi  fu  al  tutto  il  loro  vitu- 
perio, sarebbe  stato  in  parie  minore 
quando  I*  avessero  governata  altrimenti. 
Ma  la  più  cattiva  parte  che  abbino  le 
repubbliche  deboli,  è essere  irresolute; 
in  modo  che  lutti  i partili  che  le  pi- 
gliano, gli  pigliano  per  forza;  e se  vieti 
loro  fatto  alcuno  bene,  lo  fanno  forzato, 
c non  per  prudenza  loro.  Io  voglio  dare 
di  questo  duoi  altri  esempi,  occorsi 
ne*  tempi  nostri  nello  stato  della  nostra 
città,  nel  mille  cinquecento.  Ripreso  che 
il  re  Luigi  XII  di  Francia  ebbe  Milauo, 
desideroso  di  rendergli  Pisa,  per  aver 
cinquanta  mila  ducati  che  gli  erano  stati 
promessi  da’  Fiorentini  dopo  tale  resti- 
tuzione, mandò  gli  suoi  eserciti  verso 
Pisa,  capitanati  da  monsignor  Beau- 
monte;  benché  francese,  nondiraanco 
uomo  in  cui  i Fiorentini  assai  confida- 
vano. Condussesi  questo  esercito  e que- 
sto capitano  intra  Cascina  e Pisa,  per 
andare  a combattere  le  mura;  dove  di- 


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LIBRO  PRIMO. 


203 

morando  alcuno  giorno  per  ordinarsi 
alla  espugnazione,  vennero  oratori  Pi- 
sani a Beaumonte,  e gli  offerirono  di 
dare  la  città  allo  esercito  francese  con 
questi  patti:  che,  sotto  la  fede  del  re, 
promettesse  non  la  mettere  in  mano 
de’  Fiorentini,  prima  che  dopo  quattro 
mesi.  Il  qual  partito  fu  dai  Fiorentini 
al  tutto  rifiutato,  in  modo  che  si  seguì 
nello  andarvi  a campo,  e partissene  con 
vergogna.  Nè  fu  rifiutato  il  partito  per 
altra  cagione,  che  per  diffidare  della 
fede  del  re;  come  quelli  che  per  debo- 
lezza di  consiglio  si  erano  per  forza 
messi  nelle  mani  sue:  e dall’altra  par- 
te, non  se  ne  fidavano,  nè  vedevano 
quanto  era  meglio  che  il  re  potesse  ren- 
dere loro  Pisa  sendovi  dentro,  e non  la 
rendendo  scoprire  P animo  suo,  che  non 
la  avendo,  poterla  loro  promettere,  e 
loro  essere  forzati  comperare  quelle 
promesse.  Talché  molto  più  utilmente 
arebbono  fatto  a consentire  che  Beau- 
monlc  V avesse,  sotto  qualunque  prò- 


204 


DEI  DISCORSI 


' i 


i 


messa,  presa:  come  se  ne  vide  la  espc- 
rienza  dipoi  nel  4502,  die  essendosi 
ribellato  Arezzo,  venne  a’  soccorsi  de*  Fio- 
rentini mandato  dal  re  di  Francia  mon- 
signor Imbalt  con  gente  francese;  il 
qual  giunto  propinquo  ad  Arezzo,  dopo 
poco  tempo  cominciò  a praticare  ac- 
cordo con  gli  Aretini,  i quali  sotto  certa 
fede  volevano  dare  la  terra,  a similitu- 
dine de’ Pisani.  Fu  rifiutato  in  Firenze 
tale  partito  ; il  che  veggendo  monsignor 
Imbalt,  e parendogli  come  i Fiorentini 
se  ne  inlendessino  poco,  cominciò  a te- 
nere le  pratiche  dello  accordo  da  se, 
senza  participazione  de’  Commessaci  : 
tanto  che  e’  io  conchiuse  a suo  modo,  e 
sotto  quello  con  le  sue  genti  se  ne  en- 
trò in  Arezzo,  facendo  intendere  a’  Fio- 
rentini come  egli  erano  matti,  e non  si 
intendevano  delle  cose  del  mondo:  che 
se  volevano  Arezzo,  lo  fucessino  inten- 
dere al  re,  il  quale  lo  poteva  dar  loro 
molto  meglio,  avendo  le  sue  genti  in 
quella  città,  che  fuori.  Non  si  restava 


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LIBRO  PRIMO.  205 

in  Firenze  di  lacerare  e biasimare  detto 
Imbalt;  nè  si  restò  mai,  infino  a tanto 
che  si  conobbe  che  se  Beaumonte  fusse 
stato  simile  a Imbalt,  si  sarebbe  avuto 
Pisa  come  Arezzo.  E cosi,  per  tornare 
a proposito,  le  repubbliche  irresolute 
non  pigliano  mai  partiti  buoni,  se  non 
per  forza,  perchè  la  debolezza  loro  non 
le  lascia  mai  deliberare  dove  è alcuno 
dubbio;  e se  quel  dubbio  non  è can- 
cellalo da  una  violenza,  che  le  sospinga, 
stanno  sempre  mai  sospese. 


Cap.  XXXIX.  — In  diversi  popoli 
si  veggono  spesso  i medesimi  accidenti. 


E’  si  conosce  facilmente  per  chi  con- 
sidera le  cose  presenti  e le  antiche,  co- 
me in  tutte  le  città  ed  in  tutti  i popoli 
sono  quelli  medesimi  desiderii  e quelli 
medesimi  umori,  e come  vi  furono  sem- 
pre : in  modo  che  gli  è facil  cosa  a chi 
esamina  con  diligenza  le  cose  passate, 
prevedere  in  ogni  repubblica  le  future, 


DEI  DISCORSI 


*206 

c farvi  quelli  rimedi  che  dagli  antichi 
sono  stati  usati  ; o non  ne  trovando  de- 
gli usati,  pensarne  de’ nuovi,  per  la  si- 
militudine degli  accidenti.  Ma  perchè 
queste  considerazioni  sono  neglette,  o 
non  intese  da  chi  legge  ; o se  le  sono 
intese,  non  sono  conosciute  da  chi  go- 
verna ; ne  seguita  che  sempre  sono  i 
medesimi  scandali  in  ogni  tempo.  Avendo 
la  città  di  Firenze,  dopo  il  94,  perduto 
parte  dello  imperio  suo,  come  Pisa  ed 
altre  terre,  fu  necessitata  a fare  guerra 
* a coloro  che  le  occupavano.  E perchè 
chi  le  occupava  era  potente,  ne  seguiva 
che  si  spendeva  assai  nella  guerra,  senza 
alcun  frutto  ; dallo  spendere  assai  ne 
risultava  assai  gravezze  ; dalle  gravezze, 
infinite  querele  del  popolo  ; e perchè 
questa  guerra  era  amministrata  da  uno 
magistrato  di  dieci  cittadini  che  si  chia- 
mavano i Dieci  della  guerra,  1*  univer- 
sale cominciò  a recarselo  in  dispetto, 
come  quello  che  fusse  cagione  della 
guerra  e delle  spese  di  essa;  e cornili- 


-2 

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LIBRO  PRIMO. 


207 

ciò  a persuadersi  che  tolto  via  detto 
magistrato,  fusse  tolto  via  la  guerra  : 
tanto  che  avendosi  a rifare,  non  se  gli 
fecero  gli  scambi  ; e lasciatosi  spirare, 
si  commisero  le  azioni  sue  alla  Signoria. 
La  qual  deliberazione  fu  tanto  pernizio- 
sa,  che  non  solamente  non  levò  la  guer- 
ra, come  lo  universale  si  persuadeva  ; 
ma  tolto  via  quelli  uomini  che  con  pru- 
denza la  amministravano,  ne  seguì  tanto 
disordine,  die,  oltre  a Pisa,  si  perde 
Arezzo  e molti  altri  luoghi:  in  modo 
che,  ravvedutosi  il  popolo  dello  errore 
suo,  e come  la  cagione  del  male  era  la 
febbre  e non  il  medico,  rifece  il  magi- 
strato de’  Dieci.  Questo  medesimo  umore 
si  levò  in  Roma  conira  al  nome  de’ Con- 
soli : perchè,  veggendo  quello  Popolo  na- 
scere 1’  una  guerra  dall'  altra,  e non  po- 
ter mai  riposarsi  ; dove  e'  dovevano 
pensare  che  la  nascesse  dalla  ambizione 
de’ vicini  che  gli  volevano  opprimere; 
pensavano  nascesse  dall’  ambizione  dei 
Nobili,  che  non  potendo  dentro  in  Roma 


DEI  DISCORSI 


208 

gastigar  la  Plebe  difesa  dalla  potestà  tri- 
bunizia, la  volevano  condurre  fuori  di 
Roma  sotto  i Consoli,  per  opprimerla 
dove  non  aveva  aiuto  alcuno.  E pensa- 
rono per  questo,  che  fusse  necessario  o 
levar  via  i Consoli,  o regolare  in  modo 
la  loro  potestà,  che  e*  non  avessino  au- 
torità sopra  il  popolo,  nè  fuori  nè  in 
casa.  11  primo  che  tentò  questa  legge,  fu 
uno  Terentillo  tribuno  ; il  quale  propo- 
neva che  si  dovessero  creare  cinque 
uomini  che  dovessino  considerare  la  po- 
tenza de*  Consoli,  e limitarla.  II  che  al- 
terò assai  la  Nobiltà,  parendoli  che  la 
maiestà  dell’  imperio  fusse  al  tutto  de- 
clinata, talché  alla  Nobiltà  non  restasse 
più  alcuno  grado  in  quella  Repubblica. 
Fu  nondimeno  tanta  la  ostinazione  dei 
Tribuni,  che  il  nome  consolare  si  spen- 
se ; e furono  in  fine  contenti,  dopo 
qualche  altro  ordine,  piuttosto  creare 
Tribuni  con  potestà  consolare,  che  i Con- 
soli : tanto  avevano  più  in  odio  il  nome 
che  le  autorità  loro.  E cosi  seguitorno 


LIBRO  MIMO. 


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209 

lungo  tempo,  infino  che  conosciuto  io 
errore  loro,  còme  i Fiorentini  ritornorno 
ai  Dieci,  così  loro  ricreorno  i Consoli. 

Gap.  XL.  — /.a  creazione  del  decemvirato 
in  Roma,  e quello  che  in  essa  è da 
notare:  dove  si  considera , intra  molte 
altre  cose,  come  si  può  salvare  per 
simile  accidente,  o oppressore  una  re- 
• pubblica. 

Volendo  discorrere  particolarmente 
sopra  gli  accidenti  che  nacquero  in  Ro- 
ma per  la  creazione  del  decemvirato, 
non  mi  pare  soperchio  narrare  prima 
tutto  quello  che  segui  per  simile  crea- 
zione, e dipoi  disputare  quelle  porti  che 
sono  in  esse  azioni  notabili  : le  quali  sono 
molte,  e di  grande  considerazione,  cosi 
per  coloro  che  vogliono  mantenere  una 
repubblica  libera,  come  per  quelli  che 
disegnassino  sommetterla.  Perchè  in  tale 
discorso  si  vedranno  molti  errori  fatti 
dal  Senato  e dalla  Plebe  in  disfavore 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  1* 


210  DEI  DISCORSI 

della  libertà;  e molli  errori  fatti  da  Ap- 
pio,  capo  del  decemvirato;  in  disfavore 
di  quella  tirannide  che  egli  si  aveva  pre- 
supposto stabilire  in  Roma.  Dopo  molte 
deputazioni  c contenzioni  seguite  intra 
il  Popolo  e la  Nobiltà  per  fermare  nuove 
leggi  in  Roma,  per  le  quali  e’  si  stabi- 
lisse più  la  libertà  di  quello  stato;  man- 
darono, d’  accordo,  Spurio  Postumio  con 
duoi  altri  cittadini  ad  Atene  per  gli  es- 
senti di  quelle  leggi  che  Solone  dette  a 
quella  città,  acciocché  sopra  quelle  po- 
tessero fondare  le  leggi  romane.  Andati 
e tornati  costoro,  si  venne  alla  creazione 
degli  uomini  eh’  avessino  ad  esaminare 
e fermare  de.tte  leggi;  e ercorno  dieci 
cittadini  per  un  anno,  tra  i quali  fu 
creato  Appio  Claudio,  uomo  sagace  ed 
inquieto.  E perchè  e'  potessimo  senza  al- 
cuno rispetto  creare  tali  leggi,  si  leva- 
rono di  Roma  tutti  gli  altri  magistrati, 
ed  in  particolare  i Tribuni  e i Consoli, 
e levossi  lo  appello  al  Popolo  ; in  modo 
che  tale  magistrato  veniva  ad  essere  al 


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libro  primo. 


• 211 


tulio  principe  di  Roma.  Appresso  ad 
Appio  si  ridusse  tutta  1’  autorità  degli 
altri  suoi  compagni,  per  gli  favori  clic 
gli  faceva  la  Plebe  : perché  egli  s’ era 
fatto  in  modo  popolare  con  le  dimostra- 
zioni, che  pareva  meraviglia  eh’  egli  aves- 
se preso  sì  presto  una  nuova  natura  c 
uno  nuovo  ingegno,  essendo  stato  te- 
nuto innanzi  a questo  tempo  un  cru- 
dele persecutore  della  Plebe.  Governa- 
ronsi  questi  Dieci  assai  civilmente,  non 
tenendo  più  che  dodici  littori,  i quali 
andavano  davanti  a quello  ch’era  infra 
loro  preposto.  E bench’egli  avessino 
1’ autorità  assoluta,  nondimeno  avendosi 
a punire  un  cittadino  romano  per  omi- 
cidio, lo  citorno  nel  conspelto  del  Po- 
polo, e da  quello  lo  fecero  giudicare. 
Scrissero  le  loro  leggi  in  dicci  tavole, 
ed  avanti  che  le  confirmassero,  le  mes- 
sono  in  pubblico,  acciocché  ciascuno  le 
potesse  leggere  c disputarle;  acciocché 
si  conoscesse  se  vi  era  alcuno  difetto, 
per  poterle  binanti  alla  confirmazionc 


213 


DEI  DISCORSI 


loro  emendare.  Fece,  in  su  questo,  Ap- 
pio nascere  un  rornorc  per  Bomn,  che 
se  a queste  dieci  tavole  se  n’  aggiungcs- 
siuo  due  altre,  si  darebbe  a quelle  la 
loro  perfezione  ; talché  questa  oppinionc 
dette  occasione  al  Popolo  di  rifare  i Dieci 
per  uno  altro  anno:  a che  il  Popolo  si  ac- 
cordò volentieri;  si  perchè i Consoli  non  si 
rifacessino;  sì  perchè  speravano  loro  po- 
tere stare  senza  Tribuni,  sendo  loro  giu- 
dici delle  cause,  come  di  sopra  si  disse. 
Preso,  adunque,  partito  di  rifargli,  tutta 
la  Nobiltà  si  mosse  a cercare  questi  ono- 
ri, ed  intra  i primi  era  Appio;  ed  usava 
tanta  umanità  verso  la  Plebe  nel  doman- 
darla, che  la  cominciò  ad  essere  sospetta 
a suoi  compagni  : credebant  cnim  liaud 
gratuitam  in  lanla  superbia  comilatcm 
fore.  E dubitando  di  opporsegli  aperta- 
mente, diliberarono  farlo  con  arte;  e 
benché  e’  fusse  minore  di  tempo  di  tutti, 
dettono  a lui  autorità  di  proporre  i fu- 
turi Dieci  al  popolo,  credendo  eh*  egli 
osservasse  i termini  degli  altri  di  non 


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LIBRO  PRIMO.  21 3 

proporre  sè  medesimo,  sendo  cosa  inu- 
sitata e ignominiosa  in  Roma,  Me  ve- 
ro imprdimentum  prò  occasione  arri* 
puit ; e nominò  sè  intra  i primi,  con 
meraviglia  e dispiacere  di  tutti  i Nobili: 
nominò  poi  nove  altri  al  suo  proposito. 
La  qual  nuova  creazione  fatta  per  uu 
altro  anno,  cominciò  a mostrare  al  Po- 
polo cd  alla  Nobiltà  lo  error  suo.  Per- 
chè subito  Appio:  finem  fedi  ferenda 
aliena  persona  ; e cominciò  a mostrare 
la  innata  sua  superbia,  ed  in  pochi  dì 
riempiè  di  suoi  costumi  i suoi  compa- 
gni. E per  Sbigottire  il  Popolo  ed  il  Se- 
nato, in  scambio  di  dodici  littori,  ne  fe- 
ciono  cento  venti.  Stette  la  paura  eguale 
qualche  giorno  ; ma  cominciarono  poi 
ad  intrattenere  il  Senato,  e battere  la 
Plebe:  e s’ alcuno  battuto  dall*  uno,  ap- 
pellava ali’  altro,  era  peggio  trattalo  nel- 
P appeltagione  che  nella  prima  causa.  In 
modo  che  la  Plebe,  conosciuto  lo  errore 
suo,  cominciò  piena  di  afflizione  a riguar- 
dare in  viso  i Nobili;  et  inde  libcrtatis 


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DEI  DISCORSI 


21  i 

captare  a urani , linde  servitutem  tiinendoj 
in  cum  s taluni  rempublicam  adduxerant. 
E alla  Nobiltà  era  grata  questa  loro  af- 
flizione, ut  ipsij  teedio  prcesenliunij  Con * 
sules  desiderar ent.  Vennero  i di  clic 
terminavano  l’anno:  le  due  tavole  delle 
leggi  erano  fatte,  ma  non  pubblicate.  Da 
questo  i Dicci  presono  occasione  di  con- 
tinovare  nel  magistrato,  c cominciorono 
a tenere  con  violenza  lo  Stato,  e farsi 
satelliti  della  gioventù  nobile,  alla  quale 
davano  i beni  di  quelli  che  loro  con- 
dannavano. Quibus  donis  Juventus  coi'- 
rumpebatur , et  malebat  liccnliam  suoni , 
i quatn  omnium  liberlatcm.  Nacque  in  que- 
sto tempo,  che  i Sabini  ed  i Volsci  mos- 
sero guerra  a’ Romani:  in  su  la  qual 
paura  cominciarono  i Dieci  a vedere  la 
debolezza  dello  Stato  loro;  perchè  senza 
il  Senato  non  potevano  ordinare  la  guer- 
ra, e ragunando  il  Senato  pareva  loro 
perdere  lo  Stato.  Pure,  necessitati,  pre- 
sono questo  ultimo  partito:  e ragunali 
i Senatori  insieme,  molti  de’ Senatori 


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LIBRO  PRIMO. 


2iÓ 

parlorono  contro  alla  superbia  de’Dieci, 
ed  in  particolare  Valerio  ed  Orazio  : e 
la  autorità  loro  si  sarebbe  al  tutto  spen- 
ta, se  non  che  il  Senato,  per  invidia 
della  Plebe,  non  volle  mostrare  l’auto- 
rità sua,  pensando  che  se  i Dieci  depo- 
nevano  il  magistrato  voluntarii,  che  po- 
tesse essere  che  i Tribuni  della  plebe 
non  si  rifacessero.  Dcliberossi  adunque 
la  guerra;  uscissi  fuori  con  due  eser- 
citi guidati  da  parte  di  detti  Dieci;  Ap- 
pio rimase  a governare  la  città.  Donde 
nacque  che  si  innamorò  di  Virginia,  e 
che  volendola  torre  per  forza,  il  padre 
Virginio,  per  liberarla,  l’ammazzò:  don- 
de seguirono  i tumulti  di  Roma  e degli 
eserciti  ; i quali  ridottisi  insieme  con  il 
rimanente  della  Plebe  romana,  se  ne  an- 
darono nel  Monte  Sacro,  dove  stettero 
tanto  clic  i Dieci  deposono  il  magistrato, 
e che  furono  creali  i Tribuni  ed  i Con- 
solide ridotta  Roma  nella  forma  della 
antica  sua  libertà.  Notasi,  adunque,  per 
questo  testo,  in  prima  esser  nato  in  Ro- 


216 


DEI  DISCORSI  • 


ma  questo  inconveniente  di  creare  que- 
sta tirannide,  per  quelle  medesime  ca- 
gioni che  nascono  la  maggiore  parte 
delie  tirannidi  nelle  città:  e questo  è 
da  troppo  desiderio  del  popolo  d* esser 
libero,  e da  troppo  desiderio  de’  nobili 
di  comandare.  E quando  c’  non  conven- 
gono a fare  una  legge  in  favore  della 
libertà,  ma  gettasi  qualcuna  delle  parti 
a favorire  uno,  allora  è che  subito  la 
tirannide  surge.  Convennono  il  Popolo 
ed  i Nobili  di  Poma  a creare  i Dieci,  e 
crearli  con  tanta  autorità,  per  desiderio 
che  ciascuna  delle  parti  aveva,  1’  una  di 
spegnere  il  nome  consolare,  l’altra  il 
tribunizio.  Creati  che  furono,  parendo 
alla  Plebe  che  Appio  fusse  diventato 
popolare  c battesse  la  Nobiltà,  si  volse 
il  Popolo  a favorirlo.  E quando  un  po- 
polo si  conduce  a far  questo  errore  di 
dare  riputazione  ad  uno  perchè  balta 
quelli  che  egli  ha  in  odio,  e che  quello 
uno  sia  savio,  sempre  interverrà  che  di- 
venterà tiranno  di  quella  città.  Perchè 


LIBRO  PRIMO.  217 

egli  attenderà,  insieme  con  il  favore  del 
popolo,  a spegnere  la  nobiltà  ; e non  si 
volterà  inai  alla  oppressione  del  popolo, 
se  non  quando  ei  V arà  spenta;  nel  qual 
tempo  conosciutosi  il  popolo  essere  ser- 
vo, non  abbi  dove  rifuggire.  Questo  modo 
hanno  tenuto  tutti  coloro  che  hanno  fon- 
dato tirannidi  in  le  repubbliche:  c se 
questo  modo  avesse  tenuto  Appio,  quella 
sua  tironnide  arebbe  preso  più  vita,  e 
non  sarebbe  mancata  si  presto.  Ma  ei 
fece  tutto  il  contrario,  nè  si  potette  go- 
vernare più  imprudentemente;  cliè  per 
tenere  la  tirannide,  c’si  fece  inimico  di 
coloro  che  glie  T avevano  data  c che 
gliene  potevano  mantenere,  ed  amico  di 
quelli  che  non  erano  concorsi  a dar- 
gliene e che  non  gliene  arebbono  potuta 
mantenere;  e perdèssi  coloro  che  gli 
erano  amici,  e cercò  di  avere  amici  quelli 
che  non  gli  potevano  essere  amici.  Per- 
chè, ancora  che  i nobili  desiderino  ti- 
ranneggiare, quella  parte  della  nobiltà 
che  si  truova  fuori  della  tirannide,  è 


± H-  « 


jft 


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218 


DEI  DISCORSI 


4 

I l J 


1 


« 


sempre  inimica  al  tiranno;  nè  quello  se 
la  può  mai  guadagnare  tutta,  per  l’am- 
bizione grande  e grande  avarizia  che  .è 
in  lei,  non  polendo  il  tiranno  avere  nè 
tante  ricchezze  nè  tanti  onori,  che  a tutta 
satisfaccia.  E così  Appio,  lasciando  il 
Popolo  ed  accostandosi  a’ Nobili,  fece  uno 
errore  evidentissimo,  e per  le  ragioni 
dette  di  sopra,  e perchè  a volere  con 
violenza  tenere  una  cosa,  bisogna  che 
sia  più  potente  chi  sforza,  che  chi  è 
sforzato.  Donde  nasce  che  quelli  tiranni 
che  hanno  amico  lo  universale  ed  mi- 
mici i grandi,  sono  più  sicuri;  per  es- 
sere la  loro  violenza  sostenuta  da  mag- 
gior forze,  che  quella  di  coloro  che  hanno 
per  inimico  il  popolo  ed  amica  la  no- 
biltà. Perchè  con  quello  favore  bastano 
a conservarsi  le  forze  intrinseche;  co- 
me bastorno  a Nabide  tiranno  di  Sparta, 
quando  tutta  Grecia  ed  il  popolo  romano 
lo  assaltò  : il  quale  assicuratosi  di  pochi 
nobili,  avendo  amico  il  popolo,  con  quello 
si  difese;  il  che  non  arebbe  potuto  fare 


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. 


: 


LIBRO  PRIMO.  fili) 

avendolo  inimico.  In  quello  nitro  grado 
per  aver  pochi  amici  dentro,  non  bastano 
le  forze  intrinseche,  ma  gli  conviene  cer- 
care di  fuora.  Ed  hanno  ad  essere  di 
tre  sorti:  1’ una  satelliti  forestieri,  die 
li  guardino  la  persona;  l’altra  armare 
il  contado,  che  faccia  quell’  oflìzio  che 
arebbe  a fare  la  plebe;  la  terza  aderirsi 
co’  vicini  potenti,  che  li  difendino*  Chi 
tiene  questi  modi  e gli  osserva  bene, 
ancora  ch’egli  avesse  per  inimico  il  po- 
polo, potrebbe  in  qualche  modo  salvarsi. 
Ma  Appio  non  poteva  far  questo  di  gua- 
dagnarsi il  contado,  scudo  una  medesima 
cosa  il  contado  e Roma;  c quel  che  po- 
teva fare,  non  seppe:  talmente  che  ro- 
vinò nc’  primi  principii  suoi.  Fecero  il 
Senato  ed  il  Popolo  in  questa  creazione 
del  decemvirato  errori  grandissimi  : per- 
chè ancora  che  di  sopra  si  dica,  in  quel 
discorso  che  si  fa  del  Dittatore,  che 
quelli  magistrati  che  si  fanno  da  per 
loro,  non  quelli  che  fa  il  popolo,  sono 
nocivi  alla  libertà;  nondimeno  il  popolo 


220 


DEI  DISCORSI 


debbe,  quando  egli  ordina  i magistrali, 
fargli  in  modo  che  gli  abbino  avere  qual- 
che rispetto  a diventare  tristi.  E dove 
e’ si  debbe  proporre  loro  guardia  per 
mantenergli  buoni,  i Romani  lalevorono, 
facendolo  solo  magistrato  in  Roma,  ed* 
annullando  tutti  gli  altri,  per  la  ecces- 
siva voglia  (come  di  sopra  dicemmo)  che 
il  Senato  aveva  di  spegnere  i Tribuni, 
e la  Plebe  di  spegnere  i Consoli;  la  quale 
gli  accecò  in  modo,  che  concorsono  in 
tale  disordine.  Perchè  gli  uomini,  come 
diceva  il  re  Ferrando,  spesso  fanno  co- 
me certi  minori  uccelli  di  rapina  ; 
ne’ quali  è tanto  desiderio  di  conseguire 
la  loro  preda,  a che  la  natura  gli  incita, 
che  non  sentono  un  altro  maggior  uc- 
cello che  sia  loro  sopra,  per  ammazzar- 
gli. Conoscesi,  adunque,  per  questo  di- 
scorso, come  nel  principio  proposi,  lo 
errore  del  Popolo  romano,  volendo  sal- 
vare la  libertà  ; e gli  errori  di  Appio, 
volendo  occupare  la  tirannide. 


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LIBIIO  PRIMO. 


221 


Cap.  XLI.  — Sahare  dalla  Umilila  alla 
superbia j dalla  pietà  alta  crudeltà 
senza  debiti  mezzij  è cosa  impruden- 
te ed  inutile. 

Oltre  agli  altri  termini  male  usati  da 
Appio  per  mantenere  la  tirannide,  non 
fu  di  poco  momento  saltare  troppo  pre- 
sto da  una  qualità  ad  un’altra.  Perchè 
la  astuzia  sua  nello  ingannare  la  Plebe, 
simulando  d’essere  uomo  popolare,  fu 
bene  usata;  furono  ancora  bene  usati  i 
termini  che  tenue  perchè  i Dieci  si 
avessino  a rifare;  fu  ancora  bene  usata 
quella  audacia  di  creare  sè  stesso  con- 
tra  alla  oppinione  della  Nobiltà;  fu 
bene  usato  creare  colleghi  a suo  pro- 
posito: ma  non  fu  già  bene  usato,  come 
egli  ebbe  fatto  questo,  secondo  che  di 
sopra  dico,  mutare  in  un  subito  natu- 
ra; e di  amico,  mostrarsi  nimico  alla 
Plebe;  di  umano,  superbo;  di  facile, 
difficile;  e farlo  tanto  presto,  che  senza 


DEI  DtSCOI'.St 


222 

scusa  veruna  ogni  uomo  avesse  a cono- 
scer  la  fallacia  dello  animo  suo.  Perchè 
chi  è paruto  buono  un  tempo,  e vuole 
a suo  proposito  diventar  tristo,  io  deb- 
be  fare  per  gli  debiti  mezzi  ; ed  in  modo 
condurvisi  con  le  occasioni,  che  innanzi 
che  la  diversa  natura  ti  tolga  de’ favori 
vecchi,  la  te  ne  ubbia  dati  tanti  degli 
nuovi,  che  tu  non  venga  a diminuire  la 
tua  autorità:  altrimenti,  trovandoti  sco- 
perto e senza  amici,  rovini. 

Cap.  XL1I.  — Quanto  gli  uomini 

facilmente  si  possono  corrompere. 

Notasi  ancora  in  questa  materia  del 
decemvirato,  quanto  facilmente  gli  uo- 
mini si  corrompono,  e fatinosi  diventare 
di  contraria  natura,  ancora  che  buoni 
e bene  educati;  considerando  quanto 
quella  gioventù  che  Appio  si  aveva 
eletta  intorno,  cominciò  ad  essere  ami- 
ca della  tirannide  per  uno  poco  d’uti- 
lità che  gliene  conseguiva  ; e come 


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LIBRO  PRIMO. 


Quinto  Fabio,  uno  del  numero  de’ se- 
condi Dieci,  sendo  uomo  oliimo,  acce- 
calo da  un  poco  di  ambizione,  e per- 
suaso dulia  malignità  di  Appio,  mutò  i 
suoi  buoni  costumi  in  pessimi,  e diven- 
tò simile  a lui.  Il  che  esaminato  bene, 
farà  tanto  più  pronti  i legislatori  delle 
repubbliche  o de’ regni  a frenare  gli 
appetiti  umani,  c torre  loro  ogni  spe- 
ranza di  potere  impune  errare. 

Cap.  XLIII.  — Quelli  che  combattono  per 
la  gloria  propria,  sono  buoni  e fe- 
deli soldati. 

Considerasi  ancora  per  il  soprascritto 
trattato,  quanta  differenza  è da  uno 
esercito  contento  e che  combatte  per  la 
gloria  sua,  a quello  che  è male  disposto 
e che  combatte  per  la  ambizione  d’  altri. 
Perchè,  dove  gli  eserciti  romani  solevano 
sempre  essere  vittoriosi  sotto  i Consoli, 
sotto  i Decemviri  sempre  perderono.  Da 
questo  essempio  si  può  conoscere  parte 


224 


DEI  DISCORSI 


delle  cagioni  della  inutilità  de’ soldati 
mercenurii;  i quali  non  hanno  altra  ca- 
gione clic  li  tenga  fermi,  che  un  poco 
di  stipendio  che  tu  dai  loro.  La  qual 
cagione  non  è nè  può  essere  bastante  a 
fargli  fedeli,  nè  tanto  tuoi  amici,  che 
voglino  morire  per  le.  Perchè  in  quelli 
eserciti  che  non  è una  affezione  verso 
di  quello  per  chi  e’  combattono,  che  gli 
facci  diventare  suoi  partigiani,  non  mai 
vi  potrà  essere  tanta  virtù  che  basti  a 
resistere  ad  uno  nimico  un  poco  virtuo- 
so. G perchè  questo  amore  non  può 
nascere,  nè  questa  gara,  da  altro  che 
da’ sudditi  tuoi;  è necessario  a volere 
tenere  uno  stato,  a volere  mantenere 
una  repubblica  o uno  regno,  armarsi 
de’  sudditi  suoi  : come  si  vede  che  han- 
no fatto  tutti  quelli  che  con  gli  eserciti 
hanno  fatti  grandi  progressi.  Avevano 
gli  eserciti  romani  sotto  i Dieci  quella 
medesima  virtù;  ma  perchè  in  loro  non 
era  quella  medesima  disposizione,  non 
facevano  gli  usilati  loro  effetti.  Ma  come 


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LIBRO  PRIMO. 


225 


prima  il  magistrato  de’  Dieci  fu  spento, 
e che  loro  come  liberi  cominciorno  a 
militare,  ritornò  in  loro  il  medesimo 
animo;  e per  conscguente,  le  loro  im- 
prese avevano  il  loro  fine  felice,  secon- 
do la  antica  consuetudine  loro. 

C\p.  XLIV.  — Una  moltitudine  senza 
capo,  è inutile:  e non  si  debbo  mi- 
nacciare prima,  c poi  chiedere  l'au- 
torità. 

Era  la  Plebe  romana  per  lo  acciden- 
te di  Virginia  ridotta  armata  nel  Monte 
Sacro.  Mandò  il  Senato  suoi  ambascia- 
dori  a dimandare  con  quale  autorità 
egli  avevano  abbandonati  i loro  capita- 
ni, e ridottisi  nel  Monte.  E tanta  era 
stimata  l’autorità  del  Senato,  che  non 
avendo  la  Plebe  intra  loro  capi,  ninno 
si  ardiva  a rispondere.  E Tito  Livio 
dice,  ohe  e’  non  mancava  loro  materia 
a rispondere,  ma  mancava  loro  chi  fa- 
cesse la  risposta.  La  qual  cosa  dimon- 

UACHI  AVELLI,  Discorsi.  — 1.  15 


226 


dei  discorsi 


stra  appunto  la  inutilità  d’  una  molti- 
tudine  senza  capo.  Il  qual  disordine  fu 
conosciuto  da  Virginio,  e per  suo  ordi- 
ne si  creò  venti  Tribuni  militari,  che 
fussero  loro  capo  a rispondere  e con- 
venire col  Senato.  Ed  avendo  chiesto  che 
si  mandasse  loro  Valerio  ed  Orazio,  ai 
quali  loro  direbbono  la  voglia  loro,  non 
vi  volsono  andare  se  prima  i Dieci  non 
deponevano  il  magistrato:  ed  arrivati 
sopra  il  Monte  dove  era  la  Plebe,  fu 
domandato  loro  da  quella,  che  volevano 
che  si  creassero  i Tribuni  della  plebe, 
e che  si  avesse  ad  appellare  al  Popolo 
da  ogni  magistrato,  e che  si  dessino 
loro  tutti  i Dieci,  chè  gli  volevano  ar- 
dere vivi.  Laudarono  Valerio  cd  Orazio 
le  prime  loro  domande;  biasimorono 
P ultima  come  impia,  dicendo  : Crude - 
litatcm  dannatisj  in  crudclitaiem  ruitis ; 
e consigliamogli  che  dovessino  lasciare 
il  fare  menzione  de’ Dieci,  e ch’egli  at- 
tendessino  a pigliare  V autorità  e pote- 
stà loro:  dipoi  non  mancherebbe  loro 


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LIBRO  PRIMO.  227 

modo  a satisfarsi.  Dove  apertamente  si 
conosce  quanta  stultizia  c poca  pru- 
denza è domandare  una  cosa,  e dire 
prima:  io  voglio  far  male  con  essa; 
perchè  non  si  debbo  mostrare  l’animo 
suo,  ma  vuoisi  cercare  d’ottenere  quel 
suo  desiderio  in  ogni  modo.  Perchè 
e’  basta  a dimandare  a uno  le  armi, 
senza  dire:  io  ti  voglio  ammazzare  con 
esse;  potendo  poi  che  tu  bai  l’arme  in 
mano,  satisfare  allo  appetito  tuo. 

I 

Cap.  XLV.  — E cosa  di  malo  esempio 
| non  osservare  una  legge  falla , c mas- 

I sime  dallo  autore  d'essa:  e rinfre- 

► scare  ogni  di  nuove  ingiurie  in  una 

t città,  è a chi  la  governa  dannosis- 

i simo. 

Seguito  lo  accordo,  e ridotta  Roma  in 
la  antica  sua  forma,  Virginio  citò  Appio 
innanzi  al  Popolo  a difendere  la  sua 
causa.  Quello  comparse  accompagnato 
da  molti  Nobili.  Virginio  comandò  che 


DEI  DISCORSI 


228 

fussc  messo  in  prigione.  Cominciò  Appio 
a gridare,  ed  appellare  al  Popolo.  Vir- 
ginio diceva  che  non  era  degno  di  ave- 
re quella  nppellagionc  che  egli  aveva 
distrutta,  ed  avere  per  difensore  quel 
Popolo  che  egli  aveva  offeso.  Appio  re- 
plicava, come  e’  non  aveano  a violare 
quella  appellagionc  ch'egli  avevano  con 
tanto  desiderio  ordinata.  Pertanto  egli 
fu  incarcerato,  ed  avanti  al  dì  dei  giu- 
dizio ammazzò  sè  stesso.  E benché  la 
scellerata  vita  di  Appio  meritasse  ogni 
supplicio,  nondimeno  fu  cosa  poco  civile 
violare  le  leggi,  e tanto  più  quella  che 
era  fatta  allora.  Perchè  io  non  credo 
che  sia  cosa  di  più  cattivo  esempio  in 
una  repubblica,  che  fare  una  legge  e 
non  la  osservare;  e tanto  più,  quanto 
la  non  è osservata  da  chi  l’ ha  falla. 
Essendo  Firenze,  dopo  il  XCIV,  stala 
riordinala  nel  suo  stato  con  l'aiuto  di 
frate  Girolamo  Savonarola,  gli  scritti 
del  quale  mostrano  la  dottrina,  la  pru- 
denza, la  virtù  dello  animo  suo  ; ed 


i 


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LIBRO  PRIMO.  229 

avendo  intra  P altre  conslituzioni  per 
assicurare  i cittadini,  fatto  fare  una 
legge,  che  si  potesse  appellare  al  popolo 
dalle  sentenze  che,  per  caso  di  Stato, 
gli  Otto  c la  Signoria  dessino;  la  qual 
legge  persuase  più  tempo,  e con  diffi- 
coltà grandissima  ottenne:  occorse  che, 
poco  dopo  la  confirmazicne  d’essa,  fu- 
rono condcunati  a morte  dalla  Signoria 
per  conto  di  Stato  cinque  cittadini;  e 
volendo  quelli  appellare,  non  furono 
lasciati,  e non  fu  osservata  la  legge.  Il 
che  tolse  più  riputazione  a quel  frate, 
che  nessun  altro  accidente:  perchè,  se 
quella  appellagione  era  utile,  ei  doveva 
farla  osservare;  s’ ella  non  era  utile, 
non  doveva  farla  vincere.  E tanto  più 
fu  notato  questo  accidente,  quanto  che 
il  frate  in  tante  predicazioni  che  fece 
poi  clic  fu  rotta  questa  legge,  non  mai 
o dannò  chi  P aveva  rotta,  o lo  scusò  ; 
come  quello  che  dannare  non  voleva, 
come  cosa  che  gli  tornava  a proposito  ; 
e scusare  non  la  poteva.  Il  che  avendo 


DEI  DISCORSI 


230 

scoperto  l’animo  suo  ambizioso  e pai*' 
tigiano,  gii  tolse  riputazione,  e dettegli 
assai  carico.  Offende  ancora  uno  Stato 
assai,  rinfrescare  ogni  dì  nello  animo 
de’  tuoi  cittadini  nuovi  umori,  per  nuo- 
ve ingiurie  ebe  a questo  e quello  si 
fucciano  : come  intervenne  a Roma  dopo 
il  decemvirato.  Perché  tutti  i Dieci,  ed 
altri  cittadini,  in  diversi  tempi  furono 
accusati  e condannati:  in  modo  che  gli 
era  uno  spavento  grandissimo  in  tutta 
la  Nobiltà,  giudicando  che  e’ non  si  aves- 
se mai  a porre  fine  a simili  condenna- 
gioni,  fino  a tanto  che  tutta  la  Nobiltà 
non  fusse  distrutta.  Ed  arebbe  generato 
in  quella  città  grande  inconveniente,  se 
da  Marco  Duellio  tribuno  non  vi  fusse 
stato  provveduto;  il  qual  fece  uno  edit- 
to, che  per  uno  anno  non  fusse  lecito 
ad  alcuno  citare  o accusare  alcuno  cit- 
tadino contano  : il  che  rassicurò  tutta 
la  Nobiltà.  Dove  si  vede  quanto  sia  dan- 
noso ad  una  repubblica  o ad  un  prin- 
cipe, tenere  con  le  continove  pene  ed 


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LIBRO  PRIMO. 


231 

offese  sospesi  e paurosi  gli  animi  dei 
sudditi.  E senza  dubbio,  non  si  può  te- 
nere il  più  pernicioso  ordine:  perchè  gli 
uomini  che  cominciano  a dubitare  di 
avere  a capitar  male,  in  ogni  modo  si 
assicurano  ne’ pericoli,  e diventano  più 
audaci,  e meno  rispettivi  a tentare  cose 
nuove.  Però  è necessario,  o non  offen- 
dere mai  alcuno,  o fare  le  offese  ad  un 
tratto;  e dipoi  rassicurare  gli  uomini, 
e dare  loro  cagione  di  quietare  e fer- 
mare l’animo. 

Cap.  XLVI.  — Gli  uomini  salgono  da 
una  ambizione  ad  unJ  altra  ; c prima 
si  cerca  non  essere  offeso t dipoi  di 
offendere  altrui. 

Avendo  il  Popolo  romano  ricuperala 
la  libertà,  ritornato  nel  suo  primo  gra- 
do, ed  in  tanto  maggiore,  quanto  si 
erano  fatte  dimolte  leggi  nuove  In  cor- 
roborazione della  sua  potenza  ; pareva 
ragionevole  che  Roma  qualche  volta  quic- 


232 


DE!  DISCORSI 


tasse.  Nondimeno,  per  esperienza  si  vide 
il  contrario;  perchè  ogni  di  vi  surgeva 
nuovi  tumulti  e nuove  discordie.  E per- 
chè Tito  Livio  prudentissimamente  rende 
la  ragione  donde  questo  nasceva,  non 
mi  pare  se  non  a proposito  riferire  ap- 
punto le  sue  parole,  dove  dice  che  sem- 
pre o il  Popolo  o la  Nobiltà  insuperbi- 
va, quanto  V altro  si  umiliava  ; e stando 
la  Plebe  quieta  intra  i termini  suoi,  co- 
minciarono i giovani  nobili  ad  ingiu- 
riarla ; ed  i Tribuni  vi  potevano  fare 
pochi  rimedi,  perchè  ancora  loro  erano 
violati.  La  Nobiltà,  dalP  altra  parte,  an- 
cora che  gli  paresse  che  la  sua  gioventù 
fusse  troppo  feroce,  nondimeno  aveva  a 
caro  che  avendosi  a trapassare  il  modo, 
lo  trapassassino  i suoi,  e non  la  Plebe. 
E cosi  il  desiderio  di  difendere  la  li- 
bertà faceva  che  ciascuno  tanto  si  pre- 
valeva, eh’  egli  oppressava  l’ altro.  E V or- 
dine di  questi  accidenti  è,  che  mentre 
clic  gli  uomini  cercano  di  non  temere, 
cominciano  a far  temere  altrui;  e quella 


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LIBRO  PRIMO.  233 

ingiuria  ch’egli  scacciano  da  loro,  la 
pongono  sopra  un  altro:  come  se  fussc 
necessario  offendere,  o essere  offeso.  Ve- 
desi,  per  questo,  in  quale  modo,  fra  gli 
altri,  le  repubbliche  si  risolvono;  e in 
che  modo  gli  uomini  salgono  da  una 
ambizione  ad  un’  altra  ; e come  quella 
sentenza  salustiaua  posta  in  bocca  di 
Cesare,  è verissima  : quod  omnia  mala 
exempla  bonis  mitiis  orla  sunt.  Cerca- 
no, come  di  sopra  è detto,  quelli  citta- 
dini clie  ambiziosamente  vivono  in  una 
repubblica,  la  prima  cosa  di  non  potere 
essere  offesi,  non  solamente  dai  privati, 
ma  eziam  da’  magistrali  : cercano,  per 
potere  fare  questo,  amicizie  ; e quelle 
acquistano  per  vie  in  apparenza  oneste, 
o con  sovvenire  di  danari,  o con  difen- 
dergli da’  potenti  : e perchè  questo  pare 
virtuoso,  s’ inganna  facilmente  ciascuno, 
c per  questo  non  vi  si  pone  rimedio  ; 
intanto  che  egli  senza  ostacolo  perseve- 
rando, diventa  di  qualità,  che  i privati 
cittadini  ne  hanno  paura,  ed  i magistrati 


■r.p teft; 


234 


DEI  DISCORSI 


gli  hanno  rispetto.  E quando  egli  è sa* 
Jito  a questo  grado,  c non  si  sia  prima 
ovvialo  alla  sua  grandezza,  viene  od  es- 
sere in  termine,  che  volerlo  urtare  è 
pericolosissimo,  per  le  ragioni  che  io 
dissi  di  sopra  del  pericolo  che  è nello 
urtare  uno  inconveniente  che  abbi  di  già 
fatto  augumento  in  una  città:  tanto  che 
la  cosa  si  riduce  in  termine,  che  bisogna  o 
cercare  di  spegnerlo  con  pericolo  di  una 
subita  rovina  j o lasciandolo  fare,  entrare 
in  una  servitù  manifesta,  se  morte  o qual- 
che accidente  non  te  ne  libera.  Perchè, 
venuto  a’soprascrilti  termini,  che  i citta- 
dini ed  i magistrati  abbino  paura  ad  of- 
fender lui  e gli  amici  suoi,  non  dura  dipoi 
molta  fatica  a fare  che  giudichino  ed  of- 
fendino  a suo  modo.  Donde  una  repubblica 
intra  gli  ordini  suoi  debbe  avere  questo, 
di  vegghiarc  che  i suoi  cittadini  sotto 
ombra  di  bene  non  possino  far  male  ; 
e di’  egli  abbino  quella  riputazione  che 
giovi,  e non  nuoca,  alla  libertà:  come 
nel  suo  luogo  da  noi  sarà  disputato. 


I 

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LIBRO  PRIMO. 


Cap.  XLVII.  — Gli  nomini j ancora  clic 
si  ingannino  ncJ  generali j nei  parti- 
colari non  si  ingannano. 

Essendosi  il  Popolo  romano,  come  di 
sopra  si  dice,  recato  a noia  il  nome 
consolare,  e volendo  che  potessiao  esser 
fatti  Consoli  uomini  plebei,  o che  fusse 
limitata  la  loro  autorità  ; la  Nobiltà,  per 
non  deonestare  l’ autorità  consolare  nè 
con  Tuna  nè  con  1’  altra  cosa,  prese  una 
via  di  mezzo,  e fu  contenta  che  si  creas- 
sino  quattro  Tribuni  con  potestà  conso* 
lare,  i quali  potcssino  essere  cosi  plebei 
come  nobili.  Fu  contenta  a questo  la 
Plebe,  parendogli  spegnere  il  consolato, 
ed  avere  in  questo  sommo  grado  la  parte 
sua.  Nacquene  di  questo  un  caso  nota* 
bile  : che  venendosi  alla  creazione  di 
questi  Tribuni,  e potendosi  creare  tutti 
plebei,  furono  dal  Popolo  romano  creati 
tutti  fiobiii.  Onde  Tito  Livio  dice  queste 
parole:  Quorum  comitiorum  eoenlus  do- 


m 

Ip  Ri! 


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m Bb-  : 

Iti:-  IttRS 


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236  DEI  DISCORSI 

cuit,  alias  animo s in  contcntione  l ib er- 
ta ti  s et  honoris,  alios  secundum  depo- 
sita certamina  in  incorrupto  judicio 
esse.  Ed  esaminando  donde  possa  proce- 
dere questo,  credo  proceda  che  gii  uo- 
mini nelle  cose  generali  s’ ingannano 
assai,  nelle  particolari  non  tanto.  Pareva 
generalmente  alla  Plebe  romana  di  me- 
ritare il  consolato,  per  avere  più  parte 
in  la  città,  per  portare  più  pericolo  nelle 
guerre,  per  esser  quella  che  con  le  brac- 
cia sue  manteneva  Roma  libera,  e la  fa- 
ceva potente.  E parendogli,  come  è det- 
to, questo  suo  desiderio  ragionevole,  volse 
ottenere  questa  autorità  in  ogni  modo. 
Ma  come  la  ebbe  a fare  giudizio  degli 
uomini  suoi  particolarmente,  conobbe  la 
debolezza  di  quelli,  e giudicò  che  nessuno 
di  loro  meritasse  quello  che  tutta  insie- 
me gli  pareva  meritare.  Talché  vergo- 
gnatasi di  loro,  ricorse  a quelli  che  Io 
meritavano.  Della  quale  deliberazione 
meravigliandosi  meritamente  Tito  Livio, 
dice  queste  parole  : /lane  modestiam , 


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unno  primo. 


237 

aquila IcmquCj  et  allitudinem  animi,  ubi 
moie  in  uno  inveneris , qua:  lune  populi 
universi  fuit  ? In  corroborazione  di  que- 
sto, se  ne  può  addurre  un  altro  notabile 
essempio,  seguito  in  Capova  da  poi  che 
Annibaie  ebbe  rotti  i Romania  Canne; 
per  la  qual  rotta  sendo  tutta  sollevata 
Italia,  Capova  stava  ancora  per  tumul- 
tuare, per  P odio  eli’  era  intra  il  Popolo 
ed  il  Senato;  e trovandosi  in  quel  tempo 
nel  supremo  magistrato  Pacuvio  Calano, 
e conoscendo  il  pericolo  che  portava 
quella  città  di  tumultuare,  disegnò  con 
suo  grado  riconciliare  la  Plebe  con  la 
Nobiltà  ; e fatto  questo  pensiero,  fece 
ragunare  il  Senato,  c narrò  loro  Podio 
che  M popolo  aveva  contra  di  loro,  ed  i 
pericoli  che  portavano  di  essere  ammaz- 
zati da  quello,  e data  la  città  ad  Anni- 
baie, sendo  le  cose  de’  Romani  afflitte  : 
dipoi  soggiunse,  che  se  volevano  lasciare 
governare  questa  cosa  a lui,  farebbe  in 
modo  che  si  unirebbono  insieme  ; ma  gli 
voleva  serrare  dentro  al  palazzo,  e col 


23  $ 


DEI  DlSCOHSt 


fare  potestà  al  popolo  di  potergli  gasti- 
gare,  salvargli.  Cederono  a questa  sua 
oppinione  i Senatori,  e quello  chiamò  il 
Popolo  a coocione,  avendo  rinchiuso  in 
palazzo  il  Senato  ; e disse  com’  egli  era 
venuto  il  tempo  di  potere  domare  la  su* 
perbia  della  Nobiltà,  e vendicarsi  delle 
ingiurie  ricevute  da  quella,  avendogli 
rinchiusi  tutti  sotto  la  sua  custodia  : ma 
perchè  credeva  che  loro  non  volessino 
che  la  loro  città  rimanesse  senza  gover- 
no, era  necessario,  volendo  ammazzare 
i Senatori  vecchi,  crearne  de*  nuovi. 
E per  tanto  aveva  messo  tutti  gli  nomi 
degli  Senatori  in  una  borsa,  e comin- 
cierebbe a trargli  in  loro  presenza  j ed 
egli  farebbe  i tratti  di  mano  in  mano 
morire,  come  prima  loro  avessino  tro- 
vato il  successore.  E cominciato  a trarne 
uno,  fu  al  nome  di  quello  levato  un  ru- 
more grandissimo,  chiamandolo  uomo 
superbo,  crudele  ed  arrogante  : e chie- 
dendo Paeuvio  che  facessino  lo  scambio, 
si  racchetò  tutta  la  conclone  ; c dopo 


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LIBRO  PRIMO*  239 

alquanto  spazio,  fu  nominato  uno  della 
plebe  ; al  nome  del  quale  chi  cominciò 
a fischiare,  chi  a ridere,  chi  a dirne 
male  in  uno  modo,  e chi  in  un  altro: 
o così  seguitando  di  mano  in  mano,  tutti 
quelli  che  furono  nominati,  gli  giudica- 
vano indegni  del  grado  senatorio.  In 
modo  che  Pacuvio,  presa  sopra  questo 
occasione,  disse:  Poiché  voi  giudicate  che 
qucslu  città  stia  male  senza  Senato,  ed 
a fare  gii  scambi  a’  Senatori  vecchi  non 
vi  accordate,  io  penso  che  sia  bene  che 
voi  vi  riconciliate  insieme  ; perchè  que- 
sta paura  in  la  quale  i Senatori  sono 
stati,  gli  arà  fatti  in  modo  raumiliare, 
che  quella  umanità  che  voi  cercavate  al- 
trove, troverete  in  loro.  Ed  accordatisi 
a questo,  ne  segui  la  unione  di  questo 
ordine  ; e quello  inganno  in  che  egli 
erano  si  scoperse,  come  e’  furono  con- 
stretti venire  a’  particolari.  Ingannansi, 
olirà  di  questo,  i popoli  generalmente 
nel  giudicare  le  cose  e gli  accidenti  di 
esse  j le  quali  dipoi  si  conoscono  parti- 


240 


► 

■ 

1 < • 


DEI  DISCORSI 


colamento,  si  avveggono  di  tale  ingan- 
no. Dopo  il  4494,  sendo  stati  i principi 
della  città  cacciati  da  Firenze,  e non  vi 
essendo  alcuno  governo  ordinato,  ma 
piuttosto  una  certa  licenza  ambiziosa,  ed 
andando  le  cose  pubbliche  di  inale  in 
peggio  ; molti  popolari  veggiendo  la  ro- 
vina della  città,  e non  ne  intendendo  al- 
tra cagione,  ne  accusavano  la  ambizione 
di  qualche  potente  che  nutrisse  i disor- 
dini, per  poter  fare  uno  Stato  a suo  pro- 
posito, c torre  loro  la  libertà  : c stavano 
questi  tali  per  le  logge  c per  le  piazze, 
dicendo  male  di  molti  cittadini,  e minac- 
ciandoli che  se  mai  si  trovassero  de’ Si- 
gnori, scoprirebbono  questo  loro  ingan- 
no, e gli  gastigarebbono.  Occorreva 
spesso  che  de’  simili  ne  ascendeva  al 
supremo  magistrato;  e come  egli  era 
salilo  in  quel  luogo,  e che  e*  vedeva  le  i 
cose  più  dappresso,  conosceva  i disor- 
dini donde  nascevano,  ed  i pericoli  che 
soprastavano,  e la  difficoltà  del  rime-  ! 
citarvi.  C veduto  come  i tempi,  e non 


J 

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LIBRO  PRIMO.  241 

gli  uomini,  causavano  il  disordine,  di- 
ventava subito  d’ un  altro  animo,  c di 
un’  altra  fatta  ; perché  la  cognizione  delle 
cose  particolari  gli  toglieva  via  quello 
inganno  che  nel  considerare  generalmente 
si  aveva  presupposto.  Dimodoché,  quelli 
che  lo  avevano  prima,  quando  era  pri- 
vato, sentito  parlare,  e vedutolo  poi  nel 
supremo  magistrato  stare  quieto,  crede- 
vano che  nascesse,  non  per  più  vera  co- 
gnizione delle  cose,  ma  perchè  fusse  stalo 
aggirato  e corrotto  dai  grandi.  Ed  ac- 
cadendo questo  a molti  uomini  c molte 
volte,  ne  nacque  tra  loro  un  proverbio, 
che  diceva  : Costoro  hanno  uno  animo 
in  piazza,  cd  uno  in  palazzo.  Conside- 
rando, dunque,  tutto  quello  si  è discor- 
so, si  vede  come  e’  si  può  fare  tosto 
aprire  gli  occhi  a’  popoli,  trovando  mo- 
do, veggendo  che  uno  generale  gl’  in- 
ganna, ch’egli  abbino  a descenderc  ai 
particolari  ; come  fece  Pacuvio  in  Capo- 
va,  ed  il  --Senato  in  Roma.  Credo  ancora, 
che  si  possa  conchiudere,  che  mai  un 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1. 


242 


DEI  DISCORSI 


uomo  prudente  non  debbe  fuggire  il 
giudizio  popolare  nelle  eo9e  particolari, 
circa  le  distribuzioni  de' gradi  e delle 
dignità  : perchè  solo  in  questo  il  popolo 
non  si  inganna  ; e se  si  inganna  qualche 
volta,  Ha  sì  raro,  che  s’ inganneranno 
più  volte  i pochi  uomini  che  avessino  a 
fare  simili  distribuzioni.  Nè  mi  pare  su- 
perfluo mostrare  nel  seguente  capitolo, 
P ordine  che  teneva  il  Senato  per  isgan- 
nare  il  popolo  nelle  distribuzioni  sue. 

V 

Cap.  XLYIII.  — Chi  vuole  che  uno  ma- 
gistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad 
un  tristo j lo  facci  domandare  o ad 
un  troppo  vile  e troppo  tristo , o ad 
uno  troppo  nobile  c troppo  buono. 

Quando  il  Senato  dubitava  che  i Tri- 
buni con  potestà  consolare  non  fussino 
fatti  d’  uomini  plebei,  teneva  uno  de’duoi 
modi:  o egli  faceva  domandare  ai  più 
riputati  uomini  di  Roma;o  veramente, 
per  i debiti  mezzi,  corrompeva  qualche 


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unno  primo. 


i 


243 


plebcio  sordido  ed  ignobilissimo,  che  me- 
scolati con  i plebei  che,  di  miglior  qua- 
lità, per  T ordinario  lo  domandavano, 
anche  loro  lo  domandassino.  Questo  ul- 
timo modo  faceva  che  la  Plebe  si  ver- 
gognava a darlo  ; quel  primo  faceva  che 
la  si  vergognava  a torlo,  li  che  tutto  tor- 
na a proposito  del  precedente  discorso, 
, dove  si  mostra  che  il  popolo  se  s’ inganna 
^ de’  generali,  de’particolari  non  s’inganna. 


CaP.  XLIX.  — Se  quelle  città  che  hanno 
avuto  il  principio  libcrOj  come  Romaj 
hanno  diffìcultà  a trovare  leggi  che 
le  mantenghino ; quelle  che  lo  hanno 
immediate  servo , ne  hanno  quasi  una 
impossibilità. 

Quanto  sia  difficile,  nello  ordinare  una  \ 
repubblica,  provvedere  a tutte  quelle 
leggi  che  la  mantenghino  libera,  lo  di- 
mostra assai  bene  il  processo  della  Re- 
pubblica romana:  dove  non  ostante  che 
fussino  ordinate  di  molte  leggi  da  Ro- 


i 


DEI  DISCORSI 


241 

molo  prima,  dipoi  da  Nuraa,  da  Tulio 
Ostilio  e Servio,  ed  ultimamente  dai 
dieci  cittadini  creali  a simile  opera  ; non- 
dimeno sempre  nel  maneggiare  quella 
città  si  scoprivano  nuove  necessità,  ed 
era  necessario  creare  nuovi  ordini:  co- 
me intervenne  quando  crearono  i Cen- 
sori, i quali  furono  uno  di  quelli  prov- 
vedimenti che  aiutarono  tenere  Roma 
libera,  quel  tempo  che  la  visse  in  libertà. 
Perchè,  diventati  arbitri  de’ costumi  di 
Roma,  furono  cagione  potissima  che  i 
Romani  diflerissino  più  a corrompersi. 
Feciono  bene  nel  principio  della  crea- 
zione di  tal  magistrato  uno  errore,  crean- 
do quello  per  cinque  anni;  ma,  dipoi 
non  molto  tempo,  fu  corretto  dalla  pru- 
denza di  Mamereo  dittatore,  il  qual  per 
nuova  legge  ridusse  detto  magistrato  a 
diciolto  mesi.  Il  che  i Censori  che  veg- 
ghiavano,  ebbono  tanto  per  male,  che 
privorno  Mamcrco  del  senato:  la  qual 
cosa  e dalla  Plebe  c dai  Padri  fu  assai 
biasimata.  E perchè  la  istoria  non  ino* 


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LIBRO  PRIMO. 


245 

stra  che  Mamerco  se  ne  potesse  difen- 
dere, conviene  o che  lo  istorico  sia  di- 
fettivo, o gli  ordini  di  Roma  in  questa 
parte  non  buoni  : perchè  non  è bene  che 
una  repubblica  sia  in  modo  ordinata, 
ebe  un  cittadino  per  promulgare  una 
legge  conforme  al  vivere  libero,  ne  possa 
essere  senza  alcuno  rimedio  offeso.  Ma 
tornando  al  principio  di  questo  discorso, 
dico  che  si  dehbe,  per  la  creazione  di 
questo  nuovo  magistrato,  considerare, 
che  se  quelle  città  che  hanno  avuto  il 
principio  loro  libero,  e che  per  se  me- 
desimo si  è retto,  come  Roma,  hanno 
difHcultà  grande  a trovar  leggi  buone 
per  mantenerle  libere  ; non  è meravi- 
glia che  quelle  città  che  hanno  avuto  il 
principio  loro  immediate  servo,  abbino, 
non  che  dilfìcultà,  ma  impossibilità  ad 
. ordinarsi  mai  in  modo  che  le  possino 
vivere  civilmente  e quietamente.  Come 
si  vede  che  è intervenuto  alla  città  di 
Firenze;  la  quale,  per  avere  avuto  il 
principio  suo  sottoposto  allo  imperio  ro- 


DEI  DISCORSI 


24G 

mano,  ed  essendo  vivuta  sempre  sotto 
governo  d* altri,  stette  un  tempo  sog- 
getta, e senza  pensare  a sè  medesima: 
dipoi,  venuta  la  occasione  di  respirare, 
cominciò  a fare  suoi  ordini;  i quali  sendo 
mescolati  con  gli  antichi,  che  erano  tri- 
sti, non  poterono  essere  buoni:  e così 
è ita  maneggiandosi  per  dugento  anni 
che  si  lia  di  vera  memoria,  senza  avere 
mai  avuto  stato  per  il  quale  ella  possa 
veramente  essere  chiamata  repubblica. 
E queste  diflicultà  che  sono  state  in  lei, 
sono  state  sempre  in  tutte  quelle  città 
che  hanno  avuto  i principii  simili  a lei. 
E benché  molte  volte,  per  suffragi  pub- 
blici e liberi,  si  sia  dato  ampia  autorità 
a pochi  cittadini  di  potere  riformarla; 
non  pertanto  mai  l’ hanno  ordinata  a 
comune  utilità,  ma  sempre  a proposito 
della  parte  loro  : il  che  ha  fatto  non 
ordine,  ma  maggiore  disordine  in  quella 
città.  E per  venire  a qualche  essempio 
particolare,  dico  come  intra  le  altre  cose 
che  si  hanno  a considerare  da  uno  or- 


I 


LIBRO  PRIMO.  247 

dinatore  d’  una  repubblica,  è esaminare 
nelle  mani  di  quali  uomini  ci  ponga 
1’  autorità  del  sangue  coutra  de’  suoi 
cittadini.  Questo  era  bene  ordinato  in 
Roma,  perchè  e’  si  poteva  appellare  al 
Popolo  ordinariamente  : e se  pure  fussc 
occorsa  cosa  importante,  dove  il  differire 
la  esecuzione  mediante  la  appellagione 
fusse  pericoloso,  avevano  il  refugio  del 
Dittatore,  il  quale  eseguiva  immediate; 
al  qual  rimedio  non  rifuggivano  mai,  se 
non  per  necessità.  Ma  Firenze,  c Y altre 
città  nate  nel  modo  di  lei,  sendo  serve, 
avevano  questa  autorità  collocata  in  un 
forestiero,  il  quale  mandato  dal  principe 
faceva  tale  uffizio.  Quando  dipoi  ven- 
nono  in  libertà,  mantennero  questa  au- 
torità in  un  forestiero,  il  quale  chiama- 
vano Capitano:  il  che,  per  potere  essere 
facilmente  corrotto  da’  cittadini  potenti, 
era  cosa  perniciosissima.  Ma  dipoi,  mu- 
randosi per  la  mutazione  degli  Stati  que- 
sto ordine,  creorno  otto  cittadini  che  fa- 
cessino  V uffizio  di  quel  Capitano.  Il  quale 


548 


DEI  DISCORSI 


ordine,  di  cattivo,  diventò  pessimo,  per 
le  cagioni  che  altre  volte  sono  dette: 
che  i pochi  furono  sempre  ministri  dc’po- 
ehi,  e de*  più  potenti.  Da  che  si  è guar- 
data la  città  di  Vinegia;  la  quale  ha 
dieci  cittadini,  che  senza  appello  possono 
punire  ogni  cittadino.  E perchè  e*  non 
basterebbono  a punire  i potenti,  ancora 
die  ne  nvessino  autorità,  vi  hanno  con- 
stituito  le  Quarnntie:  c di  più,  hanno 
voluto  che  il  Consiglio  de’ Pregai,  elicè 
il  Consiglio  maggiore,  possa  gastigargli; 
In  modo  che  non  vi  mancando  lo  accu- 
satore, non  vi  manca  il  giudice  a tener 
gli  uomini  potenti  a freno.  Non  è dun- 
que meraviglia,  reggendo  come  in  Roma, 
ordinata  da  sè  medesima  e da  tanti 
uomini  prudenti,  surgevano  ogni  di 
nuove  cagioni  per  le  quali  si  aveva  a 
fare  nuovi  ordini  in  favore  del  viver  li- 
bero j se  nelle  altre  città  che  hanno 
più  disordinalo  principio,  vi  surgono 
tuli  difficoltà,  che  le  non  si  possino  rior- 
dinar mai. 


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Cap.  L.  — iVon  dcbbc  uno  consiglio  o 
uno  magistrato  potere  fermare  le  azio- 
ni della  città. 

tirano  consoli  in  Roma  Tito  Quinzio 
Cincinnato  c Gneo  Giulio  Mento,  i quali 
sendo  disuniti,  avevano  ferme  tutte  le 
azioni  di  quella  Repubblica.  11  che  veg- 
gcndo  il  Senato,  gli  confortava  a creare 
il  Dittatore,  per  fare  quello  che  per  le 
discordie  loro  non  poteva  fare.  Ma  i Con- 
soli discordando  in  ogni  altra  cosa,  solo 
in  questo  erano  d’accordo,  di  non  voler 
creare  il  Dittatore.  Tanto  che  il  Senato, 
non  avendo  altro  rimedio,  ricorse  allo 
aiuto  de’ Tribuni;  i quali,  con  l’autorità 
del  Senato,  sforzarono  i Consoli  ad  ub- 
bidire. Dove  si  ba  a notare,  in  prima, 
la  utilità  del  tribunato;  il  quale  non  era 
solo  utile  a frenare  l’ ambizione  che  i 
potenti  usavano  contra  alla  Plebe,  ma 
quella  ancora  ch’egli  usavano  infra  loro: 
1’  altra,  che  mai  si  debba  ordinare  in 


250 


DEI  DISCORSI 


una  città,  che  i pochi  possino  tenere  al- 
cuna deliberazione  di  quelle  che  ordina- 
riamente sono  necessarie  a mantenere 
la  repubblica.  Yerbigrazia,  se  tu  dai  una 
autorità  nd  uno  consiglio  di  fare  una 
distribuzione  di  onori  c di  utile,  o ad 
uno  magistrato  di  amministrare  una  fac- 
cenda; conviene  o imporgli  una  neces- 
sità perchè  ei  l’ abbia  a fare  in  ogni 
modo;  o ordinare,  quando  non  la  voglia 
fare  egli,  che  la  possa  e debba  fare  un 
altro:  altrimenti,  questo  ordine  sarebbe 
difettivo  e pericoloso;  come  si  vedeva 
che  era  in  Roma,  se  alla  ostinazione  di 
quelli  Consoli  non  si  poteva  opporre 
P autorità  de’ Tribuni.  Nella  Repubblica 
veneziana  il  Consiglio  grande  distribui- 
sce gli  onori  e gli  utili.  Occorreva  alle 
volte  che  P universalità,  per  isdegno  o 
per  qualche  falsa  suggestione,  non  crea- 
va i successori  ai  magistrati  della  città, 
ed  a quelli  che  fuori  amministravano  lo 
imperio  loro.  Il  che  era  disordine  gran- 
dissimo: perchè  in  un  tratto,  e le  terre 


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LIBRO  PRIMO. 


251 

suddite  e la  città  propria  mancavano 
de’ suoi  legittimi  giudici;  nè  si  poteva 
ottenere  cosa  alcuna,  se  quella  univer- 
salità  di  quel  Consiglio  non  si  satisfa- 
ceva, o non  s’ingannava.  Ed  avrebbe 
ridotta  questo  inconveniente  quella  città 
a mal  termine,  se  dagli  cittadini  pru- 
denti non  vi  si  fusse  provveduto:  i quali, 
presa  occasione  conveniente,  fecero  una 
legge,  che  tutti  i magistrati  che  sono  o 
fussino  dentro  e fuori  della  città,  mai 
vacassero,  se  non  quando  fussino  fatti 
gli  scambi  e i successori  loro.  E cosi  si 
tolse  la  comodità  a quel  Consiglio  di  po- 
tere, con  pericolo  della  repubblica,  fer- 
mare le  azioni  pubbliche. 

• 

Cap.  LI.  — Una  repubblica  o uno  prin- 
cipe debbe  mostrare  di  fare  per  libe- 
ralità quello  a che  la  necessità  lo  con- 
siringe. 

Gli  uomini  prudenti  si  fanno  grado 
sempre  delle  cose,  in  ogni  loro  azione, 


262 


DEI  DISCORSI 


ancora  che  la  necessità  gli  constringesse 
a farle  in  ogni  modo.  Questa  prudenza 
fu  usata  bene  dal  Senato  romano,  quan- 
do ei  deliberò  che  si  desse  lo  stipendio 
del  pubblico  agli  uomini  che  militavano, 
essendo  consueti  militare  del  loro  pro- 
prio. Ma  veggendo  il  Senato  come  in 
quel  modo  non  si  poteva  fare  lunga- 
mente guerra,  e per  questo  non  potendo 
nè  assediare  terre,  uè  condurre  gli  eser- 
citi discosto;  e giudicando  essere  neces- 
sario potere  fare  1*  uno  e 1’  altro  ; deli- 
berò che  si  dessino  detti  stipendi;  ina 
lo  feciono  in  modo,  che  si  fecero  grado 
di  quello  a che  la  necessità  gli  constrin- 
geva; e fu  tanto  accetto  alla  Plebe  que- 
sto presente,  che  Roma  andò  «sottosopra 
per  la  allegrezza,  parendole  uno  bene- 
fizio grande,  quale  mai  speravano  di 
avere,  e quale  mai  per  loro  medesimi 
arebbono  cerco.  E benché  i Tribuni  s*  in- 
gegnassero di  cancellare  questo  grado, 
mostrando  come  ella  era  cosa  che  ag- 
gravava, non  alleggeriva,  la  Plebe,  scodo 


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LIBRO  PRIMO. 


253 

necessario  porre  i tributi  per  pagare 
questo  stipendio  ; nientedimeno  non  po- 
tevano fare  tanto  che  la  Plebe  non  lo 
avesse  accetto:  il  che  fu  ancora  augu- 
mentalo  dal  Senato  per  il  modo  che  di- 
stribuivano i tributi;  perchè  i più  gravi 
ed  i maggiori  furono  quelli  chVposono 
alla  Nobiltà,  e gli  primi  che  furono  pagati. 

Cap.  LII.  — A reprimere  la  insolenza  di 
uno  che  surga  in  una  repubblica  po- 
tente , non  vi  c più  securo  e meno  scan- 
daloso modo , che  preoccuparli  quelle 
vie  per  le  quali  e*  viene  a quella  po- 
tenza. 

Yedesi  per  il  soprascritto  discorso, 
quanto  credito  acquistasse  la  Nobiltà  con 
la  Plebe  per  le  dimostrazioni  fatte  in 
benefizio  suo,  sì  del  stipendio  ordinato, 
si  ancora  del  modo  del  porre  i tributi. 
Nel  quale  ordine  se  la  Nobiltà  si  fosse 
mantenuta,  si  sarebbe  levato  via  ogni 
tumulto  in  quella  città,  e sarebbesi  tolto 


254 


DEI  DISCORSI 


ai  Tribuni  quel  credito  che  egli  aveva- 
no con  la  Plebe,  e,  per  conseguente,  quel- 
la autorità.  E veramente,  non  si  può  in 
una  repubblica,  e massime  in  quelle  che 
sono  corrotte,  con  miglior  modo,  meno 
scandaloso  e più  facile,  opporsi  alla  am- 
bizione di  alcuno  cittadino,  che  preoc- 
cuparli quelle  vie,  per  le  quali  si  vede 
che  esso  cammina  per  arrivare  al  grado 
che  disegna,  li  qual  modo  se  fusse  stalo 
usato  contra  Cosimo  de’ Medici,  sarebbe 
stato  miglior  partito  assai  per  gli  suoi 
avversari,  che  cacciarlo  da  Firenze:  per- 
chè, se  quelli  cittadini  che  gareggiavano 
seco,  avessino  preso  lo  stile  suo  di  fa- 
vorire il  popolo,  gli  venivano  senza  tu- 
multo e senza  violenza  a trarre  di  mano 
quelle  arme  di  che  egli  si  valeva  più. 
Piero  Soderini  si  aveva  fatto  riputazione 
nella  città  di  Firenze  con  questo  solo,  di 
favorire  l’universale:  il  che  nello  uni- 
versale gli  dava  riputazione,  come  ama- 
tore della  libertà  della  città.  E veramente, 
a quelli  cittadini  che  portavano  invidia 


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LIBRO  PRIMO. 


255 

alla  grandezza  sua,  era  molto  più  facile 
ed  era  cosa  molto  più  onesta,  meno  pe- 
ricolosa, e meno  dannosa  per  la  repub- 
blica, preoccupargli  quelle  vie  con  le 
quali  si  faceva  grande,  che  volere  con* 
trapporsegli,  acciocché  con  la  rovina  sua 
rovinasse  tutto  il  resto  della  repubblica: 
perchè,  se  gli  avessero  levate  di  mano 
quelle  armi  con  le  quali  si  faceva  ga- 
gliardo (il  che  potevano  fare  facilmente), 
arebbono  potuto  in  lutti  i consigli,  e in 
tutte  le  deliberazioni  pubbliche,  oppor- 
segli  senza  sospetto,  e senza  rispetto  al- 
cuno. E se  alcuno  replicasse,  che  se  i 
cittadini  che  odiavano  Piero,  feciono  er- 
rore a non  gli  preoccupare  le  vie  con 
le  quali  ei  si  guadagnava  riputazione 
nel  popolo,  Piero  ancora  venne  a fare 
errore,  a non  preoccupare  quelle  vie  per 
le  quali  quelli  suoi  avversari  lo  facevano 
temere;  di’ che  Piero  merita  scusa,  si 
perchè  gli  era  difficile  il  farlo,  sì  per- 
chè le  non  erano  oneste  a lui  : impe- 
rocché le  vie  con  le  quali  era  offeso, 


DEI  DISCORSI 


256 

ciano  il  favorire  i Medici;  con  li  quali 
favori  essi  io  battevano,  e alla  fine  !o 
rovinorno.  Non  poteva,  pertanto,  Piero 
onestamente  pigliare  questa  parte,  per 
non  potere  distruggere  con  buona  fama 
quella  libertà  alla  quale  egli  era  stato 
preposto  a guardia  : dipoi,  non  potendo 
questi  favori  farsi  segreti  e ad  uno  tratto, 
erano  per  Piero  pericolosissimi;  perchè 
comunelle  ei  si  fusse  scoperto  amico 
de’ Medici,  sarebbe  diventato  sospetto  ed 
odioso  al  popolo;  donde  ai  nimici  suoi 
nasceva  molto  più  comodità  di  oppri- 
merlo, che  non  avevano  prima.  Debbono, 
pertanto,  gli  uomini  in  ogni  partito  con- 
siderare i difetti  ed  i pericoli  di  quello, 
e non  gli  prendere,  quando  vi  sia  più 
del  pericoloso  che  dell’  utile  ; nonostante 
che  ne  fusse  stata  data  sentenza  con- 
forme alla  deliberazion  loro.  Perchè,  fa- 
cendo altrimenti,  in  questo  caso  inter- 
verrebbe a quelli  come  intervenne  a 
Tullio;  il  quale  volendo  torre  i favori  a 
Marc’  Antonio,  gliene  accrebbe.  Perchè, 


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LIBRO  PRIMO. 


257 


sondo  Marc’ Antonio  stato  giudicalo  ini- 
mico del  Senato,  ed  avendo  quello  grande 
esercito  insieme  adunato,  in  buona  parte, 
dei  soldati  che  avevano  seguitato  la  parte 
di  Cesare;  Tullio,  per  torgli  questi  sol- 
dati, confortò  il  Senato  a dare  riputa- 
zione ad  Ottaviano,  e mandarlo  con  lo 
esercito  e con  i Consoli  contra  a Marc' An- 
tonio: allegando,  che  subito  che  i sol- 
dati che  seguitavano  Marc’  Antonio,  scn- 
tissino  il  nome  di  Ottaviano  nipote  di 
Cesare,  e che  si  faceva  chiamar  Cesare, 
lascerebbono  quello,  c si  aceosterebbono 
a costui  ; e così  restato  Marc’  Antouio 
ignudo  di  favori,  sarebbe  facile  lo  oppri- 
merlo. La  qual  cosa  riuscì  tutta  al  con- 
trario; perchè  Marc’ Antonio  si  guadagnò 
Ottaviano;  e lasciato  Tullio  ed  il  Senato, 
si  accostò  a lui.  La  qual  cosa  fu  al  tutto 
la  destruzione  della  parte  degli  Ottimati. 
11  che  era  facile  a conietturare:  nè  si 
doveva  credere  quel  che  si  persuase  Tul- 
lio, ma  tener  sempre  conto  di  quel  nome 
che  con  tanto  gloria  aveva  spenti  i ni- 
Macuiavelu,  Discorsi.  — i.  17 


25S 


DLl  DISCORSI 


mici  suoi,  ed  acquistatosi  il  principato 
in  Roma;  nè  si  dovea  credere  mai  potere, 
o da  suoi  eredi  o da  suoi  fautori,  avere 
cosa  che  fusse  conforme  al  nome  libero. 

Cap.  LUI.  — Il  popolo  molte  volte  desi- 
dera la  rovina  sua j ingannato  da  una 
falsa  spezie  di  bene  : e come  le  grandi 
speranze  e gagliarde  promesse  facil- 
mente lo  muovono. 

Espugnata  che  fu  la  città  de’  Veienti, 
entrò  nel  Popolo  romano  una  oppinione, 
che  fusse  cosa  utile  per  la  città  di  Ro* 
ma,  che  la  metà  de’  Romani  andasse  ad 
abitare  a Veio  ; argomentando  che,  per 
essere  quella  città  ricca  di  contado, 
piena  di  edifizii  e propinqua  a Roma,  si 
poteva  arricchire  la  metà  de’  cittadini 
romani,  e non  turbare  per  la  propin- 
quità del  sito  nessuna  azione  civile.  La 
qual  cosa  parve  al  Senato  ed  a’  più  savi 
Romani  tanto  inutile  e tanto  dannosa, 
che  liberamente  dicevano,  essere  piut- 


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LIBRO  PRIMO. 


259 


tosto  per  patire  la  morte,  che  consen- 
tire ad  una  tale  deliberazione.  In  modo 
che,  venendo  questa  cosa  in  disputa,  si 
accese  tanto  la  Plebe  contra  al  Senato, 
che  si  sarebbe  venuto  alle  armi  cd  al 
sangue,  se  il  Senato  non  si  fusse  fatto 
scudo  di  alcuni  vecchi  e stimati  citta- 
dini ; la  riverenza  dc’quali  frenò  la  Ple- 
be, che  la  non  procede  più  avanti  con 
la  sua  insolenza.  Qui  si  hanno  a notare* 
due  cose.  La  prima,  che  ’l  popolo  molte 
volte,  ingannato  da  una  falsa  immagine 
di  bene,  desidera  la  rovina  sua  ; e se 
non  gli  è fatto  capace,  come  quello  sia 
male,  e quale  sia  il  bene,  da  alcuno  in 
chi  esso  abbia  fede,  si  pone  in  le  re- 
pubbliche infiniti  pericoli  c danni.  E 
quando  la  sorte  fu  che  il  popolo  non 
abbi  fede  in  alcuno,  come  qualche  volta 
occorre,  sendo  stato  ingannato  per  lo 
addietro  o dalle  cose  o dagli  uomini; 
si  viene  alla  rovina  di  necessità.  E Dante 
dice  a questo  proposito,  nel  discorso  suo 
che  fa  De  Monarchia > che  il  popolo  mol- 


DEI  DISCORSI 


260 

te  volte  grida  viva  la  sua  morie j C muoia 
la  sua  vita.  Da  questa  incredulità  nasce, 
che  qualche  volta  in  le  repubbliche  i 
buoni  partiti  non  si  pigliano  : come  di 
sopra  si  disse  de’  Veneziani,  quando  as- 
saltati da  tanti  inimici  non  poterono 
prendere  partito  di  guadagnarsene  al- 
cuno con  la  restituzione  delle  cose  tolte 
ad  altri  (per  le  quali  era  mosso  loro  la 
'guerra,  e fatta  la  congiura  de’  principi 
loro  contro),  avanti  che  la  rovina  ve- 
nisse. Pertanto,  considerando  quello  che 
è facile  o quello  che  è diffìcile  persua- 
dere ad  un  popolo,  si  può  fare  questa 
distinzione:  o quel  che  tu  hai  a per- 
suadere rappresenta  in  prima  fronte 
guadagno,  o perdita  ; o veramente  pare 
partito  animoso,  o vile:  e quando  nelle 
cose  che  si  mettono  innanzi  ai  popolo, 
si  vede  guadagno,  ancora  che  vi  sia  na- 
scosto sotto  perdila;  e quando  e* paia 
animoso,  ancora  che  vi  sia  nascosto  sotto 
la  rovina  della  repubblica,  sempre  sarà 
facile  persuaderlo  alla  moltitudine:  e 


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LIBRO  PRIMO. 


261 


così  fia  sempre  difficile  persuadere  quelli 
partiti  dove  apparisce  o viltà  o perdita, 
ancoraché  vi  fusse  nascosto  sotto  salute 
e guadagno.  Questo  che  io  ho  detto,  si 
conferma  con  infiniti  esempi,  romani  e 
forestieri,  moderni  ed  antichi.  Perchè  da 
questo  nacque  la  malvagia  opinione  che 
surse  in  Roma  di  Fabio  Massimo,  il  quale 
non  poteva  persuadere  al  Popolo  roma- 
no, che  fusse  utile  a quella  Repubblica 
procedere  lentamente  in  quella  guerra, 
e sostenere  senza  azzuffarsi  V impeto  di 
Annibaie;  perchè  quel  Popolo  giudicava 
questo  partito  vile,  c non  vi  vedeva  den- 
tro quella  utilità  vi  era  ; nè  Fabio  aveva 
ragioni  bastanti  a dimostrarla  loro:  c 
tanto  sono  i popoli  accecati  in  queste 
oppinioni  gagliarde,  che  benché  il  Po- 
polo romano  avesse  fatto  quello  errore 
di  dare  autorità  al  Maestro  de’ cavalli  di 
Fabio  di  potersi  azzuffare,  ancora  che 
Fabio  non  volesse;  e che  per  tale  auto- 
rità il  campo  romano  fusse  per  esser 
rotto,  se  Fabio  con  la  sua  prudenza  non 


262 


DEI  DISCORSI 


vi  rimediava;  non  gli  bastò  questa  espe- 
rienza, che  fece  dipoi  consolo  Yarrone, 
non  per  altri  suoi  meriti  che  per  avere, 
per  tutte  le  piazze  e tutti  i luoghi  pub- 
blici di  Roma,  promesso  di  rompere  An- 
nibaie, qualunque  volta  gliene  fusse  data 
autorità.  Di  che  ne  nacque  la  zuffa  e 
rotta  di  Canne,  e presso  che  la  rovina 
di  Roma.  Io  voglio  addurre  a questo 
proposito  ancora  uno  altro  essempio  ro- 
mano. Era  stato  Annibaie  in  Italia  otto 
o dieci  anni,  aveva  ripieno  di  occhio- 
ne de’  Romani  tutta  questa  provincia, 
quando  venne  in  Senato  Marco  Centenio 
Penula,  uomo  vilissimo  (nondimanco 
aveva  avuto  qualche  grado  nella  milizia), 
ed  offersegli,  che  se  gli  davano  autorità 
di  potere  fare  esercito  di  uomini  voluti- 
tari  in  qualunque  luogo  volesse  in  Italia, 
ei  darebbe  loro,  in  brevissimo  tempo, 
preso  o morto  Annibaie.  Al  Senato  parve 
la  domanda  di  costui  temeraria;  non- 
dimeno ei  pensando  che  s’ ella  se  gli 
negasse,  e nel  popolo  si  fusse  dipoi  sa- 


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LIBRO  PRIMO. 


263 

pula  la  sua  chiesta,  che  non  ne  nascesse 
qualche  tumulto,  invidia  e mal  grado  con- 
tro all’ordine  senatorio,  gliene  concesso- 
no  : volendo  più  tosto  mettere  a pericolo 
tutti  coloro  che  lo  seguitassino,  che  fare 
surgere  nuovi  sdegni  nel  Popolo;  sap- 
piendo  quanto  simile  partito  fusse  per 
essere  accetto,  e quanto  fusse  difficile 
il  dissuaderlo.  Andò,  adunque,  costui 
con  una  moltitudine  inordinata  ed  in- 
composita  a trovare  Annibaie;  e non 
gli  fu  prima  giunto  all*  incontro,  che  fu 
con  tutti  quelli  che  lo  seguitavano  rotto 
e morto.  In  Grecia,  nella  città  di  Atene, 
non  potette  mai  Nicia,  uomo  gravissimo 
e prudentissimo,  persuadere  a quel  po- 
polo, che  non  fusse  bene  andare  ad  as- 
saltare Sicilia:  talché,  presa  quella  de- 
liberazione contra  alla  voglia  de’  savi, 
ne  seguì  al  tutto  la  rovina  di  Atene.  Sci- 
pione quando  fu  fatto  consolo,  e che 
desiderava  la  provincia  di  Affrica,  pro- 
mettendo al  tutto  la  rovina  di  Cartagi- 
ne; a che  non  si  accordando  il  Senato 


264 


DEI  DISCORSI 


per  la  sentenza  di  Fabio  Massimo,  mi- 
nacciò di  proporla  nel  Popolo,  come 
quello  clic  conosceva  benissimo  quanto 
simili  deliberazioni  piaccino  a’  popoli. 
Potrebbesi  a questo  proposito  dare  esem- 
pi della  nostra  città  : come  fu  quando 
messere  Ercole  Bentivogli,  governadore 
delle  genti  fiorentine,  insieme  con  An- 
tonio Giacomini,  poiché  ebbono  rotto 
llartolommeo  d’  Alviano  a San  Vincenti, 
andarono  a campo  a Pisa  ; la  qual  im- 
presa fu  deliberata  dal  popolo  in  su  le 
promesse  gagliarde  di  messcr  Ercole, 
ancora  che  molti  savi  cittadini  la  bia- 
simassero: nondimeno  non  vi  ebbero 
rimedio,  spinti  da  quella  universale  vo- 
lutila, la  qual  era  fondata  in  su  le  pro- 
messe gagliarde  del  governadore.  Dico, 
adunque,  come  non  è la  più  facile  via 
a fare  rovinare  una  repubblica  dove  il 
popolo  abbia  autorità,  che  metterla' in 
imprese  gagliarde  : perchè,  dove  il  po- 
polo sia  di  alcuno  momento,  sempre  fieno 
accettale;  nè  vi  arà,  chi  sarà  d’  altra 


LIBRO  PIUMO. 


265 


oppinione,  alcuno  rimedio.  Ma  se  di  que- 
sto nasce  la  rovina  della  città,  ne  nasce 
ancora,  e più  spesso,  la  rovina  partico- 
lare de*  cittadini  che  sono  preposti  a 
simili  imprese  : perchè,  avendosi  il  po- 
polo presupposto  la  vittoria,  eomee’vienc 
la  perdita,  non  ne  accusa  nè  la  fortu- 
na, nè  la  impotenza  di  chi  ha  governato, 
ma  la  tristizia  e la  ignoranza  sua;  e 
quello  il  più  delle  volte  o ammazza,  o 
imprigiona,  o confina:  come  intervenne  a 
infiniti  capitani  Cartaginesi,  ed  a molti 
Ateniesi.  Nè  giova  loro  alcuna  vittoria 
che  per  lo  addietro  avessino  avuta,  per- 
chè tutto  la  presente  perdita  cancella  : 
come  intervenne  ad  Antonio  Giacomini 
nostro,  il  quale  non  avendo  espugnata 
Pisa,  come  il  popolo  aveva  presupposto 
ed  egli  promesso,  venne  in  tanta  dis- 
grazia popolare,  che  non  ostante  infinite 
sue  buone  opere  passate,  visse  più  per 
umanità  di  coloro  che  ne  avevano  auto- 
rità, che  per  alcun’  altra  cagione  che 
nel  popolo  lo  difendesse. 


2C6 


DEt  DISCORSI 


CaP  liv#  — Quanta  autorità  abbia  uno 
uomo  grande  a frenare  una  moltitu - 
dine  concitata. 

Il  secondo  notabile  sopra  il  testo  nel 
superiore  capitolo  allegato,  è,  che  ve- 
runa cosa  è tanto  atta  a frenare  una 
moltitudine  concitata,  quanto  è la  rive- 
renza di  qualche  uomo  grave  e di  au- 
torità, che  se  le  faccia  incontro  j nè  senza 
cagione  dice  Virgilio: 

“Tutn  vietate  graverà  ac  meritis  si  forte  virum 
r (gwcm 

Conspexere , sileni , arrectisque  aur^®n^ci* 

Per  tanto,  quello  che  è proposto  a uno 
esercito,  o quello  che  si  trova  in  una 
città,  dove  nascesse  tumulto,  debbe  rap- 
presentarsi in  su  quello  con  maggior 
grazia  e piu  onorevolmente  che  può,  met- 
tendosi intorno  le  insegne  di  quel  grado 
che  tiene,  per  farsi  più  reverendo.  Era, 
pochi  anni  sono,  Firenze  diviso  in  due 
fazioni,  Fratesche  ed  Arrabbiate,  che  cosi 


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LIBRO  PRIMO. 


267 

si  chiamavano;  e venendo  ali’ arme,  ed 
essendo  superati  i Frateschi,  intra  i quali 
era  Pagolantonio  Soderini,  assai  in  quelli 
tempi  riputato  cittadino;  cd  andandogli 
in  quelli  tumulti  il  popolo  armato  a casa 
per  saccheggiarla;  messer  Francesco  suo 
fratello,  allora  vescovo  di  Volterra,  ed 
oggi  cardinale,  si  trovava  a sorte  in  casa  : 
il  quale,  subito  sentito  il  romore  e ve- 
duta la  turba,  messosi  i più  onorevoli 
panni  indosso,  e di  sopra  il  rocchetto 
episcopale,  si  fece  incontro  a quelli  ar- 
mati, e con  la  persona  e con  le  parole 
gli  fermò  ; la  qual  cosa  fu  per  tutta  la 
città  per  molti  giorni  notata  e celebrata. 
Conchiudo,  adunque,  come  e’ non  è il 
più  fermo  nè  il  più  necessario  rimedio 
a frenare  una  moltitudine  concitata,  che 
la  presenza  d’  uno  uomo  che  per  pre- 
senza paia  e sia  reverendo.  Vedesi,  adun- 
que, per  tornare  al  preallegato  testo, 
con  quanta  ostinazione  la  Plebe  romana 
accettava  quel  partito  d’  andare  a Yeio, 
perchè  Io  giudicava  utile,  nè  vi  cono- 


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DEI  DISCORSI 


268 

sceva  sotto  il  danno  vi  era  ? e come  na- 
scendone assai  tumulti,  ne  sarebbero 
nati  scandali,  se  il  Senato  con  uomini 
gravi  e pieni  di  riverenza  non  avesse 
frenato  il  loro  furore. 

Cap.  lv.  — Quanto  facilmente  si  con - 
duellino  le  cose  in  quella  città  dove 
la  moltitudine  non  è corrotta:  e che 
dove  è e qualità , non  si  può  fare 
principato  / e dove  la  non  èj  non  si 
può  far  repubblica. 

Ancora  clie  di  sopra  si  sia  discorso 
assai  quello  sia  da  temere  o sperare 
delle  città  corrotte;  nondimeno  non  mi 
pare  fuori  di  proposito  considerare  una 
deliberazione  del  Senato  circa  il  voto 
ehe  Cammillo  aveva  fatto  di  dare  la 
decima  parte  ad  Apolline  della  preda 
de’  Veienti  : la  qual  preda  sendo  venuta 
nelle  mani  della  Plebe  romana,  nè  se  ne 
potendo  altrimenti  riveder  conto,  fece 
il  Senato  uno  editto,  che  ciascuno  do- 


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LIBRO  PRIMO. 


269 


vesse  rappresentare  al  pubblico  la  de- 
cima parte  di  quello  gli  aveva  predalo. 
E benché  tale  deliberazione  non  avesse 
luogo,  avendo  dipoi  il  Senato  preso  al- 
tro modo,  c per  altra  via  satisfatto  ad 
Àpolliue  in  satisfazione  della  Plebe;  non- 
dimeno si  vede  per  tali  deliberazioni 
quanto  quel  Senato  confidasse  nella  bontà 
di  quella,  e come  e’  giudicava  che  nes- 
suno fusse  per  non  rappresentare  ap- 
punto tutto  quello  che  per  tale  editto 
gli  era  comandato.  E dall’  altra  parte  si 
vede,  come  la  Plebe  non  pensò  di  frau- 
dare in  alcuna  parte  lo  editto  con  il 
dare  meno  che  non  doveva,  ma  di  libe- 
rarsi da  quello  con  il  mostrarne  aperte 
indignazioni.  Questo  essempio,  con  molti 
altri  che  di  sopra  si  sono  addotti,  mo- 
strano quanta  bontà  e quanta  religione 
fusse  in  quel  Popolo,  e quanto  bene 
fusse  da  sperare  di  lui.  E veramente, 
dove  non  è questa  bontà,  non  si  può 
sperare  nulla  di  bene;  come  non  si  può 
sperare  nelle  provincic  che  in  questi 


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270 


DEI  DISCORSI 


tempi  si  veggono  corrotte:  come  è la 
Italia  sopra  tutte  le  altre;  ed  ancora  la 
Francia  e la  Spagna  di  tale  corruzione 
ritengono  parte.  E se  in  quelle  provin- 
cie  non  si  vede  tanti  disordini  quanti 
nascono  in  Italia  ogni  di,  deriva  non 
tanto  dalla  bontà  de'  popoli,  la  quale  ìh 
buona  parte  è mancata;  quanto  dallo 
avere  uno  re  che  gli  mantiene  uniti, 
non  solamente  per  la  virtù  sua,  ma  per 
l’ordine  di  quelli  regni,  che  ancora  non 
sono  guasti.  Vedesi  bene  nella  provin- 
cia della  Magna,  questa  bontà  e questa 
religione  ancora  in  quelli  popoli  esser 
grande;  la  qual  fa  che  molte  repubbli- 
che vi  vivono  libere,  ed  in  modo  osser- 
vano le  loro  leggi,  che  nessuno  di  fuori 
nè  di  dentro  ardisce  occuparle.  E che 
sia  vero  che  in  loro  regni  buona  parte 
di  quella  antica  bontà,  io  nc  voglio  da- 
re uno  essempio  simile  a questo  detto 
di  sopra  del  Senato  e della  Plebe  roma- 
na. Usano  quelle  repubbliche,  quando 
gli  occorre  loro  bisogno  di  avere  a spen- 


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LIBRO  PRIMO. 


27  i 

dere  alcuna  quantità  di  danari  per  conto 
pubblico,  che  quelli  magistrati  o consi- 
gli che  ne  hanno  autorità,  ponghino  a 
tutti  gli  abitanti  della  città  uno  per  cen- 
to, o dua,  di  quello  che  ciascuno  ha  di 
valsente.  E fatta  tale  deliberazione  se- 
condo 1’  ordine  della  terra,  si  rappre- 
senta ciascuno  dinanzi  agli  esecutori  di 
tale  imposta;  e,  preso  prima  il  giura- 
mento di  pagare  la  conveniente  somma, 
getta  in  una  cassa  a ciò  deputata  quello 
clic  secondo  la  conscienza  sua  gli  pare 
dover  pagare:  del  qual  pagamento  non 
è testimonio  alcuno,  se  non  quello  che 
paga.  Donde  si  può  conictturare,  quanta 
bontà  e quanta  religione  sia  ancora  in 
quelli  uomini.  E debbesi  stimare  che 
ciascuno  paghi  la  vera  somma:  perchè, 
quando  la  non  si  pagasse,  non  pitte- 
rebbe la  imposizione  quella  quantità 
che  loro  disegnassero  secondo  le  anti- 
che che  fussino  usitate  riscuotersi;  e 
non  gitlando,  si  conoscerebbe  la  fraude; 
e conoscendosi,  arebbon  preso  altro  modo 


DEI  DISCORSI 


272 

che  questo.  La  quale  bontà  è tanto  più 
da  ammirare  in  questi  tempi,  quanto 
ella  è più  rara  : anzi  si  vede  essere  ri- 
masa  sola  in  quella  provincia.  Il  che 
nasce  da  due  cose  : Y una,  non  avere 
avuti  commerzi  grandi  co’ vicini;  per- 
chè nè  quelli  sono  ili  a casa  loro,  nè 
essi  sono  iti  a casa  altrui;  perchè  sono 
stati  eontenli  di  quelli  beni,  e vivere  di 
quelli  cibi,  vestire  di  quelle  lane  che  dà 
il  paese:  d’onde  è stata  tolta  via  la 
cagione  d’ogni  conversazione,  ed  il  prin- 
cipio di  ogni  corruttela;  perchè  non 
hanno  possuto  pigliare  i costumi  nè 
franciosi  nè  spagnuoli  nè  italiani,  le 
quali  nazioni  tutte  insieme  sono  la  cor- 
ruttela del  mondo.  L’ altra  cagione  è, 
che  quelle  repubbliche  dove  si  è man- 
tenuto il  vivere  politico  ed  incorrotto, 
non  sopportano  che  alcuno  loro  citta- 
dino nè  sia  nè  viva  ad  uso  di  gentil- 
uomo: anzi  mantengono  infra  loro  una 
pari  equalità,  ed  a quelli  signori  e gen- 
tiluomini che  sono  in  quella  provincia, 


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LIBRO  PRIMO. 


273 


sono  inimicissimi  ; c se  per  caso  alcuni 
pervengono  loro  nelle  mani,  come  pria* 
cipi  di  corruttela  e cagione  di  ogni  scan- 
dalo, gli  ammazzano.  E'  per  chiarire 
questo  nome  di  gentiluomini  quale  e’  sia. 
dico  che  gentiluomini  sono  chiamali 
quelli  che  ociosi  vivono  de’  proventi 
delle  loro  possessioni  abbondantemente, 
senza  avere  alcuna  cura  o di  coltivare, 
o di  alcuna  altra  necessaria  fatica  a 
vivere.  Questi  tali  sono  perniciosi  in 
ogni  repubblica  ed  in  ogni  provincia; 
ma  più  perniciosi  sono  quelli  che,  oltre 
alle  predette  fortune,  comandano  a ca- 
stella, ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono 
a loro.  Di  queste  due  sorti  di  uomini 
ne  sono  pieni  il  regno  di  Napoli,  terra 
di  Roma,  la  Romagna  e la  Lombardia. 
Di  qui  nasce  che  in  quelle  provincie 
non  è mai  stata  alcuna  repubblica,  nè 
alcuno  vivere  politico;  perchè  tali  ge- 
nerazioni di  uomini  sono  al  tutto  ne- 
mici di  ogni  civiltà.  Ed  a volere  in  pro- 
vincie fatte  in  simil  modo  introdurre 
Machiavelli,  Discorsi  — 1.  13 


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274 


DEI  DISCORSI 


una  repubblica,  non  sarebbe  possibile: 
ma  a volerle  riordinare,  se  alcuno  ne 
fusse  arbitro,  non  arebbe  altra  via  che 
farvi  un  regno.  La  ragione  è questa, 
che  dove  è tanto  la  materia  corrotta 
che  le  leggi  non  bastino  a frenarla,  vi 
bisogna  ordinare  insieme  con  quelle 
maggior  forza  ; la  quale  è una  mano 
regia,  che  con  la  potenza  assoluta  ed 
eccessiva  ponga  freno  alla  eccessiva  am- 
bizione e corruttela  de’  potenti.  Verifi- 
casi questa  ragione  cou  lo  esempio  di 
Toscana  : dove  si  vede  in  poco  spazio 
di  terreno  stale  longamente  tre  repub- 
bliche, Firenze,  Siena  e Lucca  ; e le  al- 
tre città  di  quella  provincia  essere  in 
modo  serve,  che,  con  l’ animo  e con 
T ordine,  si  vede  o che  le  mantengono, 
o che  le  vorrebbono  mantenere  la  loro 
libertà.  Tutto  è nato  per  non  essere  in 
quella  provincia  alcun  signore  di  ca- 
stella, c nessuno  o pochissimi  gentiluo- 
mini ; ma  esservi  tanta  equalità,  che 
facilmente  da  uno  uomo  prudente,  e che 


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LIBRO  PRIMO. 


275 


delle  antiche  civilità  avesse  cognizione, 
vi  si  introdurrebbe  un  viver  civile.  Ma 
lo  infortunio  suo  è stato  tanto  grande, 
che  infino  a questi  tempi  non  ha  sor- 
tito alcuno  uomo  che  lo  abbia  potuto 
o saputo  fare.  Trassi  adunque  di  que- 
sto discorso  questa  conclusione:  che  co- 
lui che  vuole  fare  dove  sono  assai  gen- 
tiluomini una  repubblica,  non  la  può 
fare  se  prima  non  gli  spegne  tutti:  e 
che  colui  che  dove  è assai  equalità  vuole 
fare  uno  regno  o uno  principato,  non 
lo  potrà  mai  fare  se  non  trae  di  quella 
«qualità  molti  di  animo  ambizioso  ed 
inquieto,  e quelli  fa  gentiluomini  in  fat- 
to, e non  in  nome,,  donando  loro  ca- 
stella e possessioni,  c dando  loro  fa- 
vore di  sustanze  e d’uomini  ; acciocché, 
posto  in  mezzo  di  loro,  mediante  quel- 
li mantenga  la  sua  potenza  ; cd  essi, 
mediante  quello,  la  loro  ambizione;  e 
gli  altri  siano  constretti  n sopportare 
quel  giogo  che  la  forza,  e non  altro 
mai,  può  far  sopportare  loro.  Ed  essen- 


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276 


DEI  DISCORSI 


do  per  questa  via  proporzione  da  chi 
sforza  a chi  è sforzato,  stanno  fermi 
gli  uomini  ciascuno  nello  ordine  loro. 
E perchè  il  fare  d’  una  provincia  atta 
ad  essere  regno  una  repubblica,  c d’ una 
atta  ad  essere  repubblica  farne  un  re- 
gno, è materia  da  uno  uomo  che  per 
cervello  e per  autorità  sia  raro;  sono 
stati  molti  che  Io  hanno  voluto  fare,  e 
pochi  che  lo  abbino  saputo  condurre. 
Perchè  la  grandezza  della  cosa  parte 
sbigottisce  gli  uomini,  parte  in  modo 
gli  ’mpedisce,  che  ne’ primi  principii 
mancano.  Credo  che  a questa  mia  op- 
piatone, che  dove  sono  gentiluomini  non 
si  possa  ordinare  repubblica,  parrà  con- 
traria la  esperienza  della  Repubblica 
veneziana,  nella  quale  non  usano  avere 
alcuno  grado  se  non  coloro  che  sono 
gentiluomini.  A che  si  risponde,  come 
questo  essempio  non  ci  fa  alcuna  op- 
pugnazione, perchè  i gentiluomini  in 
quella  Repubblica  sono  piu  in  nome  che 
in  fatto;  perchè  loro  non  hanno  grandi 


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LIBRO  PRIMO. 


277 


entrate  di  possessioni,  sendo  le  loro 
ricchezze  grandi  fondate  in  sulla  mer- 
canzia e cose  mobili;  e di  più,  nessuno 
di  loro  tiene  castella,  o ha  alcuna  iuris- 
dizione  sopra  gli  uomini:  ma  quel  no- 
me di  gentiluomo  in  loro  è nome  di 
degnila  e di  riputazione,  senza  essere 
fondato  sopra  alcuna  di  quelle  cose  che 
fa  che  nell’  altre  città  si  chiamano  i 
gentiluomini.  E come  le  altre  repubbli- 
che hanno  tutte  le  loro  divisioni  sotto 
vari  nomi,  così  Vinegia  si  divide  in 
gentiluomini  e popolari  ; e vogliono  che 
quelli  abbino,  ovvero  possino  avere,  tutti 
gli  onori;  quelli  altri  ne  sieno  al  tutto 
esclusi.  Il  che  non  fa  disordine  in  quella 
terra,  per  le  ragioni  altra  volta  dette. 
Gonstituisca,  adunque,  una  repubblica 
colui  dove  è,  o è fatta  una  grande  egua- 
lità; ed  alP  incontro  ordini  un  princi- 
pato dove  è grande  inequalità  : altri- 
menti farà  cosa  senza  propprzione,  e 
poco  durabile. 


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278 


DEI  DISCORSI 


Gap.  LYI.  — Innanzi  che  segnino  i 
grandi  accidenti  in  una  città  o in  una 
provincia , vengono  segni  che  gli  prò - 
ìioslicanOj  o uomini  che  gli  predicono. 

Donde  e*  si  nasca  io  non  so,  ina  si 
vede  pei*  gli  antichi  e per  gli  moderni 
essempi,  che  mai  non  venne  alcuno  grave 
accidente  in  una  città  o in  una  provin- 
cia, che  non  sia  stato,  o da  indovini  o 
da  revelazioni  o da  prodigi,  o da  altri 
segni  celesti,  predetto.  E per  non  mi  di- 
scostare da  casa  nei  provare  questo,  sa 
ciascuno  quanto  da  frate  Girolamo  Sa- 
vonarola fusse  predetta  innanzi  la  venuta 
del  re  Carlo  Vili  di  Francia  in  Italia; 
e come,  olirà  di  questo,  per  tutta  To- 
scana si  disse  esser  sentite  in  aria  e ve- 
dute genti  d’ arme,  sopra  Arezzo,  che  si 
azzuffavano  insieme.  Sa  ciascuno  olirà 
di  questo,  come  avanti  la  morte  di  Lo- 
renzo de’  Medici  vecchio  fu  percosso  il 
duomo  nella  sua  più  alta  parte  con  una 


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LIBRO  PRIMO. 


279 


saetta  celeste,  con  l'ovina  grandissima 
di  quello  edilìzio.  Sa  ciascuno  ancora,, 
come  poco  innanzi  che  Piero  Soderini, 
quale  era  stato  fatto  gonfaloniere  a vita 
dal  popolo  fiorentino,  fosse  cacciato  e 
privo  del  suo  grado,  fu  il  palazzo  me- 
desimamente da  un  fulgore  percosso.  Po- 
trcbbesi,  olirà  di  questo,  addurre  più 
essempi,  i quali  per  fuggire  il  tedio  la- 
scerò.  Narrerò  solo  quello  che  Tito  Li- 
vio dice,  innanzi  alla  venuta  de’  Fran- 
ciosi in  Roma  : cioè,  come  uno  Marco 
Cedizio  plebeio,  riferì  al  Senato  avere 
udito  di  mezza  notte,  passando  per  la 
Via  Nuova,  una  voce  maggiore  che  uma- 
na, la  quale  lo  ammoniva  che  riferisse 
ai  magistrati,  come  i Franciosi  venivano 
a Roma.  La  cagione  di  questo  credo  sia 
da  essere  discorsa  ed  interpretata  da 
uomo  che  abbia  notizia  delle  cose  natu- 
rali e soprannaturali:  il  che  non  abbia- 
mo noi.  Pure,  potrebbe  essere  che,  sendo 
questo  aere,  come  vuole  alcuno  filosofo, 
pieno  d’ intelligenze  ; le  quali  per  na- 


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280 


DEI  DISCORSI 


turale  virtù  prevedendo  le  cose  future, 
ed  avendo  compassione  agli  uomini,  ac- 
ciò si  possino  preparare  alle  difese,  gli 
avvertiscono  con  simili  segni.  Pure,  co- 
munelle si  sia,  si  vede  cosi  essere  la 
verità;  e che  sempre  dopo  tali  accidenti 
sopravvengono  cose  istraordinarie  e nuo- 
ve alle  provincie. 

(’ap.  L VII.  — La  plebe  insieme  è gagliarda; 
di  per  se  è debole. 

Erano  molti  Romani,  scudo  seguita 
per  la  passata  de*  Franciosi  la  rovina 
della  lor  patria,  andati  ad  abitare  a Yeio, 
contea  alla  constituzione  ed  ordine  del 
Senato:  il  quale,  per  rimediare  a que- 
sto disordine,  comandò  per  i suoi  editti 
pubblici  che  ciascuno,  infra  certo  tempo 
e sotto  certe  pene,  tornasse  ad  abitare 
a Roma.  De’quali  editti,  da  prima  per 
coloro  contea  a chi  e*  venivano,  si  fu 
fatto  beffe;  dipoi,  quando  si  appressò  il 
tempo  dello  ubbidire,  tutti  ubbidirono. 


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LIBRO  PRIMO. 


281 

E Tito  Livio  dice  queste  parole  : Ex  fc- 
rocibus  universtSj  singtili  metti  suo  obe~ 
dienfes  fuere.  E veramente,  non  si  può 
mostrare  meglio  la  natura  d’ una  molti- 
tudine in  questa  parte,  che  si  dimostri 
in  questo  testo.  Perchè  la  moltitudine  è 
audace  nel  parlare  molte  volte  contra 
alle  deliberazioni  del  loro  principe;  di- 
poi, come  veggono  la  pena  in  viso,  non 
si  fidando  Y uno  dell’  altro,  corrono  ad 
ubbidire.  Talché  si  vede  certo,  che  di 
quel  che  si  dica  uno  popolo  circa  la 
mala  o buona  disposizion  sua,  si  debbe 
tenere  non  gran  conto,  quando  tu  sia 
ordinato  in  modo  da  poterlo  mantenere, 
s’ egli  è ben  disposto;  s’ egli  è mal  di- 
sposto, da  poter  provvedere  che  non  ti 
offenda.  Questo  s’intende  per  quelle  male 
disposizioni  che  hanno  i popoli,  nate  da 
qualunque  altra  cagione,  che  o per  avere 
perduto  la  libertà,  o il  loro  principe 
stato  amato  da  loro,  e che  ancora  sia 
vivo;  perchè  le  male  disposizioni  che 
nascono  da  queste  cagioni,  sono  sopra 


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282 


DEI  DISCORSI 


ogni  cosa  formidabili,  e che  hanno  bi- 
sogno di  grandi  rimedi  a frenarle  : 1'  al- 
tre sue  indisposizioni  fieno  facili,  quando 
ci  non  abbia  capi  a chi  rifuggire.  Per- 
chè non  ci  è cosa,  dall’  un  canto,  più 
formidabile  che  una  moltitudine  sciolta 
e senza  capo;  e,  dall’  altra  parte,  non  è 
cosa  più  debole  : perchè,  quantunque  ella 
abbi  1’  armi  in  mano,  fia  facile  ridurla, 
purché  tu  abbi  ridotto  da  potere  fug- 
gire il  primo  impeto;  perchè  quando  gli 
animi  sono  un  poco  raffreddi,  e che  cia- 
scuno vede  di  aversi  a tornare  a casa 
sua,  cominciano  a dubitare  di  loro  me- 
desimi, e pensare  alla  salute  loro,  o con 
fuggirsi  o con  l’accordarsi.  Però  una 
moltitudine  così  concitata,  volendo  fug- 
gire questi  pericoli,  ha  subito  a fare  in- 
fra sè  medesima  un  capo  che  la  correg- 
ga, tenghila  unita  e pensi  alla  sua  di- 
fesa ; come  fece  la  Plebe  romana,  quando 
dopo  la  morte  di  Virginia  si  partì  da 
Roma,  e per  salvarsi  feciono  infra  loro 
venti  Tribuni:  e non  facendo  questo,  in- 


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LIBRO  PRIMO. 


283 

terviene  loro  scmj)re  quel  che  dice  Tito 
Livio  nelle  soprascritte  parole,  che  tutti 
insieme  sono  gagliardi;  e quando  cia- 
scuno poi  comincia  a pensare  al  proprio 
pericolo,  diventa  vile  e debole. 

Cap.  LVIIL  — ì.a  moltitudine  è più  savia 
e più  costante  che  un  principe. 

Nessuna  cosa  essere  più  vana  e più 
inconstante  che  la  moltitudine:  cosi  Tito 
Livio  nostro,  come  tutti  gli  altri  isto- 
rici affermano.  Perchè  spesso  occorre, 
nel  narrare  le  azioni  degli  uomini,  ve- 
dere la  moltitudine  avere  condannato 
alcuno  a morte,  e quel  medesimo  di  poi 
pianto  e sommamente  desiderato:  come 
si  vede  avere  fatto  il  Popolo  romano  di 
Manlio  Capitolino,  il  quale  avendo  con- 
dcnnato  a morte,  sommamente  dipoi  de- 
siderava. E le  parole  dell*  autore  son 
queste:  Populum  brevi,  posteaquam  ab 
co  periculum  nullum  eral , dcsidcrium 
rjus  tenuit.  Ed  altrove,  quando  mostra 


DEI  DISCORSI 


284 

gli  accidenti  che  nacquero  in  Siracusa 
dopo  la  morte  di  Girolamo  nipote  di  Ie- 
rone,  dice:  Hcec  natura  mulliludinis  est : 
aut  umiliter  servii , aut  superbe  domi • 
natur.  Io  non  so  se  io  mi  prenderò  una 
provincia  dura,  e piena  di  tanta  diffi- 
coltà, che  mi  convenga  o abbandonarla 
con  vergogna,  o seguirla  con  carico; 
volendo  difendere  una  cosa,  la  quale, 
come  ho  detto,  da  tutti  gli  scrittori  è 
accusata.  Ma,  comunehc  si  sia,  io  non 
giudico  nè  giudicherò  mai  essere  difetto 
difendere  alcune  oppinioni  con  le  ragioni, 
senza  volervi  usare  o la  autorità  o la 
forza.  Dico  adunque,  come  di  quello  di- 
fetto di  che  accusano  gli  scrittori  la 
moltitudine,  se  ne  possono  accusare  tutti 
gli  uomini  particolarmente,  e massime 
i principi;  perchè  ciascuno  che  non  sia 
regolato  dalle  leggi,  farebbe  quelli  me- 
desimi errori  che  la  moltitudine  sciolta. 
E questo  si  può  conoscere  facilmente, 
perchè  e’  sono  c sono  stati  assai  prin- 
cipi, e de’ buoni  e de’ savi  ne  sono  stati 


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LIBRO  PRIMO.  285 

pochi;  io  dico  de’ principi  che  hanno 
potuto  rompere  quel  freno  che  gli  può 
correggere;  intra  i quali  non  sono  que- 
gli re  che  nascevano  in  Egitto,  quando 
in  quella  antichissima  antichità  si  go- 
vernava quella  provincia  con  le  leggi; 
nè  quelli  che  nascevano  in  Sparta;  nè 
quelli  che  a’  nostri  tempi  nascono  in 
Francia:  il  quale  regno  è moderato  più 
dalle  leggi,  che  alcuno  altro  regno  di 
che  ne’ nostri  tempi  si  abbi  notizia.  E 
questi  re  che  nascono  sotto  tali  consti- 
tuzioni,  non  sono  da  mettere  in  quel 
numero,  donde  si  abbia  a considerare 
la  natura  di  ciascuno  uomo  per  sè,  e 
vedere  se  egli  è simile  alla  moltitudine: 
perchè  a rincontro  loro  si  debbe  porre 
una  moltitudine  medesimamente  regolata 
dalle  leggi  come  sono  loro;  e si  troverà 
in  lei  essere  quella  medesima  bontà  che 
noi  veggiamo  essere  in  quelli,  e vedrassi 
quella  nè  superbamente  dominare  nè 
umilmente  servire:  come  era  il  Popolo 
romano,  il  quale  mentre  durò  la  Repub- 


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286 


DEI  DISCORSI 


blica  incorrotta,  non  servì  mai  umil- 
mente nè  mai  dominò  superbamente; 
anzi  con  li  suoi  ordini  e magistrati  tenne 
il  grado  suo  onorevolmente.  E quando 
era  necessario  insurgerc  contra  a uno 
potente,  lo  faceva;  come  si  vede  in  Man- 
lio, ne’  Dieci,  ed  in  altri  che  cercorno 
opprimerla  : e quando  era  necessario 
ubbidire  a’  Dittatori  ed  a’ Consoli  per  la 
salute  pubblica,  lo  faceva.  E se  il  Po- 
polo romano  desiderava  Manlio  Capito- 
lino morto,  non  è meraviglia;  perchè 
e*  desiderava  le  sue  virtù,  le  quali  erano 
state  tali,  che  la  memoria  di  esse  recava 
compassione  a ciascuno;  cd  arebbono 
avuto  forza  di  fare  quel  medesimo  ef- 
fetto in  un  principe,  perchè  1*  è senten- 
za di  tutti  li  scrittori,  come  la  virtù  si 
lauda  e si  ammira  ancora  negli  inimici 
suoi:  e se  Manlio,  infra  tanto  desiderio, 
fusse  risuscitato,  il  Popolo  di  Roma  arebbe 
dato  di  lui  il  medesimo  giudizio,  come 
ei  fece,  tratto  che  lo  ebbe  di  prigione, 
che  poco  di  poi  lo  condennò  a morte; 


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LIBRO  PRIMO. 


287 

nonostante  die  si  vegga  di  principi  te- 
nuti savi,  i quali  hanno  fatto  morire 
qualche  persona,  e poi  sommamente  de- 
sideratala : come  Alessandro,  Clito  ed 
altri  suoi  amici  ; ed  Erode,  Marianne.  Ma 
quello  che  lo  istorico  nostro  dice  della 
natura  della  moltitudine,  non  dice  di 
quella  che  è regolata  dalle  leggi,  come 
era  la  romana;  ma  della  sciolta,  come 
era  la  siracusana:  la  quale  fece  quelli 
errori  che  fanno  gli  uomini  infuriati  e 
sciolti,  come  fece  Alessandro  magno,  ed 
Erode,  ne’ casi  detti.  Però  non  è più  da 
incolpare  la  natura  della  moltitudine  che 
de’ principi,  perchè  tutti  egualmente  er- 
rano, quando  tutti  senza  rispetto  pos- 
sono errare.  Di  che,  oltre  a quello  che 
ho  detto,  ci  sono  assai  essempi,  ed  in- 
tra gli  imperadori  romani,  ed  intra  gli 
altri  tiranni  e , principi;  dove  si  vede 
tanta  incostanza  e tanta  variazione  di 
vita,  quanta  mai  non  si  trovasse  in  al- 
cuna moltitudine.  Conchiudo,  adunque, 
contea  olla  comune  oppimene,  la  qual 


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288 


DEI  DISCORSI 


dice  come  i popoli,  quando  sono  prin- 
cipi,  sono  vari,  mutabili,  ingrati;  affer- 
mando che  in  loro  non  sono  altrimente 
questi  peccati  che  si  siano  ne’  principi 
particolari.  Ed  accusando  alcuni  i popoli 
ed  i principi  insieme,  potrebbe  dire  il 
vero;  ma  traendone  i principi,  s’ingan- 
na; perchè  un  popolo  che  comanda  e sia 
bene  ordinato,  sarà  stabile,  prudente  e 
grato  non  altrimenti  che  un  principe,  o 
meglio  che  un  principe,  eziandio  stimato 
savio:  e dall’altra  parte,  un  priucipe 
sciolto  dalle  leggi,  sarà  ingrato,  vario 
ed  imprudente  più  che  uno  popolo.  E che 
la  variazione  del  procedere  loro  nasce 
non  dalla  natura  diversa,  perchè  in  tutti 
è ad  un  modo:  e se  vi  è vantaggio  di 
bene,  è nei  popolo;  ma  dallo  avere  più 
o meno  rispetto  alle  leggi,  dentro  alle 
quali  l’uno  e l’altro  vive.  E chi  consi- 
derrà  il  Popolo  romano,  lo  vedrà  essere 
stato  per  quattrocento  anni  iuimico  del 
nome  regio,  ed  amatore  della  gloria  e 
del  bene  comune  della  sua  patria:  vedrà 


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LIBRO  PRIMO.  2MJ 

tanti  essempi  usati  da  lui,  clic  testiiuo- 
niauo  1’  una  cosa  e V altra.  £ se  alcuno 
mi  allegasse  la  ingratitudine  eh7  egli  usò 
centra  a Scipione,  rispondo  quello  die 
di  sopra  lungamente  si  discorse  in  que- 
sta  materia,  dove  si  mostrò  i popoli  es- 
sere  meno  iugraii  de’ principi.  Ma  quanto 
alla  prudenza  ed  alla  stabilità,  dico,  co- 
me uno  popolo  è più  prudente,  più  sta- 
bile e di  miglior  giudicio  che  un  prin- 
cipe. E uon  senza  cagione  si  assomiglia 
la  voce  d7  un  popolo  a quella  di  Dio; 
perchè  si  vede  una  oppinioue  univer- 
sale fare  effetti  meravigliosi  ne’ prono- 
stichi suoi:  talché  pare  che  per  occulta 
virtù  e’ prevegga  il  suo  male  ed  il  suo 
bene.  Quanto  al  giudicare  le  cose,  si 
vede  rarissime  volte,  quando  egli  ode 
due  concionanti  che  tendino  in  diverse 
parti,  quando  e’ sono  di  egual  virtù,  che 
non  pigli  *ia  oppinione  migliore,  e che 
non  sia  capace  di  quella  verità  ch’egli  ode. 
£ se  nelle  cose  gagliarde,  o che  paiano 
utili,  come  di  sopra  si  dice, egli  erra  ; mol- 
IIacuuvelli,  Discorsi.  — 1.  19 


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290 


DEI  DISCORSI 


te  volte  erra  ancora  uri  principe  nelle  sue 
proprie  passioni,  le  quali  sono  molle  più 
che  quelle  de’  popoli.  Yedesi  ancora,  nel- 
le sue  elezioni  ai  magistrati,  fare  di 
lunga  migliore  elezione  che  uno  prin- 
cipe; nè  mai  si  persuaderà  ad  un  po- 
polo, che  sia  bene  tirare  alla  degnila 
uno  uomo  infame  e di  corrotti  costumi: 
il  che  facilmente  e per  mille  vie  si  per- 
suade ad  un  principe.  Yedesi  un  popolo 
cominciare  ad  avere  in  orrore  una  cosa, 
e molti  secoli  stare  in  quella  oppinione: 
il  che  non  si  vede  in  uno  principe.  E 
dell’  una  e dell’  altra  di  queste  due  cose 
voglio  mi  basti  per  testimone  il  Popolo 
romano:  il  quale,  in  tante  centinaia 
d’anni,  in  tante  elezioni  di  Consoli  e di 
Tribuni,  non  fece  quattro  elezioni  di  che 
quello  si  avesse  a pentire.  Ed  ebbe,  co- 
me ho  detto,  tanto  in  odio  il  nome  regio, 
che  nessuno  obbligo  di  alcuno  suo  cit- 
tadino, che  tentasse  quel  nome,  potette 
fargli  fuggire  le  debite  pene.  Yedesi, 
oltra  di  questo,  le  città  dove  i popoli 


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LIBRO  PRIMO. 


291 


sono  principi,  fare  in  brevissimo  tempo 
augumenti  eccessivi,  e molto  maggiori 
che  quelle  che  sempre  sono  state  sotto 
un  principe  ! come  fece  Roma  dopo  la 
cacciata  de’  re,  ed  Atene  da  poi  che  la 
si  liberò  da  Pisistrato.  11  che  non  può 
nascere  da  altro,  se  non  che  sono  mi- 
gliori governi  quelli  de*  popoli  che  quelli 
de*  principi.  Nè  voglio  che  si  opponga  a 
questa  mia  oppinione  tutto  quello  che 
lo  istorico  nostro  ne  dice  nel  preallcgato 
testo,  ed  in  qualunque  altro;  perchè,  se 
si  discorreranno  tutti  i disordini  de’po- 
poli,  tutti  i disordini  de*  principi,  tutte 
le  glorie  de*  popoli,  tutte  quelle  de’ prin- 
cipi, si  vedrà  il  popolo  di  bontà  e di 
gloria  essere  di  lunga  supcriore.  E se  i 
principi  sono  superiori  a*  popoli  nel- 
lo ordinare  leggi,  formare  vite  civili, 
ordinare  statuti  ed  ordini  nuovi  ; i 
popoli  sono  tanto  superiori  nel  mante- 
nere le  cose  ordinate,  eh’  egli  aggiun- 
gono senza  dubbio  alla  gloria  di  coloro 
che  l’ordinano.  Ed  in  somma,  per  epi- 


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29-2 


DEI  DISCORSI 


legare  questa  materia,  dico  come  hanno 
durato  assai  gli  stati  de’ principi,  hanno 
durato  assai  gli  stati  delle  repubbliche, 
e l’uno  e l’  altro  ha  avuto  bisogno  d’es- 
sere regolato  dalle  leggi  : perchè  un  prin- 
cipe che  può  fare  ciò  che  vuole,  è pazzo; 
un  popolo  che  può  fare  ciò  che  vuole, 
non  è savio.  Se,  adunque,  si  ragionerà 
d' un  principe  obbligato  alle  leggi,  e 
d’  un  popolo  incatenalo  da  quelle,  si  ve- 
drà più  virtù  nel  popolo  che  nel  prin- 
cipe: se  si  ragionerà  dell’ uno  e dell’al- 
tro sciolto,  si  vedrà  • meno  errori  nel 
popolo  che  nei  principe;  e quelli  minori, 
ed  aranno  maggiori  rimedi.  Perchè  ad 
un  popolo  licenzioso  e tumultuario,  gli 
può  da  un  uomo  buono  esser  parlato, 
e facilmente  può  essere  ridotto  nella  via 
buona  : ad  un  principe  cattivo  non  è al- 
cuno che  possa  parlare,  nè  vi  è altro 
rimedio  che  il  ferro.  Da  che  si  può  far 
coniettura  della  importanza  della  malat- 
tia dell’uno  e dell’altro:  chè  se  a cu- 
rare la  malattia  del  popolo  bastano  le 


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LIBRO  PRIMO. 


293 

parole,  ed  a quella  del  principe  bisogna 
il  ferro,  non  sarà  mai  alcuno  che  non 
giudichi,  che  dove  bisogna  maggior  cura, 
siano  maggiori  errori.  Quando  un  popolo 
è bene  sciolto,  non  si  temono  le  pazzie 
che  quello  fa,  nè  si  ha  paura  del  mal 
presente,  ma  di  quello  che  ne  può  na- 
scere, potendo  nascere  infra  tanta  con- 
fusione un  tiranno.  Ma  ne’ principi  tri- 
sti interviene  il  contrario:  che  si  teme 
il  male  presente,  e nel  futuro  si  spera; 
persuadendosi  gli  uomini  che  la  sua  cat- 
tiva vita  possa  far  surgere  una  libertà. 
Sì  che  vedete  la  differenza  dell’  uno  e 
dell’  altro,  la  quale  è quanto  dalle  cose 
che  sono,  a quelle  che  hanno  ad  essere. 
Le  crudeltà  della  moltitudine  sono  con- 
tra  a chi  ei  temono  clic  occupi  il  ben 
comune  : quelle  d’  un  principe  sono  con- 
tro a chi  ci  temono  che  occupi  il  bene 
proprio.  Ma  la  oppiti  ione  contro  ai  po- 
poli nasce  perchè  de’  popoli  ciascuno 
dice  male  senza  paura  e liberamente, 
ancora  mentre  che  regnano:  de’  principi 

i 


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294  DEI  DISCORSI 

si  parla  sempre  con  mille  paure  e mille 
rispetti.  Nè  mi  pare  fuor  di  proposito, 
poiché  questa  materia  mi  vi  tira,  dispu- 
tare nel  seguente  capitolo  di  quali  con- 
federazioni altri  si  possa  più  fidare,  o 
di  quelle  falle  con  una  repubblica,  o di 
quelle  fatte  con  ui>  principe. 

Cap.  LIX.  — Di  quali  confederazioni , o 
lega,  altri  si  può  più  fidare  ; o di 
quella  fatta  con  una  repubblica , o di 
quella  fatta  con  uno  principe. 

Perchè  ciascuno  dì  occorre  che  P uno 
principe  con  l’altro,  o V una  repubblica 
con  l’altra,  fanno  lega  ed  amicizia  in- 
sieme ; ed  ancora  similmente  si  contrae 
confederazione  ed  accordo  intra  una  re* 
pubblica  ed  uno  principe  mi  pare  di 
esaminare  qual  fede  è più  stabile,  e di 
quale  si  debba  tenere  più  conto,  o di 
quella  d’  una  repubblica,  o di  quella 
d’ uno  principe,  lo,  esaminando  tutto, 
credo  che  in  molti  casi  e’ siano  simili. 


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LIBRO  PRIMO. 


295 


ed  in  alcuni  vi  sia  qualche  disformità. 
Credo  per  tanto,  che  gli  accordi  fatti  per 
forza  non  ti  saranno  nè  da  un  principe 
nè  da  una  repubblica  osservali;  credo 
che  quando  la  paura  dello  stato  venga, 
l'uno  e l'altro,  per  non  lo  perdere,  ti 
romperà  la  fede,  e ti  userà  ingratilu* 
dine.  Demetrio,  quel  che  fu  chiamato 
espugnatore  delle  cittadi,  aveva  fatto  agli 
Ateniesi  infiniti  benefici!  : occorse  dipoi, 
che  sendo  rotto  da’ suoi  inimici,  e ri- 
fuggendosi in  Atene,  come  in  città  amica 
ed  a lui  obbligata,  non  fu  ricevuto  da 
quella  : il  che  gli  dolse  assai  più  che 
non  aveva  fatto  la  perdita  delle  genti  e 
dello  esercito  suo.  Pompeio,  rotto  che 
fu  da  Cesare  in  Tessaglia,  si  rifuggì  in 
Egitto  a Tolomeo,  il  quale  era  per  lo 
addietro  da  lui  stato  rimesso  nel  regno; 
e fu  da  lui  morto.  Le  quali  cose  si  vede 
che  ebbero  le  medesime  cagioni;  non-  • 
dimeno  fu  più  umanità  usata  e meno  • 
ingiuria  dalla  repubblica,  che  dal  prin- 
cipe. Dove  è,  pertanto,  la  paura,  si  tro- 


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296  dei  Diseonsi 

verà  in  fallo  la  medesima  fede.  E se  si 
troverà  o una  repubblica  o uno  prin- 
cipe, che  per  osservarti  la  fede  aspetti 
di  rovinare,  può  nascere  questo  ancora 
da  simili  cagioni.  E quanto  al  principe, 
può  molto  bene  occorrere  che  egli  sia 
amico  d’  un  principe  potente,  che  se 
bene  non  ha  occasione  allora  di  difen- 
derlo, ei  può  sperare  che  col  tempo  e*  lo 
restituisca  nel  principato  suo;  o vera- 
mente che,  avendolo  seguito  come  par- 
tigiano, ei  non  creda  trovare  nè  fede 
nè  accordi  con  il  nimico  di  quello.  Di 
questa  sorte  sono  stati  quelli  principi 
del  reame  di  Napoli  che  hanno  seguite 
le  parti  franciose.  E quanto  alle  repub- 
bliche, fu  di  questa  sorte  Sagunto  in 
Ispagna,  che  aspettò  la  rovina  per  se- 
guire le  parti  romane;  e di  questa  Fi- 
renze, per  seguire  nel  4512  le  parti 
franciose.  E credo,  computata  ogni  cosa, 
che  in  questi  casi,  dove  è il  pericolo 
urgente,  si  troverà  qualche  stabilità  più 
nelle  repubbliche,  che  ne’  principi.  Per- 


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libro  primo. 


297 

che,  sebbene  le  repubbliche  avessino 

« 

quel  medesimo  animo  e quella  medesima 
voglia  che  un  principe,  lo  avere  il  moto 
loro  tardo,  farà  che  le  porranno  sem- 
pre  più  a risolversi  che  il  principe,  e 
per  questo  porranno  più  a rompere  la 
fede  di  lui.  Romponsi  le  confederazioni 
per  lo  utile.  In  questo  le  repubbliche 
sono  di  lunga  più  osservanti  degli  ac- 
cordi, che  i principi.  E potrebbesi  ad- 
durre essempi,  dove  uno  miuinio  utile 
ha  fatto  rompere  la  fede  ad  uno  prin- 
cipe, e dove  una  grande  utilità  non  ha 
fatto  rompere  la  fede  ad  una  repubblica  : 
come  fu  quello  partito  che  propose  Te- 
mistocle agli  Ateniesi,  a’ quali  nella  con- 
clone disse  che  aveva  uno  consiglio  da 
fare  alla  loro  patria  grande  utilità  ; ma 
non  lo  poteva  dire  per  non  lo  scoprire, 
perchè  scoprendolo  si  toglieva  la  occa- 
sione del  farlo.  Onde  il  popolo  di  Atene 
elesse  Aristide,  al  quale  si  comunicasse 
la  cosa,  e secondo  dipoi  che  paresse  a 
lui  se  ne  deliberasse:  al  quale  Temisto- 


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298  DEI  DISCORSI 

de  mostrò  come  I*  armata  di  tutta  Gre- 
cia, ancora  che  stesse  sotto  la  fede  loro, 
era  in  lato  che  facilmente  si  poteva  gua- 
dagnare o distruggere;  il  che  faceva  gli 
Ateniesi  al  tutto  arbitri  di  quella  pro- 
vincia. Donde  Aristide  riferì  ai  popolo, 
il  partito  di  Temistocle  essere  utilissi- 
mo, ma  disonestissimo  : per  la  qual  cosa 
il  popolo  al  tutto  lo  ricusò.  II  che  non 
arebbe  fatto  Filippo  Macedone,  e gli  al- 
tri principi  che  più  utile  hanno  cerco 
e più  guadagnato  con  il  rompere  la  fede, 
che  con  verun  altro  modo.  Quanto  a 
rompere  i patti  per  qualche  cagione  di 
inosservanza,  di  questo  io  non  parlo 
come  di  cosa  ordinaria;  ma  parlo  dì 
quelli  che  si  rompono  per  cagioni  istra- 
sordinarie:  dove  io  credo,  per  le  cose 
(lette,  che  il  popolo  facci  minori  errori 
che  il  principe,  e per  questo  si  possa 
Fidar  più  di  lui  che  del  principe. 


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f i ! 

* ' 

« 

LIBRO  PRIMO.  299 

i 

l 

Gap.  LX.  — Come  il  consolato  e qualun- 
gue  altro  magistrato  in  Roma  si  (lava 
senza  rispetto  di  età. 

► . 

E’  si  vede  per  V ordine  della  istoria, 
come  la  Repubblica  romana,  poiché  ’i 
consolato  venne  nella  Plebe,  concesse 
quello  ai  suoi  cittadini  senza  rispetto  di 
età  o di  sangue;  ancora  cbe  il  rispetto 
della  età  mai  non  fusse  in  Roma,  ma 
sempre  si  andò  a trovare  la  virtù,  o in 
giovane  o in  vecchio  cbe  la  fusse.  Il  che 
si  vede  per  il  testimone  di  Valerio  Cor- 
vino, che  fu  fatto  Consolo  nell!  ventitré 
anni:  e Valerio  detto,  parlando  ai  suoi 
soldati,  disse  come  il  consolato  crai  prce- 
tnium  virfulisj,  non  sanguinis.  La  qual 
cosa  se  fu  bene  considerata,  o no,  sarebbe 
da  disputare  assai.  E quanto  al  sangue,  fu 
concesso  questo  per  necessità  ; e quella  ne- 
cessità che  fu  in  Roma,  sarebbe  in  ogni 
città  che  volesse  fare  gli  effetti  che  fece 
Roma,  come  altra  volta  si  è detto:  per-  i! 


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300 


DEI  DISCORSI 


chè  e’  non  si  può  dare  agli  uomini  di- 
sagio senza  premio,  nè  si  può  torre  la 
speranza  di  conseguire  il  premio  senza 
pericolo.  E però  a buona  ora  convenne 
che  la  Plebe  avesse  speranza  di  avere 
il  consolato  ; e di  questa  speranza  si 
nutrì  un  tempo  senza  averlo.  Dipoi  non 
bastò  la  speranza,  che  e’ convenne  che 
si  venisse  allo  effetto.  Ma  la  città  che 
non  adopera  la  sua  plebe  ad  alcuna  cosa 
gloriosa,  la  può  trattare  a suo  modo, 
come  altrove  si  disputò:  ma  quella  elle 
vuole  fare  quel  che  fe  Roma,  non  ha  a 
fare  questa  distinzione.  E dato  che  così 
sia,  quella  del  tempo  non  ha  replica  ; 
anzi  è necessaria  : perchè  nello  eleggere 
uno  giovane  in  uno  grado  che  abbi  bi- 
sogno d’ una  prudenza  di  vecchio,  con- 
viene, avendovelo  ad  eleggere  la  molti- 
tudine, che  a quel  grado  lo  facci  per- 
venire qualche  sua  nobilissima  azione. 
E quando  un  giovane  è di  tanta  virtù, 
che  si  sia  fatto  in  qualche  cosa  notabile 
conoscere  ; sarebbe  cosa  dannosissima 


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LIBRO  PRIMO. 


301 

che  la  città  non  se  «e  potesse  valere  al- 
lora, e che  la  avesse  ad  aspettare  che 
fusse  invecchiato  con  lui  quel  vigore 
deir  animo,  quella  prontezza,  della  quale 
in  quella  età  la  patria  sua  si  poteva  va- 
lere : come  si  valse  Roma  di  Valerio  Cor- 
vino, di  Scipione,  di  Pompeio  e di  molti 
altri  che  trionfarono  giovanissimi. 


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DEI  DISCORSI 

LIBRO  SECONDO. 


Laudano  sempre  gli  uomini,  ma  noti 
sempre  ragionevolmente,  gli  antichi  tem- 
pi, e gli  presenti  accusano:  ed  in  modo 
sono  delle  cose  passate  partigiani,  che 
non  solamente  celebrano  quelle  etadi 
che  da  loro  sono  state,  per  la  memoria 
che  ne  hanno  lasciata  gli  scrittori,  co- 
nosciute ; ma  quelle  ancora  che,  sendo 
già  vecchi,  si  ricordano  nella  loro  gio- 
vanezza avere  vedute.  E quando  questa 
loro  oppinionc  sia  falsa,  come  il  più 
delle  volte  è,  mi  persuado  varie  essere 
le  cagioni  che  a questo  inganno  gli  con- 
ducono. E la  prima  credo  sia,  che  delle 


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DEI  DISCORSI  — LIBRO  SECONDO.  308 

cose  antiche  non  s’intenda  al  tutto  lu 
verità;  e che  di  quelle  il  più  delle  volle 
si  nasconda  quelle  cose  che  rechereb- 
bono  a quelli  tempi  infamia;  e quelle 
altre  che  possono  partorire  loro  gloria, 
si  remlino  magnifiche  ed  amplissime. 
Però  che  i più  degli  scrittori  in  modo  * 
alla  fortuna  de’  vincitori  ubbidiscono, 
che  per  fare  le  loro  vittorie  gloriose, 
non  solamente  accrescono  quello  che  da 
loro  è virtuosamente  operato,  ma  an- 
cora le  azioni  de’  nimici  in  modo  illu- 
strano, che  qualunque  nasce  dipoi  in 
qualunque  delle  due  provincie,  o nella 
vittoriosa  o nella  vinta,  ha  cagione  di 
maravigliarsi  di  quelli  uomini  e di  quelli 
tempi,  ed  è forzato  sommamente  lau- 
dargli ed  amargli.  Olirà  di  questo, 
odiando  gli  uomini  le  cose  o per  timo- 
re o per  invidia,  vengono  ad  essere 
spente  due  potentissime  cagioni  del  - 
P odio  nelle  cose  passate,  non  ti  po- 
tendo quelle  offendere,  e non  ti  dando 
cagione  d’  invidiarle.  Ma  al  contrario 


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DEI  DISCORSI 


304 

interviene  di  quelle  cose  che  si  maneg- 
giano e veggono  ; le  quali,  pei*  la  intera 
cognizione  di  esse,  non  ti  essendo  in 
alcuna  parte  nascoste*  e conoscendo  in 
quelle  insieme  con  il  bene  molte  altre 
cose  che  ti  dispiacciono,  sei  forzato  giu- 
dicarle alle  antiche  molto  inferiori,  an- 

✓ 

cora  che  in  verità  le  presenti  molto  più 
di  quelle  di  gloria  e di  fama  meritas- 
sero: ragionando  non  delie  cose  perti- 
nenti alle  arti,  le  quali  hanno  tanta 
chiarezza  in  sè,  che  i tempi  possono 
torre  o dar  loro  poco  più  gloria  che 
per  loro  medesime  si  meritino  ; ma  par- 
lando di  quelle  pertinenti  alla  vita  e 
costumi  degli  uomini,  delle  quali  non 
se  ne  veggono  sì  chiari  testimoni.  Re- 
plico, pertanto,  essere  vera  quella  con- 
suetudine del  laudare  e biasimare  so- 
prascritta ; ma  non  essere  già  sempre 
vero  che  si  erri  nel  farlo.  Perchè  qual- 
che volta  è necessario  che  giudichino 
la  verità  ; perchè  essendo  le  cose  uma- 
ne sempre  in  molo,  o le  salgono,  o le 


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LIBRO  SECONDO. 


305 


scendono.  E vedesi  una  città  o una  pro- 
vincia essere  ordinata  al  vivere  politico 
da  qualche  uomo  eccellente;  ed,  un  tem- 
po, per  la  virtù  di  quello  ordinatore, 
andare  sempre  in  augumento  verso  il 
meglio.  Chi  nasce  allora  in  tale  stato, 
ed  ei  laudi  più  li  antichi  tempi  che  i 
moderni,  s’ inganna  ; ed  è causato  il  suo 
inganno  da  quelle  cose  che  di  sopra  si 
sono  dette.  Ma  coloro  che  nascono  dipoi, 
in  quella  città  o provincia,  che  gli  è 
venuto  il  tempo  che  la  scende  verso  la 
parte  più  rea,  allora  non  s’  ingannano. 
E pensando  io  come  queste  cose  proce- 
dino,  giudico  il  mondo  sempre  essere 
stalo  ad  un  medesimo  modo,  ed  in  quello 
esser  stato  tanto  di  buono  quanto  di 
tristo  ; ma  variare  questo  tristo  e que- 
sto buono  di  provincia  in  provincia: 
come  si  vede  per  quello  si  ha  notizia  di 
quelli  regni  antichi  che  variavano  dal- 
l’uno all’altro  per  la  variazione  de’ co- 
stumi; ma  il  mondo  restava  quel  me- 
desimo. Solo  vi  era  questa  differenza, 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  20 


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DEI  DISCORSI 


m 

che  dove  quello  aveva  prima  collocata 
la  sua  virtù  in  Assiria,  la  collocò  in 
Media,  dipoi  in  Persia,  tanto  che  la  ne 
venne  in  Italia  ed  a Roma:  e se  dopo 

10  imperio  romano  non  è seguito  impe- 
rio che  sia  durato,  nè  dove  il  mondo 
abbia  ritenuta  la  sua  virtù  insieme;  si 
vede  nondimeno  essere  sparsa  in  di 
molte  nazioni  dove  si  viveva  virtuosa- 
mente; come  era  il  regno  de’  Franchi, 

11  regno  de’ Turchi,  quel  del  Soldano; 
ed  oggi  i popoli  della  Magna  ; e prima 
quella  setta  Saracina  che  fece  tante  gran 
cose,  ed  occupò  tanto  mondo,  poiché  la 
distrusse  lo  imperio  romano  orientale. 
In  tutte  queste  provincie,  adunque,  poi- 
ché i Romani  rovinorono,  ed  in  tutte 
queste  sètte  è stata  quella  virtù,  ed  è 
ancora  in  alcuna  parte  di  esse,  che  si 
desidera,  e che  con  vera  laude  si  lauda. 

E chi  nasce  in  quelle,  e lauda  i tempi 
passati  più  che  i presenti,  si  potrebbe 
ingannare;  ma  chi  nasce  in  Italia  ed  in 
Grecia,  e non  sia  divenuto  o in  Italia 


I 

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LIBRO  SECONDO. 


307 

oltramontano  o in  Grecia  turco,  ha  ra- 
gione di  biasimare  i tempi  suoi,  e lau- 
dare gli  altri  : perchè  in  quelli  vi  sono 
assai  cose,  che  gli  fanno  meravigliosi  ; 
in  questi  non  è cosa  alcuna  che  gli  ri- 
comperi da  ogni  estrema  miseria,  infa- 
mia e vituperio:  dove  non  è osservanza 
di  religione,  non  di  leggi,  non  di  mili- 
zia; ma  sono  maculati  d’ ogni  ragione 
bruttura.  E tanto  sono  questi  vizi  più 
detestabili,  quanto  ei  sono  più  in  coloro 
che  seggono  prò  tribunali,  comandano 
a ciascuno,  e vogliono  essere  adorati. 
.Ha  tornando  al  ragionamento  nostro, 
dico  che  se  il  giudicio  degli  uomini  è 
corrotto  in  giudicare  quale  sia  migliore, 
o il  secolo  presente  o l’antico,  in  quelle 
cose  dove  per  l’antichità  ei  non  ha  pos- 
suto  avere  perfetta  cognizione  come  egli 
ha  de’  suoi  tempi  ; non  doverrebbe  cor- 
rompersi ne’  vecchi  nel  giudicare  i lem  • 
pi  della  gioventù  e vecchiezza  loro,  aven- 
do quelli  e questi  egualmente  conosciuti 
e visti.  La  qual  cosa  sarebbe  vera,  se 


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DEI  DISCOHSl 


30  & 

gli  uomini  per  tutti  i tempi  della  lor 
vita  l'ussero  del  medesimo  giudizio,  ed 
avessero  quelli  medesimi  appetiti  : ma 
variando  quelli,  ancora  che  i tempi  nou 
variino,  non  possono  parere  agli  uomini 
quelli  medesimi,  avendo  altri  appetiti, 
altri  diletti,  altre  considerazioni  nella 
vecchiezza,  che  nella  gioventù.  Perchè, 
mancando  gli  uomini  quando  li  invec- 
chiano di  forze,  e crescendo  di  giudizio 
e di  prudenza;  è necessario  che  quelle 
cose  che  in  gioventù  parevano  loro  sop- 
portabili e buone,  ineschino  poi  invec- 
chiando insopportabili  e cattive  ; e dove 
quelli  ne  doverrebbono  accusare  il  giu- 
dicio  loro,  ne  accusano  i tempi.  Sendo. 
ultra  di  questo,  gli  appetiti  umani  in- 
saziabili, perchè  hanno  dalla  natura  di 
potere  e voler  desiderare  ogni  cosa,  e 
dalla  fortuna  di  potere  conseguirne  po- 
che; ne  risulta  continuamente  una  mala 
contentezza  nelle  menti  umane,  ed  un 
fastidio  delle  cose  che  si  posseggono:  il 
che  fa  biasimare  i presenti  tempi,  lau- 


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LIBRO  SECONDO. 


309 

dare  i passati,  e desiderare  i futuri  ; 
ancora  che  a fare  questo  non  fussino 
mossi  da  alcuna  ragionevole  cagione.  Non 
so,  adunque,  se  io  meriterò  d’ essere 
numerato  tra  quelli  che  si  ingannano, 
se  in  questi  mia  discorsi  io  lauderò 
troppo  i tempi  degli  antichi  Romani,  e 
biasimerò  i nostri.  E veramente,  se  la 
virtù  che  allora  regnava,  ed  il  vizio  che 
ora  regna,  non  fussino  più  chiari  che 
il  sole,  andrei  col  parlare  più  rattenu- 
to, dubitando  non  incorrere  in  quello 
inganno  di  che  io  accuso  alcuni.  Ma  es- 
sendo la  cosa  si  manifesta  che  ciascuno 
la  vede,  sarò  animoso  in  dire  manife- 
stamente quello  che  intenderò  di  quelli 
e di  questi  tempi;  acciocché  gli  animi 
de’  giovani  che  questi  mia  scritti  legge- 
ranno, possino  fuggire  questi,  e prepa- 
rarsi ad  imitar  quegli,  qualunque  volta 
la  fortuna  ne  dessi  loro  occasione.  Per- 
chè gli  è offizio  di  uomo  buono,  quel 
bene  che  per  la  malignità  de’  tempi  e 
della  fortuna  tu  non  hai  potuto  operare. 


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310 


DEI  DISCORSI 


insegnarlo  nd  altri,  acciocché  sendone 
molti  capaci,  alcuno  di  quelli,  più  ama- 
to dal  Cielo,  possa  operarlo.  Ed  avendo 
ne’  discorsi  del  superior  libro  parlato 
delle  deliberazioni  fatte  da*  Romani  per- 
tinenti al  di  dentro  della  città,  in  que- 
sto parleremo  di  quelle,  che  ’\  Popolo 
romano  fece  pertinenti  allo  augumento 
dello  imperio  suo. 

Cap.  I.  — Quale  fu  più  cagione  dello 
imperio  che  acquistarono  i Romani , 
o la  virtùj  o la  fortuna. 

Molti  hanno  avuta  oppinione,  intra  i 
quali  è Plutarco,  gravissimo  scrittore, 
che  ’1  Popolo  romano  nello  acquistare 
lo  imperio  fusse  più  favorito  dalla  for- 
tuna che  dalla  virtù.  Ed  intra  le  altre 
ragioni  che  ne  adduce,  dice  che  per  con- 
fessione di  quel  popolo  si  dimostra, 
quello  avere  riconosciute  dalla  fortuna 
tutte  le  sue  vittorie,  avendo  quello  edi- 
ficati più  templi  alla  Fortuna,  che  ad 


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LIBRO  SECONDO. 


SII 

alcun  altro  Dio.  E pare  che  a questa 
oppinione  si  accosti  Livio;  perchè  rade 
volte  è che  facci  parlare  ad  alcuno  Ro- 
mano, dove  ei  racconti  della  virtù,  che 
non  vi  aggiunga  la  fortuna.  La  qual 
cosa  io  non  voglio  confessare  in  alcun 
modo,  nè  credo  ancora  si  possa  soste- 
nere. Perchè,  se  non  si  è trovato  mai 
repubblica  che  abbi  fatti  i progressi  che 
Roma,  è nato  che  non  si  è trovata  mai 
repubblica  che  sia  stata  ordinata  a po- 
tere acquistare  come  Roma.  Perchè  la 
virtù  degli  eserciti  gli  feciono  acqui- 
stare Io  imperio;  e l’ordine  del  pro- 
cedere, ed  il  modo  suo  proprio,  e tro- 
vato dal  suo  primo  legislatore,  gli  fece 
mantenere  lo  acquistato:  come  di  sotto 
largamente  in  più  discorsi  si  narrerà. 
Dicono  costoro,  che  non  avere  mai  ac*» 
cozzate  due  potentissime  guerre  in  uno 
medesimo  tempo,  fu  fortuna  e non  vir- 
tù del  Popolo  romano  ; perchè  e’  non 
ebbero  guerra  con  i Latini,  se  non 
quando  egli  ebbero  non  tanto  battuti 


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DEI  DISCORSI 


31-2 

i Sanniti,  quanto  che  la  guerra  fu  da*  Ro- 
mani fatta  in  difensione  di  quelli  ; non 
combatterono  con  i Toscani,  se  prima 
non  ebbero  soggiogati  i Latini,  ed  ener- 
vati con  le  spesse  rotte  quasi  in  tutto 
i Sanniti:  che  se  due  di  queste  potenze 
intere  si  fussero,  quando  erano  fresche, 
accozzate  insieme,  senza  dubbio  si  può 
facilmente  conietturare  che  ne  sarebbe 
seguito  la  rovina  della  romana  Repub- 
blica. Ma,  comunelle  questa  cosa  nasces- 
se, mai  non  intervenne  che  eglino  aves- 
sino due  potentissime  guerre  in  un 
medesimo  tempo:  anzi  parve  sempre, 
o nel  nascere  dell’ una,  l’altra  si  spe- 
gnesse; o nel  spegnersi  dell’ una,  l’altra 
nascesse.  11  che  si  può  facilmente  ve- 
dere per  T ordine  delle  guerre  fatte  da 
loro:  perchè,  lasciando  stare  quelle  che 
feciono  prima  che  Roma  fusse  presa 
dai  Franciosi,  si  vede  che,  mentre  che 
combatterno  con  gli  Equi  e con  i Vol- 
sci,  mai,  mentre  questi  popoli  furono 
potenti,  non  si  levarono  contro  di  loro 


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LIBRO  SECONDO. 


313 

uitre  genti.  Domi  costoro,  nacque  la 
guerra  contea  ai  Sanniti;  e benché  in- 
nanzi che  finisse  tal  guerra  i popoli 
latini  si  ribellassero  da’  Romani,  non- 
dimeno quando  tale  ribellione  segui,  i 
Sanniti  erano  in  lega  con  Roma,  e con 
il  loro  esercito  aiutorono  i Romani  do- 
mare la  insolenza  latina.  I quali  domi, 
risurse  la  guerra  di  Sannio.  Battute  per 
molte  rotte  date  a’  Sanniti  le  loro  forze, 
nacque  la  guerra  de’ Toscani;  la  qual 
composta,  si  rilevarono  di  nuovo  i San- 
niti per  la  passata  di  Pirro  in  Italia. 
Il  quale  come  fu  ribattuto,  e rimandato 
in  Grecia,  appiccarono  la  prima  guerra 
con  i Cartaginesi:  nè  {ìrima  fu  tal  guer- 
ra finita,  che  tutti  i Franciosi,  e di  là 
e di  qua  dall’ Alpi,  congiurarono  conti  a 
i Romani;  tanto  che  intra  Popolonia  e 
Pisa,  dove  è oggi  la  torre  a San  Vin- 
centi, furono  con  massima  strage  supe- 
rati. Finita  questa  guerra,  per  ispazio 
di  venti  anni  ebbero  guerra  di  non 
molta  importanza;  perchè  non  eombat- 


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DE!  D'.SCORS! 


314 

terono  con  altri  che  con  i Liguri,  c con 
quel  rimanente  de’  Franciosi  che  era  in 
Lombardia.  E così  stettero  tanto  che 
nacque  la  seconda  guerra  cartaginese, 
la  qual  per  sedici  anni  tenne  occupata 
Italia.  Finita  questa  con  massima  gloria, 
nacque  la  guerra  macedonica  ; la  quale 
tìnita,  venne  quella  d’ Antioco  e d’ Asia. 
Dopo  la  qual  vittoria,  non  restò  in  tutto 
il  mondo  nè  principe  nè  repubblica  che, 
di  per  sè,  o tutti  insieme,  si  potessero 
opporre  alle  forze  romane.  Ma  innanzi 
a quella  ultima  vittoria,  chi  considerrà 
l’ ordine  di  queste  guerre,  ed  il  modo 
del  . procedere  loro,  vedrà  dentro  me- 
scolate con  la  fortuna  una  virtù  e 
prudenza  grandissima.  Talché,  chi  esa- 
minasse la  cagione  di  tale  fortuna,  la  ri- 
troverebbe facilmente:  perchè  gli  è cosa 
certissima,  che  come  un  principe  e un 
popolo  viene  in  tanta  riputazione,  che 
ciascuno  principe  e popolo  vicino  abbia 
di  per  sè  paura  ad  assaltarlo,  e ne  te- 
ma, sempre  interverrà  che  ciascuno  di 


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LIBRO  SECONDO. 


31  Ó 


essi  mai  lo  assalterà,  se  non  necessi- 
tato ; in  modo  che  e’  sarà  quasi  come 
nella  elezione  di  quel  polente,  far  guer- 
ra con  quale  di  quelli  suoi  vicini  gli 
parrà,  e gii  altri  con  la  sua  industria 
quietare.  I quali,  parte  rispetto  alla  po- 
tenza suo,  parte  ingannati  da  quei  modi 
che  egli  terrà  per  nddormentargli,  si 
quietano  facilmente;  e gli  altri  potenti 
che  sono  discosto,  e che  non  hanno 
coinmerzio  seco,  curano  la  cosa  come 
cosa  longinqua,  e che  non  appartenga 
loro.  Nel  quale  errore  stanno  tanto  che 
questo  incendio  venga  loro  presso  : il 
quale  venuto,  non  hanno  rimedio  a spe- 
gnerlo se  non  con  le  forze  proprie;  le 
quali  dipoi  non  bastano,  sendo  colui 
diventato  potentissimo.  Io  voglio  lasciare 
andare,  come  i Sanniti  stettero  a vedere 
vincere  dal  Popolo  romano  i Yolsci  e 
gli  Equi;  e per  non  essere  troppo  pro- 
lisso, mi  farò  da’  Cartaginesi  : i quali 
erano  di  gran  potenza  c di  grande  esti- 
mazione quando  i Romani  combattevano 


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DEI  Disconsi 


316 

con  i Sanniti  e con  i Toscani  ; perchè 
tii  già  tenevano  tutta  1’  Affrica,  tenevano 
ia  Stintigna  e la  Sicilia,  avevano  domi- 
nio in  parte  della  Spagna.  La  quale  po- 
lenza  loro,  insieme  con  V esser  discosto 
ne’ confini  dal  Popolo  romano,  fece  che 
non  pensarono  mai  di  assaltare  quello, 
nè  di  soccorrere  i Sanniti  e Toscani: 
anzi  fecero  come  si  fa  nelle  cose  che 
crescono,  più  tosto  in  lor  favore  colle- 
gandosi con  quelli,  e cercando  l’ami- 
cizia loro.  Nè  si  avviddono  prima  del- 
1’  errore  fatto,  che  i Romani,  domi  tutti 
i popoli  mezzi  infra  loro  ed  i Cartagi- 
nesi, cominciarono  a combattere  insieme 
dello  imperio  di  Sicilia  e di  Spagna. 
Intervenne  questo  medesimo  a’  Franciosi 
che  a’ Cartaginesi,  e cosi  a Filippo  re 
de’ Macedoni,  e ad  Antioco;  e ciascuno 
di  loro  credea,  mentre  che  il  Popolo  ro- 
mano era  occupato  con  l’altro,  che 
quell’  altro  lo  superasse,  ed  essere  a 
tempo,  o con  pace  o con  guerra,  difen- 
dersi da  lui.  In  modo  che  io  credo  che 


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LIBRO  SECONDO. 


317 


la  fortuna  che  ebbono  in  questa  parte 
i Romani,  1’  arebbono  tutti  quelli  prin- 
cipl  che  procedessero  come  i Romani,  c 
fussero  di  quella  medesima  virtù  che 
loro.  Sarebbeci  da  mostrare  a questo 
proposito  il  modo  tenuto  dal  Popolo 
romano  nello  entrare  nelle  provincie 
d’  altri,  se  nei  nostro  trattato  de’  prin* 
cipati  non  ne  avessimo  parlato  a lungo  ; 
perchè  in  quello  questa  materia  è diffu- 
samente disputata.  Dirò  solo  questo  bre- 
vemente, come  sempre  s’ingegnarono 
avere  nelle  provincie  nuove  qualche  ami- 
co che  fusse  scala  o porta  a salirvi  o 
entrarvi,  o mezzo  a tenerla  : come  si 
vede  che  per.  il  mezzo  de’ Capovani  en- 
trarono in  Sannio,  de’ Camertini  in  To- 
scana, de’  Mamertini  in  Sicilia,  de’  Sa- 
guntini  in  Spagna,  di  Massinissa  iti 
Affrica,  degli  Eloli  in  Grecia,  di  Eumene 
ed  altri  principi  in  Asia,  de’ Massiliensi 
e deili  Edui  in  Francia.  E così  non  man- 
carono mai  di  simili  appoggi,  per  po- 
tere facilitare  le  imprese  loro,  e nello 


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m 


DEI  DISCORSI 


acquistare  le  provincie  e nel  tenerle.  Il 
che  quelli  popoli  che  osserveranno,  ve- 
dranno avere  meno  bisogno  della  for- 
tuna, che  quelli  che  ne  saranno  non 
buoni  osservatori.  E perchè  ciascuno 
possa  meglio  conoscere,  quanto  potè  più 
la  virtù  che  la  fortuna  loro  ad  acqui- 
stare quello  imperio  ; noi  discorreremo 
nel  seguente  capitolo  di  che  qualità  fu- 
rono quelli  popoli  con  i quali  egli  eb- 
bero a combattere,  e quanto  erano  osti- 
nati a difendere  la  loro  libertà. 

Cap.  11.  — Con  quali  popoli  i Romani  eb- 
bero a combattere , e come  ostinatamen- 
te quelli  difendevano  la  loro  libertà. 

Nessuna  cosa  fece  più  faticoso  a*  Ro- 
mani superare  i popoli  d*  intorno,  c 
parte  delle  provincie  discosto,  quanto  lo 
amore  che  in  quelli  tempi  molti  popoli 
avevano  alla  libertà;  la  quale  tanto  osti- 
natamente difendevano,  che  mai  se  non 
da  una  eccessiva  virtù  sarebbono  stati 


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LIBRO  SECONDO.  &J9 

* soggiogati.  Perchè,  per  molti  essempi  si 
conosce  a quali  pericoli  si  mettessino 
per  mantenere  o ricuperare  quella  ; 
quali  vendette  e’  facessino  contra  a co- 
loro che  V avessino  loro  occupata.  Co* 
noscesi  ancora  nelle  lezioni  delle  istorie, 
quali  danni  i popoli  e le  città  riccvino 
per  la  servitù.  E dove  in  questi  tempi 
ci  è solo  una  provincia  la  quale  si  possa 
dire  che  abbia  in  sè  città  libere,  ne*  tempi 
antichi  in  tutte  le  provincie  erano  assai 
popoli  liberissimi.  Vedesi  come  in  quelli 
tempi  de’  quali  noi  parliamo  al  presente, 
in  Italia,  dall’  Alpi  che  dividono  ora  la 
Toscana  dalla  Lombardia,  insino  alla 
punta  d’Italia,  erano  molti  popoli  liberi; 
com’erano  i Toscani,  i Romani,  i San- 
niti, e molti  altri  popoli  che  in  quel  re- 
sto d’ Italia  abitavano.  Nè  si  ragiona  mai 
che  vi  fusse  alcuno  re,  fuora  di  quelli 
che  regnarono  in  Roma,  e Porsena  re 
di  Toscaua;  la  stirpe  del  quale  come  si 
estinguesse,  non  ne  parla  la  istoria.  Ma 
si  vede  bene,  come  in  quelli  tempi  che  i . 


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320 


DE!  DISCORSI 


Romani  andarono  a campo  a Veio,  la 
Toscana  era  libera  : e tanto  si  godea 
della  sua  libertà,  e tanto  odiava  il  nome 
del  principe,  che  avendo  fatto  i Veienti 
per  loro  difensione  un  re  in  Veio,  e 
domandando  aiuto  a' Toscani  contra  ai 
Romani  ; quelli,  dopo  molte  consulte  fatte, 
deliberarono  di  non  dare  aiuto  a’Veienti, 
infino  a tanto  che  vivessino  sotto  ’1  re; 
giudicando  non  esser  bene  difendere  la 
patria  di  coloro  che  V avevano  di  già 
sottomessa  ad  altrui.  E facil  cosa  è co- 
noscere donde  nasca  ne’  popoli  questa 
affezione  del  vivere  libero;  perchè  si  vede 
per  esperienza,  le  cittadi  non  avere  mai 
ampliato  nè  di  domiuio  nè  di  ricchezza, 
se  non  mentre  sono  state  in  libertà.  E 
veramente  meravigliosa  cosa  è a consi- 
derare, a quanta  grandezza  venne  Atene 
per  ispazio  di  cento  anni,  poiché  la  si 
liberò  dalla  tirannide  di  Pisistrato.  Ma 
sopra  tutto  meravigliosissima  cosa  è a 
considerare,  a quanta  grandezza  venne 
Roma,  poiché  la  si  liberò  da’  suoi  Re. 


I 


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LIBRO  SECONDO. 


321 

La  cagione  è facile  ad  intendere;  per* 
chè  non  il  bene  particolare,  ma  il  bene 
comune  è quello  che  fa  grandi  le  città. 
E senza  dubbio,  questo  bene  comune  non 
è osservato  se  non  nelle  repubbliche; 
perchè  lutto  quello  che  fa  a proposito 
suo,  si  eseguisce;  e quantunque  e’ torni 
in  danno  di  questo  o di  quello  privato, 
e’  sono  tanti  quelli  per  chi  detto  bene 
fa,  che  lo  possono  tirare  innanzi  contra 
alla  disposizione  di  quelli  pochi  che  ne 
fussino  oppressi.  Al  contrario  interviene 
quando  vi  è uno  principe;  dove  il  più 
delle  volte  quello  che  fa  per  lui,  offende 
la  città;  e quello  che  fa  per  la  città, 
offende  lui.  Dimodoché,  subito  che  nasce 
una  tirannide  sopra  un  viver  libero,  il 
manco  male  che  ne  resulti  a quelle  città, 
è non  andare  più  innanzi,  nè  crescere 
più  in  potenza  o in  ricchezze  ; ma  il  più 
delle  volte,  anzi  sempre,  interviene  loro, 
che  le  tornano  indietro.  E se  la  sorte 
facesse  che  vi  surgesse  un  tiranno  vir- 
tuoso, il  quale  , per  animo  e per  virtù 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  21 


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DEI  DISCORSI 


Ii22 

d’  arme  ampliasse  il  dominio  suo,  non 
ne  risulterebbe  alcuna  utilità  a quella 
repubblica,  ma  a lui  proprio:  perchè 
e’  non  può  onorare  nessuno  di  quelli 
cittadini  che  siano  valenti  c buoni,  che 
egli  tiranneggia,  non  volendo  avere  ad 
avere  sospetto  di  loro.  Non  può  ancora 
le  città  che  egli  acquista,  sottometterle 
o farle  tributarie  a quella  città  di  che 
egli  è tiranno:  perchè  il  farla  potente 
non  fa  per  lui;  ma  per  lui  fa  tenere  lo 
Stato  disgiunto,  e che  ciascuna  terra  e 
ciascuna  provincia  riconosca  lui.  Talché 
di  suoi  acquisti,  solo  egli  ne  profitta,  e 
non  la  sua  patria.  E chi  volesse  confer- 
mare questa  oppinione  con  infinite  altre 
ragioni,  legga  Senofonte  nel  suo  trat- 
tato che  fa  De  Tirannide.  Non  è mera- 
viglia adunque,  che  gli  antichi  popoli 
con  tanto  odio  perseguitassino  i tiranni, 
ed  nmassiiio  il  vivere  libero,  e che  il 
nome  della  libertà  fusse  tanto  stimato 
da  loro:  come  intervenne  quando  Giro- 
lamo nipote  di  lerone  siracusano  fu 


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LIBRO  SECONDO. 


323 

morto  in  Siracusa,  che  venendo  le  no- 
velle della  sua  morte  in  nel  suo  eser- 
cito, che  non  era  molto  lontano  da  Si* 
racusa,  cominciò  prima  a tumultuare,  e 
pigliare  1’  armi  contro  agli  ucciditori  di 
quello;  ma  come  ei  sentì  che  in  Sira- 
cusa si  gridava  libertà,  allettato  da  quel 
nome,  si  quietò  tutto,  pose  giti  V ira 
contra  a’  tirannicidi,  e pensò  come  iti 
quella  città  si  potesse  ordinare  un  viver 
libero.  Non  è meraviglia  ancora,  che  i 
popoli  faccino  vendette  istraordinaric 
contra  a quelli  che  gli  hanno  occupata 
la  libertà.  Di  che  ci  sono  stali  assai 
esempi,  de’ quali  ne  intendo  referire  solo 
uno,  seguilo  in  Coreica,  città  di  Grecia, 
ne’ tempi  della  guerra  peloponnesiaca; 
«love  sendo  divisa  quella  provincia  in 
due  fazioni,  delle  quali  1’  una  seguitava 
gli  Ateniesi,  V altra  gli  Spartani,  ne  na- 
sceva che  di  molte  città,  che  erano  infra 
loro  divise,  T una  parte  seguiva  F ami- 
cizia di  Sparta,  l’altra  di  Atene:  ed  es- 
sendo occorso  clic  nella  detta  città  prc- 


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324 


DEI  DISCORSI 


valessino  i nobili,  e togliessino  la  libertà 
al  popolo,  i popolari  per  mezzo  degli 
Ateniesi  ripresero  le  forze,  e posto  le 
mani  addosso  a tutta  la  nobiltà,  gli  rin- 
chiusero in  una  prigione  capace  di  tutti 
loro;  donde  gli  traevano  ad  otto  o dieci 
per  volta,  sotto  titolo  di  mandargli  in 
esilio  iti  diverse  parli,  e quelli  con  molti 
crudeli  essempi  facevauo  morire.  Di  che 
sendosi  quelli  che  restavano  accorti,  de- 
liberarono, in  quanto  era  a loro  possi- 
bile, fuggire  quella  morte  ignominiosa  ; 
ed  armatisi  di  quello  potevano,  combat- 
tendo con  quelli  vi  volevano  entrare,  la 
entrata  della  prigione  difendevano;  di 
modo  che  il  popolo,  a questo  romore 
fatto  concorso,  scoperse  la  parte  supe- 
riore di  quel  luogo,  e quelli  con  quelle 
rovine  sufìbeorno.  Seguirono  ancora  in 
delta  provincia  molti  altri  simili  casi 
orrendi  e notabili  : talché  si  vede  esser 
vero,  che  con  maggiore  impeto  si  ven- 
dica una  libertà  che  ti  è suta  tolta,  che 
quella  che  li  è voluta  torre.  Pensando 


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LIBRO  SECONDO. 


325 

dunque  donde  possa  nascere,  che  in  quelli 
tempi  antichi,  i popoli  fussero  più  ama- 
tori della  libertà  che  in  questi;  credo 
nasca  da  quella  medesima  cagione  che 
fa  ora  gli  uomini  manco  forti  : la  quale 
credo  sia  la  diversità  della  educazione 
nostra  dalla  antica,  fondata  nella  di- 
versità della  religione  nostra  dalla  an- 
tica. Perchè  avendoci  la  nostra  reli- 
gione mostra  la  verità  e la  vera  via, 
ci  fa  stimare  meno  l’onore  del  mon- 
do: onde  i Gentili  stimandolo  assai, 
ed  avendo  posto  in  quello  il  sommo  be- 
ne, erano  nelle  azioni  loro  più  feroci. 
Il  che  si  può  considerare  da  molte  loro 
constituzioni,  cominciandosi  dalla  ma- 
gnificenza de’  sacrificii  loro,  alla  umilila 
de’  nostri  ; dove  è qualche  pompa  più 
dilicata  che  magnifica,  ma  nessuna  azione 
feroce  o gagliarda.  Quivi  non  mancava 
la  pompa  nè  la  magnificenza  delle  ce- 
rimonie, ma  vi  si  aggiungeva  1*  azione 
del  sacrificio  pieno  di  sangue  e di  ferocia, 
ammazzandovisi  moltitudine  di  animali  : 


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326 


DEI  DISCORSI 


il  quale  aspetto  sendo  terribile,  rendeva 
gli  uomini  simili  a lui.  La  religione  an- 
tica, oltre  di  questo,  non  beatificava  se 
non  gli  uomini  pieni  di  mondana  gloria: 
come  erano  capitani  di  eserciti,  e prin- 
cipi di  repubbliche.  La  nostra  religione 
ha  glorificato  più  gli  uomini  umili  e 
contemplativi,  che  gli  attivi.  Ha  dipoi 
posto  il  sommo  bene  nella  umilila,  abie- 
zione, nello  dispregio  delle  cose  umane: 
quell’  altra  lo  poneva  nella  grandezza 
dello  animo,  nella  fortezza  del  corpo,  ed 
in  tutte  le  altre  cose  atte  a fare  gli  uo- 
mini fortissimi.  E se  la  religione  nostra 
richiede  che  abbi  in  te  fortezza,  vuole 
che  tu  sia  atto  a patire  più  che  a fare 
una  cosa  forte.  Questo  modo  di  vivere, 
adunque,  pare  che  abbi  rendutoil  mondo 
debole,  e datolo  in  preda  agli  uomini 
scellerati;  i quali  sicuramente  lo  pos- 
sono maneggiare,  veggendo  come  la  uni- 
versità degli  uomini,  per  andare  in  pa- 
radiso, pensa  più  a sopportare  le  sue 
battiture,  che  a vendicarle.  E benché  paia 


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LIBRO  SECONDO. 


327 


che  si  sia  effeminato  il  mondo,  e disar- 
mato il  cielo,  nasce  più  senza  dubbio 
dalla  viltà  degli  uomini,  che  hanno  in- 
terpretato la  nostra  religione  secondo 
l’  ozio,  e non  secondo  la  virtù.  Perchè, 
se  considerassino  come  la  permette  la 
esultazione  e la  difesa  della  patria,  ve- 
drebbono  come  la  vuole  che  noi  l’amia- 
ino  ed  onoriamo,  e prepariamoci  ad  es- 
ser tali  che  noi  la  possiamo  difendere. 
Fanno  adunque  queste  educazioni,  e si 
false  interpretazioni,  che  nel  mondo  non 
si  vede  tante  repubbliche  quante  si  ve- 
deva aulicamente;  nè,  per  conscguente, 
si  vede  ne’  popoli  tanto  amore  alla  libertà 
quanto  allora  : ancora  che  io  creda  piut- 
tosto essere  cagione  di  questo,  che  lo 
imperio  romano  con  le  sue  arme  e sua 
grandezza  spense  tutte  le  repubbliche  e 
lutti  i viveri  civili  E benché  poi  tal  im- 
perio si  sia  risoluto,  non  si  sono  potute 
le  città  ancora  rimettere  insieme  nè  rior- 
dinare alla  vita  civile,  se  non  in  po- 
chissimi luoghi  di  quello  imperio.  Pure, 


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348 


DEI  DISCORSI 


comunelle  si  fusse,  i Romani  in  ogni 
minima  parte  del  mondo  trovarono  una 
congiura  di  repubbliche  armatissime,  ed 
ostinatissime  atia  difesa  della  libertà  loro. 
Il  che  mostra  che  '1  Popolo  romano  senza 
una  rara  ed  estrema  virtù  mai  non  le 
arebbe  potute  superare.  E per  darne 
esseinpio  di  qualche  membro,  voglio  mi 
basti  lo  essempio  de’  Sanniti  : i quali 
pare  cosa  mirabile,  e Tito  Livio  lo  con- 
fessa, che  fussero  sì  potenti,  e 1’  arme 
loro  si  valide,  che  potessero  infino  al 
tempo  di  Papirio  Cursore  consolo,  figliuo- 
lo del  primo  Papirio,  resistere  a’  Romani 
(che  fu  uno  spazio  di  XLVI  anni),  dopo 
tante  rotte,  rovine  di  terre,  e tante  stragi 
ricevute  nel  paese  loro;  massime  veduto 
ora  quel  paese  dove  erano  tante  cittadi 
e tanti  uomini,  esser  quasi  che  disabi- 
tato : ed  allora  vi  era  tanto  ordine,  e 
tanta  forza,  eh’  egli  era  insuperabile, 
se  da  una-  virtù  romana  non  fusse  stato 
assaltato.  E facil  cosa  è considerare  donde 
nasceva  quello  ordine,  c donde  proceda 


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LIBRO  SECOSDO. 


329 

questo  disordine;  perchè  tutto  viene  dal 
viver  libero  allora,  ed  ora  dal  viver  servo. 
Perchè  tutte  le  terre  e le  provincie  che 
vivono  libere  in  ogni  parte,  come  di  so- 
pra dissi,  fanno  i progressi  grandissimi. 
Perchè  quivi  si  vede  maggiori  popoli, 
per  essere  i matrimoni  più  liberi,  e più 
desiderabili  dagli  uomini  : perchè  cia- 
scuno procrea  volentieri  quelli  figliuoli 
che  crede  potere  nutrire,  non  dubitando 
che  il  patrimonio  gli  sia  tolto;  thè  eT co- 
nosce non  solamente  che  nascono  liberi 
e non  schiavi,  ma  che  possono  mediante 
la  virtù  loro  diventare  principi.  Veg- 
gonvisi  le  ricchezze  multiplicare  in  mag- 
giore numero,  e quelle  che  vengono  dalla 
cultura,  e quelle  che  vengono  dalle  arti. 
Perchè  ciascuno  volentieri  multiplica  in 
quella  cosa,  e cerca  di  acquistare  quei 
beni,  che  crede  acquistati  potersi  godere. 
Onde  ne  nasce  che  gli  uomini  a gara  pen- 
sano ai  privati  ed  a’ pubblici  comodi;  e 
l’ uno  e l’altro  viene  meravigliosamente  a 
crescere.  II  contrario  di  tutte  queste  cose 


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330 


DEI  DISCORSI 


segue  in  quelli  paesi  che  vivono  scivi; 
c tanto  più  mancano  del  consueto  bene, 
quanto  è più  dura  la  servitù.  E di  tutte" 
le  servitù  dure,  quella  è durissima  che 
li  sottomette  ad  una  repubblica  : E una, 
perchè  la  è più  durabile,  e manco  si  può 
sperare  d’  uscirne;  Y altra,  perchè  il  fine 
della  repubblica  è enervare  ed  indebo- 
lire. per  accrescere  il  corpo  suo,  tutti 
gli  altri  corpi.  11  che  non  la  un  prin- 
cipe che  ti  sottometta,  quando  quel 
principe  non  sia  qualche  principe  bar- 
baro, destruttore  de’  paesi,  e dissipatore 
di  tutte  le  civilità  degli  uomini,  come 
sono  i principi  orientali.  Ma  s’ egli  ha 
in  sè  ordini  umani  ed  ordinari,  il  più 
delle  volte  ama  le  città  sue  soggette 
egualmente,  ed  a loro  lascia  T arti  tutte, 
e quasi  lutti  gli  ordini  antichi.  Talché, 
se  le  non  possono  crescere  come  libere, 
elle  non  rovinano  anche  come  serve;  in- 
tendendosi della  servitù  in  quale  ven- 
gono le  città  servendo  ad  un  forestiero, 
perchè  di  quella  d’ uno  loro  cittadino 


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LIBRO  SE  CO  >1)0. 


331 


ne  parlai  di  sopra.  Chi  considerrù,  adun- 
que, tutto  quello  che  si  è detto,  non  si 
meraviglierà  della  potenza  che  i Sanniti 
avevano  sendo  liberi,  e della  debolezza 
in  che  e’ vennero  poi  servendo:  e Tito 
Livio  ne  fa  fede  in  più  luoghi,  e mas- 
sime nella  guerra  d’ Annibaie,  dove  ei 
mostra  che  essendo  i Sanniti  oppressi 
da  una  legione  d’  uomini  che  era  in  Nola, 
mandorono  oratori  ad  Annibale,  a pre- 
garlo che  gli  soccorresse;  i quali  nel 
parlar  loro  dissono,  che  avevano  per 
cento  anni  combattuto  con  i Romani  con 
i propri  loro  soldati  e propri  loro  ca- 
pitani, e molte  volte  avevano  sostenuto 
duoi  eserciti  consolari  e duoi  consoli;  e 
che  allora  a tanta  bassezza  erano  venuti, 
che  non  si  potevano  a pena  difendere 
da  una  piccola  legione  romana  che  era 
in  Nola. 


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332 


DEI  DISCOIDI 


Cap.  III.  — Roma  divenne  grande  città  ro- 
vinando le  città  circonvicine , e riceven- 
do i forestieri  facilmente  aJ  suoi  onori. 

Crescit  inlerea  Roma  Albce  ruinis. 
Quelli  che  disegnano  che  una  città  fac- 
cia grande  imperio,  si  debbono  con  ogni 
industria  ingegnare  di  farla  piena  di 
abitatori  ; perchè  senza  questa  abbon- 
danza di  uomini,  mai  non  riuscirà  di 
fare  grande  una  città.  Questo  si  fa  in 
duoi  modi;  per  amore,  e per  forza. 
Per  amore,  tenendo  le  vie  aperte  e se- 
cure  a’  forestieri  che  disegnassero  ve- 
nire ad  abitare  in  quella,  acciocché  cia- 
scuno vi  abiti  volentieri  : per  forza,  di- 
sfacendo le  città  vicine,  e mandando  gli 
abitatori  di  quelle  ad  abitare  nella  tua 
città.  Il  che  fu  tanto  osservato  in  Ro- 
ma, che  nel  tempo  del  sesto  Re  in  Roma 
abitavano  ottantamila  uomini  da  portare 
armi.  Perchè  i Romani  vollono  fare  ad 
uso  del  buono  cultivatore;  il  quale,  per* 


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—waiBìi  mgmrn 


LIBRO  SECONDO.  333 

che  una  pianta  ingrossi,  e possa  prò* 
durre  e maturare  i fruiti  suoi,  gli  ta- 
glia i primi  rami  che  la  mette,  acciocché, 
rimasa  quella  virtù  nel  piede  di  quella 
pianta,  possino  col  tempo  nascervi  più 
verdi  e più  fruttiferi.  E che  questo  modo 
tenuto  per  ampliare  e fare  imperio, 
fusse  necessario  e buono,  lo  dimostra 
Io  essempio  di  Sparta  e di  Atene  : le 
quali  essendo  due  repubbliche  armatis- 
sime, ed  ordinate  di  ottime  leggi,  non- 
dimeno non  si  condussono  alla  gran- 
dezza dello  imperio  romano;  e Roma 
pareva  più  tumultuaria,  e non  tanto 
bene  ordinata  quanto  quelle.  Di  che 
non  se  ne  può  addurre  altra  cagione, 
che  la  preallegata:  perchè  Roma,  per 
avere  ingrossato  per  quelle  due  vie  il 
corpo  della  sua  città,  potette  di  già 
mettere  in  arme  dugentottantamila  uo- 
mini; e Sparta  ed  Atene  non  passarono 
mai  ventimila  per  ciascuna.  Il  che  nac- 
que, non  da  essere  il  sito  di  Roma  più 
benigno  che  quello  di  coloro,  ma  sola- 


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r Vk  -«t  1'  .1  . 


334  DEI  DISCORSI 

mente  da  diverso  modo  di  procedere. 
Perché  Licurgo,  fondatore  della  repub- 
blica spartana , considerando  nessuna 
cosa  potere  più  facilmente  risolvere  le 
sue  leggi  che  la  commistione  di  nuovi 
abitatori,  fece  ogni  cosa  perchè  i fore- 
stieri non  avessino  a conversarvi:  ed, 
oltre  al  non  gli  ricevere  ne’ matrimoni, 
alla  civiltà,  ed  alle  altre  conversazioni 
che  fanno  convenire  gli  uomini  insieme, 
ordinò  che  in  quella  sua  repubblica  si 
spendesse  monete  di  cuoio,  per  tor  via 
a ciascuno  il  desiderio  di  venirvi  per 
portarvi  mercanzie,  o portarvi  alcuna 
arte;  di  qualità  che  quella  città  non 
potette  mai  ingrossare  di  abitatori.  E 
perchè  tutte  le  azioni  nostre  imitano  la 
natura,  non  è possibile  nè  naturale  che 
uno  pedale  sottile  sostenga  un  ramo 
grosso.  Però  una  repubblica  piccola  non 
può  occupare  città  nè  regni  che  siano 
più  validi  nè  più  grossi  di  lei;  e se  pu- 
re gli  occupa,  gP  interviene  come  a quel- 
lo albero  che  avesse  più. grosso  il  ramo 


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LiBRO  SECONDO. 


335 


che  ’l  piede,"  che  sostenendolo  con  fati- 
ca, ogni  piccolo  vento  lo  fiacca:  come 
si  vede  che  intervenne  a Sparla,  la  quale 
avendo  occupate  tutte  le  città  di  Grecia, 
non  prima  se  gli  ribellò  Tebe,  che  tutte 
P altre  cittadi  se  gli  ribellarono,  e ri- 
mase i!  pedale  solo  senza  rami.  Il  che 
non  potette  intervenire  a Roma,  avendo 
il  piè  si  grosso,  che  qualunque  ramo 
poteva  facilmente  sostenere.  Questo  mo- 
do adunque  di  procedere,  insieme  con 
gli  altri  che  di  sotto  si  diranno,  fece 
Roma  grande  e potentissima.  Il  che  di- 
mostra Tito  Livio  in  due  parole,  quando 
disse:  Crcscit  intcrea  Roma  Albce  ruinis. 

Gap.  IV.  — Le  repubbliche  hanno  te- 
ntili tre  modi  circa  lo  ampliare. 

Chi  ha  osservato  le  antiche  istorie, 
Iruova  come  le  repubbliche  hanno  tre 
modi  circa  lo  ampliare.  L*  uno  è stato 
quello  che  osservorono  i Toscani  anti- 
chi, di  essere  una  lega  di  più  repub- 


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336 


DEI  DISCORSI 


bliche  insieme,  dove  non  sia  alcuna  che 
avanzi  l’ altra  nè  di  autorità  nè  di  gra- 
do; e nello  acquistare,  farsi  1’ altre  città 
compagne,  in  simil  modo  come  in  que- 
sto tempo  fanno  i Svizzeri,  e come  nei 
tempi  antichi  feciono  in  Grecia  gli  Achei 
e gli  Etoli.  E perchè  gli  Romani  feciono 
assai  guerra  con  i Toscani,  per  mostrar 
meglio  la  qualità  di  questo  primo  modo, 
ini  distenderò  in  dare  notizia  di  loro 
particolarmente.  In  Italia,  innanzi  allo 
imperio  romano,  furono  i Toscani  per 
mare  e per  terra  potentissimi:  e ben- 
ché delle  cose  loro  non  ce  ne  sia  par- 
ticolare istoria,  pure  c’è  qualche  poco 
di  memoria,  e qualche  segno  della  gran-  * 
dezza  loro;  e si  sa  come  e*  mandarono 
una  colonia  in  su  ’l  mare  di  sopra,  la 
quale  chiamarono  Adria,  che  fu  si  no- 
bile, che  la  dette  nome  a quel  mare  che 
ancora  i Latini  chiamano  Adriatico.  In- 
tendesi  ancora,  come  le  loro  arme  fu- 
rono ubbidite  dal  Tevere  per  infìno  ai 
piè  dell’  Alpi,  che  ora  cingono  il  grosso 


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LIBRO  SECONDO. 


337 


di  Italia;  non  ostante  che  dugento  anni 
innanzi  che  i Romani  crescessino  in 
molte  forze,  detti  Toscani  perderono  lo 
imperio  di  quel  paese  che  oggi  si  chia- 
ma la  Lombardia;  la  quale  provincia  fu 
occupata  da’ Franciosi  : i quali  mossi  o 
da  necessità,  o dalla  dolcezza  dei  frutti, 
e massime  del  viuo,  vennono  in  Italia 
sotto  Bellovcso  loro  duce;  e rotti  e cac- 
ciati i provinciali,  si  posono  in  quel 
luogo,  dove  edificarono  di  molte  cittadi, 
e quella  provincia  chiamarono  Gallia, 
dal  nome  che  tenevano  allora  ; la  quale 
tennono  fino  che  da’  Romani  fussero 
domi.  Vivevano,  adunque,  i Toscani  con 
quella  equalità , e procedevano  nello 
ampliare  in  quel  primo  modo  che  di 
sopra  si  dice:  e furono  dodici  città,  tra 
le  quali  era  Chiusi,  Yeio,  Fiesole,  Arez- 
zo, Volterra,  e simili:  i quali  per  via 
di  lega  governavano  lo  imperio  loro; 
nè  poterono  uscir  d’Italia  con  gli  acqui- 
sti ; e di  quella  ancora  rimase  intatta 
gran  parte,  per  le  cagioni  che  di  sotto 
51  \Chutei  Li,  Discorsi.  — t.  22 


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33S  DEI  DISCORSI 

si  diranno.  V altro  modo  è farsi  com- 
pagni j non  tanto  però  che  non  ti  ri- 
manga il  grado  del  comandare,  la  sedia 
dello  imperio  ed  il  titolo  delle  imprese  : 
il  quale  modo  fu  osservato  da’  Romani. 
11  terzo  modo  è farsi  immediate  sud- 
diti, e non  compagni;  come  fecero  gli 
Spartani  e gli  Ateniesi.  De'  quali  tre 
modi,  questo  ultimo  è al  tutto  inutile; 
come  c’  si  vide  che  fu  nelle  sopraddette 
due  repubbliche:  le  quali  non  rovina- 
rono per  altro,  se  non  per  avere  acqui- 
stato quel  dominio  che  le  non  potevano 
tenere.  Perchè,  pigliar  cura  di  avere  a 
governare  città  con  violenza,  massime 
quelle  che  tassino  consuete  a viver  li- 
bere, è una  cosa  diffìcile  e faticosa.  E 
se  tu  non  sei  armato  e grosso  d’  armi, 
non  le  puoi  nè  comandare  nè  reggere. 
Ed  a voler  esser  così  fatto,  è necessa- 
rio farsi  compagni  che  ti  aiutino  in- 
grossare la  tua  città  di  popolo.  E per- 
chè queste  due  città  non  feciono  nè 
1’  uno  nè  I’  altro,  il  modo  del  procedere 


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LIBRO  SECONDO. 


339 

loro  fu  inutile.  E perché  Roma,  la  quale 
è nello  esempio  del  secondo  modo,  fece 
l’uno  e T altro;  però  salse  a tanta  ec- 
cessiva potenza.  E perchè  la  è stata  sola 
a vivere  cosi,  è stata  ancora  sola  a di- 
ventar tanto  potente  : perchè,  avendosi 
ella  fatti  di  molti  compagni  per  tutta 
Italia,  i quali  in  di  molte  cose  con  eguali 
leggi  vivevano  seco;  e dall’ altro  canto» 
come  di  sopra  è detto,  sendosi  riser- 
vato sempre  la  sedia  dello  imperio  ed 
il  titolo  del  comandare;  questi  suoi  com- 
pagni venivano,  che  non  se  ne  avvede- 
vano, con  le  fatiche  e con  il  sangue 
loro  a soggiogar  sè  stessi.  Perchè,  co- 
me cominciorono  a uscire  con  gli  eser- 
citi di  Italia,  e ridurre  i regni  in  pro- 
vincie,  e farsi  soggetti  coloro  che  per 
esser  consueti  a vivere  sotto  i Re,  non 
si  curavano  d*  esser  soggetti;  ed  avendo 
governadori  romani,  ed  essendo  stati 
vinti  da  eserciti  con  ii  titolo  romano  ; 
non  riconoscevano  per  superiore  altro 
che  Roma.  Di  modo  che  quelli  compa- 


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DEI  DISCORSI 


340 

gni  di  Roma  che  erano  in  Italia,  si  tro- 
varono in  un  tratto  cinti  da’  sudditi 
romani,  cd  oppressi  da  una  grossissima 
città  come  era  Roma  ; e quando  e’  si 
avviddono  dello  inganno  sotto  i!  quale 
erano  vissuti,  non  furono  a tempo  a 
rimediarvi:  tanta  autorità  aveva  presa 
Roma  con  le  provincie  esterne,  e tanta 
forza  si  trovava  in  seno,  avendo  la  sua 
città  grossissima  ed  armatissima.  E ben- 
ché quelli  suoi  compagni,  per  vendicarsi 
delle  ingiurie,  gli  congiurassino  contea, 
furono  in  poco  tempo  perditori  della 
guerra,  peggiorando  le  loro  condizioni; 
perchè  di  compagni,  diventarono  anco- 
ra loro  sudditi.  Questo  modo  di  pro- 
cedere, come  è detto,  è stato  solo  os- 
servato da’  Romani:  nè  può  tenere  altro 
modo  una  repubblica  che  voglia  am- 
pliare; perchè  la  esperienza  non  te  ne 
ha  mostro  nessuno  più  certo  o più 
vero.  11  modo  preallegato  delle  leghe, 
come  viverono  i Toscani,  gii  Achei  e 
gli  Etoli,  e come  oggi  vivono  i Sviz- 


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LIBRO  -SECONDO 


341 


zeri,  è dopo  a quello  de’  Romani  il 
miglior  modo;  perchè  non  si  potendo 
con  quello  ampliare  assai,  ne  seguitano 
duoi  beni:  l’  uno,  che  facilmente  non  ti 
tiri  guerra  addosso;  l’altro,  che  quel 
tanto  che  tu  pigli,  lo  tieni  facilmente. 
La  cagione  del  non  potere  ampliare,  è 
lo  essere  una  repubblica  disgiunta,  e 
posta  in  varie  sedi:  il  che  fa  che  diffi- 
cilmente possono  consultare  e deliberare. 
Fa  ancora  che  non  sono  desiderosi  di 
dominare:  perchè  essendo  molte  comu- 
nità a*  participarc  di  quel  dominio,  non 
istimano  tanto  tale  acquisto,  quanto  fa 
una  repubblica  sola,  che  spera  di  go- 
derselo tutto.  Governansi,  oltra  di  que- 
sto, per  concilio,  c conviene  che  siano 
più  tardi  ad  ogni  deliberazione,  che 
quelli  che  abitano  dentro  ad  un  mede- 
simo cerchio.  Vedesi  ancora  per  espe- 
rienza, che  simile  modo  di  procedere  ha 
un  termine  fisso,  il  quale  non  ci  è esem- 
pio che  mostri  che  si  sia  trapassato:  e 
questo  è di  aggiugnere  a dodici  o quat- 


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342 


DEI  DISCORSI 


tordici  comunità  ; dipoi  non  cercare 
di  andare  più  avanti  : percliè  sendo 
giunti  al  grado  che  par  loro  potersi  di- 
fendere da  ciascuno,  non  cercano  mag- 
giore dominio  ; sì  perchè  la  necessità 
non  gli  stringe  di  avere  piò  potenza; 
si  per  non  conoscere  utile  negli  acqui- 
sti, per  le  cagioni  dette  di  sopra.  Per- 
chè gli  arebbono  a fare  una  delle  due 
cose;  o seguitare  di  farsi  compagni,  e 
questa  moltitudine  farebbe  confusione; 
o gli  arebbono  a farsi  sudditi  : e per- 
chè e’  veggono  in  questo  difficultà,  e 
non  molto  utile  nel  tenergli,  non  lo  sti- 
mano. Pertanto,  quando  e’  sono  venuti 
a tanto  numero  che  paia  loro  vivere 
sicuri,  si  voltano  a due  cose:  P una  a 
ricevere  raccomandati,  e pigliare  pro- 
tezioni ; c per  questi  mezzi  trarre  da 
ogni  parte  danari,  i quali  facilmente 
intra  loro  si  possono  distribuire:  1*  al- 
tra è militare  per  altrui,  e pigliar  sti- 
pendio da  questo  e da  quello  principe 
che  per  sue  imprese  gli  soldo  ; come  si 


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LIBRO  SECONDO.  ÓA'Ò 

vede  che  fanno  oggi  i Svizzeri,  e come 
si  legge  che  facevano  i preallegati.  Di 
che  il*  è testimone  Tito  Livio,  dove  dice 
che,  venendo  a parlamento  Filippo  re 
di  Macedonia  con  Tito  Quinzio  Flammi- 
nio,  e ragionando  d'accordo  alla  pre- 
senza d’  un  pretore  degli  Etoli  ; in  ve- 
nendo a parole  detto  pretore  con  Filip- 
po, gli  fu  da  quello  rimproverato  la 
avarizia  e la  infidelità,  dicendo  che  gli 
Etoli  non  si  vergognavano  militare  con 
uno,  e poi  mandare  loro  uomini  ancora 
al  servigio  del  nimico  ; talché  molte 
volte  intra  dnoi  contrari  eserciti  si  ve- 
devano le  insegne  di  Etolia.  Conoscesi, 
pertanto,  come  questo  modo  di  proce- 
dere per  leghe,  è stato  sempre  simile, 
ed  ha  fatto  simili  effetti.  Vedesi  ancora, 
che  quel  modo  di  fare  sudditi  è stato 
sempre  debole,  ed  avere  fatto  piccoli 
profitti;  e quando  pure  egli  hanno  pas- 
sato il  modo,  essere  rovinati  tosto.  E se 
questo  modo  di  fare  sudditi  è inutile 
nelle  repubbliche  armate,  in  quelle  che 


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34  Ì-  DEI  DISCORSI 

sono  disarmate  è inutilissimo:  come  sono 
state  ne’  nostri  tempi  le  repubbliche  di 
Italia.  Conoseesi,  pertanto,  essere  vero 
modo  quello  che  tennono  i Romani  5 il 
quale  è tanto  più  mirabile,  quanto  e’  non 
ee  il’  era  innanzi  a Roma  essempio,  e do- 
po Roma  non  è stalo  alcuno  elio  gli 
abbi  imitati.  E quanto  alle  leghe,  si 
trovano  solo  i Svizzeri  e la  lega  di  Sve- 
via  che  gli  imita.  E,  come  nel  fine  di 
questa  materia  si  dirà,  tanti  ordini  os- 
servati da  Roma,  così  pertinenti  alle 
cose  di  dentro  come  a quelle  di  fuora, 
non  sono  ne*  presenti  nostri  tempi  non 
solamente  imitati,  ma  non  n’è  tenuto 
alcuno  conto  ; giudicandoli  alcuni  non 
veri,  alcuni  impossibili,  alcuni  non  a 
proposito  ed  inutili  : tanto  che  standoci 
con  questa  ignoranza,  siamo  preda  di 
qualunque  ha  voluto  correre  questa  pro- 
vincia. E quando  la  imitazione  de’  Ro- 
mani paresse  difficile,  non  doverrebhe 
parere  cosi  quella  degli  antichi  Toscani, 
massime  a’  presenti  Toscani.  Perchè,  se 


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•A-- 


LIBRO  SECONDO. 


•345 


quelli  non  poterono,  per  le  cagioni  dette, 
fare  uno  imperio  simile  a quel  di  Roma, 
poterono  acquistare  in  Italia  quella  po- 
tenza che  quel  modo  del  procedere  con- 
cesse loro.  11  che  fu  per  un  gran  tempo 
securo,  con  somma  gloria  d’ imperio  e 
d’arme,  e massima  laude  di  costumi  e 
di  religione.  La  qual  potenza  e gloria 
fu  prima  diminuita  da’  Franciosi,  dipoi 
spenta  da’ Romani;  e fu  tanto  spenta, 
che,  ancora  che  duemila  anni  fa  la  po- 
tenza de’  Toscani  fusse  grande,  al  pre- 
sente non  ce  n’  è quasi  memoria.  La 
qual  cosa  mi  ha  fatto  pensare  donde 
nasca  questa  oblivione  delle  cose:  come  ' 
nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. 

Gap.  V.  — Che  la  variazione  delle  sèlle 
e delle  lingue insieme  con  l'acci- 
dente de'  diluvi  o delle  pesti  j spegno 
- la  memoria  delle  cose. 

A quelli  filosofi  che  hanno  voluto  che’l 
mondo  sia  stato  eterno,  credo  che  si 


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346  dei  discorsi 

potesse  reificare,  che  se  tanta  antichità 
fusse  vera,  e’ sarebbe  ragionevole  che 
ci  fusse  memoria  di  più  che  cinque 
mila  anni;  quando  e’  non  si  vedesse  co- 
me queste  memorie  de*  tempi  per  di- 
verse cagioni  si  spengano:  delle  quali 
parte  vengono  dagli  nomini,  parte  dal 
cielo.  Quelle  che  vengono  dagli  uomini, 
sono  le  variazioni  delle  sètte  e delle 
lingue.  Perchè  quando  surge  una  setta 
nuova,  cioè  una  religione  nuova,  il  pri- 
mo studio  suo  è,  per  darsi  reputazione, 
estinguere  la  vecchia;  e quando  egli  oc- 
corre che  gli  ordinatori  delia  nuova 
setta  siano  di  lingua  diversa,  la  spen- 
gono facilmente.  La  qual  cosa  si  cono- 
sce considerando  i modi  che  ha  tenuti 
la  religione  cristiana  contra  alla  setta 
gentile;  la  quale  ha  cancellati  tutti  gli 
ordini,  tutte  le  ceremonie  di  quella,  e 
spenta  ogni  memoria  di  quella  antica 
teologia.  Vero  è che  non  gli  è riuscito 
spegnere  in  tutto  la  notizia  delle  cose 
fatte  dagli  uomini  eccellenti  di  quella  : 


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LIBRO  SECONDO. 


347 

il  die  è nato  per  avere  quella  mante- 
nuta la  lingua  latina  ; il  che  fecero 
forzatamente,  avendo  a scrivere  questa 
legge  nuova  con  essa.  Perchè,  se  V aves- 
sino potuta  scrivere  con  nuova  lingua, 
considerato  le  altre  persecuzioni  gli  fe- 
ciono,  non  ci  sarebbe  ricordo  alcuno 
delle  cose  passate.  E chi  legge  i modi 
tenuti  da  san  Gregorio  e dagli  altri 
capi  della  religione  cristiana,  vedrà  con 
quanta  ostinazione  e’  perseguitarono 
tutte  le  memorie  antiche,  ardendo  P o- 
pere  de*  poeti  e delli  istorici,  minando 
le  immagini,  e guastando  ogni  altra  cosa 
che  rendesse  alcun  segno  della  antichità. 
Talché,  se  a questa  persecuzione  egli 
avessino  aggiunto  una  nuova  lingua,  si 
sarebbe  veduto  in  brevissimo  tempo 
ogni  cosa  dimenticare.  È da  credere, 
pertanto,  che  quello  che  ha  voluto  fare 
la  religione  cristiana  contra  alla  setta 
gentile,  la  gentile  abbi  fatto  contra  u 
quella  che  era  innanzi  a lei.  E perchè 
queste  sètte  in  cinque  o in  seimila  anni 


✓ 


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348 


DEI  DISCORSI 


variarono  due  o tre  volle,  si  perdè  in 
memoria  delle  cose  fatte  innanzi  a quel 
tempo.  E se  pure  ne  resta  alcun  segno, 
si  considera  come  cosa  favolosa,  e non 
è prestato  loro  fede  : come  interviene 
alla  istoria  di  Diodoro  Siculo,  che  ben- 
ché e’  renda  ragione  di  quaranta  o cin- 
quanta mila  anni,  nondimeno  è riputata, 
come  io  credo  che  sia,  cosa  mendace. 
Q uanto  alle  cause  che  vengono  dal  cie- 
lo, sono  quelle  che  spengono  la  umana 
generazione,  e riducono  a pochi  gli  abi- 
tatori di  parte  del  mondo.  E questo 
viene  o per  peste  o per  fame  o per  una 
inondazione  d*  acque  : e la  più  impor- 
tante è questa  ultima,  sì  perchè  la  è 
più  universale,  sì  perchè  quelli  che  si 
salvano  sono  uomini  tutti  montanari  e 
rozzi,  i quali  non  avendo  notizia  di  al- 
cuna antichità,  non  la  possono  lasciare 
a’  posteri.  E se  infra  loro  si  salvasse 
alcuno  che  ne  avesse  notizia,  per  farsi 
riputazione  e nome,  la  nasconde,  e la 
perverte  a suo  modo  ; talché  ne  resta 


V 


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LIBRO  SECONDO. 


349 

solo  a*  successori  quanto  ei  ne  ha  vo- 
luto scrivere,  e non  altro.  E che  queste 
inondazioni,  pesti  e fami  venghino,  non 
credo  sia  da  dubitarne;  sì  perchè  ne 
sono  piene  tutte  le  istorie,  sì  perchè  si 
vede  questo  effetto  della  oblivione  delle 
cose,  sì  perchè  e’  pare  ragionevole  che 
sia:  perchè  la  natura,  come  ne’ corpi 
semplici,  quando  vi  è ragunato  assai 
materia  superflua,  muove  per  sè  mede- 
sima molte  volte,  e fa  una  purgazione, 
la  quale  è salute  di  quel  corpo  ; così 
interviene  in  questo  corpo  misto  della 
umana  generazione,  che  quando  tutte  le 
provincie  sono  ripiene  di  abitatori,  in 
modo  che  non  possono  vivere,  nè  pos- 
sono andare  altrove,  per  esser  occupati 
e pieni  tutti  i luoghi;  e quando  la  astu- 
zia e malignità  umana  è venuta  dove 
la  può  venire,  conviene  di  necessità  che 
il  mondo  si  purghi  per  uno  de’  tre  mo- 
di ; acciocché  gli  uomini  essendo  dive- 
nuti pochi  e battuti,  vivano  più  como- 
damente, e diventino  migliori.  Era 


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350  DEI  DISCORSI  ' 

adunque,  come  di  sopra  è detto,  già  tu 
Toscana  potente,  piena  di  religione  e 
di  virtù  ; aveva  i suoi  costumi  e la  sua 
lingua  patria:  il  che  tutto  è stato  spento 
dalla  potenza  romana.  Talché,  come  si 
è detto,  di  lei  ne  rimane  solo  la  memo- 
ria del  nome. 

Cap.  Vi.  — Come  i Romani  procedevano 
nel  fare  la  guerra. 

I 4 

Avendo  discorso  come  i Romani  pro- 
cedevano nello  ampliare,  discorreremo 
ora  come  e’  procedevano  nel  fare  la 
guerra  ; ed  in  ogni  loro  azione  si  ve- 
drà con  quanta  prudenza  ei  diviarono 
dal  modo  universale  degli  altri,  per  fa- 
cilitarsi la  via  a venire  a una  suprema 
grandezza.  La  intenzione  di  chi  fa 
guerra  per  elezione,  o vero  per  ambi- 
zione, è acquistare  e mantenere  lo  acqui- 
stato; e procedere  in  modo  con  esso, 
che  I’  arricchisca  c non  impoverisca  il 
paese  e la  patria  sua.  È necessario  dun- 


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«■ i 


LIBRO  SECONDO.  351 

quc,  e nello  acquistare  e nel  mantene- 
re,  pensare  di  non  spendere;  anzi  far 
ogni  cosa  con  utilità  del  pubblico  suo. 
Chi  vuol  fare  tutte  queste  cose,  convie- 
ne che  tenga  lo  stile  e modo  romano: 
il  quale  fu  in  prima  di  fare  le  guerre, 
come  dicono  i Franciosi,  corte  e gros- 
se; perchè,  venendo  in  campagna  con 
eserciti  grossi,  tutte  le  guerre  eh’  egli 
ebbono  co’  Latini,  Sanniti  e Toscani  le 
espedirono  in  brevissimo  tempo.  E se 
si  noteranno  tutte  quelle  che  feciono  dal 
principio  di  Roma  infino  alla  ossidione 
de’  Yeienti,  tutte  si  vedranno  espedite, 
quale  in  sei,  quale  in  dieci,  quale  in 
venti  di.  Perchè  l’uso  loro  era  questo: 
subito  che  era  scoperta  la  guerra,  egli 
uscivano  fuori  con  gli  eserciti  all’  in- 
contro del  nimico,  e subito  facevano  la 
giornata.  La  quale  vinta,  i nimici,  per- 
chè non  fussc  guasto  loro  il  contado 
affatto,  venivano  alle  condizioni;  ed  i 
Romani  gli  condennavano  in  terreni:  i 
quali  terreni  gli  convertivano  in  privati 


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35  2 


DEI  DISCORSI 


comodi,  o gli  consegnavano  ad  una  co- 
lonia; la  quale  posta  in  su  le  frontiere 
di  coloro,  veniva  ad  esser  guardia  de’  con- 
fini romani,  con  utile  di  essi  coloni,  che 
avevano  quelli  campi,  e con  utile  del 
pubblico  di  Roma,  che  senza  spesa  te- 
neva quella  guardia.  Nè  poteva  questo 
modo  esser  più  seeuro,  o più  forte,  o 
piu  utile:  perchè  mentre  che  i nimici 
non  erano  in  su  i campi,  quella  guar- 
dia bastava  : come  e’ fussino  usciti  fuori 
grossi  per  opprimere  quella  colonia, 
ancora  i Romani  uscivano  fuori  grossi, 
e venivano  a giornata  con  quelli;  e fatta 
e vinta  la  giornata,  imponendo  loro  più 
gravi  condizioni,  si  tornavano  in  casa. 
Così  venivano  ad  acquistare  di  mano 
in  mano  riputazione  sopra  di  loro,  e 
forze  in  sè  medesimi.  E questo  modo 
vennono  tenendo  infino  che  mutorno 
modo  di  procedere  in  guerra:  il  che  fu 
dopo  la  ossidione  de’  Veienti  ; dove,  pei* 
potere  fare  guerra  lungamente,  gli  or- 
dinarono di  pagare  i soldati,  che  pri- 


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LIBRO  SECONDO. 


353 

ma,  per  non  essere  necessario,  essendo 
le  guerre  brevi,  non  gli  pagavano.  E 
benché  i Rotflani  dessino  il  soldo,  e che 
per  virtù  di  questo  ei  potessino  fare  le 
guerre  più  lunghe,  e per  farle  più  di- 
scosto la  necessità  gli  tenesse  più  in 
su’  campi  ; nondimeno  non  variarono 
mai  dal  primo  ordine  di  finirle  presto, 
secondo  il  luogo  ed  il  tempo;  nè  varia- 
rono mai  dal  mandare  le  colonie.  Per- 
chè nel  primo  ordine  gli  tenne,  circa 
il  fare  le  guerre  brevi,  olirà  il  loro  na- 
turale uso,  T ambizione  de’  Consoli  ; i 
quali  avendo  a stare  un  anno,  e di 
quello  anno  sei  mesi  alle  stanze,  vole- 
vano finire  la  guerra  per  trionfare.  Nel 
mandare  le  colonie,  gli  tenne  1’  utile  e 
la  comodità  grande  che  ne  risultava. 
Variarono  bene  alquanto  circa  le  prede, 
delie  quali  non  erano  cosi  liberali  come 
erano  stati  prima  ; sì  perchè  e*  non  pa- 
reva loro  tanto  necessario,  avendo  i sol- 
dati lo  stipendio;  sì  perchè  essendo  le 
prede  maggiori,  disegnavano  d*  ingras- 
Macbiatelli,  Discorsi.  — 1.  23 


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DEI  DISCORSI 


'ÒÒ  ì 

saie  di  quelle  in  modo  il  pubblico,  che 
non  lussino  constretti  a fare  le  imprese 
con  tributi  della  città.  li  * quale  ordine 
in  poco  tempo  fece  il  loro  erario  ric- 
chissimo. Questi  duoi  modi,  adunque,  e 
circa  il  distribuire  la  preda,  e circa  il 
mandar  le  colonie,  feciono  che  Roma  ar- 
ricchiva della  guerra  j dove  gli  altri 
principi  e repubbliche  non  savie  ne 
impoveriscono.  E ridusse  la  cosa  in  ter- 
mine, che  ad  un  Consolo  non  pareva 
poter  trionfare,  se  non  portava  col  suo 
trionfo  assai  oro  ed  argento,  e d’ ogni 
altra  sorte  preda,  nello  erario.  Cosi  i 
Romani  con  i soprascritti  termini,  e coti 
il  finire  le  guerre  presto,  sendo  con- 
tenti con  lunghezza  straccare  i nemici, 
e con  rotte  e con  le  scorrerie  e con 
accordi  a loro  avvantaggi,  diventarono 
sempre  più  ricchi  e più  potenti. 


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LIBRO  SECOXDO. 


855 


Cap.  VII  — Quanto  terreno  i Romani 
davano  per  colono. 

Quanto  terreno  i Romani  distribuii- 
sino  per  colono,  credo  sia  molto  diffìcile 
trovarne  la  verità.  Perchè  io  credo  ne 
dessino  più  o manco,  secondo  i luoghi 
dove  e*  mandavano  le  colonie.  E giudi- 
casi che  ad  ogni  modo  ed  in  ogni  luogo 
la  distribuzione  fusse  parca  : prima,  per 
poter  mandare  più  uomini,  sendo  quelli 
diputati  per  guardia  di  quel  paese;  di- 
poi perchè  vivendo  loro  poveri  a caso, 
non  era  ragionevole  che  volessino  che  I 
loro  uomini  abbondassino  troppo  fuo- 
ra.  E Tito  Livio  dice,  come  preso  Veio 
e’  vi  mandorno  una  colonia,  e distribui- 
rono a ciascuno  tre  iugeri  e sette  once 
di  terra;  che  sono  al  modo  nostro  . . 

Perchè,  oltre  alle  cose 

soprascritte,  e’  giudicavano  che  non  lo 
assai  terreno,  ma  il  bene  coltivato  ba- 
stasse. È necessario  bene,  che  tutta  la 


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DEI  DISCORSI 


356 

colonia  abbi  campi  pubblici  dove  cia- 
scuno possa  pascere  il  suo  bestiame,  e 
selve  dove  prendere  del  legname  per  ar- 
dere ; senza  le  quali  cose  non  può  una 
colonia  ordinarsi. 

Gap.  Vili.  — La  cagione  perchè  i po- 
poli si  partono  da * luoghi  patriij  cd 
inondano  il  paese  altrui. 

Poiché  di  sopra  si  è ragionato  del 
modo  nel  procedere  della  guerra  osser- 
vato da’  Romani,  c come  i Toscani  fu- 
rono assaltati  da*  Franciosi  ; non  mi  pare 
alieno  dalla  materia  discorrere,  come  e’  si 
fanno  di  due  generazioni  guerre.  L’una 
è fatta  per  ambizione  de*  principi  o delle 
repubbliche,  che  cercano  di  propagare 
lo  imperio;  come  furono  le  guerre  che 
fece  Alessandro  Magno,  e quelle  che  fe- 
ciono  i Romani,  e quelle  che  fanno  cia- 
scuno di,  1*  una  potenza  con  F altra.  Le 
quali  guerre  sono  pericolose,  ma  non 
cacciano  al  tutto  gli  abitatori  d*  una  pro- 


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LIBRO  SECONDO. 


357 


vincia  ; perchè  e’  basta  al  vincitore  solo 
la  ubbidienza  de’  popoli,  e il  più  delle 
volte  gli  lascia  vivere  con  le  loro  leggi, 
e sempre  con  le  loro  case,  e ne’  loro 
beni.  L’altra  generazione  di  guerra  è, 
quando  un  popolo  intero  con  tutte  le 
sue  famiglie  si  beva  d’  uno  luogo,  ne- 
cessitato o dalla  fame  o dalla  guerra,  e 
va  a cercare  nuova  sede  e nuova  pro- 
vincia; non  per  comandarla,  come  quelli 
di  sopra,  ma  per  possederla  tutta  par- 
ticolarmente, e cacciarne  o ammazzare 
gli  abitatori  antichi  di  quella.  Questa 
guerra  è crudelissima  e paventosissima. 
E di  queste  guerre  ragiona  Salustio  nel 
fine  dell’  Iugurtiuo,  quando  dice  che  vinto 
lugurta,  si  senti  il  moto  de’  Franciosi  che 
venivano  in  Italia  : dove  e’  dice  che  ’l 
Popolo  romano  con  tutte  le  altre  genti 
combattè  solamente  per  chi  dovesse  co- 
mandare, ma  con  i Franciosi  si  com- 
battè sempre  per  la  salute  di  ciascuno. 
Perchè  ad  un  principe  o una  repub- 
blica che  assalta  una  provincia,  basta 


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358 


DEI  DISCORSI 


spegnere  solo  coloro  che  comandano  ; ma 
a queste  popolazioni  conviene  spegnere 
ciascuno,  perchè  vogliono  vivere  di  quel- 
lo che  altri  viveva.  I Romani  ebbero  tre 
di  queste  guerre  pericolosissime.  La  prima 
fu  quella  quando  Roma  fu  presa,  la  quale 
fu  occupata  da  quei  Franciosi  che  ave- 
vano tolto,  come  di  sopra  si  disse,  la 
Lombardia  a’ Toscani,  e fattone  loro  se- 
dia; della  quale  Tito  Livio  ne  allega  due 
cagioni:  la  prima,  come  di  sopra  si  dis- 
se, che  furono  allettati  dalla  dolcezza 
delle  frutte,  c del  vino  di  Italia,  delle 
quali  mancavano  in  Francia;  la  secon- 
da che,  essendo  quel  regno  francioso 
moltiplicato  in  tanto  di  uomini,  che  non 
vi  si  potevano  più  nutrire,  giudicarono 
i principi  di  quelli  luoghi,  che  fusse  ne- 
cessario che  una  parte  di  loro  andasse 
a cercare  nuova  terra;  e fatta  tale  de- 
liberazione, elcssono  per  capitani  di 
quelli  che  si  avevano  a partire,  Bello- 
veso  e Sicoveso,  duoi  re  de’  Franciosi  : 
de’  quali  Belloveso  venne  in  Italia,  e Si» 


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LIBRO  SECONDO. 


359 


coveso  passò  in  Ispagna.  Dalla  passata 
del  quale  Belloveso,  nacque  la  occupa- 
zione di  Lombardia,  c quindi  la  guerra 
che  prima  i Franciosi  fecero  a Roma. 
Dopo  questa,  fu  quella  che  fecero  dopo 
la  prima  guerra  cartaginese,  quando  tra 
Piombino  e Pisa  ammazzarono  più  che 
dugentomila  Franciosi.  La  terza  fu  quando 
i Todeschi  e Cimbri  vennero  in  Italia  : 
i quali  avendo  vinti  più  eserciti  romani, 
furono  vinti  da  Mario.  Vinsero  adunque 
i Romani  queste  tre  guerre  pericolosis- 
sime. Ne  era  necessario  minore  virtù  a 
vincerle;  perchè  si  vede  poi,  come  la 
virtù  romana  mancò,  e che  quelle  arme 
perderono  il  loro  antico  valore,  fu  quello 
imperio  distrutto  da  simili  popoli  : i quali 
furono  Goti,  Vandali  c simili,  che  oc- 
cuparono tutto  lo  imperio  occidentale. 
Escono  tali  popoli  de*  paesi  loro,  rome 
di  sopra  si  disse,  cacciati  dalla  neces- 
sitò: e la  necessitò  nasce  o dalla  fame, 
o da  una  guerra  ed  oppressione  clic 
ne’ paesi  propri  è loro  fatta;  talché  e’ 


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•360  DEI  DISCORSI 

sono  constretti  cercare  nuove  terre.  E 
questi  tali,  o e’  sono  grande  numero  ; 
ed  allora  con  violenza  entrano  ne'  paesi 
altrui,  ammazzano  gli  abitatori,  posseg- 
gono i loro  beni,  fanno  uno  nuovo  re- 
gno, mutano  il  nome  della  provincia: 
come  fece  Moisè,  e quelli  popoli  che  oc- 
cuparono lo  imperio  romano.  Perchè  que- 
sti nomi  nuovi  che  sono  nella  Italia  e nelle 
altre  provincie,  non  nascono  da  altro  che 
da  essere  state  nomate  così  da’  nuovi 
occupatoci  : come  è la  Lombardia,  che 
si  chiamava  Gallia  Cisalpina:  la  Francia 
si  chiamava  Gallia  Transalpina,  ed  ora 
è nominata  da’  Franchi,  chè  cosi  si  chia- 
mavano quelli  popoli  che  la  occuparono: 
la  Schiavoniu  si  chiamava  Illiria,  l’Un- 
gheria Pannonia;  l’Inghilterra  Britan- 
nia:  c molte  altre  provincie  che  hanno 
mutato  nome,  le  quali  sarebbe  tedioso 
raccontare.  Moisè  ancora  chiamò  Giudea 
quella  parte  di  Soria  occupata  da  lui. 
E perchè  io  ho  detto  di  sopra,  che  qual- 
che volta  tali  popoli  sono  cacciati  della 


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LIBRO  SECOSDO. 


361 

propria  sede  per  guerra,  donde  -sono 
constretti  cercare  nuove  terre;  ne  vo- 
glio addurre  lo  essempio  de’  Maurusii, 
popoli  anticamente  in  Soria  : i quali,  sen- 
- tendo  venire  i popoli  ebraici,  e giudi- 
cando non  poter  loro  resistere,  pensarono 
essere  meglio  salvare  loro  medesimi,  t* 
lasciare  il  paese  proprio,  che  per  volere 
salvare  quello,  perdere  ancora  loro;  e 
levatisi  con  loro  famiglie,  se  ne  anda- 
rono in  Affrica,  dove  posero  la  loro  se- 
dia, cacciando  via  quelli  abitatori  che  in 
quelli  luoghi  trovarono.  G così  quelli  che 
non  avevano  potuto  difendere  il  loro 
paese,  poterono  occupare  quello  d’  altrui. 
E Procopio,  che  scrive  la  guerra  che 
fece  Bellisario  co’ Vandali  occupatori  della 
Affrica,  riferisce  aver  letto  lettere  scritte 
in  certe  colonne  ne’  luoghi  dove  questi 
Maurusii  abitavano,  le  quali  dicevano  : 
S os  Maurusii , qui  fugimus  a facie  Jesu 
latronis  filii  flava.  Dove  apparisce  In 
cagione  della  partita  loro  di  Soria.  Sono, 
pertanto,  questi  popoli  formidolosissimi, 


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362 


DEI  DISCORSI 


sendo  cacciati  da  una  ultima  necessità  ; 
e s’  egli  non  riscontrano  buone  armi,  non 
saranno  mai  sostenuti.  Ula  quando  quelli 
che  sono  constretti  abbandonare  la  loro 
patria  non  sono  molti,  non  sono  sì  pe- 
ricolosi come  quelli  popoli  di  chi  si  è 
ragionato;  perchè  non  possono  usare 
tanta  violenza,  ma  conviene  loro  con 
arte  occupare  qualche  luogo,  e,  occupa- 
tolo, mantenervisi  per  via  di  amici  e di 
confederali  : come  si  vede  che  fece  Enea, 
Didone,  i Massiliesi  e simili  ; i quali  lutti, 
per  consentimento  de’  vicini,  dove  e’ po- 
sorno,  poterono  mantenervisi.  Escono  i 
popoli  grossi,  e sono  usciti  quasi  tutti 
de’  paesi  di  Scizia  ; luoghi  freddi  e po- 
veri: dove,  per  essere  assai  uomini,  cd 
il  paese  di  qualità  da  non  gli  potere  nu- 
trire, sono  forzati  uscire,  avendo  molte 
cose  che  gli  cacciano,  e nessuna  che  gli 
ritenga.  E se  da  cinquecento  anni  in  qua, 
non  è occorso  che  alcuni  di  questi  po- 
poli abbino  inondato  alcuno  paese,  è nato 
per  più  cagioni.  La  prima,  la  grande 


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LIBRO  SECONDO. 


363 

evacuazione  che  fece  quel  paese  nella 
declinazione  dello  imperio;  donde  usci- 
rono più  di  trenta  popolazioni.  La  se- 
conda è che  la  Magna  e 1’  Ungheria,  donde 
ancora  uscivano  di  queste  genti,  hanno 
ora  il  loro  paese  bonificato  in  modo,  che 
vi  possono  vivere  agiatamente;  talché 
non  sono  necessitati  di  mutare  luogo. 
Dall’  altra  parte,  sendo  loro  uomini  bel- 
licosissimi, sono  come  uno  bastione  a 
tenere  che  gli  Sciti,  i quali  con  loro  con- 
finano, non  presumino  di  potere  vincer- 
gli o passargli.  E spesse  volte  occorrono 
movimenti  grandissimi  da’ Tartari,  che 
sono  dipoi  dagli  Ungheri  e da  quelli  di 
Polonia  sostenuti;  e spesso  si  gloriano, 
che  se  non  fussino  1’  arme  loro,  la  Italia 
e la  Chiesa  arebbe  molle  volle  sentito  il 
peso  degli  eserciti  tartari.  E questo  vo- 
glio basti  quanto  a’  prefati  popoli. 


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364 


DEI  DISCORSI 


Cap.  IX.  — Quali  cagioni  comunemente 
faccino  nascere  le  guerre  intra  i polenti. 

La  cagione  che  fece  nascere  guerra 
intra  i Romani  ed  i Sanniti,  che  erano 
stati  in  lega  gran  tempo,  è una  cagione 
comune  che  nasce  infra  tutti  i princi- 
pati potenti.  La  qual  cagione  o la  viene 
a caso,  o la  è fatta  nascere  da  colui  che 
desidera  muovere  la  guerra.  Quella  che 
nacque  intra  i Romani  ed  i Sanniti,  fu 
a caso;  perchè  la  intenzione  de’ Sanniti 
non  fu,  muovendo  guerra  a’Sidicini,  e 
dipoi  a’  Campani,  muoverla  ai  Romani. 
.\Ia  sendo  i Campani  oppressati,  e ricor- 
rendo a Roma  fuora  della  oppinione 
de’  Romani  e de’  Sanniti,  furono  forzati, 
dandosi  i Campani  ai  Romani,  come  cosa 
loro  difendergli,  e pigliare  quella  guerra 
che  a loro  parve  non  potere  con  loro 
onore  fuggire.  Perchè  e’pareva  benea’Ro- 
mani  ragionevole  non  potere  difendere 
i Campani  come  amici,  eontra  ai  San- 


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LIBRO  SECONDO. 


365 

uiti  amici,  ma  pareva  ben  loro  vergo- 
gna non  gli  difendere  come  sudditi,  ov- 
vero raccomandali;  giudicando,  quando 
e’  non  avessino  presa  tal  difesa,  torre 
la  via  a tutti  quelli  che  disegnassino  ve- 
nire sotto  la  potestà  loro.  Ed  avendo 
Roma  per  fine  lo  imperio  e la  gloria,  e 
non  la  quiete,  non  poteva  ricusare  que- 
sta impresa.  Questa  medesima  cagione 
dette  principio  alla  prima  guerra  conira 
a’  Cartaginesi,  per  la  difensione  che  i 
Romani  presono  de*  Messinesi  in  Sicilia: 
la  quale  fu  ancora  a caso.  Ma  non  fu 
già  a caso  di  poi  la  seconda  guerra  che 
nacque  infra  loro;  perchè  Annibaie  ca- 
pitano Cartaginese  assaltò  i Saguntini 
amici  de’  Romani  in  Ispagna,  non  per 
offendere  quelli,  ma  per  muovere  l’arme 
romane,  ed  avere  occasione  di  combat- 
terli, c passare  in  Italia.  Questo  modo 
nello  appiccare  nuove  guerre  è stato 
sempre  consueto  intra  i potenti,  e che 
si  hanno  e della  fede,  e d’altro,  qual- 
che rispetto.  Perchè,  se  io  voglio  fare 


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DEI  DISCORSI 


366 

guerra  con  uno  principe,  ed  infra  noi 
siano  fermi  capitoli  per  un  gran  tempo 
oservati,  con  altra  giustificazione  e con 
altro  colore  assalterò  io  un  suo  amico 
che  lui  proprio  5 sappiendo  massime,  che 
nello  assaltare  lo  amico,  o ci  si  risen- 
tirà, ed  io  arò  V intento  mio  di  fargli 
guerra  ; o non  si  risentendo,  si  scuo- 
prirà  la  debolezza  o la  infidelità  sua  di 
non  difendere  un  suo  raccomandato.  E 
1’  una  e I'  altra  di  queste  due  cose  è per 
torgli  riputazione,  e per  fare  più  facili 
i disegni  miei.  Debbesi  notare,  adunque, 
e per  la  dedizione  de' Campani,  circa  il 
muovere  guerra,  quanto  di  sopra  si  è 
detto;  e di  più,  qual  rimedio  abbia  una 
città  che  non  si  possa  per  sè  stessa  di- 
fendere, e voglisi  difendere  in  ogni  modo 
da  quel  clic  l'assalta:  il  quale  è darsi 
Uberamente  a quello  che  tu  disegni  che 
ti  difenda;  come  feciono  i Capovani  ai 
Romani,  ed  i Fiorentini  al  ré  Roberto 
di  Napoli  : il  quale  non  gli  volendo  di- 
fendere come  amici,  gli  difese  poi  come 


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LIBRO  SECONDO.  367 

sudditi  contra  alle  forze  di  Castruceio 
da  Lucca,  die  gli  opprimeva. 

CàP.  X.  — I danari  non  sono  il  nervo 
della  guerra j secondo  che  è la  comune 
oppi  ninne. 

Perchè  ciascuno  può  cominciare  una 
guerra  a sua  posta,  ma  non  finirla,  debbe 
uno  principe,  avanti  che  prenda  una  im- 
presa, misurare  le  forze  sue,  e secondo 
quelle  governarsi.  Ma  debbe  avere  tanta 
prudenza,  che  delle  sue  forze  ei  non 
s’inganni;  ed  ogni  volta  s’ingannerà, 
quando  le  misuri  o dai  danari,  o dal 
sito,  o dalla  benivoienza  degli  uomini, 
mancando  dall’  altra  parte  d’  arme  pro- 
prie. Perchè  le  cose  predette  ti  accre- 
scono bene  le  forze,  ma  le  non  te  ne 
danno  ; e per  sè  medesime  sono  nulla  ; 
e non  giovano  alcuna  cosa  senza  l’arme 
fedeli.  Perchè  i danari  assai,  non  ti  ba- 
stano senza  quelle;  non  ti  giova  la  for- 
tezza de!  paese;  e la  fede ‘e  benivoienza 


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365> 


DE!  DISCORSI 


degli  uomini  non  dura,  perchè  questi 
non  ti  possono  essere  fedeli,  non  gli  po- 
tendo difendere.  Ogni  monte,  ogni  lago, 
ogni  luogo  inaccessibile  diventa  piano, 
dove  i forti  difensori  mancano.  I danari 
ancora  non  solo  non  ti  difendono,  ina 
ti  fanno  predare  più  presto.  Nè  può  es- 
sere più  falsa  quella  comune  oppinione 
che  dice  che  i danari  sono  il  nervo  della 
guerra.  La  quale  sentenza  è detta  da 
Quinto  Curzio  nella  guerra  che  fu  in- 
tra A'ntipatro  macedone  c il  re  spartano: 
dove  narra,  che  per  difetto  di  danari  il 
re  di  Sparta  fu  necessitato  azzuffarsi, 
e fu  rotto;  che  se  ei  differiva  la  zuffa 
pochi  giorni,  veniva  la  nuova  in  Grecia 
della  morte  di  Alessandro,  donde  e*  sa- 
rebbe rimaso  vincitore  senza  combattere. 
Ma  mancandogli  i danari,  e dubitando 
che  lo  esercito  suo  per  difetto  di  quelli 
non  Io  abbandonasse,  fu  constretto  ten- 
tare la  fortuna  della  zuffa:  talché  Quinto 
Curzio  per  questa  cagione  afferma,  i da- 
nari essere  il  nervo  della  guerra.  La 


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LIBRO  SECONDO. 


.3  CU 


qual  sentenza  è allegata  ogni  giorno,  v 
da’  principi  non  tanto  prudenti  che  ba- 
sti, seguitata.  Perchè,  fondatisi  sopra 
quella,  credono  che  basti  loro  a difen- 
dersi avere  tesori  assai,  e non  pensano 
che  se  ’1  tesoro  bastasse  a vincere,  che 
Dario  arebbe  vinto  Alessandro,  i Greci 
nrebbon  vinti  i Romani;  ne’ nostri  tempi 
il  duca  Carlo  arebbe  vinti  i Svizzeri; 
e pochi  giorni  sono,  il  Papa  ed  i Fio- 
rentini insieme  non  arebbono  avuta  dif-, 
ficultà  in  vincere  Francesco  Maria,  ni- 
pote di  papa  Giulio  II,  nella  guerra  di 
Urbino.  Ma  tutti  i soprannominali  fu- 
rono vinti  da  coloro  che  non  il  danaro, 
ma  i buoni  soldati  stimano  essere  il  ner- 
vo della  guerra.  Intra  le  altre  cose  che 
Creso  re  di  Lidia  mostrò  a Solone  ate- 
niese, fu  un  tesoro  innumerabile  ; c do- 
mandando quel  che  gli  pareva  della  po- 
tenza sua,  gli  rispose  Solone,  che  per 
quello  non  lo  giudicava  più  potente;  per- 
chè la  guerra  si  faceva  col  ferro  e non 
con  P oro,  e che  poteva  venire  uno  che 

HI  ACHIAVELI.!t  Discorsi.  — 1.  2* 


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370 


DEI  DISCORSI 


avesse  piu  ferro  di  lui,  e torgliene.  Ol- 
ir’ a questo,  quando,  dopo  la  morte  di 
Alessandro  Magno,  una  moltitudine  di 
Franciosi  passò  in  Grecia,  e poi  in  Asia; 
e mandando  i Franciosi  oratori  al  re  di 
Macedonia  per  trattare  certo  accordo  ; 
quel  re,  per  mostrare  la  potenza  sua  e 
per  {sbigottirli,  mostrò  loro  oro  ed  ar- 
gento assai:  donde  quelli  Franciosi  che 
di  già  avevano  come  ferma  la  pace,  la 
j uppono  ; tanto  desiderio  in  loro  crebbe 
di  torgli  quell’oro:  e cosi  fu  quel  re 
spogliato  per  quella  cosa  che  egli  aveva 
per  sua  difesa  accumulata.  1 Yeniziani, 
pochi  anni  sono,  avendo  ancora  lo  era- 
rio loro  pieno  di  tesoro,  perderono  tutto 
lo  Stato,  senza  potere  essere  difesi  da 
quello.  Dico  pertanto,  non  l’ oro,  come 
grida  la  comune  oppinione,  essere  il 
nervo  della  guerra,  ma  i buoni  soldati  : 
perchè  1’  oro  non  è suflìzienle  a trovare 
i buoni  soldati,  ma  i buoni  soldati  son 
ben  sutlìzienti  a trovare  l’ oro.  Ai  Ro- 
mani, s’egli  avessero  voluto  fare  la  guerra 


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LIDHO  SECONDO. 


371 


più  con  i danari  che  con  ii  ferro,  non 
sarebbe  bastato  avere  tutto  il  tesoro  del  . 
mondo,  considerato  le  grandi  imprese 
che  fcciono,  e le  difficoltà  che  vi  ebbono 
dentro.  Ma  facendo  le  loro  guerre  con 
il  ferro,  non  patirono  mai  carestia  del- 
l' oro;  perchè  da  quelli  cheli  temevano 
era  portato  Toro  infino  ne’ campi.  E se 
quel  re  spartano  per  carestia  di  danari 
ebbe  a tentare  la  fortuna  della  /uffa, 
intervenne  a lui  quello,  per  conto  de’da- 
nari,  che  molte  volte  è intervenuto  per 
altre  cagioni;  perchè  si  è veduto  che, 
mancando  ad  uno  esercito  le  vettovaglie, 
ed  essendo  necessitati  o a morire  di 
fame  o azzuffarsi,  si  piglia  il  partito 
sempre  di  azzuffarsi,  per  essere  più  ono* 
revole,  e dove  la  fortuna  ti  può  in  qual- 
che modo  favorire.  Ancora  è interve- 
nuto molte  volte,  che  veggendo  uno 
capitano  al  suo  esercito  nimico  venire 
soccorso,  gli  conviene  o azzuffarsi  con 
quello  e tentare  la  fortuna  della  zuffa  ; 
o aspettando  eh’  egli  ingrossi,  avere  a 


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372 


DEI  DISCORSI 


combattere  in  ogni  modo,  con  mille  suoi 
disavvantaggi.  Ancora  si  è visto  (come 
intervenne  ad  Asdrubale  quando  nella 
Marca  fu  assaltato  da  Claudio  Verone, 
insieme  con  l’altro  Consolo  romano), che 
un  capitano  che  è necessitato  o a fug- 
girsi o a combattere,  come  sempre  elegge 
il  combattere  ; parendogli  in  questo  par- 
tito, ancora  che  dubbiosissimo,  potere 
vincere;  ed  in  quello  altro,  avere  a per- 
dere in  ogni  modo.  Sono,  adunque,  molte 
necessitati  che  fanno  a uno  capitano  fuor 
della  sua  intenzione  pigliare  partito  di 
azzuffarsi;  intra  le  quali  qualche  volta 
può  essere  la  carestia  de’  danari  : nè  per 
questo  si  debbono  i danari  giudicare 
essere  il  nervo  della  guerra,  più  che  le 
altre  cose  che  inducono  gli  uomini  n 
simile  necessità.  Non  è,  adunque,  repli- 
candolo di  nuovo.  1’  oro  il  nervo  della 

» 

guerra;  ma  i buoni  soldati.  Son  bene 
necessari  i danari  in  secondo  luogo,  ina 
è una  necessità  che  i soldati  buoni  per 
sè  medesimi  la  vincono;  perchè  è ini- 


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LIBRO  SECONDO. 


373 

possibile  che  a’  buoni  soldati  manchino 
i danari,  come  che  i denari  pei*  loro 
medesimi  truovino  i buoni  soldati.  Mo- 
stra questo  che  noi  diciamo  essere  vero, 
ogni  istoria  in  mille  luoghi;  non  ostante 
che  Pericle  consigliasse  gli  Ateniesi  a 
fare  guerra  con  tutto  il  Peloponneso, 
mostrando  che  e*  potevano  vincere  quella 
guerra  con  la  industria  e con  la  forza 
del  danaio.  E benché  in  tale  guerra  gli 
Ateniesi  prosperassino  qualche  volta,  in 
ultimo  la  perderono;  e valsoti  più  il  con- 
siglio e gli  buoni  soldati  di  Sparta,  che 
la  industria  ed  il  danaio  di  Atene.  Ma 
Tito  Livio  è di  questa  oppinione  più  vero 
testimone  che  alcuno  altro,  dove  discor- 
rendo se  Alessandro  Magno  fusse  venuto 
in  Italia,  s’ egli  avesse  vinto  i Romani, 
mostra  esser  tre  cose  necessarie  nella 
guerra  ; assai  soldati  e buoni,  capitani 
prudenti,  e buona  fortuna  : dove  esami- 
nando quali  o i Romani  o Alessandro 
prevalessino  in  queste  cose,  fa  dipoi  la 
sua  conclusione  senza  ricordare  mai  i 


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374  DEI  DISCORSI 

danari.  Doverono  i Capovani,  quando 
furono  ricfiiesti  da’  Sidicini  che  prendes- 
sino  T arme  per  loro  contea  ai  Sanniti, 
misurare  la  potenza  loro  dai  danari,  c 
non  dai  soldati:  perchè,  preso  ch’egli 
ebbero  partito  di  aiutarli,  dopo  due  rotte 
furono  constretti  farsi  tributari  de’  Ro- 
mani, se  si  vollono  salvare. 

Cap.  Xf.  — Non  è partito  prudente  fa- 
re amicizia  con  un  principe  che  abbia 
più  oppinionc  che  forze. 

Volendo  Tito  Livio  mostrare  lo  erro- 
re de’  Sidicini  a fidarsi  dello  aiuto 
de’  Campani,  e lo  errore  de’  Campani  a 
credere  potergli  difendere,  non  lo  po- 
trebbe dire  con  più  vive  parole,  dicen- 
do: Campani  magie  nomen  in  auxilium 
Sidicinorunij  quam  vires  ad  prcesidium 
atlulcrunl.  Dove  si  debbe  notare,  che  le 
leghe  si  fanno  co’ principi  che  non  ab- 
bino o comodità  di  aiutarti  per  la  di- 
stanzia del  sito,  o forze  di  farlo  per  suo 


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LIBRO  SECONDO. 


375 


disordine  o altra  sua  cagione,  arrecano 
più  fama  che  aiuto  a coloro  ehe  se  ne 
fidano:  come  intervenne  ne’ dì  nostri 
a*  Fiorentini,  quando,  nel  147£t,  il  papa 
ed  il  re  di  Napoli  gli  assaltarono;  che 
essendo  amici  del  re  di  Francia,  tras- 
sono di  quella  amicizia  magis  nomcn , 
r/nam  praesidium  : come  interverrebbe 
ancora  a quel  principe,  che  confidatosi 
di  Massimiliano  imperatore,  facesse  qual- 
che impresa;  perchè  questa  è una  di 
quelle  amicizie  che  arrecherebbe  a chi 
la  facesse  magis  nomcn 9 quam  prassi - 
ditinij  come  si  dice  in  questo  testo,  che 
arrecò  quella  de’ Capovani  ai  Sidicini. 
Errarono,  adunque,  in  questa  parte  i 
Capovani,  per  parere  loro  avere  più 
forze  che  non  avevano.  E così  fa  la 
poca  prudenza  delti  uomini  qualche  vol- 
ta, che  non  sappiendo  nè  potendo  di- 
fendere sè  medesimi,  vogliono  prendere 
imprese  di  difendere  altrui  : come  fece- 
ro ancoro  i Tarentini,  i quali,  sendo  gli 
eserciti  romani  allo  Incontro  dello  eser- 


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376 


DEI  DISCORSI 


cito  de’ Sanniti,  mandorono  ambasciadori 
al  Consolo  romano,  a fargli  intendere 
come  ci  volevano  pace  intra  quelli  duoi 
popoli,  e come  erano  per  fare  guerra 
centra  a quello  che  dalla  pace  si  di- 
scostasse*, talché  il  Consolo,  ridendosi 
di  questa  proposta,  alla  presenza  di 
detti  ambasciadori  fece  sonare  a batta- 
glia, ed  al  suo  esercito  comandò  che 
andasse  a trovare  il  nimico,  mostrando 
ai  Tarentini  con  1’  opera,  e non  con  le 
parole,  di  che  risposta  essi  erano  de- 
gni. Ed  avendo  nel  presente  capitolo 
ragionato  dei  parliti  che  pigliano  i prin- 
cipi al  contrario  per  la  difesa  d’  altrui, 
voglio  nel  seguente  parlare  di  quelli  che 
si  pigliano  per  la  difesa  propria. 

Cap.  XII.  — Scegli  è meglio , temendo 
di  essere  assaltalo > inferire , o aspet- 
tare la  guerra. 

lo  lio  sentito  da  uomini  assai  prati- 
chi nelle  cose  della  guerra  qualche  volta 


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LIBRO  SECONDO. 


377 


disputare,  se  sono  duoi  principi  quasi 
di  eguali  forze,  se  quello  più  gagliardo 
abbi  bandito  la  guerra  contra  a quello 
altro,  quale  sia  miglior  partito  per  Pol- 
tro; o aspettare  il  nimico  dentro  ai  con- 
fini suoi,  o andarlo  a trovare  in  casa, 
ed  assaltare  lui:  e ne  fio  sentito  ad- 
durre ragioni  da  ogni  parte.  E chi  di- 
fende lo  andare  assaltare  altrui,  nc  al- 
lega il  consiglio  che  Creso  dette  a Ciro, 
quando  arrivato  in  su*  confini  de’  Mas- 
sageli  per  fare  lor  guerra,  la  lor  re- 
gina Tarniri  gli  mandò  a dire,  che  eleg- 
gesse quale  de'  duoi  partiti  volesse;  o 
entrare  nel  regno  suo,  dovè  essa  Ip 
aspetterebbe;  o volesse  che  ella  venisse 
a trovar  lui.  E venuta  la  cosa  in  di- 
sputazionc,  Creso,  contra  alla  oppinione 
degli  altri,  disse  che  si  andasse  a tro- 
var lei  ; allegando  che  se  egli  la  vin- 
cesse discosto  al  suo  regno,  che  non  gli 
torrebbe  il  regno,  perchè  ella  arebbe 
tempo  a rifarsi;  pia  se  la  vincesse  den- 
tro a’ suoi  confini,  potrebbe  seguirla  in 


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DEI  DISCORSI 


378 

su  la  fuga,  e non  le  dando  spazio  a 
rifarsi,  torli  io  Stato.  Allegane  ancora  il 
consiglio  che  dette  Annibaie  ad  Antioco, 
quando  quel  re  disegnava  fare  guerra 
ai  Romani:  dove  ei  mostrò  come  i Ro- 
mani non  si  potevano  vincere  se  non 
in  Italia,  perchè  quivi  altri  si  poteva 
valere  delle  arme  e delle  ricchezze  e 
degli  amici  loro  ; chi  gli  combatteva 
fuora  d’ Italia,  e lasciava  loro  la  Italia 
libera,  lasciava  loro  quella  fonte,  che 
mai  li  mancava  vita  a somministrare 
forze  dove  bisogna  ; e conchiuse  che  ai 
Romani  si  poteva  prima  torre  Roma 
che  lo  imperio;  prima  la  Italia  che  le 
altre  provincie.  Allega  ancora  Agatocle. 
che  non  potendo  sostenere  la  guerra  di 
casa,  assaltò  i Cartaginesi  clic  glieuc 
facevano,  e gli  ridusse  a domandare 
pace.  Allega  Scipione,  che  per  levare  la 
guerra  d’  Italia,  assaltò  la  Affrica.  Chi 
parla  al  contrario  dice,  che  chi  vuole 
fare  capitare  male  uno  nimico,  lo  di- 
scosti da  casa.  Allegane  gli  Ateniesi, 


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LIBRO  SECONDO. 


379 

che  mentre  che  feciono  la  guerra  co- 
moda alla  casa  loro,  restarono  superio- 
ri; e come  si  discostarono,  ed  andaro- 
no con  gli  eserciti  in  Sicilia,  perderono 
la  libertà.  Allega  le  favole  poetiche,  dove 
si  mostra  che  Anteo,  re  di  Libia,  assal- 
tato da  Ercole  Egizio,  fu  insuperabile 
mentre  che  Io  aspettò  dentro  a*  confini 
del  suo  regno;  ma  come  e’ se  ne  disco- 
sto per  astuzia  di  Ercole,  perdè  lo  Stalo 
e la  vita.  Onde  è dato  luogo  alla  favola 
di  Anteo,  che  sendo  in  terra  ripigliava 
le  forze  da  sua  madre,  che  era  la  Ter- 
ra; e che  Ercole  avvedutosi  di  questo, 
lo  levò  in  alto,  e discostollo  dalla  terra. 
Allegane  ancora  i giudizi  moderni.  Cia- 
scuno sa  come  Ferrando  re  di  .Napoli 
fu  ne’  suoi  tempi  tenuto  uno  savissimo 
principe:  e venendo  la  fama,  duoi  anni 
avanti  la  sua  morte,  come  il  re  di  Fran- 
cia Carlo  Vili  voleva  venire  ad  assal- 
tarlo, avendo  fatte  assai  preparazioni, 
ammalò;  e venendo  a morte,  intra  gli 
altri  ricordi  che  lasciò  ad  Alfonso  suo 


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380 


DEI  DISCORSI 


figliuolo,  fu  che  egli  aspettasse  il  ni- 
mico dentro  al  regno;  e per  cose  del 
mondo  non  traesse  forze  fuori  dello 
Stato  suo,  ma  lo  aspettasse  dentro  ai 
suoi  confini  tutto  intero;  il  che  non  fu 
osservato  da  quello;  ma  mandato  uno 
esercito  in  Romagna,  senza  combattere 
perdè  quello  c lo  Stato.  Le  ragioni  che, 
oltre  alle  cose  dette,  da  ogni  parte  si 
adducono,  sono  : che  chi  assalta  viene 
con  maggiore  animo  che  chi  aspetta,  il 
che  fa  più  confidente  lo  esercito;  toglie, 
oltra  di  questo,  molte  comodità  al  ni- 
mico di  potersi  valere  delle  sue  cose, 
non  si  potendo  valere  di  quei  sudditi 
che  sieno  saccheggiati;  e per  avere  il 
nimico  in  casa,  è constretto  il  signore 
avere  più  rispetto  a trarre  da  loro  da- 
nari ed  affaticargli  : sicché  e’  viene  a 
seccare  quella  fonte,  come  dice  Anniba- 
ie, che  fa  che  colui  può  sostenere  la 
guerra.  Oltre  di  questo,  i suoi  soldati, 
per  trovarsi  ne*  paesi  d’  altrui,  sono  più 
necessitati  a combattere;  e quella  nc- 


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LIBRO  SECONDO.  3S1 

cessila  fa  virtù,  come  più  volte  abbia- 
mo detto.  Dall’  altra  parte  si  dice  ; come 
aspettando  il  nimico,  si  aspetta  con  as- 
sai vantaggio,  perchè  senza  disagio 
alcuno  tu  puoi  dare  a quello  molti  di- 
sagi di  vettovaglia,  e d’  ogni  altra  cosa 
che  abbia  bisogno  uno  esercito  : puoi 
meglio  impedirli  i disegni  suoi,  per  la 
notizia  del  paese  cheta  hai  più  di  lui: 
puoi  con  più  forze  incontrarlo,  per  po- 
terle facilmente  tutte  unire,  ma  non  po- 
tere già  tutte  discostarle  da  casa:  puoi 
sendo  rotto  rifarti  facilmente;  sì  perchè 
del  tuo  esercito  se  ne  salverà  assai, 
per  avere  i rifugi  propinqui;  si  perchè 
il  supplemento  non  ha  a venire  disco- 
sto: tanto  che  tu  vieni  arrischiare  tutte 
le  forze,  e non  tutta  la  fortuna  ; e di- 
scostandoti, arrischi  tutta  la  fortuna,  e 
non  tutte  le  forze.  Ed  alcuni  sono  stati 
che  per  indebolire  meglio  il  suo  nimi- 
co, Io  lasciano  entrare  parecchie  gior- 
nate in  su  il  paese  loro,  e pigliare  assai 
terre;  acciò  che  lasciando  i presidii  in 


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382  DEI  DISCORSI 

tutte,  indebolisca  il  suo  esercito,  e pos- 
siulo  dipoi  combattere  più  facilmente. 
Ma,  per  dire  ora  io  quello  che  io  ne 
intendo,  io  credo  che  si  abbia  a fare  que- 
sta distinzione:  o io  ho  il  mio  paese 
armato,  come  i Romani,  o come  hanno 
i Svizzeri;  o io  l’ho  disarmato,  come 
avevano  i Cartaginesi,  o come  Y hanno  i 
re  di  Francia  e gli  Italiani.  In  questo 
caso,  si  debbe  tenere  il  nimico  discosto 
a casa;  perchè  scudo  la  tua  virtù  nel 
danaio  e non  negli  uomini,  qualunque 
volta  ti  è impedita  la  via  di  quello,  tu 
sei  spacciato;  nè  cosa  veruna  te  lo  im- 
pedisce quanto  la  guerra  di  casa.  In  es- 
sempi  ci  sono  i Cartaginesi;  i quali 
mentre  che  ebbero  la  casa  loro  libera, 
poterono  con  le  rendite  fare  guerra  con 
i Romani;  e quando  la  avevano  assal- 
tata, non  potevano  resistere  ad  Agato- 
eie.  I Fiorentini  non  avevano  rimedio 
ulcuuo  con  Castruccio  signore  di  Lucca, 
perchè  ci  faceva  loro  la  guerra  in  casa; 
tanto  che  gli  ebbero  a darsi,  per  essere 


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LIBRO  SECONDO. 


383 


difesi,  al  re  Roberto  di  Napoli.  Ma  morto 
Castruccio,  quelli  medesimi  Fiorentini 
ebbero  animo  di  assaltare  il  duca  di 
Milano  in  casa,  ed  operare  di  torgli  il 
regno:  tanta  virtù  monstrarono  nelle 
guerre  louginque,  e tanta  viltà  nelle 
propinque.  Ma  quando  i regni  sono  ar- 
mati, come  era  armata  Roma  e come 
sono  i Svizzeri,  sono  più  difficili  a vin- 
cere quanto  più  ti  appressi  loro:  perchè 
questi  corpi  possono  unire  più  forze  a 
resistere  ad  uno  impeto,  che  non  pos- 
sono ad  assaltare  altrui.  Nè  mi  muove 
in  questo  caso  I’  autorità  di  Annibaie, 
perchè  la  passione  e Y utile  suo  gli  fa- 
ceva cosi  dire  ad  Antioco.  Perchè,  se  i 
Romani  avessino  avute  in  tanto  spazio 
di  tempo  quelle  tre  rotte  in  Francia* 
ch’egli  ebbero  in  .Italia  da  Annibaie, 
senza  dubbio  erano  spacciati:  perchè 
non  si  sarebbono  valuti  de’ .residui  de- 
gli eserciti,  come  si  valsono  in  Italia; 
non  arebbono  avuto  a rifarsi  quelle  co- 
modità; nè  potevano  con  quelle  forze 


* 


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DEI  DISCORSI 


384 

resistere  ai  nimico,  che  poterono.  Non 
si  trova  che,  per  assaltare  una  provin- 
cia, loro  mandassino  mai  fuora  eserciti 
clic  passassino  cinquantamila  persone; 
ma  per  difendere  la  casa  ne  misono  in 
arme  conira  ai  Franciosi,  dopo  la  prima 
guerra  punica,  diciotto  centinaia  di  mi- 
gliaia. Nè  arebbono  potuto  poi  romper 
quelli  in  Lombardia,  come  gli  ruppono 
in  Toscana;  perchè  contro  a tanto  nu 
mero  di  ninnici  non  arebbono  potuto 
condurre  tante  forze  sì  discosto,  nè  com- 
battergli con  quella  comodità.  I Cimbri 
ruppono  uno  esercito  romano  in  la  Ma- 
gna, nè  vi  ebbono  i Romani  rimedio. 
Ma  come  egli  arrivorono  in  Italia,  e che 
poterono  mettere  tutte  le  loro  forze  in- 
sieme, gli  spacciarono.  I Svizzeri  è fa- 
cile vincergli  fuori  di  casa,  dove  e’  non 
possono  mandare  più  che  un  trenta  o 
quarantamila  uomini;  ma  vincergli  in 
casa,  dove  e’  ne  possono  raccozzare  cen- 
tomila, è difficilissimo.  Conchiuggo  adun- 
que di  nuovo,  che  quel  principe  che  ha 

\ 


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LIBRO  SECONDO. 


385 


i suoi  popoli  armati  ed  ordinali  alla 
guerra,  aspetti  sempre  in  casa  una 
guerra  potente  e pericolosa,  e non  la 
vadia  a rincontrare:  ma  quello  che  ha 
i suoi  sudditi  disarmati,  ed  il  paese 
inusitato  della  guerra,  se  la  discosti 
sempre  da  casa  il  più  che  può.  E così 
r uno  e l*  altro,  ciascuno  nel  suo  grado, 
si  difenderà  meglio. 

Gap.  XIII.  — Che  si  viene  di  bassa  a 
gran  fortuna  più  con  la  fraude,  che 
con  la  forza. 

Io  stimo  essere  cosa  verissima,  che 
rado,  o non  mai,  intervenga  che  gli 
uomini  di  piccola  fortuna  venghino  a 
gradi  grandi,  senza  la  forza  e senza  la 
fraude;  purché  quel  grado  al  quale  al- 
tri è pervenuto,  non  ti  sia  o donalo,  o 
lasciato  per  eredità.  Xè  credo  si  truovi 
mai  che  la  forza  sola  basti,  ma  si  tro- 
verà bene  che  la  fraude  sola  basterà: 
còme  chiaro  vedrà  colui  che  leggerà  la 
Machiavelli,  Discorsi  — i.  25 


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3S6 


DEI  DISCORSI 


vita  di  Filippo  di  Macedonia,  quella  di 
Agatocle  siciliano,  e di  molti  altri  simili, 
che  d’ infima  ovvero  di  bassa  fortuna, 
sono  pervenuti  o a regno  o ad  imperi 
grandissimi.  Mostra  Senofonte,  nella  sua 
vita  di  Ciro,  questa  necessità  delio  in- 
gannare; consideralo  che  la  prima  ispe- 
dizione  che  fa  fare  a Ciro  contea  il  re 
di  Armenia,  è piena  di  fraude,  e come 
con  inganno,  e non  con  forza,  gli  fa  oc- 
cupare il  suo  regno;  e non  conchiude 
altro  per  tale  azione,  se  non  che  ad  un 
principe  che  voglia  fare  gran  cose,  è 
necessario  imparare  a ingannare.  Fagli, 
olirà  di  questo,  ingannare  Ciassare,  re 
de’  .Medi,  suo  zio  materno,  in  più  modi; 
senza  la  quale  fraude  mostra  che  Ciro 
non  poteva  pervenire  a quella  gran- 
dezza che  venne.  Nè  credo  che  si  truovi 
mai  alcuno  constiluito  in  bassa  fortuna, 
pervenuto  a grande  imperio  solo  con 
la  forza  aperta  ed  ingenuamente,  ma  sì 
bene  solo  con  la  fraude  : come  fece  Gio- 
vanni Galeazzo  per  tor  lo  Stato  e lo 


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LIBRO  SECONDO. 


387 

imperio  di  Lombardia  a messer  Bernabò 
suo  zio.  E quei  che  sono  necessitati  fare 
i principi  ne’  principi!  degli  augumenti 
loro,  sono  ancora  necessitate  a fare  le 
repubbliche,  infimo  che  le  sieno  diven- 
tate potenti,  e che  basti  la  forza  sola. 
E perchè  Roma  tenne  in  ogni  parte,  o 
per  sorte  o per  elezione,  tutti  i modi 
necessari  a venire  a grandezza,  non 
mancò  ancora  di  questo.  Nè  potè  usare, 
nel  principio,  il  maggiore  inganno,  che 
pigliare  il  modo  di  sopra  discorso  da 
noi,  di  farsi  compagni  ; perchè  sotto 
questo  nome  se  li  fece  servi:  come  fu- 
rono i Latini,  ed  altri  popoli  all’  intor- 
no. Perchè  prima  si  valse  dell*  arme  loro 
in  domare  i popoli  convicini,  e pigliare 
la  riputazione  dello  Stato:  dipoi,  doma- 
togli, venne  in  tanto  augumento,  che  la 
poteva  battere  ciascuno.  Ed  i Latini  non 
si  avviddono  mai  di  essere  al  tutto  servi, 
se  non  poi  che  viddono  dare  due  rotte 
ni  Sanniti,  e costrettigli  ad  accordo.  La 
(piale  vittoria,  come  ella  accrebbe  gran 


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DEI  DISCORSI 


!i88 

riputazione  ai  Romani  eoi  principi  lon- 
ginqui,  clic  mediante  quella  sentirono  il 
nome  romano  e non  l’armi;  così  ge- 
nerò invidia  e sospetto  in  quelli  che 
vedevano  e sentivano  l’armi,  intra  i 
quali  furono  i Latini.  E tanto  potè  que- 
sta invidia  e questo  timore,  che  non 
solo  i Latini,  ma  le  colonie  che  essi  ave- 
vano in  Lazio,  insieme  con  i Campani, 
stati  poco  innanti  difesi,  congiurarono 
contra  al  nome  romano.  E mossono  que- 
sta guerra  i Latini  nel  modo  che  si  dice 
di  sopra,  che  si  muovono  la  maggior 
parte  delle  guerre,  assaltando  non  i Ro- 
mani, ma  difendendo  i Sidicini  contra 
ai  Sanniti;  a’ quali  i Sanniti  facevano 
guerra  con  licenza  de’  Romani.  E che  sia 
vero  che  i Latini  si  movessino  per  avere 
conosciuto  questo  inganno,  lo  dimostra 
Tito  Livio  nello  bocca  di  Annio  Setiuo 
pretore  latino,  il  quale  nel  consiglio  loro 
disse  queste  parole  : Nam,  si  ctìam  mine 

sub  umbra  feederis  cequi  servilutem  pati 
« 

possumus  ctc.  Yedesi  pertanto  i Romani 


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LIBRO  SECONDO. 


3K9 

ne’ primi  augumenti  loro  non  essere 
mancati  eziam  della  fraude;  la  quale 
fu  sempre  necessaria  ad  usare  a coloro 
che  di  piccoli  principii  vogliono  a su- 
blimi gradi  salire  : la  quale  è meno  vi- 
tuperabile quanto  è più  coperta,  come 
fu  questa  de’  Romani. 

« 

Gap.  XIV.  — Ingannatisi  molte  volle  gli 
uomini j credendo  con  la  umilila  vin- 
cere la  superbia. 

Vedesi  molle  volte  come  la  umilila  non 
solamente* non  giova,  ma  nuoce,  massi- 
mamente usandola  con  gli  uomini  in- 
solenti, che,  o per  invidia  o per  altra 
cagione,  hanno  concetto  odio  teco.  Di 
che  ne  fa  fede  lo  istorico  nostro  in  que- 
sta cagione  di  guerra  intra  i Romani 
ed  i Latini.  Perchè,  dolendosi  i Sanniti 
con  i Romani,  che  i Latini  gli  avevano 
assaltati,  i Romani  non  vollono  proibire 
ai  Latini  tal  guerra,  desiderando  non 
gli  irritare:  il  che  non  solamente  non 


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DEI  DISCORSI 


390 

gli  irritò,  ma  gli  fece  diventare  più  ani- 
mosi contro  a loro,  e si  scopersono  più 
presto  inimici.  Di  che  ne  fanno  fede  le 
parole  usate  da!  prefato  Annio  pretore 
latino  nel  medesimo  concilio,  dove  dice: 
Tentaslis  patientiam  negando  mililem: 
(jais  dubitai  cxarsisse  eos ? Pcrtulerunt 
(amen  hunc  dolorem.  Excrcitus  nos  pa- 
rare adversus  Snmnilcs  feederatos  suos 
audierunl,  ncc  mnverunt  se  ab  urbe. 
I Inde  hcec  illis  tanta  modestia j,  ni  si  a 
eonscienlia  virium , et  n os trarum , et 
suarum?  Conoscesi,  pertanto,  chiaris- 
simo per  questo  testo,  quanto  la  pa- 
zienza de’ Romani  accrebbe  P arroganza 
de’  Latini.  E però,  mai  uno  principe 
debbe  volere  mancare  del  grado  suo,  e 
non  debbe  mai  lasciare  alcuna  cosa  d’ac- 
cordo, volendola  lasciare  onorevolmente, 
se  non  quando  e’  la  può,  o e’  si  crede 
che  la  possa  tenere  : perchè  gli  è me- 
glio quasi  sempre,  sendosi  condotta  la 
cosa  in  termine  che  tu  non  la  possa  la- 
sciare nel  modo  detto,  lasciarsela  torre 


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LIBRO  SECONDO. 


391 

con  le  forze,  che  con  la  paura  delle 
forze.  Perchè  se  tu  la  lasci  con  In  paura, 
lo  fai  per  levarli  la  guerra,  ed  il  più 
delle  volte  non  te  la  lievi:  perche  colui 
a chi  tu  arai  con  una  viltà  scoperta 
concesso  quella,  non  starà  saldo,  rao  ti 
vorrà  torre  delle  altre  cose,  e si  accen- 
derà più  contra  di  te,  stimandoti  meno; 
e dall'altra  parte,  in  tuo  favore  trove- 
rai i difensori  più  freddi,  parendo  loro 
che  tu  sia  o debole,  o vile:  ma  se  tu, 
subito  scoperta  la  voglia  dello  avversa- 
rio, prepari  le  forze,  ancoraché  le  siano 
inferiori  a lui.  quello  ti  comincia  a sti- 
mare; stimanti  più  gli  altri  principi 
allo  intorno;  ed  a tale  viene  voglia  di 
aiutarti,  sendo  in  su  P arme,  che  ab- 
bandonandoti non  ti  aiuterebbe  mai. 
Questo  si  intende  quando  tu  abbia  uno 
inimico;  ma  quando  ne  avessi  più,  ren- 
dere delle  cose  che  tu  possedessi  ad  al  • 
euno  di  loro  per  riguadagnarselo,  an- 
coraché fusse  di  già  scoperta  la  guerra, 
e per  smembrarlo  dagli  altri  confede- 


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392 


DEI  DISCORSI 


rati  tuoi  inimici,  fia  sempre  partito  pru- 
dente. 

( ì a p . XV.  — Gli  Stati  deboli  sempre 
fieno  ambigui  nel  risolversi : e sem- 
pre le  deliberazioni  lente  sono  nocive. 

in  questa  medesima  materia,  ed  in 
questi  medesimi  principi!  di  guerra  in- 
tra i Latini  ed  i Romani,  si  può  notare 
come  in  ogni  consulta  è bene  venire  allo 
individuo  di  quello  die  si  ha  a delibe- 
rare, e non  stare  sempre  in  ambiguo, 
nè  in  su  lo  incerto  della  cosa.  Il  che  si 
vede  manifesto  nella  consulta  che  fe- 
ciono  i Latini,  quando  c’pensavano  alie- 
narsi da’  Romani.  Perchè  avendo  presen- 
tito questo  cattivo  umore  che  ne’  popoli 
latini  era  entrato,  i Romani,  per  eerti- 
ficarsi  della  cosa,  c per  vedere  se  po- 
tevano senza  mettere  mano  all’arme  ri- 
guadagnarsi quelli  popoli,  fecero  loro 
intendere,  come  e’  mandassero  a Roma 
otto  cittadini,  perchè  avevano  a consul- 


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libro  si.condo. 


393 

lare  con  loro.  I Latini,  inteso  questo  ed 
avendo  conscienza  di  molte  cose  fatte 
centra  alla  voglia  de’  Romani,  fcciono 
consiglio  per  ordinare  chi  dovesse  ire 
a Roma,  e dargli  commissione  di  quello 
ch’egli  avesse  a dire.  E stando  nel  con- 
siglio in  questa  disputa,  Annio  loro  pre- 
tore disse  queste  parole:  Ad  sumiuam 
veruni  nostrarum  pertinerc  arbitrar , ut 
vogilctis  magis , quid  agendum  nobis, 
quam  quid  loqucndum  sii.  Facile  crii, 
cxphcatis  consiliis j accommodarc  rebus 
nerba.  Sono,  senza  dubbio,  queste  pa- 
role verissime,  e debbono  essere  da  ogni 
principe  e da  ogni  repubblica  gustate  : 
perchè  nella  ambiguità  e nella  incerti- 
t udine  di  quello  che  altri  voglia  fare, 
non  si  sanno  accomodare  le  parole;  ma 
fermo  una  volta  1’  animo,  e deliberalo 
quello  sia  da  eseguire,  è facil  cosa  tro- 
varvi le  parole,  lo  ho  notato  questa 
parte  più  volentieri,  quanto  io  ho  molte 
volte  conosciuto  tale  ambiguità  avere 
nociuto  alle  pubbliche  azioni,  con  danno 


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394 


DEI  Disconsi 

i*  con  vergogna  della  repubblica  nostra. 

E sempre  mai  avverrà,  che  ne*  partiti 
ilubbii,  e dove  bisogni  animo  a delibe- 
rargli, sarà  questa  ambiguità,  quando 
abbino  ad  esser  consigliati  e deliberati 
da  uomini  deboli.  Non  sono  meno  nocive 
ancora  le  deliberazioni  lente  e tarde, 
che  ambigue  ; massime  quelle  che  si 
hanno  a deliberare  in  favore  di  alcuno 
amico  : perchè  con  la  lentezza  loro  non 
si  aiuta  persona,  e nuocesi  a sè  mede- 
simo. Queste  deliberazioni  così  fatte  pro- 
cedono o da  debolezza  di  animo  e ili 
forze,  o da  malignità  di  coloro  che  hanno 
a deliberare;  i quali,  mossi  dalla  pas- 
simi propria  di  volere  rovinare  lo  Stato 
o adempire  qualche  suo  desiderio,  non 
lasciano  seguire  la  deliberazione,  ma  la 
impediscono  e la  attraversano.  Perchè  i 
buoni  cittadini,  ancora  che  vegghino  una 
foga  popolare  voltarsi  alla  parte  perni- 
ciosa, mai  impediranno  il  deliberare, 
massime  di  quelle  cose  che  non  aspet- 
tano tempo.  Morto  che  fu  Girolamo  li- 


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LIBRO  SECONDO. 


395 


ranno  in  Siracusa,  essendo  la  guerra 
grande  intra  i Cartaginesi  ed  i Romani, 
vennono  i Siracusani  in  disputa  se  do- 
vevano seguire  V amicizia  romana  o la 
cartaginese.  E tanto  era  lo  ardore  delle 
parti,  che  la  cosa  stava  ambigua,  uè  se 
ne  prendeva  alcuno  partito;  insino  a 
tanto  che  Apollonide,  uno  de’  primi  in 
Siracusa,  con  una  sua  orazione  piena 
di  prudenza,  mostrò  come  non  era  da 
biasmare  chi  teneva  E oppinione  ili  ade- 
rirsi ai  Romani,  nè  quelli  che  volevano 
seguire  la  parte  cartaginese;  ma  era 
bene  da  detestare  quella  ambiguità  e 
tardità  di  pigliare  il  partito,  perchè  ve- 
deva al  tutto  in  tale  ambiguità  la  ro- 
vina della  repubblica;  ma  preso  che  si 
fusse  il  partito,  qualunque  e’  si  fosse,  si 
poteva  sperare  qualche  bene.  Nè  po- 
trebbe mostrare  più  Tito  Livio  che  si 
faccia  in  questa  parte,  il  danno  che  si 
tira  dietro  lo  stare  sospeso.  Dimostralo 
ancora  in  questo  caso  de’  Latini  : per- 
chè, sendo  i Latini  ricerchi  da  loro 


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LIBRO  SECONDO. 


307 


gli  stessine  neutrali,  e che  il  re  ve- 
nendo in  Italia  gli  avesse  a mantenere 
nello  Stato  e ricevere  in  proiezione:  e 
dette  tempo  un  mese  alla  città  a rati- 
ficarlo. Fu  differita  tale  ratificazione  da 
chi  per  poca  prudenza  favoriva  le  cose 
di  Lodovico:  intantoehè,  il  re  già  sendo 
in  su  la  vittoria,  e volendo  poi  i Fio- 
rentini ratificare , non  fu  la  ratifica- 
zione accettata  ; come  quello  che  conobbe 
i Fiorentini  essere  venuti  forzati,  e non 
voluntari  nella  amicizia  sua.  Il  che  costò 
alla  città  di  Firenze  assai  danari,  e fu 
per  perdere  lo  Stato  : come  poi  altra 
volta  per  simile  causa  li  intervenne.  E 
tanto  più  fu  dannabile  quel  partito,  per- 
chè non  si  servi  ancora  il  duca  Lodo- 
vico;  il  quale  se  avesse  vinto,  arebbe 
mostri  molti  più  segni  di  inimicizia  con- 
ira ai  Fiorentini,  che  non  fece  il  re.  E 
benché  del  male  che  nasce  alle  repub- 
bliche di  questa  debolezza  se  ne  sia  di 
sopra  in  uno  altro  capitolo  discorso; 
nondimeno,  avendone  di  nuovo  occasione 


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DEI  DISCORSI 


398 

per  un  nuovo  accidente,  ho  voluto  re- 
plicarne', parendomi,  massime,  materia 
che  debba  esser  dalie  repubbliche  simili 
alla  nostra  notala. 

Gap.  XVI.  — Quanto  i soldati  ne’  nostri 
tempi  si  disformino  dalli  anttcht  or- 
dini. 

ha  più  importante  giornata  che  fu  mai 
fatta  in  alcuna  guerra  con  alcuna  na- 
zione dal  Popolo  romano,  fu  questa  che 
ei  fece  con  i popoli  latini,  nel  consolato 
di  Torquato  e di  Decio.  Perchè  ogni  ra- 
gione vuole,  che  cosi  come  i Latini  per 
averla  perduta  diventarono  servi,  così 
sarebbono  stati  servi  i Romani,  quando 
non  la  avessino  vinta.  E di  questa  op- 
pinone è Tito  Livio;  perchè  in  ogni 
parte  fa  gli  eserciti  pari  di  ordine,  di 
virtù,  di  ostinazione  c di  numero  : solo 
vi  fa  differenza,  che  i capi  dello  esercito 
romano  furono  più  virtuosi  che  quelli 
dello  esercito  latino.  Yedesi  ancora  come 


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LIBRO  SECOSDO. 


399 

nel  maneggio  di  questa  giornata  nacque- 
ro duoi  accidenti  non  prima  nati,  e che 
dipoi  hanno  rari  esempi:  che  de’ duoi 
Consoli,  per  tenere  fermi  gli  animi 
de’ soldati,  ed  ubbidienti  al  comanda- 
mento loro,  e diliberati  al  combattere, 
1’  uno  ammazzò  sè  stesso,  e I’  altro  il 
figliuolo.  La  parità,  che  Tito  Livio  dice 
essere  in  questi  eserciti,  era  che,  per 
avere  militato  gran  tempo  insieme,  erano 
pari  di  lingua,  d’  ordine  e d’  arme:  per- 
chè nello  ordinare  la  zuffa  tenevano  uno 
modo  medesimo  $ e gli  ordini  ed  i capi 
degli  ordini  avevano  medesimi  nomi. 
Era  dunque  necessario,  sondo  di  pari 
forze  e di  pari  virtù,  che  nascesse  qual- 
che cosa  istraordinaria,  che  fermasse  e 
facesse  più  ostinati  gli  animi  dell’  uno 
che  dell’altro:  nella  quale  ostinazione 
consiste,  come  altre  volte  si  è detto,  la 
vittoria;  perchè,  mentre  che  la  dura 
ne’  petti  di  quelli  che  combattono,  mai 
non  danno  volta  gli  eserciti.  E perchè 
la  durasse  più  ne’  petti  de’  Romani  che 


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400 


DEI  DISCORSI 


de’  Latini,  parte  la  sorte,  parte  la  virtù 
de’  Consoli  fece  nascere,  che  Torquato 
ebbe  ad  ammazzare  il  figliuolo,  e Decio 
sè  stesso.  Mostra  Tito  Livio,  nel  mo- 
strare questa  purililà  di  forze,  tutto 
l’ ordine  che  tenevano  i Romani  nelli 
eserciti  e nelle  zuffe.  Il  quale  esplicando 
egli  largamente,  non  replicherò  altri- 
menti; ma  solo  discorrerò  quello  che  io 
vi  giudico  notabile,  e quello  che  per  es- 
sere negletto  da  tutti  i capitani  di  que- 
sti tempi,  ha  fatto  negli  eserciti  e nelle 
zuffe  di  molti  disordini.  Dico,  adunque, 
che  per  il  testo  di  Livio  si  raccoglie, 
come  lo  esercito  romano  aveva  tre  di- 
visioni principali,  le  quali  toscanamente 
si  possono  chiamare  tre  schiere;  e no- 
minavano la  prima  astati,  la  seconda 
principi,  la  terza  triarii:  e ciascuna  di 
queste  aveva  i suoi  cavalli.  Nello  ordi- 
nare una  zuffa,  ei  mettevano  gli  astati 
innanzi  ; nel  secondo  luogo,  per  diritto, 
dietro  alle  spalle  di  quelli,  ponevano  i 
principi  ; nel  terzo,  pure  nel  mede»imo 


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LIBRO  SECONDO.  401 

filo,  collocavano  i triadi.  I cavalli  di 
tulli  questi  ordini  gli  ponevano  a destra 
ed  a sinistra  di  queste  tre  battaglie;  le 
schiere  de’  quali  cavalli,  dalla  forma  loro 
e dal  luogo,  si  chiamavano  alce , perchè 
parevano  come  due  alie  di  quel  corpo. 
Ordinavano  la  prima  schiera  delli  astati, 
che  era  nella  fronte,  serrata  in  modo 
insieme  che  la  potesse  spignere  e so- 
stenere il  nimico.  La  seconda  schiera 
de’  principi,  perchè  non  era  la  prima 
a combattere,  ma  bene  le  conveniva  soc- 
correre alla  prima  quando  fusse  battuta 
o urtata,  non  la  facevano  stretta,  ma 
mantenevano  i suoi  ordini  radi,  e di 
qualità  che  la  potesse  ricevere  in  sè 
senza  disordinarsi  la  prima,  qualunque 
volta,  spinta  dal  nimico,  fusse  necessi- 
tata ritirarsi.  La  terza  schiera  de*  triadi 
aveva  ancora  gli  ordini  più  radi  che  la 
seconda,  per  potere  ricevere  in  sè,  bi- 
sognando, le  due  prime  schiere  de’  prin- 
cipi e degli  astati.  Collocate,  dunque, 
queste  schiere  in  questa  forma,  appic- 
ci ACHIAVELLI,  Discorsi.—  1.  20 


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402 


DEI  DISCORSI 


cavano  la  zuffa  : e se  gli  astati  erano 
sforzati  o vinti,  si  ritiravano  nella  ra- 
dila degli  ordini  de’  principi  ; e tutti 
insieme  uniti,  fatto  di  due  schiere  un 
J corpo,  rappiccavano  la  zuffa:  se  questi 
ancora  erano  ributtati  e sforzati,  si  ri- 
tiravano tutti  nella  radila  degli  ordini 
de*  trioni;  e tutte  tre  le  schiere  diven- 
tate un  corpo,  rinnovavano  la  zuffa  : 
dove  essendo  superati,  per  non  avere 
più  da  rifarsi,  perdevano  la  giornata. 
E perchè  ogni  volta  che  questa  ultima 
schiera  de’  triarii  si  adoperava,  lo  eser- 
cito era  in  pericolo,  ne  nacque  quel  pro- 
verbio: Res  redacta  est  ad  triarios  ; che 
ad  uso  toscano  vuol  dire:  Noi  abbiamo 
messo  I’  ultima  posta.  I capitani  dei  no- 
stri tempi,  come  egli  hanno  abbando- 
nato tutti  gli  altri  ordini,  e della  antica 
disciplina  ei  non  ne  osservano  parte  al- 
cuna, cosi  hanno  abbandonata  questa 
parte,  la  quale  non  è di  poca  impor- 
tanza: perchè  chi  si  ordina  da  potersi 
nelle  giornate  rifare  tre  volte,  ha  ad 


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LIBRO  SECONDO.  40.3 

avere  tre  volte  inimica  la  fortuna  a vo- 
lere perdere,  ed  ha  ad  avere  per  riscon- 
tro una  virtù  che  sia  atta  tre  volte  a 
vincerlo.  Ma  chi  non  sta  se  non  in  su  M 
primo  urto,  come  stanno  oggi  gli  eser- 
citi cristiani,  può  facilmente  perdere  ; 
perchè  ogni  disordine,  ogni  mezzana 
virtù  gli  può  torre  la  vittoria.  Quello 
che  fa  agli  eserciti  nostri  mancare  di 
potersi  rifare  tre  volte,  è lo  avere  per- 
duto il  modo  di  ricevere  I*  una  schiera 
uelP  altra.  Il  che  nasce  perchè  al  pre- 
sente sf  ordinano  le  giornate  con  uno 
di  questi  duoi  disordini:  o ei  mettono 
le  loro  schiere  a spalle  P una  delP  al- 
tra, e fanno  la  loro  battaglia  larga  per 
traverso,  e sottile  per  diritto;  il  che  la 
fa  più  debole,  per  aver  poco  dal  petto 
alle  schiene.  E quando  pure,  per  farla 
più  forte,  ei  riducono  le  schiere  per  il 
verso  de’  Romani,  se  la  prima  fronte  è 
rotta,  non  avendo  ordine  di  essere  ri- 
cevuta dalla  seconda,  s’ ingarbugliano 
insieme  tutte,  e rompono  sè  medesime: 


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DEI  DISCORSI 


404 

perché  se  quella  dinanzi  è spinta,  ella 
urta  la  seconda;  se  la  seconda  si  vuol 
far  innanzi,  ella  è impedita  dalla  prima  : 
donde  che  urlando  la  prima  la  seconda, 
e la  seconda  la  terza,  ne  nasce  tanta 
confusione,  che  spesso  uno  minimo  ac- 
cidente rovina  uno  esercito.  Gli  eserciti 
spagnuoli  e franciosi  nella  zuffa  di  Ra- 
venna, dove  mori  monsignor  de  Pois, 
capitano  delle  genti  di  Prandi  (la  quale 
fu,  secondo  i nostri  tempi,  assai  bene 
combattuta  giornata)  s’  ordinarono  con 
uno  de’ soprascritti  modi;  cioè  clic  l’uno 
e 1’ altro  esercito  venne  con  tutte  le  sue 
genti  ordinate  a spalle  : in  modo  che 
non  venivano’  avere  nè  1’  uno  nè  1’  altro 
se  non  una  fronte,  ed  erano  assai  più 
per  il  traverso  cìie  per  il  diritto.  E que- 
sto avviene  loro  sempre  dove  egli  hanno 
la  campagna  grande,  come  gli  avevano 
a Ravenna  : perché,  conoscendo  il  disor- 
dine che  fanno  nel  ritirarsi,  mettendosi 
per  un  filo,  lo  fuggouo  quando  e’  pos- 
sono col  fare  la  fronte  larga,  coni’  t 


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LIBRO  SECONDO. 


405 

detto  ; ma  quando  il  paese  gli  ristringe, 
si  stanno  nel  disordine  soprascritto, 
senza  pensare  il  rimedio.  Con  questo 
medesimo  disordine  cavalcano  per  il 
paese  inimico,  o se  e’  predano,  o se 
e’  fanno  altro  maneggio  di  guerra.  Ed 
a santo  Regolo  in  quel  di  Pisa,  ed  al- 
trove, dove  i Fiorentini  furono  rotti 
da' Pisani  ne’ tempi  della  guerra  che  fu 
tra  i Fiorentini  e quella  città,  per  la  sua 
ribellione  dopo  la  passata  di  Carlo  re 
di  Francia  in  Italia,  non  nacque  tal  ro- 
vina d’ altronde,  clic  dalla  cavalleria 
amica;  la  quale  sendo  davanti  e ribut- 
tata da’  nimici,  percosse  nella  fanteria 
fiorentina,  e quella  ruppe  : donde  tutto 
il  restante  delle  genti  dierono  volta  : e 
messcr  Ciriaco  dal  Borgo,  capo  antico 
delle  fanterie  fiorentine,  ha  affermato 
alla  presenza  mia  molte  volle,  non  es- 
sere mai  stato  rotto  se  non  dalla  caval- 
leria degli  amici.  1 Svizzeri,  che  sono  i 
maestri  delle  moderne  guerre,  quando 
ei  militano  coi  Franciosi,  sopra  tulle  le 


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406 


DEI  DISCORSI 


cose  hanno  cura  di  mettersi  in  lato,  che 
la  cavalleria  amica,  se  fusse  ributtata, 
non  gli  urti.  E benché  queste  cose 
paiano  facili  ad  intendere,  e facilissime 
a farsi;  nondimeno  non  si  è trovato  an- 
cora alcuuo  de’  nostri  contemporanei  ca- 
pitani, che  gli  antichi  ordini  imiti,  e 
gli  moderni  corregga.  E benché  gli  ab- 
bino ancora  loro  tripartito  lo  esercito, 
chiamando  1’  una  parte  antiguardo,  l’al- 
tra battaglia  e l’altra  retroguardo;  non 
se  ne  servono  ad  altro  che  a coman- 
dargli nelli  alloggiamenti:  ma  nello  ado- 
perargli, rade  volte  è,  come  di  sopra  è 
detto,  che  a tutti  questi  corpi  non  fac- 
cino correre  una  medesima  fortuna.  E 
perchè  molti,  per  scusare  la  ignoranza 
loro,  allegano  che  la  violenza  delle  ar- 
tiglierie non  patisce  che  in  questi  tempi 
si  usino  molti  ordini  degli  antichi,  vo- 
glio disputare  nel  seguente  capitolo  que- 
sta materia,  ed  esaminare  se  le  arti- 
glierie impediscono  che  non  si  possa 
usare  l’ antica  virtù. 


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LIBRO  SECONDO. 


407 


Cap.  XVII.  — Quanto  si  debbino  sii 
inave  dagli  eserciti  ne'  presenti  tempi 
le  artiglierie;  e se  quella  oppiatone 
che  se  ne  ha  in  universale j è vera. 

Considerando  io,  oltre  alle  cose  so- 
prascritte, quante  zuffe  campali  (chia- 
mate ne’  nostri  tempi,  con  vocabolo 
francioso,  giornate,  e dagl’  Italiani  fatti 
d’arme)  furono  fatte  dai  Romani  in  diversi 
tempi  ; mi  è venuto  in  considerazione 
la  oppinione  universale  di  molti,  che 
vuole  che  se  in  quelli  tempi  fussino 
state  le  artiglierie,  non  sarebbe  stato 
lecito  a’  Romani,  nè  sì  facile,  pigliare 
le  provincie;  farsi  tributari  i popoli, 
come  e’  feciono  ; nè  arebbono  in  alcuno 
modo  fatti  si  gagliardi  acquisti.  Dicono 
aiTcora,  che  mediante  questi  instrumenti 
de’  fuochi,  gli  uomini  non  possono  usare 
nè  mostrare  la  virtù  loro,  come  e’ po- 
tevano anticamente.  E soggiungono  una 
terza  cosa  : che  si  viene  con  piu  diflì- 


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408 


DEI  DISCORSI 


eultà  alle  giornale  che  non  si  veniva 
allora,  nè  vi  si  può  tenere  dentro  que- 
gli ordini  di  quelli  tempi  ; talché  la 
guerra  si  ridurrà  col  tempo  in  su  le 
artiglierie.  E giudicando  non  fuora  di 
proposito  disputare  se  tali  oppiuioui 
sono  vere,  e quanto  le  artiglierie  ab- 
bino cresciuto  o diminuito  di  forze  agli 
eserciti,  e se  le  tolgano  o danno  occa- 
sione ai  buoni  capitani  di  operare  vir- 
tuosamente ; comiucerò  a parlare  quanto 
alla  prima  loro  oppinione  : che  gli  eser- 
citi antichi  romani  non  arebbono  fatto 
gli  acquisti  che  feciono,  se  le  artiglierie 
lussino  state.  Sopra  che,  rispondendo, 
dico:  come  e’si  fa  guerra  o per  difen- 
dersi, o per  offendere;  donde  si  ha  pri- 
ma ad  esaminare  a quale  di  questi  duoi 
modi  di  guerra  le  faccino  più  utile,  o 
più  danno.  E benché  sia  che  dire  fla 
ogni  parte,  nondimeno  io  credo  che 
senza  comparazione  faccino  più  danno 
a chi  si  difende,  che  a chi  offende.  La 
ragione  che  io  ne  dico  è,  che  quel  che 


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LIBRO  SECONDO. 


•401) 

si  difende,  o egli  è dentro  a una  terra, 
o egli  è in  su’  campi  dentro  ad  uno  stec- 
cato. S*  egli  è dentro  ad  una  terra,  o 
questa  terra  è piccola,  come  sono  la 
maggior  parte  delle  fortezze,  o la  è 
grande:  nel  primo  caso,  chi  si  difende 
è al  tutto  perduto,  perchè  P impeto  delle 
artiglierie  è tale,  che  non  trova  muro, 
ancoraché  grossissimo,  che  in  pochi 
giorni  ei  non  abbatta;  e se  chi  è dentro- 
non  ha  buoni  spazi  da  ritirarsi  c con 
fossi  e con  ripari,  si  perde;  nè  può  so- 
stenere 1*  impeto  del  nimico  che  volesse 
dipoi  entrare  per  la  rottura  del  muro, 
nè  a questo  gli  giova  artiglieria  che 
avesse:  perchè  questa  è una  massima, 
che  dove  gli  uomini  in  frotta  e con  im- 
peto possono  andare,  le  artiglierie  non 
gli  sostengono.  Però  i furori  oltramon- 
tani nella  difesa  delle  terre  non  sono 
sostenuti:  sou  bene  sostenuti  gli  assalti 
italiani,  i quali  non  in  frolla,  ma  spic- 
ciolati si  conducono  alle  battaglie,  le 
quali  loro,  per  nome  mollo  proprio, 


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DEI  DISCORSI 


410 


chiamano  scaramuccio.  E qucsli  che 
vanno  con  questo  disordine  e questa 
freddezza  ad  una  rottura  d’  un  muro 
dove  sia  artiglierie,  vanno  ad  una  ma- 
nifesta morte,  c conira  a loro  le  arti- 
glierie vogliono:  ma  quelli  clic  in  frotta 
condensati,  e che  runo  spinge  l’altro, 
vengono  ad  una  rottura,  se  non  sono 
sostenuti  o da  fossi  o da  ripari,  en- 
trano in  ogni  luogo,  c le  artiglierie  non 
gli  tengono;  e se  ne  muore  qualcuno, 
non  possono  essere  tanti  che  gl’  impe- 
dischino  la  vittoria.  Questo  esser  vero, 
si  è conosciuto  in  molte  espugnazioni 
fatte  dagli  oltramontani  in  Italia,  e mas- 
sime in  quella  di  Brescia  : perchè,  sen- 
dosi  quella  terra  ribellata  da’  Franciosi, 
e tenendosi  ancora  per  il  re  di  Francia 
la  fortezza,  avevano  i Veneziani,  per  so- 
stenere V impeto  che  ila  quella  potesse 
venire  nella  terra,  munita  tutta  la  strada 
di  artiglierie  che  dalla  fortezza  alla  città 
scendeva,  e postane  a fronte  e ne’  fian- 
chi, ed  in  ogni  altro  luogo  opportuno. 


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LIBRO  SECONDO. 


411 

Delle  quali  monsignor  di  Fois  non  fece 
alcuno  conto  ; anzi  quello  con  il  suo 
squadrone,  disceso  a piede,  passando  per 
il  mezzo  di  quelle,  occupò  la  città,  nè 
per  quelle  si  sentì  eli’  egli  avesse  rice- 
vuto alcuno  memorabile  danno.  Talché, 
chi  si  difende  in  una  terra  piccola,  conte 
è detto,  c trovisi  le  mura  in  terra,  e 
non  abbia  spazio  di  ritirarsi  con  r ri- 
pari e con  fossi,  ed  abbiasi  a fidare  in 
su  le  artiglierie,  si  perde  subito.  Se  tu 
difendi  tuta  terra  gronde,  e che  tu  ab- 
bia comodità  di  ritirarti,  sono  nondi- 
inanco  senza  comparazione  più  utili  le 
artiglierie  a chi  è di  fuori,  che  a chi  è 
dentro.  Prima,  perchè  a volere  che  una 
artiglieria  nuoca  a quelli  che  sono  di 
fuora,  tu  sei  necessitato  levarti  con  essa 
dal  piano  della  terra;  perchè,  stando 
in  sul  piano,  ogni  poco  di  argine  e di 
riparo  che  il  nimico  faccia,  rimane  si- 
curo, e tu  non  gli  puoi  nuocere.  Tanto 
che  avendoti  ad  alzare,  e tirarti  sul  cor- 
ridoio delle  mura,  o in  qualunque  modo 


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412 


DEI  DISCO  l>SI 


levarti  da  terra,  tu  ti  tiri  dietro  due 
difficoltà:  la  prima,  che  non  puoi  con- 
durvi artiglieria  della  grossezza  e della 
potenza  che  può  trarre  colui  di  fuora, 
non  si  potendo  ne’  piccoli  spazi  maneg- 
giare le  cose  grandi  ; I’  altra,  che  quando 
bene  tu  ve  la  potessi  condurre,  tu  non 
puoi  fare  quelli  ripari  fedeli  e sicuri, 
per  salvare  detta  artiglieria,  che  pos- 
sono fare  quelli  di  fuora,  essendo  in  su  M 
terreno,  ed  avendo  quelle  comodità  e 
quello  spazio  che  loro  medesimi  voglio- 
no: talmentechè,  gli  è impossibile  a chi 
difende  una  terra,  tenere  le  artiglierie 
ne’  luoghi  alti,  quando  quelli  che  soli  di 
fuora  abbino  assai  artiglierie  e polenti; 
e se  egli  hanno  a venire  con  essa  ne’ luo- 
ghi bassi,  ella  diventa  in  buona  parte 
inutile,  come  è detto.  Talché  la  difesa 
della  città  si  ha  a ridurre  a difenderla 
con  le  braccia,  come  anticamente  si  fa- 
ceva, e con  la  artiglieria  minuta  : di 
che  se  si  trae  un  poco  di  utilità  rispetto 
a quella  artiglieria  minuta,  se  ne  cava 


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LIBRO  SECONDO. 


413 

incomodità  che  contrappesa  alia  como- 
dità della  artiglieria  ; perchè,  rispetto 
a quella,. si  riducono  le  mura  delle  terre, 
basse  e quasi  sotterrate  ne’ fossi:  tal- 
ché, com’e’  si  viene  alle  battaglie  di 
mano,  o per  essere  battute  le  mura  o 
per  essere  ripieni  i fossi,  ha  chi  è den- 
tro molti  più  disavvantaggi  che  non 
aveva  allora,  E però,  come  di  sopra  si 
disse,  giovano  questi  instrumenti  molto 
più  a chi  campeggia  le  terre,  che  a chi 
è campeggiato.  Quanto  alla  terza  cosa, 
di  ridursi  in  uno  campo  dentro  ad  uno 
steccato  per  non  fare  giornata,  se  non 
a tua  comodità  o vantaggio;  dico  che 
in  questa  parte  tu  non  hai  più  rimedio 
ordinariamente  a difenderti  di  non  com- 
battere, che  si  avessino  gli  antichi;  e 
qualche  volta,  per  conto  delle  artiglie- 
rie, hai  maggiore  disavvantaggio.  Per- 
chè, se  il  nimico  ti  giunge  addosso,  ed 
abbia  un  poco  di  vantaggio  del  paese, 
come  può  facilmente  intervenire;  e truo- 
vìsi  più  alto  di  te;  oche  nello  arrivare 


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ili  DF.l  DISCORSI 

alio  tu  non  abbi  ancora  fatti  i 
gini,  e copertoli  bene  con  que 
luto,  e senza  che  tu  abbi  alcun 
ti  disalloggia,  e sei  forzato  usci 
fortezze  tue,  e venire  alla  zuffa 
intervenne  agli  Spagnuoli  nel 
nata  di  Ravenna*  i quali  essent 
nili  tra  il  fiume  del  Ronco  ed 
gine,  per  non  lo  avere  tirato  U 
che  bastasse,  e per  avere  i Frai 
poco  il  vantaggio  del  terreno, 
constretti  dalle  artiglierie  usci 
fortezze  loro,  e venire  alla  zi 
dato,  come  il  più  delle  volte  de 
sere,  che  il  luogo  che  tu  avess 
con  il  campo  fusse  più  eminenti 
altri  all’  incontro,  c che  gli  ar; 
sino  buoni  e sicuri,  tale  che,  r 
il  sito  e 1’  altre  tue  preparazio 
miro  non  ardisse  di  assaltarti; 
in  questo  caso  a quelli  modi  c 
cainente  si  veniva,  quando  uno 
il  suo  esercito  in  lato  da  non  pi 
sere  offeso:  i quali  sono,  co 


LIBRO  SECONDO. 


445 

paese,  pigliare  o campeggiare  le  terre 
tue  amiche,  impedirti  le  vettovaglie; 
tanto  che  tu  sarai  forzato  da  qualche 
necessità  a disalloggiare,  e venire  a gior- 
nata ; dove  le  artiglierie,  come  di  sotto 
si  dirà,  non  operano  molto.  Considerato, 
adunque,  di  quali  ragioni  guerre  feciono 
i Romani,  e reggendo  come  ei  feciono 
quasi  tutte  le  lor  guerre  per  offendere 
altrui,  e non  per  difender  loro;  si  ve- 
drà, quando  sieno  vere  le  cose  dette  di 
sopra,  come  quelli  arebbono  avuto  più 
vantaggio,  e piu  presto  arebbono  fatto 
i loro  acquisti,  se  le  fussino  state  in 
quelli  tempi.  Quanto  alla  seconda  cosa, 
che  gli  uomini  non  possono  mostrare 
la  virtù  loro,  come  ei  potevano  antica- 
mente, mediante  la  artiglieria  ; dico 
eh’  egli  è vero,  che  dove  gli  uomini 
spicciolati  si  hanno  a mostrare,  eh’  e’ 
portano  più  pericoli  che  allora,  quando 
avessino  a scalare  una  terra,  o fare  si- 
mili assalti,  dove  gli  uomini  non  ristretti 
insieme,  ma  di  per  sè  1’  uno  dall’  altro 


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DEI  DISCORSI 


416 

avessiuo  a comparire.  E vero 
die  gli  capitoni  e capi  degli 
stanno  sottoposti  più  al  perii! 
morte  che  allora,  potendo  esser 
con  le  artiglierie  in  ogni  lu 
giova  loro  lo  essere  nelle  ultii 
«Ire,  e muniti  di  uomini  fortissi 
dimeno  si  vede  che  P uno  c P 
questi  duoi  pericoli  fanno  ra 
danni  istraordinari  : perchè 
munite  bene  non  si  scalano,  i 
con  assalti  deboli  ad  assaltarh 
volerle  espugnare,  si  riduce  la 
una  ossidionc,  come  anticamen 
ceva.  Ed  in  quelle  clic  pure  pe 
si  espugnano,  non  sono  molto 
i pericoli  che  allora:  perchè  n 
cavano  anche  in  quel  tempo  a 
fendeva  le  terre,  cose  da  trarre 
se  non  erano  si  furiose,  facevam 
all’ ammazzare  gli  uomini,  *il  s 
fello.  Quanto  alla  morte  de’ci 
de’  condottieri,  ce  ne  sono,  in  v 
tro  anni  che  sono  state  le  guerre 


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LIBRO  SECONDO. 


417 


« 

simi  tempi  in  Italia,  meno  esempi,  che 
non  era  in  dieci  anni  di  tempo  appresso 
agii  antichi.  Perchè,  dal  conte  Lodovico 
della  Mirandola,  che  morì  a Ferrara 
quando  i Veniziani  pochi  anni  sono  as- 
saltarono quello  Stato,  ed  il  Duca  di 
Nemors,  che  morì  alla  Ciriguuola,  in 
fuori;  non  è occorso  che  d’artiglierie 
ne  sia  morto  alcuno;  percdiè  monsignor 
di  Pois  a Ravenna  mori  di  ferro,  e non 
di  fuoco.  Tanto  che,  se  gli  uomini  non 
dimostrano  particolarmente  la  loro  virtù, 
nasce  non  dalle  artiglierie,  ma  dai  cat- 
tivi ordini,  e dalla  debolezza  degli  eser- 
citi; i quali,  mancando  di  virtù  nel 
tutto,  non  la  possono  dimostrare  nella 
parte.  Quanto  alla  terza  cosa  detta  da 
costoro,  che  non  si  possa  venire  alle 
mani,  fc  che  la  guerra  si  condurrà  tutta 
in  su  P artiglierie,  dico  questa  oppinione 
essere  al  tutto  falsa;  e così  ila  sempre 
tenuta  da  coloro  che  secondo  P antica 
virtù  vorranno  adoperare  gli  eserciti 
loro.  Perchè,  chi  vuole  fare  uno  esercito 

GIACHI  AVELLI,  Discorsi.  — 1.  27 


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41S 


DEI  DlSCOP.Sl 


buono,  gli  conviene,  con  eser< 
o veri,  assuefare  gli  uomini  s 
costarsi  al  nimico,  e venire  c 
menare  della  spada,  e al  pig 
il  petto;  e si  debbe  fondare  i 
le  fanterie  clic  in  su’  cavagli, 
gioni  che  di  sotto  si  diranno, 
si  fondi  in  su  i fanti  ed  in  i 
predetti,  diventano  al  tutto  le 
inutili;  perchè  con  più  facilit 
terie  nello  accostarsi  al  nimict 
fuggire  il  colpo  delle  artiglieri) 
potevano  anticamente  fuggire 
degli  elefanti,  de’ carri  falcati 
riscontri  inusitati,  clic  le  far 
mane  riscontrarono  ; contra 
sempre  trovarono  il  rimedio: 
più  facilmente  lo  arebbono  tr< 
tra  a queste,  quanto  egli  è pi 
tempo  nel  quale  le  artiglierie  i 
nuocere,  che  non  era  quello 
potevano  nuocere  gli  elefanti  < 
Perchè  quelli  nel  mezzo  delb 
disordinavano;  queste  solo  in 


LIBRO  SECONDO. 


419 

zuffa  (i  Spediscono:  il  quale  impedì- 
mento  facilmente  le  fanterie  fuggono,  o 
con  andare  coperte  dalla  natura  del  sito, 
o con  abbassarsi  in  su  la  terra  quando 
le  tirano.  11  che  unclie  per  esperienza 
si  è visto  non  essere  necessario,  mas- 
sime per  difendersi  dalle  artiglierie 
grosse  ; le  quali  non  si  possono  in  modo 
bilanciare,  o che  se  le  vanno  alte  le  non 
ti  truovino,  o che  se  le  vanno  basse  le 
non  ti  arrivino.  Venuti  poi  gli  eserciti 
alle  mani,  questo  è più  chiaro  che  la 
luce,  che  nè  le  grosse  nè  le  piccole  ti 
possono  poi- offendere:  perchè,  se  quello 
che  ha  1’  artiglierie  è davanti,  diventa 
tuo  prigione;  s’ egli  è dietro,  egli  of- 
fende prima  1’  amico  che  te;  a spalle 
ancora  non  ti  può  ferire  in  modo  che 
tu  non  lo  possa  ire  a trovare,  e ne  vie- 
ne a seguitare  l’effetto  detto.  Nè  questo 
ha  molta  disputa  ; perchè  se  ne  è visto 
l’essempio  de’ Svizzeri,  i quali  a No- 
vara, nel  4513,  senza  artiglierie  e senza 
cavagli,  andarono  a trovare  lo  esercito 


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420 


DEI  DISCORSI 


francioso  munito  di  artiglierie 
alle  fortezze  sue,  e Io  ruppon 
aver  alcuno  impedimento  da  q 
la  ragione  è,  oltre  alle  cose 
sopra,  clic  l’artiglieria  ha  biso 
sere  guardata,  a volere  che  la 
da  mura  o da  fossi  o da  argini 
gli  manca  una  di  queste  guani 
prigione,  o la  diventa  inutile  : 
interviene  quando  la  si  ha  a e 
con  gli  uomini;  il  che  gli  ii 
nelle  giornate  e zuffe  campali.  P 
le  non  si  possono  adoperare,  s 
quel  modo  che  adoperavano  gl 
gli  instrumenti  da  trarre;  che 
levano  fuori  delle  squadre,  p 
comhatlessino  fuori  dell i ordini 
volta  che  o da  cavalleria  o 
erano  spinti,  il  refugio  loro  er 
alle  legioni.  Chi  altrimenti  ne  ! 
non  la  intende  bene,  e fidasi  s< 
cosa  che  facilmente  lo  può  in 
E se  il  Turco,  mediante  l’ ar 
conila  al  Sofi  ed  il  Soldauo  h 


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ria 


LIBRO  SECONDO. 


421 


vittoria,  è nato  non  per  altra  virtù  di 
quella,  che  per  lo  spavento  elle  lo  inu- 
sitato roraore  messe  nella  cavalleria  loro. 
Conchiuggo  pertanto,  venendo  al  fine  di 
questo  discorso,  l’  artiglieria  essere  utile 
in  uno  esercito  quando  vi  sia  mescolata 
l’antica  virtù;  ma  senza  quella,  contea 
a uno  esercito  virtuoso  è inutilissima. 

Cap.  XVIII.  — Come  per  V autorità  de’ Ro- 
mani j c per  lo  cssempio  della  antica 
milizia,  si  debbe  stimare  più  lè  fan- 
terie che  i cavagli. 

E’  si  può  per  molte  ragioni  e per  molti 
essempi  dimostrare  chiaramente,  quanto 
i Romani  in  tutte  le  militari  azioni  sti- 
massino  più  la  milizia  a piè  che  a ca- 
vallo, e sopra  quella  fondassino  tutti  i 
disegni  delle  forze  loro:  come  si  vede 
per  molti  essempi,  ed  infra  gli  altri, 
quando  si  azzuffarono  con  i Latini  ap- 
presso il  lago  Regiilo;  dove  già  essendo 
inclinato  lo  esercito  romano,  per  soc- 


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DUI  DISCORSI 


422 

correre  ai  suoi  fecero  discenti 
uomini  da  cavallo  a piede,  e f 
via,  rinnovata  la  zuffa,  ebbon< 
toria.  Dove  si  vede  manifeste 
Romani  avere  più  confidato  in 
scudo  a piede,  che  manleneiu 
vallo.  Questo  medesimo  termini 
in  molte  altre  zuffe,  e sempre 
rono  ottimo  rimedio  in  gli  lort 
Nè  si  opponga  a questo  la  < 
di  Annibaie,  il  quale  veggendo  i 
nata  di  Canne,  che  i Consoli 
fatto  discendere  a piè  gli  loro 
facendosi  belle  di  simile  parti 
Quatti  tnallem  vinclos  milii 
cquilcs  ; cioè:  io  arci  più  car 
gli  dessino  legati.  La  quale  < 
ancoraché  la  sia  stata  in  bo 
uomo  eccellentissimo,  nondimt 
ha  a ire  dietro  alla  autorità, 
più  credere  ad  una  Repubblicf 
e a tanti  Capitani  eccellentissin 
rono  in  quella,  che  ad  uno  s< 
baie:  ancoraché  senza  le  auto 


LIBRO  SECONDO. 


423 

siano  ragioni  manifeste.  Perchè  1’  uomo 
a piede  può  andare  in  molti  luoghi,  dove 
uon  può  andare  il  cavallo;  puossi  in- 
segnarli servare  1'  ordine,  e turbato  che 
fusse,  come  e’ lo  abbia  a riassumere: 
a’ cavagli  è diffìcile  fare  servare  l’ordi- 
ne, ed  impossibile,  turbati  che  sono, 
riordinargli.  Olirà  di  questo,  si  trova, 
come  negli  uomiui,  de’  cavagli  che  kanno 
poco  animo,  e di  quelli  che  ne  hanno 
assai:  e molte  volte  interviene  che  un 
cavallo  animoso  è cavalcato  da  un  uomo 
vile,  ed  uno  cavallo  vile  da  uno  animo- 
so; ed  in  qualunque  modo  che  segua 
questa  disparità,  ne  nasce  inutilità  e di- 
sordine. Possono  le  fanterie  ordinate  fa- 
cilmente rompere  i cavagli,  e difficil- 
mente esser  rotte  da  quelli.  La  quale 
oppinione  è corroborata,  oltre  a molti 
essempi  antichi  e moderni,  dalla  auto- 
rità di  coloro  che  danno  delle  cose  ci- 
vili regola  : dove  mostrano  come  in  pri- 
ma le  guerre  si  cominciarono  a fare 
con  i cavagli,  perchè  non  era  ancora 


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DEI  DISCORSI 


iU 

1’ onlinc  delle  fanterie;  ma  coi 
si  ordinarono,  si  conobbe  subi 
loro  erano  più  utili,  che  quell 
per  questo  però  che  i cavalli  i 
necessari  negli  eserciti,  e per 
perle,  e per  scorrere  e predai 
per  seguitare  i nimici  quando 
in  fuga,  c per  essere  ancora 
una  opposizione  ai  cavagli  dej. 
sari:  ma  il  fondamento  e il  n 
l’esercito,  c quello  chesi  debl 
mare,  debbono  essere  le  fan 
infra  i peccali  de* principi  ita1 
hanno  fatto  Italia  serva  de’  I 
n q ii  ci  è il  maggiore,  clic  ave 
poco  conto  di  questo  ordine, 
volto  tutta  la  loro  cura  alla 
cavallo.  Il  quale  disordine  è na 
malignità  de* capi,  e per  la  ign 
coloro  che  tenevano  stato.  Pere 
dosi  ridotta  la  milizia  italiana, 
ticinque  anni  indietro,  in  uo 
non  avevano  stato,  ma  erano  < 
pitali!  di  ventura,  pcusorono  s 


unno  secondo. 


425 


me  polessino  mantenersi  la  riputazione 
stando  armati  loro,  e disarmati  i prin- 
cipi. E perchè  uno  numero  grosso  di 
fanti  non  poteva  loro  essere  continua- 
mente pagato,  e non  avendo  sudditi  da 
poter  valersene,  ed  uno  piccolo  numero 
non  dava  loro  riputazione,  si  volgono  a 
tenere  cavagli  : perchè  dugcnto  o tre- 
cento cavalli  che  erano  pagati  ad  uno 
condottiere,  lo  mantenevano  riputato;  ed 
il  pagamento  non  era  tale,  che  dagli 
uomini  che  tenevano  stato  non  potesse 
essere  adempiuto.  E perchè  questo  se- 
guisse più  facilmente,  e per  mantenersi 
più  in  riputazione,  levarono  tutta  l’ affe- 
zione e la  riputazione  da’  fanti,  e ridus- 
sonla  in  quelli  loro  cavalli:  e in  tanto 
crebbono  questo  disordine,  che  in  qua- 
lunque grossissimo  esercito  era  una  mi- 
nima parte  di  fanteria.  La  quale  usanza 
fece  in  modo  debole,  insieme  con  molti 
altri  disordini  che  si  mescolarono  con 
quella,  questa  milizia  italiana,  che  que- 
sta provincia  è stata  facilmente  calpe- 


426  DEI  DISCORSI 

sta  (ia  tutti  gii  oltramontani.  > 
più  apertamente  questo  errore, 
mare  più  i cavalli  che  le  fantei 
uno  altro  essempio  romano.  E 
Romani  a campo  a Sora,  ed  i 
usciti  fuori  della  terra  una  tu 
cavalli  per  assaltare  il  campo, 
fece  all’  incontro  il  Maestro  de 
romano  con  la  sua  cavalleria,  e 
di  petto,  la  sorte  dette  che  nel 
scontro  i capi  dell’  uno  e dell’ alti 
cito  morirono;  e restali  gli  alti* 
governo,  e durando  nondimeno  I 
i Romani  per  superare  più  fac 
lo  inimico,  scesono  a piede,  e cc 
sono  i cavalieri  nimici,  se  si  voi 
fendere,  a fare  il  simile:  e co 
questo,  i Romani  ne  riportarom 
toria.  Non  può  esser  questo  eì 
maggiore  in  dimostrare  quanto 
virtù  nelle  fantericche  ne’ cavag 
che  se  nelle  altre  fazioni  i Con 
cevano  discendere  i cavalieri  i 
era  per  soccorrere  alle  fanterie  i 


L1BH0  SECONDO. 


4*27 


tivano,  e che  avevano  bisogno  ili  aiuto; 
ma  in  questo  luogo  e’  discesono,  non  per 
soccorrere  alle  fanterie  nè  per  eombat- 
tere  con  uomini  a piè  de’  nimici,  ma 
combattendo  a cavallo  co’ cavalli,  giudi* 
careno,  non  potendo  superargli  a ca- 
vallo, potere  scendendo  più  facilmente 
vincergli.  Io  voglio  adunque  conchiude- 
re,  che  una  fanteria  ordinata  non  possa 
senza  grandissima  diffìcultà  esser  su* 
perata,  se  non  da  una  altra  fanteria. 
Crasso  e Marc’  Antonio  romani  corsone 
per  il  dominio  de’  Parti  molte  giornate 
con  pochissimi  cavalli  ed  assai  fanteria, 
ed  all’  incontro  avevano  innumerabili 
cavalli  de’  Parti.  Crasso  vi  rimase  con 
parte  dello  esercito  morto.  Marc’  Anto- 
nio virtuosamente  si  salvò.  Nondimanco, 
in  queste  afflizioni  romane  si  vede  quanto 
le  fanterie  prevalevano  ai  cavalli  : per- 
chè essendo  in  un  paese  largo,  dove  i 
monti  son  radi,  ed  i fiumi  radissimi,  le 
marine  longinque,  e discosto  da  ogni  co- 
modità; nondimanco  Marc’ Antonio,  al 


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428 


DEI  DISCORSI 


giudicio  de’  Parti  medesimi, 
mente  si  salvò;  nè  mai  ebbe 
tutta  la  cavalleria  pnrtica  te 
ordini  dello  esercito  suo.  Se 
rimase,  chi  leggerà  bene  le  s 
vedrà  come  e’  vi  fu  piuttosto 
che  forzato:  nè  mai,  in  tutti 
sordini,  i Parti  ardirono  di  uri 
sempre  andando  costeggiando 
pedendogli  le  vettovaglie,  prò 
gli  e non  gli  osservando,  lo  et 
od  una  estrema  miseria.  Io 
avere  a durare  più  fatica  in  p 
quanto  la  virtù  delle  fanterie 
lente  ebe  quella  de’ cavalli,  : 
fussino  assai  moderni  essenv 
rendono  testimonianza  pieniss 
è veduto  novemila  Svizzeri  i 
da  noi  di  sopra  allegata,  and 
frontale  diecimila  cavalli  ed 
fanti,  e vincergli:  perchè  i cf 
li  potevano  offendere:  i fanti,  ] 
gente  in  buona  parte  guascoi 
ordinata,  stimavano  poco.  Yid 


LIBRO  SECONDO.  429 

ventiseimila  Svizzeri  andare  a trovare 
sopra  Milano  Francesco  re  di  Francia, 
che  aveva  seco  ventimila  cavalli,  qua- 
♦ rantamila  fanti  e cento  carra  d’arti- 
glieria ; e se  non  vinsono  la  giornata 
come  a Novara,  combatterono  due  giorni 
virtuosamente;  e dipoi,  rotti  che  furono, 
la  metà  di  loro  si  salvarono.  Presunse 
Marco  Regolo  Attilio,  non  solo  con  la  fan- 
teria sua  sostenere  i cavalli,  ma  gli  ele- 
fanti; e se  il  disegno  non  gli  riuscì, 
non  fu  però  che  la  virtù  della  sua  fan- 
teria non  fusse  tanta,  che  ei  non  con- 
fidasse tanto  in  lei  che  credesse  supe- 
rare quella  difficoltà.  Replico,  pertanto, 
che  a voler  superare  i fanti  ordinati,  è 
necessario  opporre  loro  fanti  meglio  or- 
dinati di  quelli:  altrimenti,  si  va  ad  una 
perdita  manifesta.  Ne’ tempi  di  Filippo 
Visconti,  duca  di  Milano,  scesouo  ili 
Lombardia  circa  sedicimila  Svizzeri: 
donde  il  Duca  avendo  per  capitano  al- 
lora il  Carmignuola,  lo  mandò  con  circa 
mille  cavalli  e pochi  fanti  allo  incontro 


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430 


DEI  DISCORSI 


loro.  Costui  non  sappiendo  1*  01 
combatter  loro,  ne  andò  ad  inc< 
con  i suoi  cavalli,  presu  me  nd( 
subito  rompere.  Ma  trovatogli  i 
avendo  perduti  molti  de’  suoi  u 
ritirò  : ed  essendo  valentissimo 
sappiendo  negli  accidenti  nuovi 
nuovi  partiti,  rifattosi  di  gente 
a trovare;  e venuto  loro  all’i 
fece  smontare  a piè  tutte  le  s 
d’  arme,  e fatto  testa  di  quelle 
fanterie,  andò  ad  investire  i S 
quali  non  ebbono  alcun  rimet 
chè,  sendo  le  genti  d’arme  de 
gnuola  a piè  e bene  armate, 
facilmente  entrare  infra  gli  01 
Svizzeri,  senza  patire  alcuna  lei 
entrati  tra  questi,  poterono-  fu 
offendergli:  talché  di  tutto  il  ni 
quelli,  ne  rimase  quella  parte 
per  umanità  del  Carmignuola 
servata.  Io  credo  che  molti  co 
questa  differenza  di  virtù  che 
I’  uno  e 1’  altro  di  questi  ordir: 


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LIBRO  SECONDO. 


431 

tanta  la  infelicità  di  questi  tempi,  che 
nè  gli  essempi  antichi  nè  i moderni,  nè 
la  confessione  dello  errore  è sufficiente 
a fare  che  i moderni  principi  si  rav- 
vegghino  ; e pensino  che  a volere  ren- 
dere riputazione  alla  milizia  d’  una  pro- 
vincia o d’  uno  Stato,  sia  necessario  ri- 
suscitare questi  ordini,  tenergli  appresso, 
dar  loro  riputazione,  dar  loro  vita,  ac- 
ciocché a lui  e vita  c riputazione  ren- 
dino.  E come  e’diviano  da  questi  modi, 
così  diviano  dagli  altri  modi  detti  di 
sopra  : onde  ne  nasce  che  gli  acquisti 
sono  a danno,  non  a grandezza  d’uno 
Stato,  come  di  sotto  si  dirà. 

Cap.  XIX.  — Che  gli  acquisii  nelle  re- 
pubbliche non  bene  ordinate  e che 
secondo  la  romana  virtù  non  proce- 
dono, sono  a rovina,  non  a esalta- 
zione di  esse. 

Queste  contrarie  oppinioni  alla  verità, 
fondale  in  su’  mali  essempi  che  da  que- 


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432  DEI  DISCORSI 

sti  nostri  corrotti  secoli  sono  stati  in- 
trodotti, fanno  che  gli  uomini  non  pen- 
sano a limare  dai  consueti  modi.  Quando 
si  sarebbe  potuto  persuadere  a uno  ita- 
liano da  trenta  anni  in  dietro,  che  die- 
cimila fanti  potessino  assaltare  in  uii 
piano  diecimila  cavalli  ed  altrettanli,fanti, 
e con  quelli  non  solamente  combattere, 
ina  vincergli;  come  si  vede  per  lo  es- 
sempio  da  noi  più  volle  allegato,  a No- 
vara? E benché  le  istorie  ne  siano  piene, 
/amen  non  ci  arebbero  prestato  fede; 
e se  ci  avessero  prestato  fede,  arebbe- 
ro detto  che  in  questi  tempi  s’arma 
meglio,  e che  una  squadra  d’  uomini 
d’arme  sarebbe  atta  ad  urtare  uno  sco- 
glio, non  che  una  fanteria:  e così  con 
queste  false  scuse  corrompevano  il  giu- 
dizio loro;  nè  arebbero  considerato,  che 
Lucullo  con  pochi  fanti  ruppe  cento  cin- 
quanta mila  cavalli  di  Tigrane;  e che 
tra  quelli  cavalieri  era  una  sorte  di  ca- 
valleria simile  al  tutto  agii  uomini  d’arme 
nostri:  c così  questa  fallacia  è stata  sco- 


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LIBRO  SECONDO. 


433 

perla  dallo  essempio  delle  genti  oltra- 
montane. E come  e’ si  vede  per  quello 
essere  vero,  quanto  alla  fanteria,  quello 
che  nelle  istorie  si  narra;  così  doverreb- 
bero  credere  esser  veri  ed  utili  tutti  gli 
altri  ordini  antichi.  E quando  questo  fusse 
credulo,  le  repubbliche  ed  i principi  er- 
rerebbero meno;  sariano  più  forti  ad  op- 
porsi ad  uno  impeto  che  venisse  loro  ad- 
dosso; non  spererebbero  nella  fuga:  e 
quelli  che  avessino  nelle  mani  un  vivere 
civile,  Io  saperebbero  meglio  indirizzare, 
o per  la  via  dello  ampliare,  o per  la 
via  del  mantenere;  e crederebbero  che 
lo  accrescere  la  città  sua  d’  abitatori, 
farsi  compagni  e non  sudditi,  mandare 
colonie  a guardare  i paesi  acquistati, 
far  capitale  delle  prede,  domare  il  ni- 
mico con  le  scorrerie  e con  le  giornate 
e non  con  le  ossidioni,  tenere  ricco  il 
pubblico,  povero  il  privato,  mantenere 
con  sommo  studio  li  esercizi  militari, 
sono  le  vie  a fhre  grande  una  repub- 
blica, ed  acquistare  imperio.  E quando 
M achiavfLLi,  Discorsi.  — 1.  28 


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434 


DEI  DISCORSI 


questo  modo  dello  ampliare  non  gli  pia- 
cesse, penserebbe  che  gli  acquisti  per 
ogni  altra  via  sono  la  rovina  delle  re- 
pubbliche, e porrebbe  freno  ad  ogni 
ambizione;  regolando  bene  la  sua  città 
dentro  con  le  leggi  e co’ costumi,  proi- 
bendogli r acquistare  e solo  pensando  a 
difendersi,  e le  difese  tenere  ordinate 
bene:  come  fanno  le  repubbliche  della 
Magna,  le  quali  in  questi  modi  vivono 
e sono  vi v ute  libere  un  tempo.  Nondi- 
meno, come  altra  volta  dissi  quando  di- 
scorsi la  differenza  che  era  da  ordinarsi 
per  acquistare  a ordinarsi  per  mante- 
nere; è impossibile  che  ad  una  repub- 
blica riesca  lo  stare  quieta,  c godersi  la 
sua  libertà  e gli  pochi  confini:  perchè, 
se  lei  non  molesterà  altrui,  sarà  mole- 
stata ella  ; e dallo  essere  molestata  le 
nascerà  la  voglia  e la  necessità  dello 
acquistare;  c quando  non  avesse  il  ni- 
mico fuora,  lo  troverebbe  in  casa  : come 
pare  necessario  intervenga  a tutte  le 
grandi  cittadi.  b se  le  repubbliche  della 


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LIBRO  SECONDO. 


435 

Magna  possono  vivere  loro  in  quel  mo- 
do, ed  hanno  potuto  durare  un  tempo; 
nasce  da  certe  condizioni  che  sono  in 
quel  paese,  le  quali  non  sono  altrove, 

- senza  le  quali  non  potrebbero  tenere  si- 
mil  modo  di  vivere.  Era  quella  parte 
della  Magna  di  che  io  parlo,  sottoposta 
allo  imperio  romano  come  la  Francia  e 
la  Spagna:  ma  venuto  dipoi  in  declina- 
zione 1*  imperio,  e ridottosi  il  titolo  di 
tale  imperio  in  quella  provincia,  comin- 
ciarono quelle  ciltadi  più  potenti,  se- 
condo la  viltà  o necessità  degFimpera- 
dori,  a farsi  libere,  ricomperandosi  dallo 
imperio,  con  riservargli  un  piccolo  censo 
annuario;  tanto  che,  a poco  a poco, 
tutte  quelle  cittadi  che  erano  immediate 
dello  imperadore,  e non  erano  soggette 
ad  alcuno  principe,  si  sono  in  simil  modo 
ricomperate.  Occorse  in  questi  medesi- 
mi tempi  che  queste  cittadi  si  ricompe- 
ravano, che  certe  comunità  sottoposte  al 
duca  d’Austria  si  ribellarono  da  lui;  tra 
le  quali  fu  Filiborgo,  c Svizzeri,  e si- 


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436 


DEI  DISCORSI 


mili  ; le  quali  prosperando  nel  principio, 
pigliarono  a poco  a poco  tanto  augu- 
mento,  che,  non  che  e’sieno  tornati  sotto 
il  giogo  d’  Austria,  sono  in  timore  a 
tutti  i loro  vicini:  e questi  sono  quelli 
che  si  chiamano  Svizzeri.  É,  adunque, 
questa  provincia  compartita  in  Svizzeri, 
repubbliche  (che  chiamano  terre  fran- 
che), principi  ed  imperadore.  E la  ca- 
gione che,  intra  tante  diversità  di  vivere, 
non  vi  nascono,  o,  se  le  vi  nascono,  non 
vi  durano  molto  le  guerre,  è quel  segno 
dell’ imperadore  ; il  quale,  avvenga  che 
non  abbi  forze,  nondimeno  ha  fra  loro 
tanta  riputazione,  eli’  egli  è uno  loro 
conciliatore,  e con  T autorità  sua,  inter- 
ponendosi come  mezzano,  spegne  subito 
ogni  scandalo.  E le  maggiori  e le  più 
lunghe  guerre  vi  siano  state,  sono  quelle 
che  sono  seguite  intra  i Svizzeri  ed  il 
duca  d’Austria;  e benché  da  molti  anni 
in  qua  lo  imperadore  ed  il  duca  d’Au-  ' 
stria  sia  una  cosa  medesima,  non  per 
tanto  non  ha  mai  potuto  superare  l’au- 


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LIBRO  SECONDO. 


437 


dacia  ilei  Svizzeri,  dove  non  è mai  stato 
modo  d’accordo,  se  non  per  forza.  Nè 
il  resto  della  Magna  gli  ha  porti  molti 
aiuti;  sì  perchè  le  comunità  non  sanno 
offendere  chi  vuole  vivere  libero  come 
loro  ; sì  perchè  quelli  principi,  parte 
non  possono  per  esser  poveri,  parte  non 
vogliono  per  avere  invidia  alla  potenza 
sua.  Possono  vivere,  adunque,  quelle 
comunità  contente  del  piccolo  loro  do- 
minio, per  non  avere  cagione,  rispetto 
aii’dulorità  imperiale,  di disiderarlo  mag- 
giore: possono  vivere  unite  dentro  alle 
mura  loro,  per  aver  il  nimico  propin- 
quo, e.  che  piglierebbe  1’  occasione  d’-oc- 
euparle,  qualunque  volta  le  discordassino. 
Che  se  quella  provincia  fusse  condizio- 
nata altrimenti,  converrebbe  loro  cer- 
care d’  ampliare  e rompere  quella  loro 
quiete.  E perchè  altrove  non  sono  tali 
condizioni,  non  si  può  prendere  questo 
modo  di  vivere;  e bisogna  o ampliare 
per  via  di  leghe,  o ampliare  come  i Ro- 
mani. E ehi  si  governa  altrimenti,  cerca 


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438 


DEI  DISCORSI 


non  la  sua  vila,  ma  la  sua  morte  e ro- 
vina: perchè  in  mille  modi  e per  molte 
cagioni  gli  acquisii  sono  dannosi;  per- 
chè gli  sta  molto  bene  insieme  acqui- 
stare imperio,  c non  forze;  e chi  acqui- 
sta imperio  e non  forze  insieme,  conviene 
che  rovini.  Non  può  acquistare  forze  chi 
impoverisce  nelle  guerre,  ancora  che  sia 
vittorioso;  che  ei  mette  più  che  non 
trae  degli  acquisti:  come  hanno  fatto  i 
Veniziani  ed  i Fiorentini,  i quali  sono 
stati  molto  più  deboli,  quando  V uno 
aveva  la  Lombardia  e V altro  la  Toscana, 
che  non  erano  quando  1’  uno  era  con- 
tento del  mare,  e V altro  di  sei  .miglia 
di  confini.  Perchè  tutto  è nato  da  avere 
voluto  acquistare,  e non  avere  saputo 
pigliare  il  modo;  e tanto  più  meritano 
biasimo,  quanto  egli  hanno  meno  scusa, 
avendo  veduto  il  modo  hanno  tenuto  i 
Romani,  ed  avendo  potuto  seguitare  il 
loro  essempio,  quando  i Romani,  senza 
alcuno  essempio,  per  la  prudenza  loro, 
da  loro  medesimi  lo  seppono  trovare. 


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LIBRO  SECO.NDO.  ' 439 

Fanno,  oltra  di  questo,  gli  acquisti  qual- 
che volta  non  mediocre  dauuo  ad  ogni 
bene  ordinata  repubblica,  quando  e’ si 
acquista  una  città  o una  provincia  piena 
di  delizie,  dove  si  può  pigliare  di  quelli 
costumi  per  la  conversazione  che  si  ha 
con  quelli:  come  intervenne  a Roma, 
prima,  nello  acquisto  di  Capova;  e di- 
poi, ad  Annibale.  E se  Capova  fusse 
stata  più  longinqua  dalla  città,  che  lo 
errore  de*  soldati  non  avesse  avuto  il 
rimedio  propinquo;  o che  Roma  fusse 
stata  in  alcuna  parte  corrotta;  era  senza 
dubbio  quello  acquisto  la  rovina  della 
Repubblica  romana.  E Tito  Livio  fa  fede 
di  questo  con  queste  parole:  Jam  lune 
minime  salubris  militari  disciplina  Ca- 
pita j instrumentum  omnium  nolupta- 
tunij  dclinitos  militimi  animos  avertit  a 
memoria  patria,  E veramente,  simili 
città  o provincie  si  vendicano  contra  al 
vincitore  senza  zuffa  e senza  sangue  ; 
perchè,  riempiendoli  de’  suoi  tristi  co- 
stumi, gli  espongono  ad  essere  vinti  da 


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440 


DEI  DISCORSI 


qualunque  gli  assalta.  E Iuvenale  non 
potrebbe  meglio,  nelle  sue  salire,  aver 
considerata  questa  parte,  dicendo:  thè 
nei  petti  romani  per  gli  acquisti  delle 
terre  peregrine  erano  intrati  i costumi 
peregrini  ; ed  in  cambio  di  parsimonia 
e di  altre  eccellentissime  virtù,  gala  et 
luxuria  incubuitj  victumque  ulciscìtur 
orbem.  Se,  adunque,  V acquistare  fu  per 
esser  perniziosi  ai  Romani  nei  tempi 
che  quelli  con  tanta  prudenza  e tanta 
virtù  procedevano,  che  sarà  adunque  a 
quelli  che  discosto  dai  modi  loro  pro- 
cedono ? e che,  oltre  agli  altri  errori 
che  fanno,  di  che  se  ne  è di  sopra  di- 
scorso assai,  si  vagliono  dei  soldati  o 
mercenari  o ausiliari  ? Donde  ne  risulta 
loro  spesso  quei  danni  di  che  nel  se- 
guente capitolo  si  farà  menzione. 


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LlBr.O  SECONDO. 


441 


Gap.  XX.  — Quale  pericolo  porti  quel 
principe  o quella  repubblica  che  si 
vale  della  milizia  ausiliare  o merce- 
naria. 

Se  io  non  avessi  lungamente  trattato 
in  altra  mia  opera,  quanto  sia  inutile 
la  milizia  mercenaria  ed  ausiliare,  e 
quanto  utile  la  propria,  io  mi  disten- 
derei in  questo  discorso  assai  più  clic 
non  farò  ; ma  avendone  altrove  parlato 
a lungo,  sarò  in  questa  parte  brieve. 
Nè  mi  è paruto  in  tutto  da  passarla, 
avendo  trovato  in  Tito  Livio,  quanto  ai 
soldati  ausiliari,  sì  largo  essempio  ; per- 
chè i soldati  ausiliari  sono  quelli  che  un 
principe  o una  repubblica  manda,  ca- 
pitanati c pagati  da  lei,  in  tuo  aiuto. 
E venendo  al  testo  di  Tito  Livio,  dico 
che,  avendo  i Romani,  in  diversi  luoghi, 
rotti  due  eserciti  de’  Sanniti  con  li  eser- 
citi loro,  i quali  avevano  mandati  al  soc- 
corso de*  Capovani;  e per  questo  liberi 


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DEI  DISCORSI 


i Capovani  da  quella  guerra  ehe  i San- 
niti facevano  loro;  e volendo  ritornare 
verso  Roma;  ed  acciò  che  i Capovani, 
spogliati  di  presidio,  non  diventassino 
di  nuovo  preda  dei  Sanniti;  lasciarono 
due  legioni  nel  paese  di  Capova,  che  gli 
difendesse.  Le  quali  legioni  marcendo 
nell*  ozio,  cominciarono  a dilettarsi  in 
quello;  tanto  che,  dimenticata  la  patria 
e la  riverenza  del  Senato,  pensarono  di- 
prendere T armi,  ed  insignorirsi  di  quel 
paese  che  loro  con  la  loro  virtù  avevano 
difeso,  parendo  loro  che  gli  abitatori 
non  fussino  degni  di  possedere  quelli 
beni  che  non  sapevano  difendere.  La 
qual  cosa  presentita,  fu  dai  Romani  op- 
pressa e corretta:  come,  dove  noi  par- 
leremo delle  congiure,  largamente  si 
mostrerà.  Dico  pertanto  di  nuovo,  come 
di  tutte  V altre  qualità  di  soldati,  gli 
ausiliari  sono  i più  dannosi.  Perchè  in 
essi  quel  principe  o quella  repubblica 
che  gli  adopera  in  suo  aiuto,  non  ha 
autorità  alcuna,  ma  vi  ha  solo  V autorità 


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LIBRO  SECO.XBO.  413  . 

colui  che  li  manda.  Perchè  i soldati  au- 
siliari sono  quelli  che  ti  sono  mandati 
da  un  principe,  come  ho  detto,  sotto 
suoi  capitani,  sotto  sue  insegne  e pagati 
da  lui:  come  fu  questo  esercito  che  i 
Romani  mandarono  a Capova.  Questi 
tali  soldati,  vinto  eh’  egli  hanno,  il  più 
delle  volte  predano  così  colui  che  gli  ha 
condotti,  come  colui  contea  a chi  e’  sono 
condotti  ; e lo  fanno  o per  malignità  del 
principe  che  gli  manda,  o per  ambizion 
loro.  E benché  la  intenzione  de’ Romani 
non  fusse  di  rompere  1’  accordo  e le 
convenzioni  che  avevano  fatte  coi  Capo- 
vani; nondimeno  la  facilità  che  pareva 
a quelli  soldati  di  opprimergli  fu  tanta, 
che  gli  potette  persuadere  a pensare  di 
torre  ai  Capovani  la  terra  e lo  stato. 
Potrebbesi  di  questo  dare  assai  essempi; 
ma  voglio  mi  basti  questo,  e quello  dei 
Regini,  ai  quali  fu  tolto  la  vita  e la 
terra  da  una  legione  che  i Romani  vi 
avevano  messa  in  guardia.  Debbe,  adun- 
que, un  principe  o una  repubblica  pi- 


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4U 


DE!  DISCORSI 


gliare  prima  ogni  altro  partilo,  che  ri- 
correre a conti  aì  re  nello  Stato  suo  per 
sua  difesa  genti  nusiliarie,  quando  ei 
s’ abbia  a fidare  sopra  quelle  ; perchè 
ogni  patto,  ogni  convenzione,  ancora  che 
darà,  di’  egli  arà  col  nemico,  gli  sarà 
più  leggieri  che  tal  partito.  E se  si  leg- 
geranno bene  le  cose  passate,  c diseor- 
rerannosi  le  presenti,  si  troverà,  per 
uno  che  n’abbia  avuto  buon  fine,  infi- 
niti esser  rimasi  ingannati.  Ed  uno  prin- 
cipe o una  repubblica  ambiziosa  non 
può  avere  la  maggiore  occasione  di  oc- 
cupare una  città  o una  provincia,  che 
esser  richiesto  che  mandi  gli  eserciti 
suoi  alla  difesa  di  quella.  Pertanto,  co- 
lui che  è tanto  ambizioso  che,  non  so- 
lamente per  difendersi  ma  per  offendere 
altri,  chiama  simili  aiuti,  cerca  d’acqui- 
stare quello  che  non  può  tenere,  e che 
da  quello  che  gliene  acquista  gli  può 
facilmente  esser  tolto.  Ma  l’ ambizione 
dell’  uomo  è tanto  grande,  che  per  ca- 
varsi una  presente  voglia,  non  pensa  al 


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LIBRO  SECONDO. 


445 


male  che  è in  brieve  tempo  per  risul- 
targliene. Nè  lo  muovono  gli  antichi  es- 
sempi,  cosi  in  questo  come  nell’  altre 
cose  discorse;  perchè,  se  e’  fussino  mossi 
da  quelli,  vedrebbero  come  quanto  più 
si  mostra  la  liberalità  coi  vicini,  e d’es- 
sere più  alieno  da  occupargli,  tanto  più 
ti  si  gettano  in  grembo:  come  di  sotto, 
per  lo  essempio  de’  Capovani,  si  dirà. 

Gap.  XXI.  — Il  primo  Pretore  che  i Ro- 
mani mandarono  in  alcun  luogoj  fu 
a Capova,  dopo  quattrocento  anni  che 
cominciarono  a far  guerra. 

Quanto  i Romani  nei  modo  del  pro- 
cedere loro  circa  Y acquistare  fossero 
differenti  da  quelli  che  ne’  presenti  tempi 
ampliano  la  iuri&dUionc  loro,  si  è assai 
di  sopra  discorso;  e come  e’ lasciavano 
quelle  terre,  che  non  disfacevano,  vivere 
con  le  leggi  loro,  eziandio  quelle  che 
non  come  compagne,  ma  come  soggette 
si  arrendevano  loro;  ed  in  esse  non  lu- 


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DEI  DISCORSI 


446 

sciavano  alcun  segno  d’  imperio  per  il 
Popolo  romano,  ma  Y obbligavano  ad 
alcune  condizioni,  le  quali  osservando, 
le  mantenevano  nello  stato  e dignità 
loro.  E conoscesi  questi  modi  esser  stati 
osservati  infino  che  gli  uscirono  d’ Ita- 
lia, e che  cominciarono  a ridurre  i re- 
gni e gli  Stati  in  provincie.  Di  questo 
ne  è chiarissimo  essempio,  che  il  primo 
Pretore  che  fusse  mandato  da  loro  in 
alcun  luogo,  fu  a Capova:  il  quale  vi 
mandarono,  non  per  loro  ambizione,  ma 
perchè  e’  ne  furono  ricerchi  dai  Capo- 
vani; i quali,  essendo  intra  loro  discor- 
dia, giudicarono  esser  necessario  avere 
dentro  nella  città  un  cittadino  romano 
che  gli  riordinasse  e riunisse.  Da  questo 
essempio  gli  Anziati  mossi,  e constretti 
dalla  medesima  necessità,  domandarono 
ancora  loro  un  Prefetto;  e Tito  Livio 
dice  in  su  questo  accidente,  ed  in  6U 
questo  nuovo  modo  d’ imperare,  quod 
/aro  non  solttm  arma j sed  jura  romana 
pollebant.  Yedesi,  pertanto,  quanto  qu$- 


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LIBRO  SECONDO. 


447 


sto  modo  facilitò  I’  augumento  romano. 
Perché  quelle  città,  massime,  che  sono 
use  a viver  libere,  o consuete  governarsi 
per  suoi  provinciali,  con  altra  quiete 
stanno  contente  sotto  uno  dominio  che 
non  veggono,  ancora  eli’  egli  avesse  in 
sè  qualche  gravezza,  che  sotto  quello 
che  veggendo  ogni  giorno,  pare  loro 
che  ogni  giorno  sia  rimproverata  loro 
la  servitù.  Appresso,  ne  seguita  un  al- 
tro bene  per  il  principe:  che  non  avendo 
i suoi  ministri  in  mano  i giudizi,  ed  i 
magistrati  che  civilmente  o criminal- 
mente rendono  ragione  in  quelle  cittadi, 
non  può  nascere  mai  sentenza  con  ca- 
rico o infamia  del  principe;  e vengono 
per  questa  via  a mancare  molte  cagioni 
«li  calunnia  e d’  odio  verso  di  quello.  E 
che  questo  sia  il  vero,  oltre  agli  antichi 
esscinpi  che  se  ne  potrebbono  addurre, 
ee  n’  è uno  essempio  fresco  in  Italia. 
Perchè,  come  ciascuno  sa,  scudo  Genova 
stata  più  volte  occupata  da’  Franciosi, 
sempre  quel  re,  eccetto  che  ne’  presenti 


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448 


DEI  DISCORSI 


tempi,  vi  ha  mandato  un  governatore 
francioso  che  in  suo  nome  la  governi. 
Al  presente  solo,  non  per  elezione  del 
re,  ma  perchè  cosi  ha  ordinato  la  ne- 
cessità, ha  lasciato  governarsi  quella 
città  per  sè  medesima,  e da  un  gover- 
natore genovese.  E senza  dubbio,  chi 
ricercasse  quali  di  questi  duoi  modi 
rechi  più  sicurtà  al  re  dell*  imperio  di 
essa,  e più  contentezza  a quelli  popolari, 
senza  dubbio  approverebbe  questo  ultimo 
modo.  Oltra  di  questo,  gli  uomini  tanto 
più  ti  si  gettano  in  grembo,  quanto  più 
tu  pari  alieno  dallo  occupargli  ; e tanto 
meno  ti  temono  per  conto  della  loro  li- 
bertà, quanto  più  sei  umano  e dome- 
stico con  loro.  Questa  dimestichezza  e 
liberalità  fece  i Capovani  correre  a chie- 
dere il  Pretore  ai  Romani  : che  se  dai 
Romani  si  fusse  mostro  una  minima 
voglia  di  mandarvelo,  subito  sarebbono 
ingelositi,  c si  sarebbono  discostati  da 
loro.  Ma  che  bisogna  ire  per  gli  essempi 
a Capova  ed  a Roma,  avendone  in  Fi- 


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LIBRO  SECONDO. 


449 

lenze  ed  in  Toscana?  Ciascuno  sa  quanto 
tempo  è che  la  città  di  Pistoia  venne 
volontariamente  sotto  V imperio  fioren- 
tino. Ciascuno  ancora  sa  quanta  inimi- 
cizia è stata  intra  i Fiorentini,  ed  i Pi- 
sani, Lucchesi  e Sanesi  : e questa  diver- 
sità d’animo  non  è nata  perchè  i Pi- 
stoiesi non  prezzino  la  loro  libertà 
come  gli  altri,  e non  si  giudichino  da 
quanto  gli  altri;  ma  per  essersi  i Fio- 
rentini portoti  con  loro  sempre  come 
fratelli,  e con  gli  altri  come  nimici. 
Questo  ha  fatto  clic  i Pistoiesi  sono  corsi 
volontari  sotto  F imperio  loro  : gli  altri 
hanno  fatto  e fanno  ogni  forza  per  non 
vi  pervenire.  E senza  dubbio,  i Fioren- 
tini se,  o per  vie  di  leghe  o di  aiuto, 
avessero  dimesticati  e non  inselvatichiti 
i suoi  vicini,  a quest’ora  sarebbero  si- 
gnori di  Toscana.  Non  è per  questo  che 
io  giudichi  che  non  si  abbia  ad  operare 
l’armi  e le  forze;  ma  si  debbono  riser- 
vare in  ultimo  luogo,  dove  e quando  gli 
altri  modi  non  bastino. 

Machiavelli,  Discorsi.  — i-  29 


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450 


DEI  DISCORSI 


Cap.  XXII.  — Quanto  siano  false  molte 
volte  le  oppinioni  degli  uomini  nel 
giudicare  le  cose  grandi. 

Quanto  siano  false  molte  volle  le  op- 
pinioui  degli  uomini,  1’  hanno  visto  e 
veggono  coloro  che  si  trovano  testimoni 
delle  loro  deliberazioni:  le  quali  molle 
volte,  se  non  sono  deliberate  da  uomini 
eccellenti,  sono  contrarie  ad  ogni  verità. 
E perchè  gli  eccellenti  uomini  nelle 
repubbliche  corrotte,  nei  tempi  quieti 
massime,  e per  invidia  c per  altre  am- 
biziose cagioni,  sono  inimicati;  si  va 
dietro  a quello  che  da  uno  comune  in- 
ganno è giudicato  bene,  o da  uomini 
che  più  presto  vogliono  i favori  che  il 
bene  deir  universale,  è messo  innanzi.  Il 
quale  inganno  dipoi  si  scuopre  nei  tempi 
avversi,  e per  necessità  si  rifugge  a 
quelli  che  nei  tempi  quieti  erano  come 
dimenticati  : come  nel  suo  luogo  in  questa 
parte  appieno  si  discorrerà.  Nascono  an- 


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« 


LIBRO  SECONDO.  451 

cora  certi  accidenti,  dove  facilmente  sono 
ingannali  gli  uomini  che  non  hanno 
grande  Esperienza  delle  cose,  avendo  in 
sè  quello  accidente  che  nasce  molti  ve* 
risimili,  atti  a far  credere  quello  die 
gli  uomini  sopra  tal  caso  si  persuadono. 
Queste  cose  si  sono  dette  per  quello  che 
Numicio  pretore,  poiché  i Latini  furono 
rotti  dai  Romani,  persuase  loro;  e per 
quello  che  pochi  anni  sono  si  credeva 
per  molti,  quando  Francesco  1 re  di 
Francia  venne  ali’  acquisto  di  Milano, 
che  era  difeso  dai  Svizzeri.  Dico  per- 
tanto, che,  essendo  morto  Luigi  XII,  e 
succedendo  nel  regno  di  Francia  Fran- 
cesco d’  Angolem,  c desiderando  resti- 
tuire al  regno  il  ducato  di  Milano,  stato 
pochi  anni  innanzi  occupato  dai  Sviz- 
zeri mediante  il  conforto  di  Papa  Giu- 
lio II,  desiderava  aver  aiuti  in  Italia  che 
gli  facilitassero  l’ impresa  ; cd  oltre  ni 
Veniziani,  che  il  re  Luigi  s’aveva  rigua- 
dagnati, tentava  i Fiorentini  e Papa 
Leone  X ; parendogli  la  sua  impresa  più 


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452 


DEI  DISCORSI 


fucile  qualùnque  volta  s’  avesse  riguada- 
gnati costoro,  per  essere  le  genti  del  re 
di  Spagna  in  Lombardia,  ed  altre  forze 

dello  imperadore  in  ^Verona.  Non  cede 

\ 

Papa  Leone  alle  voglie  del  re,  ma  fu 
persuaso  da  quelli  che  lo  consigliavano 
(secondo  si  disse),  si  stesse  neutrale, 
mostrandogli  in  questo  partito  consistere 
la  vittoria  certa:  perchè  per  la  Chiesa 
non  si  faceva  avere  potenti  in  Italia  nè 
il  re  nè  i Svizzeri;  ma  volendola  ridurre 
nell’antica  libertà,  era  necessario  libe- 
rarla dalla  servitù  dell’  uno  e dell’altro. 
E perchè  vincere  1’  uno  e 1’  altro,  o di 
per  sè  o tutti  due  insieme,  non  era  possi- 
bile 'r  conveniva  che  superassino  1’  uno 
l’altro,  e che  la  Chiesa  con  gli  amici 
suoi  urlasse  quello  poi  che  rimanesse 
vincitore.  Ed  era  impossibile  trovare 
migliore  occasione  che  la  presente,  sen- 
do  1’  uno  e 1’  altro  in  su’  campi,  ed  aven- 
do il  Papa  le  sue  forze  ad  ordine  da 
potere  rappresentarsi  in  sui  confini  di 
Lombardia,  e propinquo  all’  uno  e l’altro 


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LIBRO  SECONDO. 


453 


esercito,  sotto  colore  di  voler  guardare 
le  cose  sue,  e quivi  tanto  stare  che  ve- 
nissero alla  giornata;  la  quale  ragione- 
volmente, sendo  Y uno  e V altro  esercito 
virtuoso,  doverrebbe  esser  sanguinosa 
per  tutte  due  le  parti,  e lasciare  in  modo 
debilitato  il  vincitore,  che  fusse  al  Papa 
facile  assaltarlo  e romperlo:  e cosi  ver- 
rebbe con  sua  gloria  a rimanere  signore 
di  Lombardia,  ed  arbitro  di  tutta  Italia. 
E quanto  questa  oppiuione  fusse  falsa, 
si  vide  per  lo  evento  della  cosa:  perchè, 
sendo  dopo  una  lunga  zuffa  sufi  supe- 
rati i Svizzeri,  non  che  le  genti  del  Papa 
c di  Spagna  presumessero  assaltare  i 
vincitori,  ma  si  prepararono  alla  fuga  ; la 
quale  ancora  non  sarebbe  loro  giovata, 
se  non  fusse  stato  o la  umanità  o la 
freddezza  del  re,  che  non  cercò  la  se- 
conda vittoria,  ma  gli  bastò  fare  accordo 
con  la  Chiesa.  Ha  questa  oppinione  certe 
ragioni  che  discosto  paiono  vere,  ma 
sono  al  tutto  aliene  dalla  verità.  Perchè, 
rade  volte  accade  che  M vincitore  perda 


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454 


DEI  DISCORSI 


assai  suoi  soldati:  perchè  de5 vincitori  ne 
muore  nella  zuffa,  non  nella  fuga  ; e nello 
ardore  del  combattere,  quando  gli  uo- 
mini hanno  volto  il  viso  1*  uno  all*  altro, 
ne  cade  pochi,  massime  perchè  la  dura 
poco  tempo  il  più  delle  volte;  e quando 
pur  durasse  assai  tempo,  e de’ vincitori 
ne  morisse  assai,  è tanta  la  riputazione 
che  si  tira  dietro  la  vittoria,  ed  il  ter- 
rore che  la  porta  seco,  che  di  lunga 
avanza  il  danno  che  per  la  morte  de'suoi 
soldati  avesse  sopportato.  Talché,  se  uno 
esercito  il  quale,  in  su  la  oppinione  che 
e*  fusse  debilitato,  andasse  a trovarlo, 
si  troverebbe  ingannato;  se  già  non  fusse 
l’esercito  tale,  che  d’ogni  tempo,  e to- 
nanti alla  vittoria  e poi,  potesse  com- 
batterlo. In  questo  caso  e’  potrebbe,  se- 
condo la  sua  fortuna  e virtù,  vincere 
e perdere;  ma  quello  clic  si  fusse  az- 
zuffato prima,  ed  avesse  vinto,  arebbe 
piuttosto  vantaggio  dall’altro.  11  che  si 
conosce  certo  per  la  esperienza  de’  Lati- 
ni e per  la  fallacia  che  Nummo  pretore 


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LIBRO  SECONDO. 


455 

prese,  e per  il  danno  che  ne  riportorno 
quelli  popoli  che  gli  crederono:  il  quale, 
vinto  che  i Romani  ebbero  i Latini,  gri- 
dava per  tutto  il  paese  di  Lazio,  che 
allora  era  tempo  assaltare  i Romani  de- 
bilitati per  la  zuffa  avevano  fatta  con 
loro;  e che  solo  appresso  i Romani  era 
rimaso  il  nome  della  vittoria,  ma  tutti 
gli  altri  danni  avevano  sopportati  come 
se  fussino  stati  vinti;  c che  ogni  poco 
di  forza  che  di  nuovo  gli  assaltasse,  era 
per  spacciargli.  Donde  quelli  popoli  che 
gli  crederono,  fecero  nuovo  esercito,  e su- 
bito furono  rotti,  e patirono  quel  danno 
che  patiranno  sempre  coloro  che  ter- 
ranno simili  oppinioni. 

Gap.  XXIIL  — Quanto  i Romani  nel 
giudicare  i sudditi  per  alcuno  acci- 
dente che  necessitasse  tal  giudizio j 
fuggivano  la  via  del  mezzo. 

Jam  Laiio  is  status  crai  rerum  * ut 
ncque  pacem , ncque  bcllum  pati  possnnt. 


DEI  DISCORSI 


ÌÒ6 

Di  tutti  gli  stati  infelici,  è infelicissimo 
quello  d’  un  principe  o d’  una  repub- 
blica clic  è ridotto  in  termine  che  non 
può  ricevere  la  pace,  o sostenere  la 
guerra  : a che  si  riducono  quelli  che 
sono  dalie  condizioni  della  pace  troppo 
offesi  ; e dall’  altro  canto,  volendo  far 
guerra,  convien  loro  o gittarsi  in  preda 
di  chi  gli  aiuti,  o rimanere  preda  del 
nimico.  Ed  a tutti  questi  termini,  si 
viene  per  cattivi  consigli,  e cattivi  pala- 
titi, da  non  avere  misuralo  bene  le  forze 
sue,  come  di  sopra  si  disse.  Perchè 
quella  repubblica  o quei  principe  che 
bene  le  misurasse,  con  difficultà  si  cou- 
durrebbe  nel  termine  si  condussono  i 
Latini:  i quali  quando  non  dovevano 
accordare  con  i Romani,  accordarono; 
e quando  non  dovevano  rompere  loro 
guerra,  la  ruppono:  e così  seppono  fare 
in  modo,  che  la  inimicizia  ed  amicizia 
dei  Romani  fu  loro  ugualmente  danno- 
sa. Erano,  adunque,  vinti  i Latini  ed  al 
tutto  afflitti,  prima  da  Manlio  Torquato, 


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LIBRO  SECONDO. 


457 

e dipoi  da  Cammillo:  il  quale  avendogli 
costretti  a darsi  e rimettersi  nelle  brac- 
cia de’ Romani,  ed  avendo  messo  la  guar- 
dia per  tutte  le  terre  di  Lazio,  e preso 
da  tutte  gli  staticità  ; tornato  in  Roma, 
riferì  al  Senato  come  tutto  Lazio  era 
nelle  mani' del  Popolo  romano.  E per- 
chè questo  giudizio  è notabile,  e inerita 
d’  essere  osservato,  per  poterlo  imitare 
quando  simili  occasioni  sono  date  a’  prin- 
cipi, io  voglio  addurre  le  parole  di  Li- 
vio poste  in  bocca  di  Cammillo;  le  quali 
fanno  fede  e del  modo  che  i Romani 
tennono  in  ampliare,  e come  ne’ giudizi 
di  Stato  sempre  fuggirono  la  via  del 
mezzo,  e si  volsono  agli  estremi:  perchè 
un  governo  non  è altro  che  tenere  in 
modo  i sudditi,  che  non  ti  possano  o 
debbano  offendere.  Questo  si  fu  o con 
assicurarsene  in  tutto,  togliendo  loro 
ogni  via  da  nuocerti;  o con  beneficargli 
in  modo,  che  non  sia  ragionevole  ch’egli- 
no abbino  a desiderare  di  mutar  for- 
tuna. li  che  tutto  si  comprende,  e prima 


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458 


DEI  Disconsi 


per  la  proposta  di  Cammillo,  c poi  per 
il  giudizio  dato  dal  Senato  sopra  quella. 
Le  parole  sue  furono  queste:  Dii  im- 
mortale s ita  vos  potentcs  hujus  constiti 
fecerunl,  ut  sit  Lalium,  an  non  sii , in 
vostra  manu  posuerint.  Jtaque  pacctn 
vobiSj  quod  ad  Lalinos  allinei,  parare 
in  perpeluum,  vcl  scevicndo,  vel  ig na- 
scendo potestis.  Vultis  crudeliter  consti- 
leve  in  dedilos,  viclosque  ? licei  delere 
omno  I. aduni.  Vultis,  exemplo  majorum, 
auqcrc  rem  romanam , viclos  in  civita- 
lem  accipiendo  ? materia  crescendi  per 
summam  gloriam  suppeditat.  Certe  id 
fìrmissimum  imperium  est,  quo  obedien- 
tes  gaudenl.  Illorum  igitur  anirnos , dum 
cxpcctatione , slupenl,  seti  pana,  seu 
benefìcio  prceoccupari  opportet.  A questa 
proposta  successe  la  deliberazione  del 
Senato:  la  quale  fu,  secondo  le  parole 
del  Consolo,  che  recatosi  innanzi,  terra 
per  terra,  tutti  quelli  eh’  erano  di  mo- 
mento, o gli  beneficarono  o gli  spenso- 
no  ; facendo  ai  beneficati  esenzioni,  pri- 


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LIBRO  SECOSDO. 


45‘J 

vilegi,  donando  loro  la  città,  e da  ogni 
parte  assicurandogli  ; di  quelli  altri  dis- 
fecero le  terre,  mandaronvi  colonie,  ri- 
dussongli  in  Roma,  dissiparongli  tal- 
mente che  con  \9  arme  e con  il  consiglio 
non  potevano  più  nuocere.  Nè  usorno 
mai  la  via  neutrale  in  quelli,  come  ho 
detto,  di  momento.  Questo  giudizio  deb- 
bono i principi  imitare.  A questo  do- 
vevano accostarsi  i Fiorentini,  quando 
nel  1502  si  ribellò  Arezzo,  e tutta  la 
Val  di  Chiana  : il  che  se  avessino  fatto, 
nrebbero  assicurato  l’ imperio  loro,  e 
fatta  grandissima  la  città  di  Firenze,  e 
datogli  quelli  campi  che  per  vivere  gli 
mancano.  Ma  loro  usarono  quella  via 
del  mezzo,  la  quale  è perniziosissima 
nel  giudicare  gli  uomini;  e parte  degli 
Aretini  ne  confinarono,  parte  ne  con- 
dennarono;  a tutti  tolsono  gli  onori  e 
gli  loro  antichi  gradi  nella  città;  e la- 
sciarono la  città  intera.  E se  alcuno  cit- 
tadino nelle  deliberazioni  consigliava  che 
Arezzo  si  disfacesse  ; a quelli  che  pareva 


DEI  DISCORSI 


Ì60 

esser  più  savi,  dicevano  come  sarebbe 
poco  onore  della  repubblica  disfarla, 
perchè  parrebbe  che  Firenze  mancasse 
di  forze  di  tenerla.  Le  quali  ragioni  sono 
di  quelle  che  paiono  e non  sono  vere; 
perchè  con  questa  medesima  ragione  non 
si  arebbe  ad  ammazzare  uno  parricida, 
uno  scellerato  e scandaloso,  sendo  ver- 
gogna di  quel  principe  mostrare  di  non 
aver  forze  da  poter  frenare  uno  uomo 
solo.  E non  veggono  questi  tali  che 
hanno  simili  oppinioni,  come  gii  uomini 
particolarmente,  ed  una  città  tutta  in- 
sieme pecca  talvolta  contra  ad  uno 
Stato,  che  per  esempio  agli  altri,  per 
sicurtà  di  sé,  non  ha  altro  rimedio  un 
principe  che  spengerla.  E l’onore  con- 
siste nel  sapere  e potere  castigarla  ; non 
nel  potere  con  mille  pericoli  tenerla: 
perchè  quel  principe  che  non  castiga  chi 
erra,  in  modo  che  non  possa  più  erra- 
re, è tenuto  o ignorante  o vile.  Questo 
giudizio  che  i Romani  dettero,  quanto 
sia  necessario  si  conferma  ancora  per 


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TT 

« 


LIBRO  SECONDO.  461 

la  sentenza  che  dettero  de’  Privernati. 
Dove  si  debbe,  per  ii  testo  di  Livio,  no- 
tare due  cose:  1’  una,  quello  che  di  so- 
pra si  dice,  che  i sudditi  si  debbono  o 
beneficare  o spengere:  Poltra,  quanto 
la  generosità  dell’  animo,  quanto  il  par- 
lare il  vero  giovi,  quando  egli  è detto 
uel  conspetto  degli  uomini  prudenti.  Era 
ragunato  ii  Senato  romano  per  giudicare 
de’ Privernati,  i quali  sendosi  ribellati, 
erano  di  poi  per  forza  ritornati  sotto 
la  ubbidienza  romana.  Erano  mandati 
dal  popolo  di  Priverno  molti  cittadini 
per  impetrare  perdono  dal  Senato;  ed 
essendo  venuti  al  conspetto  di  quello, 
fu  detto  ad  un  di  loro  da  un  de’  Sena- 
tori, quam  pcenam  merilos  Privernales 
censeret.  Al  quale  Privernate  rispose  : 
E am  y quam  merentur  qui  se  libevtale 
dignos  ccnsent.  Al  quale  il  Consolo  re- 
plicò : Quid  si  pcenam  remiltimus  vobis, 
qualcm  nos  pacati i vobiscum  habituros 
speremus  ? A che  quello  rispose:  Si  bo~ 
m tm  dederitis , et  fidelem  et  perpetuarli  ; 


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4G'2  DEI  DISCORSI 

si  malam , haud  diuturna  m.  Donde  la 
più  savia  parte  del  Senato,  ancora  che 
molli  se  n’  alterassino,  disse:  se  audi • 
visse  vocem  el  liberi  et  viri  ; nec  credi 
posse  Uhm  popolum , aul  hominem,  de- 
nique  in  ea  condilione  cujus  eum  pestìi - 
teat,  diutius  quam  nccesse  sii,  mansu- 
rum.  ibi  pacem  esse  fidam , ubi  volun- 
tarii  pacati  svit , ncque  eo  loco  ubi  scr- 
vitutem  esse  velini , / idem  sperandovi 
esse.  Ed  in  su  queste  parole,  deliberorno 
che  i Privcrnati  fussero  ciltadini  roma- 
ni, e de’  privilegi  della  civililà  gli  ono- 
rarono, dicendo  : eos  demum  qui  nihil 
prceterquam  de  liberiate  cogitant,dignos 
esse , qui  Romani  fiant.  Tanto  piacque 
agli  animi  generosi  questa  vera  e ge- 
nerosa risposta;  perchè  ogni  altra  ri- 
sposta sarebbe  stata  bugiarda  e vile.  E 
coloro  che  credono  degli  uomini  altri- 
menti, massime  di  quelli  che  sono  usi 
o ad  essere  o a parere  loro  essere  li- 
beri, se  n’ingannano;  e sotto  queslo 
inganno  pigliano  partiti  non  buoni  per 


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LIBRO  SECO.IDO. 


463 

sé,  e da  non  satisfare  a loro.  Di  che 
nascono  le  spesse  ribellioni  e le  rovine 
degli  Stati.  Ma  per  tornare  al  discorso 
nostro,  conchiudo,  e per  questo  e per 
quello  giudizio  dato  dai  Latini:  quando 
si  ha  a giudicare  cittadi  potenti,  e che 
sono  use  a vivere  libere,  conviene  o * 
spegnerle  o carezzarle  ; altrimenti,  ogni 
giudizio  è vano.  E debbesi  fuggir  al 
tutto  la  via  del  mezzo,  la  quale  è pcr- 
niziosn,  come  la  fu  a’  Sanniti  quando 
avevano  rinchiuso  i Romani  alle  forche 
Caudine;  quando  non  volleno  seguire  il 
parere  di  quel  vecchio,  che  consigliò 
che  i Romani  si  lasciassero  andare  ono- 
rati, o che  s’  ammazzassero  tutti  ; ma 
pigliando  una  via  di  mezzo  disarman- 
dogli c mettendogli  sotto  il  giogo,  gli 
lasciarono  andare  pieni  d’ ignominia  e 
di  sdegno.  Talché  poco  dipoi  conobbero 
con  lor  danno  la  sentenza  di  quel  vec- 
chio essere  stata  utile,  e la  loro  dili- 
berazione dannosa;  come  nel  suo  luogo 
più  appieno  si  discorrerà. 


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m 


DEI  DISCORSI 


Cap.  XXIV.  — Le  fortezze  generalmente 

sono  molto  più  dannose  che  utili. 

Parrà  forse  a questi  savi  de*  nostri 
tempi  cosa  non  bene  considerata,  che  i 
Romani  nel  volere  assicurarsi  dei  popoli 
di  Lazio  e della  città  di  Priverno,  non 
pensassino  di  edificarvi  qualche  fortezza, 
la  qual  fusse  un  freno  a tenergli  in  fe- 
de; sendo,  massime,  un  detto  in  Firenze, 
allegato  da*  nostri  savi,  che  Pisa  e P al- 
tre simili  città  si  debbono  tenere  con  le 
fortezze.  E veramente,  se  i Romani  fus- 
sino  stati  fatti  come  loro,  egli  arebbero 
pensato  di  edificarle;  ma  perchè  egli 
erano  d*  altra  virtù,  d’ altro  giudizio, 
d’  altra  potenza,  e’  non  le  edificarono. 
E mentre  che  Roma  visse  libera,  e che 
la  seguì  gli  ordini  suoi  e le  sue  vir- 
tuose constiluzioni,  mai  n’edificò  per 
tenere  o città  o provincie;  ma  salvò 
bene  alcune  delle  edificate.  Donde  ve- 
duto il  modo  del  procedere  de’ Romani 


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LIBRO  SECONDO. 


5G5 


in  questa  parte,  e quello  eie’  prìncipi 
de’  nostri  tempi,  mi  pare  da  mettere  in 
considerazione,  se  gli  è bene  edificare 
fortezze,  se  le  fanno  danno  o utile  a 
quello  che  I’  edifica.  Dehbesi,  adunque, 
considerare  come  le  fortezze  si  fanno  o 
per  difendersi  da’nimici,  o per  difen- 
dersi da’  soggetti.  Nel  primo  caso  le 
non  sono  necessarie;  nel  secondo  dan- 
nose. E cominciando  a render  ragione 
perchè  nel  secondo  ^caso  le  siano  dan- 
nose, dico  che  quel  principe  o quella 
repubblica  che  ha  paura  de’  suoi  sud- 
diti e delta  ribellione  loro,  prima  con- 
viene che  tal  paura  nasca  da  odio  che 
abbiano  i suoi  sudditi  seco;  l’odio, 
da’ mali  suoi  portamenti  ; i mali  porta- 
menti nascono  o da  poter  credere  te- 
nergli con  forza,  o da  poca  prudenza  di 
chi  gli  governa  : ed  una  delle  cose  clic 
fa  credere  potergli  forzare,  è l’  avere 
loro  addosso  le  fortezze;  perchè  i mali 
trattamenti,  clic  sono  cagione  dell’  odio, 
nascono  in  buona  parte  per  avere  quel 
.Vachi avelli,  Discorsi.  — 1.  30 


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DEI  DISCORSI 


4<36 

principe,  o quella  repubblica,  le  fortez- 
ze: le  quali,  quando  sia  vero  questo,  di 
gran  lunga  sono  più  nocive,  che  utili. 
Perchè  in  prima,  come  è detto,  le  ti 
fanno  essere  più  audace  e più  violento 
nei  sudditi;  dipoi,  non  ci  è quella  si- 
curtà che  tu  ti  persuadi  : perchè  tutte 
le  forze,  tutte  le  violenze  che  si  usano 
per  tenere  un  popolo,  sono  nulla  eccetto 
che  due;  o che  tu  abbia  sempre  da  met- 
tere in  campagna*  un  buono  esercito, 
come  avevano  i Romani;  o che  gli  dis- 
sipi, spenga,  disordini,  disgiunga,  in 
modo  che  non  possino  convenire  ad  of- 
fenderti. Perchè  se  tu  gP  impoverisci, 
spoliatis  arma  supersunt  : se  tu  gli  di- 
sarmi, furor  arma  ministrai:  se  tu 
ammazzi  i capi,  e gli  altri  segui  d’ ingiu- 
riare, rinascono  i capi,  come  quelli  det- 
P idra:  se  tu  fai  le  fortezze,  le  sono 
utili  ne’ tempi  di  pace,  perchè  ti  danno 
più  animo  a far  loro  male;  ma  ne’ tempi 
di  guerra  sono  inutilissime,  perchè  le  so- 
no assaltate  dal  nimico  e da’  sudditi,  nè  è 


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LIBRO  SECONDO. 


467 


possibile  che  le  faccino  resistenza  ed 
all’uno  ed  all’altro.  E se  inai  furono 
disutili,  sono  ne’  tempi  nostri  rispetto 
alle  artiglierie  ; per  il  furore  delle  quali 
i luoghi  piccoli,  e dove  altri  non  si  possa 
ritirare  con  li  ripari,  è impossibile  di- 
fendere, come  di  sopra  discorremmo.  Io 
voglio  questa  materia  disputarla  più 
tritamente.  0 tu,  principe,  vuoi  con  que- 
ste fortezze  tenere  in  freno  il  popolo 
delia  tua  città;  o tu,  principe,  o tu,  re- 
pubblica, vuoi  frenare  una  città  occu- 
pata per  guerra.  Io  ini  voglio  voltare 
al  principe,  e gli  dico:  che  tal  fortezza 
per  tenere  in  freno  i suoi  cittadini  non 
può  essere  più  inutile  di  quello  eh’ ella 
è,  per  le  cagioni  dette  di  sopra  ; perchè 
la  ti  fa  più  pronto  c men  rispettivo  ad 
oppressateli  ; e quella  oppressione  gli 
fa  si  esposti  alla  tua  roviua,  e gli  ac- 
cende in  modo,  che  quella  fortezza  che 
ne  è cagione,  non  ti  può  poi  difendere. 
Tanto  che  un  principe  savio  e buono, 
per  mantenersi  buono,  per  non  dare 


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4G8 


DEI  DISCORSI 


cagione  nè  ardire  a’ figliuoli  di  diven- 
tare tristi,  mai  non  farà  fortezza,  ac- 
ciocché quelli  non  in  su  le  fortezze,  ina 
in  su  la  benivolenza  degli  uomini  si 
fondino.  E se  il  conte  Francesco  Sforza, 
diventato  duca  di  Milano,  fu  riputato 
savio,  e nondimeno  fece  in  Milano  una 
fortezza  ; dico  che  iti  questo  caso  ei  non 
fu  savio,  e V effetto  ha  dimostro,  come 
tal  fortezza  fu  a danno,  e non  a sicurtà 
de’  suoi  eredi.  Perchè  giudicando  me- 
diante quella  viver  sicuri,  e potere  of- 
fendere gli  cittadini  e sudditi  loro,  non 
perdonarono  ad  alcuna  generazione  di 
violenza;  talché  diventati  sopra  modo 
odiosi,  perderono  quello  Stato  come 
prima  il  nimico  gli  assaltò:  nè  quella 
fortezza  gli  difese,  nè  fece  loro  nella 
guerra  utile  alcuno,  e nella  pace  avea 
loro  fatto  danno  assai.  Perchè  se  non 
avessiuo  avuto  quella,  e se  per  poca 
prudenza  avessino  maneggiati  agramente 
i loro  cittadini,  arebbero  scoperto  il  pe- 
ricolo più  presto,  e sarebbonsene  riti- 


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LIBRO  SCCOXDO. 


46ì> 

rati;  ed  orebbero  poi  potuto  più  ani- 
mosamente resistere  all’  impeto  francioso 
co’  sudditi  amici  senza  fortezza,  die  con 
quelli  inimici  con  la  fortezza:  le  quali 
non  ti  giovano  in  alcuna  parte;  perchè, 
o le  si  perdono  per  frali  de  di  chi  le 
guarda,  o per  violenza  di  chi  I’  assalta, 
o per  fame.  E se  tu  vuoi  che  le  ti  gio- 
vino, e ti  aiutino  a ricuperare  uno  Stato 
perduto,  dove  ti  sia  solo  rimaso  la  for- 
tezza ; ti  conviene  avere  uno  esercito,  con 
il  quale  tu  possa  assaltare  colui  che 
t’ha  cacciato:  e quando  tu  abbia  questo 
esercito,  tu  riavesti  lo  Stato  in  ogni  mo- 
do, eziandio  che  la  fortezza  non  \i  fusse  ; 
c tanto  più  facilmente,  quanto  gli  uomini 
ti  fussiuo  più  amici  che  non  ti  erano 
avendogli  mal  trattati  per  l’orgoglio 
della  fortezza.  E per  isperienzn  s’  è vi- 
sto, come  questa  fortezza  di  Milano,  nè 
agli  Sforzeschi  nè  a’  Franciosi,  ne’ tempi 
avversi  dell’  uno  e dell’  altro,  non  ha 
fatto  a alcunb  di  loro  utile  alcuno;  anzi 
a tutti  ha  recato  danni  e rovine  assai. 


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470 


DEI  DISCORSI 


non  avendo  pensato  mediante  quella  a 
più  onesto  modo  di  tenere  quello  Stato. 
Guido  Ubaldo  duca  di  Urbiuo,  figliuolo 
di  Federigo,  che  fu  ne’  suoi  tempi  tanto 
stimato  capitano,  sendo  cacciato  da  Ce* 
sarc  Borgia,  figliuolo  di  papa  Alessan- 
dro VI,  dello  stato;  come  dipoi,  per  uno 
accidente  nato,  vi  ritornò,  fece  rovinare 
tutte  le  fortezze  clic  erano  in  quella  pro- 
vincia, giudicandole  dannose.  Perchè, 
sendo  quello  amato  dagli  uomini,  per 
rispetto  di  loro  non  le  voleva  ; e per 
conto  de’  nimici,  vedeva  non  le  poter  di- 
fendere, avendo  quelle  bisogno  d’  uno 
esercito  in  campagna,  che  le  difendesse; 
talché  si  volse  a rovinarle.  Papa  Iulio, 
cacciati  i Bentivogli  di  Bologna,  fece  in 
quella  città  una  fortezza  ; e dipoi  faceva 
assassinare  quel  popolo  da  un  suo  go- 
vernatore : talché  quel  popolo  si  ribellò, 
e subito  perde  la  fortezza  ; e cosi  non 
gli  giovò  la  fortezza  e 1*  offese,  intanto 
clic  portandosi  altrimenti,  gli  arebbe 
giovato.  Niccolò  da  Castello,  padre  de’  Yi- 


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LIBRO  SECONDO. 


471 


teili,  tornato  nella  sua  patria  donile  era 
esule,  subito  disfece  due  fortezze  vi 
aveva  edificale  papa  Sisto  IV,  giudican- 
do, non  la  fortezza,  ma  la  benivolenza 
del  popolo  l’avesse  a tenere  in  quello 
stato.  Ma  di  tutti  gli  altri  essempi  il 
più  fresco,  il  più  notabile  in  ogni  parte, 
ed  atto  a mostrare  la  inutilità  dello  edi- 
ficarle e 1’  utilità  del  disfarle,  è quello 
di  Genova,  seguito  ne’  prossimi  tempi. 
Ciascuno  sa  come,  nel  1507,  Genova  si 
ribellò  da  Luigi  XII  re  di  Francia,  il 
quale  venne  personalmente  e con  tutte 
le  forze  sue  a racquietarla  ; e ricuperata 
che  1’  ebbe,  fece  una  fortezza,  fortissima 
di  tutte  l’ altre  delle  quali  al  presente 
si  avesse  notizia:  perchè  era  per  silo  e 
per  ogni  altra  circonstanza  inespugna-) 
bile,  posta  in  su  una  punta  di  colle  che 
si  distende  nel  mare,  chiamato  dai  Ge- 
novesi Codefa  ; e per  questo  batteva  tutto 
il  porto,  e gran  parte  della  terra  di  Ge- 
nova. Occorse  poi,  nel  1512,  che  sendo 
cacciate  le  genti  franciose  d’ Italia,.  Gc- 


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472 


DEI  DISCORSI 


novo,  nonostante  la  fortezza,  si  ribellò; 
e prese  lo  stalo  di  quella  Ottaviano  Fre-  * 
goso,  il  quale  con  ogni  industria,  in 
termine  di  sedici  mesi,  per  fame  la 
espugnò.  E ciascuno  credeva  e da  molti» 
n*  era  consigliato,  che  la  conservasse  per 
suo  rifugio  in  ogni  accidente:  ma  esso, 
come  prudentissimo,  conoscendo  che  non 
le  fortezze,  ma  la  volontà  degli  uomini 
mantenevano  i principi  in  stato,  la  ro- 
vinò. E cosi,  senza  fondare  lo  stato  suo 
in  su  la  fortezza,  ma  in  su  la  virtù  e 
prudenza  sua,  lo  ha  tenuto  e tiene.  E 
dove  a variare  lo  stato  di  Genova  sole- 
vano bastare  mille  fanti,  gli  avversari 
suoi  l’ hanno  assaltato  con  diecimila,  e 
non  T hanno  potuto  offendere.  Vedesi 
adunque  per  questo,  come  il  disfare  la 
fortezza  non  ha  offeso  Ottaviano,  ed  il 
farla  non  difese  il  re  di  Francia.  Per- 
chè, quando  e’  potette  venire  in  Italia 
con  l’  esercito,  e’  potette  ricuperare  Ge- 
nova, non  vi  avendo  fortezza;  ma  quando 
e’  non  potette  venire  in  Italia  con  l’cser- 


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LIBRO  SECONDO. 


473 


cito,  e*  non  potette  tenere  Genova,  aven- 
dovi la  fortezza.  Fu,  adunque,  di  spesa 
al  re  di  farla,  e vergognoso  il  perderla; 
a Ottaviano  glorioso  il  racquistarla,  ed 
utile  il  rovinarla.  Ma  vegnamo  alle  re- 
pubbliche che  fanno  le  fortezze  noli 
nella  patria,  ma  nelle  terre  che  le  acqui- 
stano. Ed  a mostrare  questa  fallacia, 
quando  e’  non  bastasse  V essempio  detto 
di  Francia  e di  Genova,  voglio  mi  basti 
Firenze  e Pisa  : dove  i Fiorentini  fecero 
le  fortezze  per  tenere  quella  città  ; e non 
conobbero  che  una  città  stata  sempre 
inimica  del  nome  fiorentino,  vissuta  li- 
bera, e che  ha  alla  ribellione  per  rifu- 
gio la  libertà,  era  necessario,  volendola 
tenere,  osservare  il  modo  romano;  o 
farsela  compagna,  o disfarla.  Perchè  la 
virtù  delle  fortezze  si  vidde  nella  venula 
del  re  Carlo;  al  quale  si  dettono  o per 
poca  fede  di  chi  le  guardava,  o per  ti- 
more di  maggior  male:  dove,  se  le  non 
fussino  state,  i Fiorentini  non  arcbbero 
fondato  11  potere  tenere  Pisa  sopra 


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474 


DEI  DISCORSI 


quelle,  e quel  re  non  arebbe  potuto  per 
quella  via  privare  i Fiorentini  di  quella 
città;  e gli  modi  con  li  quali  si  fussi 
mantenuta  fino  a quel  tempo,  sarebbero 
stati  per  avventura  sufficienti  a conser- 
varla, e senza  dubbio  non  arebbero  fatto 
più  cattiva  pruova  che  le  fortezze.  Con- 
chiudo dunque,  che  per  tenere  la  patria 
propria,  la  fortezza  è dannosa  ; per  te- 
nere le  terre  che  si  acquistano,  le  for- 
tezze sono  inutili:  e voglio  mi  basti 
I’  autorità  de’  Romani,  i quali  nelle  terre 
che  volevano  tenere  con  violenza,  smu- 
ravano, e non  muravano.  E chi  contra 
questa  oppinione  n’allegassi  negli  anti- 
chi tempi  Taranto,  e ne’  moderni  Bre- 
scia, i quali  luoghi  mediante  le  fortezze 
furono  ricuperati  dalla  ribellione  dei 
sudditi  ; rispondo  che  alla  ricuperazione 
di  Taranto,  in  capo  d’ uno  anno,  fu 
mandato  Fabio  Massimo  con  tutto  lo 
esercito,  il  quale  sarebbe  stato  alto  a 
ricuperarlo  eziandio  se  non  vi  fusse 
stata  la  fortezza;  e se  Fabio  usò  quella 


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LIBRO  SECONDO. 


• F>f 

4/o 

via,  quando  la  non  vi  fusse  stata  dareb- 
be usata  un’altra,  che  arebbe  fatto  il 
medesimo  effetto.  Ed  io  non  so  di  che 
utilità  sia  una  fortezza  che,  a renderti 
la  terra,  abbia  bisogno,  per  la  ricupe- 
razione d’  essa  d*  uno  esercito  consolare, 
e d’  un  Fabio  Massimo  per  capitano.  E 
che  i Romani  1*  avessino  ripresa  in  ogni 
modo,  si  vide  per  V essempio  di  Capova  ; 
dove  non  era  fortezza,  e per  virtù  dello 
esercito  la  riacquistarono.  Ma  vegliamo  a 
Brescia.  Dico,  come  rade  volte  occorre 
quello  che  è occorso  in  quella  ribellione, 
clic  la  fortezza  che  rimane  nelle  forze 
tue,  sendo  ribellata  la  terra,  abbia  uno 
esercito  grosso  e propinquo,  coiti’  era 
quel  de’  Franciosi  : perchè,  essendo  mon- 
signor di  Fois,  capitano  del  re,  con 
l’esercito  a Bologna,  intesa  la  perdita 
di  Brescia,  senza  differire  ne  andò  a 
quella  volta,  ed  in  tre  giorni  arrivato 
a Brescia,  per  la  fortezza  riebbe  la 
terra.  Ebbe,  pertanto,  ancora  la  fortezza 
di  Brescia,  a volere  clic  la  giovasse,  bi- 


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476 


DEI  DISCORSI 


sogno  d’ un  monsignor  di  Fois,  c d’  un 
esercito  francioso  che  in  tre  dì  la  soc- 
corresse. Sì  clic  F esscmpio  di  questo, 
all’  incontro  degli  essempi  contrari,  non 
basta  ; perchè  assai  fortezze  sono  state, 
nelle  guerre  de’  nostri  tempi,  prese  e 
riprese  con  la  mcdesimu  fortuna  che  si 
è ripresa  e presa  la  campagna,  non  so- 
lamente in  Lombardia,  ma  in  Romagna, 
nel  regno  di  Napoli,  c per  tutte  le  parti 
d’ Italia.  Ma,  quanto  allo  edificar  for- 
tezze per  difendersi  da’  n inaici  di  fuora, 
dico  che  le  non  sono  necessarie  a quelli 
popoli  nè  a quelli  regni  che  hanno  buoni 
eserciti;  ed  a quelli  che  non  hanno  buoni 
eserciti,  sono  inutili:  perchè  i buoni 
eserciti  senza  le  fortezze  sono  sufficienti 
a difendersi  ; le  fortezze  senza  i buoni 
eserciti  non  ti  possono  difendere.  E que- 
sto si  vede  per  isperienza  di  quelli  che 
sono  stati  e nei  governi  e nell*  altre 
cose  tenuti  eccellenti;  comesi  vede  dei 
Romani  e degli  Spartani:  che  se  i Ro- 
mani non  edificavano  fortezze,  gli  Spar- 


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LIBRO  SECONDO. 


477 


tani  non  solamente  si  astenevano  da 
quelle,  ma  non  permettevano  d’ aver 
mura  alla  loro  città;  perchè  volevano 
che  la  virtù  dell*  uomo  particolare,  non 
.altro  difensivo,  gli  difendesse.  Dondechè, 
essendo  domandato  uno  Spartano  da 
uno  Ateniese,  se  le  mura  d’  Atene  gli 
parevano  belle,  gli  rispose:  Si,  se  le 
fussino  abitate  da  donne.  Quel  principe, 
adunque,  che  abbi  buoni  eserciti,  quan- 
do in  sulle  marine  alla  fronte  dello 
Stato  suo  abbia  qualche  fortezza  che 
possa  qualche  dì  sostenere  lo  inimico 
infino  che  sia  a ordine,  sarebbe  qualche 
volta  cosa  utile,  ma  la  non  è necessaria. 
Ma  quando  il  principe  non  ha  buono 
esercito,  avere  le  fortezze  per  il  suo 
Stato  o alle  frontiere,  gli  sono  o dan- 
nose o inutili  : dannose,  perchè  facil- 
mente le  perde,  e perdute  gli  fanno 
guerra  ; o se  pur  le  fussino  sì  forti  che  M 
nimico  non  le  potesse  occupare,  sono 
lasciate  indietro  dallo  esercito  nimico,  e 
vennono  ad  essere  di  nessuno  frutto: 

V 


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478 


DEI  DISCORSI 


perchè  i buoni  eserciti,  quando  non  hanno 
gagliardissimo  riscontro,  entrano  nei 
paesi  nitnici  senza  rispetto  di  città  o di 
fortezza  che  si  lascino  indietro;  come 
si  vede  nell*  antiche  istorie,  e come  si 
vede  fece  Francesco  Maria,  il  quale 
ne’ prossimi  tempi  per  assaltare  Urbino 
si  lasciò  indietro  dieci  città  ni  miche, 
senza  alcuno  rispetto.  Quel  principe, 
adunque,  che  può  fare  buono  esercito, 
può  fare  senza  edificare  fortezza;  quello 
che  non  ha  V esercito  buono,  non  debbe 
edificare.  Debbe  bene  afforzare  la  città 
dove  abita,  e tenerla  munita,  e ben  di- 
sposti i cittadini  di  quella,  per  poter 
sostenere  tanto  un  impelo  nimico,  o che 
accordo,  o che  aiuto  esterno  lo  liberi. 
Tutti  gli  altri  disegni  sono  di  spesa 
ne’  tempi  di  pace,  ed  inutili  ne’  tempi 
di  guerra.  E così,  chi  considererà  tutto 
quello  ho  detto,  conoscerà  i Romani, 
come  savi  in  ogni  altro  loro  ordine, 
cosi  furono  prudenti  in  questo  giudizio 
dei  Latini  e de’  Privernati  ; dove,  non 


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LIBRO  SECONDO. 


479 


pensando  a fortezze,  con  più  virtuosi 
modi  e più  savi  se  ne  assicurarono. 

Gap.  XXV.  — Che  lo  assaltare  una  città 
disunita,  per  occuparla  mediante  la 
sua  disunione,  è partito  contrario. 

Era  tanta  disunione  nella  Repubblica 
romana  intra  la  Plebe  e la  Nobiltà,  clic 
i Veienti  insieme  con  gli  Etrusci,  me- 
diante tale  disunione,  pensarono  potere 
estinguere  il  nome  romano.  Ed  avendo 
fatto  esercito,  e corso  sopra  i campi  di 
Roma,  mandò  il  Senato  loro  contra  Gii. 
Manlio  e 2M.  Fabio;  i quali  avendo  con- 
dotto il  loro  esercito  propinquo  allo  eser- 
cito de’ Veienti,  non  cessavano  i Veien- 
ti, e con  assalti  e con  obbrobri,  offendere 
e vituperare  il  nome  romano:  e fu  tanta 
la  loro  temerità  ed  insolenza,  che  i Ro- 
mani di  disuniti  diventarono  uniti;  e 
venendo  alla  zuffa,  gli  ruppono  e vin- 
sono.  Vedesi  pertanto,  quanto  gli  uomini 
s’ ingannano,  come  di  sopra  discorrem- 


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DEI  DISCORSI 


480 

mo,  nel  pigliare  de’  parliti;  c come  molte 
volte  credono  guadagnare  una  cosa,  e 
la  perdono.  Credeltono  i Veienti  assal- 
tando i Romani  disuniti,  vincergli;  c 
quello  assalto  fu  cagione  della  unione 
di  quelli,  e della  rovina  loro.  Perchè  la 
cagione  della  disunione  delle  repubbli- 
che il  più  delle  volte  è P ozio  e la  pace; 
la  cagione  della  unione  è la  paura  e la 
guerra.  E però,  se  i Veienti  fussiuo  stati 
savi,  eglino  arebbono,  quanto  più  disu- 
nita vedevano  Roma,  tanto  più  tenuta 
da  loro  la  guerra  discosto,  e con  Parti 
della  pace  cerco  d’oppressargli.  Il  modo  è 
cercare  di  diventare  confidente  di  quella 
città  ciré  disunita;  ed  infino  che  non 
vengono  alP  arme,  come  arbitro,  maneg- 
giarsi intra  le  parli.  Venendo  alParme, 
dare  lenti  favori  alla  parte  più  debole; 
si  per  tenergli  più  in  su  la  guerra,  e 
fargli  consumare;  si  perchè  le  assai 
forze  non  gli  facessero  tutti  dubitare  che 
tu  volessi  opprimergli,  e diventar  loro 
principe.  E quando  questa  parte  è go- 


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LIBRO  SECONDO. 


481 


vernata  bene,  interverrà  quasi  sempre 
che  Y ara  quel  fine  che  tu  hai  presup- 
posto. La  città  di  Pistoia,  come  in  altro 
discorso  e ad  altro  proposito  dissi, 
non  venne  alla  Repubblica  di  Firenze 
con  altra  arte  che  con  questa;  perchè, 
sendo  quella  divisa,  c favorendo  i Fio- 
rentini or  Furia  parte  or  l’altra, senza 
carico  dell’  una  e dell’  altra,  la  condus- 
sono  in  termine,  che,  stracca  di  quel 
suo  vivere  tumultuoso,  venne  sponta- 
neamente a gittarsi  nelle  braccia  di  Fi- 
renze. La  città  di  Siena  non  ha  mai  mu- 
tato stato  col  favore  de’ Fiorentini,' se 
non  quando  i favori  sono  stati  deboli  e 
pochi.  Perchè,  quando  e’ sono  stali  assai 
e gagliardi,  hanno  fatto  quella  città  unita 
alla  difesa  di  quello  stato  che  regge.  Io 
voglio  aggiungere  ai  soprascritti  un  al- 
tro essempio.  Filippo  Visconti,  duca  di 
Milano,  più  volte  mosse  guerra  ai  Fio- 
rentini, fondatosi  sopra  le  disunioni  loro, 
e sempre  ne  rimase  perdente;  talché 
gli  ebbe  a dire,  dolendosi  delle  sue  im- 
Machiavei li,  Discorsi.  — 1.  31 


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ORI  DISCORSI 


482 

prese,  come  le  pazzie  de’ Fiorentini  gli 
avevano  fatto  spendere  inutilmente  due 
milioni  d’  oro.  Restarono,  adunque,  co- 
me di  sopra  si  dice,  ingannati  i Veienli 
e gli  Toscani  da  questa  oppinione,  e fu- 
rono alfine  in  una  giornata  superati  dai 
Romani.  IT  così  per  Io  avvenire  ne  re- 
sterà ingannato  qualunque  per  simile 
via  e per  simile  cagione  crederà  oppres- 
sore un  popolo. 

Cai».  XXVI.  — Il  vilipendio  e V impro- 
perio genera  odio  conira  a coloro  che 
r usano j senza  alcuna  loro  utilità. 

• 

lo  eredo  che  sta  una  delle  grandi  pru- 
denze che  usino  gli  uomini,  astenersi  o 
dal  minacciare,  o dallo  ingiuriare  alcuno 
con  le  parole:  perchè  1’  una  cosa  e l’al- 
tra non  tolgono  forze  al  nimico;  ma 
l’una  lo  fa  più  cauto;  l’altra  gli  fa 
avere  maggiore  odio  contra  di  te,  e 
pensare  con  maggiore  industria  di  of- 
fenderti. Yedesi  questo  per  lo  essempio 


. -J 

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LIBRO  SECONDO. 


483 


de*  Veienti,  de’ quali  nel  capitolo  supe- 
riore si  è discorso;  i quali  alla  ingiu- 
ria della  guerra  aggiunsono,  contra  ai 
Romani,  l’obbrobrio  delle  parole:  dal 
quale  ogni  capitano  prudente  debbe  fare 
astenere  i suoi  soldati  ; perchè  le  son 
cose  che  infiammano  ed  accendono  il 
nimico  alla  vendetta,  ed  in  uessuna  parte 
lo  impediscono,  come  è detto,  alla  offesa; 
tanto  che  le  sono  tutte  arme  che  ven- 
gono contra  a te.  Di  che  ne  seguì  già 
uno  essempio  notabile  in  Asia:  dove 
Gabade,  capitano  de’ Persi,  essendo  stato 
a campo  ad  Amida  più  tempo,  ed  avendo 
diliberato,  stracco  dal  tedio  della  ossi- 
dione,  partirsi;  levandosi  già  col  campo, 
quelli  della  terra  venuti  tutti  in  su  le 
mura,  insuperbiti  della  vittoria,  non 
perdonarono  a nessuna  qualità  d’ ingiu- 
ria, vituperando,  accusando,  rimprove- 
rando la  viltà  e la  poltroneria  del  ni- 
mico. Da  che  Gabade  irritato,  mutò 
consiglio;  e ritornato  alla  ossidione,  tan- 
ta fu  la  indegnazione  della  ingiuria,  che 


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DF.I  DISCORSI 


484 

in  pochi  giorni  gli  prese  e saccheggiò. 
E questo  medesimo  intervenne  a’Veienti: 
a’  quali,  coni’  è detto,  non  bastando  il 
far  guerra  a’  Romani,  ancora  con  le  pa- 
role gli  vituperarono;  ed  andando  in- 
iìno  in  su  lo  steccato  del  campo  a dir 
loro  ingiuria,  gl’ irritarono  molto  più 
con  le  parole  che  con  P arme  : e quelli 
soldati  che  prima  combattevano  mal  vo- 
lentieri, costrinsero  i Consoli  ad  appic- 
care la  zuffa;  talché  i Veienti  portarono 
la  pena,  come  gli  antedetti,  della  con- 
tumacia loro.  Hanno  adunque  i buoni 
principi  di  esercito,  ed  i buoni  governa- 
tori di  repubblica,  a far  ogni  opportuno 
l imedio,  che  queste  ingiurie  e rimproveri 
non  si  usino  o nella  città  o nello  eser- 
cito suo,  nè  infra  loro,  nè  contra  il  ni- 
mico: perchè  usati  contra  al  nimico,  ne 
nascono  gli  inconvenienti  soprascritti; 
infra  loro,  farebbono  peggio  non  vi  si 
riparando,  come  vi  hanno  sempre  gli 
uomini  prudenti  riparato.  Avendo  le  le- 
gioni romane  state  lasciate  a Capova 


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LIBRO  SECONDO. 


-4*5 

congiurato  conil  a a’ Capovani,  come  nel 
suo  luogo  si  narrerà;  ed  essendone  di 
questa  congiura  nata  sedizione,  la  quale 
fu  poi  da  Valerio  Corvino  quietata  ; in- 
tra all*  altre  conslituzioni  che  nella  con- 
venzione si  fecero,  ordinarono  pene  gra- 
vissime a coloro  che  improverassino  mai 
ad  alcun  di  quelli  soldati  tale  sedizione. 
Tiberio  Gracco,  fatto  nella  guerra  di  An- 
nibaie capitano  sopra  certo  numero  di 
servi  che  i Romani,  per  carestia  d’uo- 
mini, avevano  armati,  ordinò,  intra  le 
prime  cose,  pena  capitale  a qualunque 
rimproverasse  la  servitù  di  alcuno  di 
loro.  Tanto  fu  stimato  dai  Romani,  co- 
me di  sopra  s’è  detto,  cosa  dannosa  il 
vilipendere  gli  uomini,  ed  il  rimprove- 
rare loro  alcuna  vergogna;  perchè  non 
è cosa  che  accenda  tanto  gli  animi  loro, 
nè  generi  maggiore  sdegno,  o da  vero 
o da  beffe  che  si  dica  : ISam  facetice 
aspcrcCj  quando  nimium  ex  vero  traxe- 
rc,  acretn  sui  memorianx  relinquunt. 


DEI  DISCORSI 


48G 

Cap.  XXVII.  — Ai  principi  e repubbli- 
che prudenti  debbe  bastare  vincere; 
perchè  il  più  delle  volle j quando  non 
basti j si  perde. 

Lo  usare  parole  contra  al  nimico  poco 
onorevoli,  nasce  il  più  delle  volte  da 
una  insolenza  che  ti  dà  o la  vittoria  o 
la  falsa  speranza  della  vittoria;  la  quale 
falsa  speranza  fa  gli  uomini ‘non  sola- 
mente errare  nel  dire,  ma  ancora  nello 
operare.  Perchè  questa  speranza,  quando 
la  entra  ne’  petti  degli  uomini,  fa  loro 
passare  il  segno,  e perdere  il  più  delle 
volte  quella  occasione  d’  avere  un  bene 
certo,  sperando  d’  avere  un  meglio  in- 
certo. E perchè  questo  è un  termine 
die  merita  considerazione,  ingannando- 
cisi  dentro  gli  uomini  molto  spesso,  e 
con  danno  dello  stato  loro;  e’ mi  pare 
da  dimostrarlo  particolarmente  con  es- 
sempi  antichi  e moderni,  non  si  potendo 
con  le  ragioni  così  distintamente  dimo- 


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LIBRO  SECONDO. 


487 


strare.  Annibaie,  poi  ch’egli  ebbe  rotti 
i Romani  a Canne,  mandò  suoi  oratori 
a Cartagine  a significare  la  vittoria,  e 
chiedere  sussidi.  Disputossi  nel  senato 
di  quello  s’ avesse  a fare.  Consigliava 
Annone,  un  vecchio  e prudente  cittadino 
cartaginese,  che  si  usasse  questa  vitto- 
ria saviamente  in  far  pace  coi  Romani, 
potendola  avere  con  condizioni  oneste 
avendo  vinto;  e non  s’aspettasse  d’averla 
a fare  dopo  la  perdita:  perchè  la  in- 
tenzione de’  Cartaginesi  doveva  essere, 
mostrare  ai  Romani  come  e’ bastavano 
a combattergli  ; ed  avendosene  avuto 
vittoria,  non  si  cercasse  di  perderla  per 
la  speranza  d’ una  maggiore.  Non  fu 
preso  questo  partito;  ma  fu  bene  poi 
dal  senato  cartaginese  conosciuto  savio, 
quando  1’  occasione  fu  perduta.  Avendo 
Alessandro  Magno  già  preso  tutto  l’orien- 
te, la  repubblica  di  Tiro,  nobile  in  quelli 
tempi  e potente  per  avere  la  loro  città 
in  acqua  come  i Veniziani,  veduta  la 
grandezza  d’  Alessandro,  gli  mandarono 


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488 


DEI  DISCORSI 


oratori  a dirgli,  come  volevano  essere 
suoi  buoni  servitori  e dargli  quella  ub- 
bidienza voleva,  ma  che  non  erano  già 
per  accettare  nè  lui  nè  le  sue  genti  nella 
terra  : donde  sdegnato  Alessandro  che 
una  città  gli  volesse  chiudere  quelle 
porte  che  tutto  il  mondo  gli  aveva  aper- 
te, gli  ributtò,  e non  accettate  le  condi- 
zioni loro,  vi  mandò  a campo.  Era  la 
terra  in  acqua,  e benissimo  di  vettova- 
glie e d’  altre  munizioni  necessarie  alla 
difesa  munita:  tanto  che  Alessandro  do- 
po quattro  mesi  s*  avvide,  che  una  città 
gli  toglieva  quel  tempo  alla  sua  gloria 
che  non  gli  avevano  tolti  molti  altri 
acquisti  ; e diliberò  di  tentare  1*  accordo, 
e concedere  loro  quello  che  per  loro 
medesimi  avevano  domandato.  Ma  quelli 
di  Tiro  insuperbiti,  non  solamente  non 
volsero  accettare  l*  accordo,  ina  ammaz- 
zorono  chi  venne  a praticarlo.  Di  che 
Alessandro  sdegnato,  con  tanta  forza  si 
mise  alla  espugnazione,  che  la  prese  e 
disfece,  ed  ammazzò  e fece  schiavi  gli 


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LIBRO  SECONDO. 


489 


uomini.  Venne,  nel  4512,  uno  esercito 
spagnuolo  in  su  'I  dominio  fiorentino 
per  rimettere  i Medici  in  Firenze,  e ta- 
glieggiare la  città,  condotti  da’ cittadini 
d’ entro,  i quali  avevano  dato  loro  spe- 
ranza, che  subito  fussero  in  su  ’1  domi- 
nio fiorentino,  piglierebbono  V arme  in 
loro  favore;  ed  essendo  entrati  nel  piano, 
e non  si  scoprendo  alcuno,  ed  avendo 
carestia  di  vettovaglie,  tentarono  V ac- 
cordo: di  che  insuperbito  il  popolo  di 
Firenze,  non  lo  accettò-;  donde  ne  nacque 
la  perdita  di  Prato,  e la  rovina  di  quello 
Stato.  Non  possono,  pertanto,  i principi 
che  sono  assaltati  far  il  maggiore  errore, 
quando  1*  assalto  è fatto  da  uomini  di 
gran  lunga  più  potenti  di  loro,  che  ri- 
cusare ogni  accordo,  massime  quando 
gli  è offerto:  perchè  non  sarà  mai  of- 
ferto si  basso,  che  non  vi  sia  dentro  in 
qualche  parte  il  bene  essere  di  colui 
che  io  accetta,  e vi  sarà  parte  della  sua 
vittori?.  Perchè  e’  doveva  bastare  al  po- 
polo di  Tiro,  clic  Alessandro  accettasse 


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490 


DEI  DISCORSI 


quelle  condizioni  che  egli  aveva  prima 
rifiutate;  ed  era  assai  vittoria  la  loro, 
quando  con  Y armi  in  mano  avevano 
fatto  condiscendere  un  tanto  uomo  alla 
voglia  loro.  Doveva  bastare  ancora  al 
popolo  fiorentino,  e gli  era  assai  vittoria, 
se  lo  esercito  spagnuolo  cedeva  a qual- 
cuna delle  voglie  di  quello,  e le  sue  non 
adempieva  tutte:  perchè  la  intenzione 
di  quello  esercito  era  mutare  lo  stato 
in  Firenze,  e levarlo  dalla  devozione  di 
Francia,  e trarre  da  lui  danari.  Quando 
di  tre  cose  e’  ne  avesse  avute  due,  che 
son  1’ ultime;  ed  al  popolo  ne  fusse  re* 
stata  una,  che  era  la  conservazione  dello 
stato  suo;  ci  aveva  dentro  ciascuno  qual- 
che onore  e qualche  satisfazione,  nè  si 
doveva  il  popolo  curare  delle  due  cose, 
rimanendo  vivo  ; nè  doveva,  quando  bene 
egli  avesse  veduta  maggiore  vittoria,  e 
quasi  certa,  voler  mettere  quella  in  al- 
cuna parte  a discrezione  della  fortuna, 
andandone  Y ultima  posta  sua:  la  quale 
qualunque  prudente  mai  arrischierà  se 


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LIBRO  SECOSDO. 


491 


non  necessitato.  Annibaie  partito  iT  Ita- 
lia, dove  era  stato  sedici  anni  glorioso, 
richiamato  da’  suoi  Cartaginesi  a soc- 
correre la  patria,  trovò  rotto  Asdrubale 
e Siface;  trovò  perduto  il  regno  di  Nu- 
midia; ristretta  Cartagine  intra  i termini 
delle  sue  mura,  alla  quale  non  restava 
altro  rifugio,  che  esso  e T esercito  suo  : 
e conoscendo  come  quella  era  1’  ultima 
posta  della  sua  patria,  non  volle  prima 
metterla  a rischio,  di’  egli  ebbe  ten- 
tato ogni  altro  rimedio;  e non  si  ver- 
gognò di  domandare  la  pace,  giudicando 
se  alcuno  rimedio  aveva  la  sua  patria, 
era  in  quella,  e non  nella  guerra:  quale 
sendogli  poi  negata,  non  volle  mancare, 
dovendo  perdere,  di  combattere;  giudi- 
cando potere  pur  vincere  ; o perdendo, 
perdere  gloriosamente.  E se  Annibaie, 
il  quale  era  tanto  virtuoso  ed  aveva  il 
suo  esercito  intero,  cercò  prima  la  pace 
che  la  zuffa,  quando  ci  vide  che  per- 
dendo quella,  la  sua  patria  diveniva  ser- 
va ; che  debbe  fare  un  altro  di  manco 


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I 


492  DEI  DISCORSI 

virtù  e di  manco  isperienza  di  lui?  Ma 
gli  uomini  fanno  questo  errore:  che  non 
sanno  porre  termini  alle  speranze  loro, 
ed  in  su  quelle  fondandosi,  senza  mi* 
surarsi  altrimenti,  rovinano. 

Cap.  XXVIII.  — Quanto  sia  pericoloso 
ad  una  repubblica  o ad  uno  principe 
non  vendicare  una  ingiuria  falla  con- 
tro al  pubblico  o conira  al  privalo. 

Quello  che  facciano  fare  agli  uomini 
gli  sdegni,  facilmente  si  conosce  per 
quello  che  avvenne  ai  Romani,  quando 
e’  mandarono  i tre  Fabi  oratori  ai  Fran- 
ciosi, che  erano  venuti  ad  assaltare  la 
Toscana,  ed  in  particolare  Chiusi.  Per- 
chè, avendo  mandato  il  popolo  di  Chiusi 
per  aiuto  a Roma,  i Romani  mandarono 
ambasciatori  a’  Franciosi,  che  in  nome 
del  Popolo  romano  significassero  a quelli, 
si  astenessino  di  far  guerra  ai  Toscani. 

I quali  oratori,  sendo  in  su  M luogo,  e 
più  atti  a fare  che  a dire,  venendo  i 


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LIBRO  SECONDO. 


493 


Franciosi  c i Toscani  alla  zuffa,  si  mi- 
sero intra  i primi  a combattere  contra 
a quelli  : onde  ne  nacque  che  essendo 
conosciuti  da  loro,  tutto  lo  sdegno  che 
avevano  contra  a’  Toscani,  volsero  con- 
tea ai  Romani.  11  quale  sdegno  diventò 
maggiore,  perchè,  avendo  i Franciosi 
per  loro  ambasciadori  fatto  querela  con 
il  Senato  romano  di  tale  ingiuria,  e do- 
mandato che  in  satisfazione  del  danno 
fussino  dati  loro  i soprascritti  Fabi; 
non  solamente  non  furono  consegnati 
loro,  o in  altro  modo  castigati;  ma  ve- 
nendo i comizi,  furono  fatti  Tribuni  con 
potestà  eousolare.  Talché,  veggendo  i 
Franciosi  quelli  onorati  che  dovevano 
esser  puniti,  ripresono  tutto  esser  fatto 
in  loro  dispregio  ed  ignominia;  ed  ac- 
cesi d’  ira  e di  sdegno,  vennero  ad  as- 
saltare Roma,  e quella  presero,  eccetto 
il  Campidoglio.  La  quale  rovina  nacque 
a*  Romani  solo  per  la  inosservanza  della 
giustizia;  perchè  avendo  peccato  i loro 
ambasciatori  conira  jus  gcntiunij  e do- 


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494  DE!  DISCORSI 

vendo  esser  gastigati,  furono  onorati. 
Però  è da  considerare  quanto  ogni  re- 
pubblica ed  ogni  principe  debbe  tenere 
conto  di  fare  simile  ingiuria,  non  sola- 
mente contra  ad  una  universalità,  ma 
ancora  contra  ad  uno  particolare.  Per- 
chè, se  uno  uomo  è offeso  grandemente 
o dal  pubblico  o dal  privato,  e non  sia 
vendicato  secondo  la  satisfazione  sua; 
se  e’  vive  in  una  repubblica,  cerca  an- 
cora con  la  rovina  di  quella  vendicarsi  ; 
se  e’  vive  sotto  un  principe,  ed  abbia 
in  sè  alcuna  generosità,  non  si  acquieta 
mai,  in  fino  che  in  qualunque  modo  si 
vendichi  contra  di  lui,  ancora  che  egli 
vi  vedesse  dentro  il  suo  proprio  male. 
Per  verificare  questo,  non  ci  è il  più 
bello  nè  il  più  vero  essemrpio  che  quello 
di  Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Ales- 
sandro. Aveva  costui  in  la  sua  corte 
Pausania,  giovine  bello  e nobile,  del 
quale  era  innamorato  Aitalo;  uno  de' pri- 
mi uomini  che  fusse  presso  a Filippo; 
cd  a\endolo  più  volte  ricerco  che  dovesse 


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LIBRO  SECONDO. 


495 


consentirgli,  e trovandolo  alieno  da  si- 
mili cose,  deliberò  di  avere  con  inganno 
e per  forza  quello  che  per  altro  verso 
vedeva  non  potere  avere.  E fatto  un  so- 
lenne convito,  nel  quale  Pausania  e molti 
altri  nobili  baroni  convennero,  fece,  poi- 
ché ciascuno  fu  pieno  di  vivande  e di 
vino,  prendere  Pausania  ; e condottolo 
allo  stretto,  non  solamente  per  forza 
sfogò  la  sua  libidine,  ma  ancora,  per 
maggiore  ignominia,  lo  fece  da  molti 
degli  altri  in  simile  modo  vituperare. 
Della  quale  ingiuria  Pausania  si  dolse 
più  volte  con  Filippo  ; il  quale,  avendolo 
tenuto  un  tempo  in  speranza  di  vendi- 
carlo, non  solamente  non  lo  vendicò, 
ma  prepose  Attalo  al  governo  d’ una 
provincia  di  Grecia.  Donde  Pausania, 
vedendo  il  suo  nimico  onorato  e non 
gastigato,  volse  tutto  lo  sdegno  suo  non 
contra  a quello  che  gli  aveva  fatto  in- 
giuria, ma  conira  a Filippo  che  non 
P aveva  vendicato:  ed  una  mattina  so- 
lenne, in  su  le  nozze  della  figliuola  di 


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DEI  DISCORSI 


496 

Filippo  maritata  ad  Alessandro  di  Epiro, 
andando  Filippo  al  tempio  a celebrarle, 
in  mezzo  di  due  Alessandri,  genero  e 
figliuolo,  l’ammazzò.  Il  quale  essempio 
è molto  simile  a quello  de’  Romani,  no- 
tabile a qualunque  governa:  che  mai 
non  debba  tanto  poco  stimare  un  uomo, 
che  e’  creda,  aggiungendo  ingiuria  sopra 
ingiuria,  che  colui  che  è ingiuriato  non 
pensi  di  vendicarsi  con  ogni  .suo  peri- 
colo e particolar  danno. 

Cap.  XXIX.  — La  fortuna  accieca  gli 
animi  degli  uominij  quando  la  non 
imolc  che  quelli  si  opponghino  a*  di- 
segni suoi. 

/ 

Se  e’  si  considerrà  bene  come  proce- 
dono le  cose  umane,  si  vedrà  molte  volte 
nascere  cose  e venire  accidenti  a’ quali 
i cieli  al  tutto  non  hanno  voluto  che  si 
provvegga.  E quando  questo  eh’  io  dico 
intervenne  a Roma,  «love  era  tanta  virtù, 
tanta  religione  e tanto  ordine;  non  è 


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LIBRO  SECONDO. 


497 


meraviglia  che  gli  intervenga  molto  più 
spesso  in  una  città  o in  una  provincia 
che  manchi  delle  cose  sopradette.  E per- 
chè questo  luogo  è notabile  assai  a di- 
mostrare la  potenza  del  cielo  sopra  le 
cose  umane,  Tito  Livio  largamente  e 
con  parole  efficacissime  lo  dimostra  ; di- 
cendo come,  volendo  il  cielo  a qualche 
fine,  che  i Romani  conoscessono  la  po- 
tenza sua,  fece  prima  errare  quelli  Fa- 
bi  che  andarono  oratori  a’  Franciosi, 
e mediante  F opera  loro  gli  concitò  a 
far  guerra  a Roma:  dipoi  ordinò,  che 
per  reprimere  quella  guerra  non  si  fa- 
cesse in  Roma  cosa  alcuna  degna  del 
Popolo  romano;  avendo  prima  ordinato 
che  Camillo,  il  quale  poteva  essere  solo 
unico  rimedio  a tanto  male,  fusse  man- 
dato in  esilio  ad  Ardea:  dipoi  venendo 
i Franciosi  verso  Roma,  coloro  che  per 
rimediare  allo  impeto  de’Volsci,  ed  altri 
finitimi  loro  inimici,  avevano  creato  molte 
volte  un  Dittatore,  venendo  i Franciosi 
non  lo  crearono.  Ancora,  nel  fare  la 
Machiavelli,  Discorsi.—  1.  32 


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498 


DEI  DISCORSI 


elezione  de’  soldati,  la  feciono  debole  e 
senza  alcuna  istraordinaria  diligenza;  e 
furono  tanto  pigri  a pigliare  l’  arme, 
che  a fatica  furono  a tempo  a scontrare  i 
Franciosi  sopra  il  fiume  d’ Allia,  disco* 
sto  a Roma  dieci  miglia.  Qui  i Tribuni 
posero  il  loro  campo,  senza  alcuna  con* 
sueta  diligenza  ; non  provvedendo  il 
luogo  prima,  nou  si  circondando  con 
fossa  e con  steccato,  non  usando  alcuno 
rimedio  umauo  o divino  ; e nello  ordi- 
nare la  zuffa,  fecero  gli  ordini  rari  e 
deboli:  in  modo  che  nè  i soldati  uè  i 
capitani  fecero  cosa  degna  della  romana 
disciplina.  Combattessi  poi  senza  alcuno 
sangue;  perchè  e’ fuggirono  prima  che 
fussiuo  assaltati,  e la  maggior  parte  se 
ne  andò  a Veio,  1’  altra  si  ritirò  a Ro- 
ma; i quali  senza  entrare  altrimenti 
nelle  case  loro,  se  ne  entrarono  in  Cam- 
pidoglio; in  modo  che  il  Senato,  senza 
peusare  di  difender  Roma,  non  chiuse, 
non  che  altro,  le  porte;  e parte  se  ne 
fuggi,  parte  con  gli  altri  se  ne  entra- 


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LIBRO  SECONDO. 


499 


rono  in  Campidoglio  Pure,  nel  difender 
quello  usarono  qualche  ordine  non  tu- 
multuario; perchè  e’  non  lo  aggravarono 
di  genti  inutili;  messonvi  tutti  i fru- 
menti che  poterono,  acciocché  potessino 
sopportare  1’  ossidione  j e della  turba 
inutile  de’  vecchi  e delle  donne  e de’ fan- 
ciulli, la  maggior  parte  se  ne  fuggi  nelle 
terre  circunvicine,  il  rimanente  restò  in 
Roma  in  preda  de’  Franciosi.  Talché,  chi 
avesse  letto  le  cose  fatte  da  quel  popolo 
tanti  anni  innanzi,  e leggesse  dipoi  quelli 
tempi,  non  potrebbe  a nessun  modo  cre- 
dere che  fusse  stato  un  medesimo  po- 
polo. E detto  che  Tito  Livio  ha  tutti  i 
sopraddetti  disordini,  conchiude:  Adeo 
obcoecat  animo»  fortuna , cum  vini  suam 
ingruentem  refringi  non  vult.  Nè  può 
essere  -43ÌÙ  vera  «{«està  conclusione:  on- 
de gli  uomini  che  vivono  ordinariamente 
nelle  grandi  avversità  0 prosperità,  me- 
ritano manco  laude  0 manco  biasimo. 
Perchè  il  più  delle  volte  si  vedrà  quelli 
ad  una  rovina  e ad  una  grandezza  es- 


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500  DF.1  DISCORSI 

scr  stati  condotti  da  una  comodità  grande 
che  gli  hanno  fatto  i cieli,  dandogli  oc- 
casione, o togliendoli  di  potere  operare 
virtuosamente.  Fa  bene  la  fortuna  que- 
sto, che  la  elegge  uno  uomo,  quando  la 
voglia  condurre  cose  grandi,  di  tanto 
spirito  e di  tanta  virtù,  che  e’ conosca 
quelle  occasioni  che  la  gli  porge.  Cosi 
medesimamente,  quando  la  voglia  con- 
durre grandi  rovine,  la  vi  prepone  uo- 
mini che  aiutino  quella  rovina.  E se 
alcuno  fusse  che  vi  potesse  ostare,  o la 
lo  ammazza,  o la  lo  priva  di  tutte  le 
facultà  da  potere  operare  alcun  bene. 
Conoscesi  questo  benissimo  per  questo 
testo,  come  la  fortuna  per  far  maggiore 
Roma,  e condurla  a quella  grandezza 
venne,  giudicò  fusse  necessario  batterla 
(come  a lungo  nel  principio  del  seguente 
libro  discorreremo),  ma  non  volle  già 
in  tutto  rovinarla.  E per  questo  si  vede 
che  la  fece  esulare,  e non  morire,  Cam- 
mino; fece  pigliare  Roma,  e non  il  Cam- 
pidoglio ; ordinò  che  i Romani,  per  ri- 


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LIBRO  SECONDO. 


501 

parare  Roma,  non  pensassino  alcuna 
cosa  buona;  per  difendere  il  Campido- 
glio, non  mancarono  di  alcuno  buono  or- 
dine. Fece,  perchè  Roma  fusse  presa, 
che  la  maggior  parte  de’ soldati  che  fu- 
rono rotti  ad  Allia,  se  n’  andarono  a 
Veio;  e così,  per  la  difesa  della  città  di 
Roma,  tagliò  tutte  le  vie.  E nell’ ordinar 
questo,  preparò  ogni  cosa  alla  sua  ricupe- 
razione ; avendo  condotto  uno  esercito 
romano  intero  a Veio,  e Cammillo  ad 
Ardea,  da  poter  fare  grossa  testa,  sotto 
un  capitano  non  maculato  d’  alcuna  igno- 
minia per  la  ' perdita,  ed  intero  nella 
sua  riputazione,  per  la  ricuperazione 
della  patria  sua.  Sarebbeci  da  addurre 
in  confirmazione  delle  cose  delle  qual- 
che essempio  moderno;  ma  per  non  gli 
giudicare  necessari,  potendo  questo  a 
qualunque  satisfare,  gli  lascerò  indietro. 
Affermo  bene  di  nuovo,  questo  essere 
verissimo,  secondo  che  per  tutte  ì’islo- 
rie  si  vede,  che  gli  uomini  possono  se- 
condare la  fortuna  e non  opporsegli; 


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DEI  DISCORSI 


502 

possono  tessere  gli  orditi  suoi,  e non 
rompergli.  Debbono  bene  non  si  abban- 
donare mai  ; perchè  non  sappiendo  il 
fine  suo,  ed  andando  quella  per  vie  tra- 
verse ed  incognite,  hanno  sempre  a spe- 
rare, e sperando  non  si  abbandonare  in 
qualunque  fortuna  ed  in  qualunque  tra- 
vaglio si  trovino. 

Cap.  XXX.  — Le  repubbliche  c gli  prin- 
cipi veramente  polenti  non  comperano 
l*  amicizie  con  danari,  ma  con  la 
virtù  e con  la  riputazione  delle  forze. 

Erano  i Romani  assediati  nel  Campi- 
doglio, ed  ancoraché  gli  aspettassino  il 
soccorso  da  Veio  e da  Cammillo,  sendo 
cacciati  dalla  fame,  vennono  a compo- 
sizione con  i Franciosi  di  ricomperarsi 
certa  quantità  d'oro;  e sopra  tale  con- 
venzione pesandosi  di  già  l’oro,  so- 
pravvenne Cammillo  con  V esercito  suo  : 
il  che  fece,  dice  lo  istorico,  la  fortuna, 
ut  Romani  auro  redempti  non  vivcrent. 


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LIBRO  SECONDO. 


503 


La  qual  cosa  non  solamente  è notabile 
in  questa  parte,  ma  cziam  nel  processo 
delle  azioni  di  questa  Repubblica  ; dove 
si  vede  che  mai  acquistarono  terre  con 
danari,  mai  feciono  pace  con  danari, 
ma  sempre  con  la  virtù  delle  armi:  il 
che  non  credo  sia  mai  intervenuto  ad 
alcuna  altra  repubblica.  Ed  intra  gli 
altri  segni  per  i quali  si  conosce  la  po- 
tenza d’  uno  Stato,  è vedere  come  e'  vive 
con  gli  vicini  suoi.  E quando  e’  si  go- 
verna in  modo  che  i vicini,  per  averlo 
amico,  siano  suoi  pensionari,  allora  è 
certo  segno  che  quello  Stato  è potente: 
ma  quando  detti  vicini,  ancoraché  in- 
feriori a lui,  traggono  da  quello  danari, 
allora  è segno  grande  di  debolezza  di 
quello.  Legghinsi  tutte  le  istorie  romane, 
e vedrete  come  i Massiliensi,  gli  Edui, 
Rodiani,  lerone  siracusano,  Eumene  e 
Massinissa  regi,  i quali  tutti  erano  vi- 
cini ai  confini  dello  imperio  romano, 
per  avere  l’amicizia  di  quello,  concor- 
revano a spese  ed  a tributi  ne’  bisogni 


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504 


DEI  DISCORSI 


d’  esso,  non  cercando  da  lui  altro  pre- 
mio che  lo  essere  difesi.  Al  contrario 
si  vedrà  negli  Stati  deboli:  e comin- 
ciandosi dal  nostro  di  Firenze,  ne’  tempi 
passati,  nella  sua  maggior  riputazione, 
non  era  signorotto  in  Romagna  che  non 
avesse  da  quello  provvisione;  e di  più 
la  dava  ai  Perugini,  ai  Castellani,  e a 
tutti  gli  altri  suoi  vicini.  Che  se  questa 
città  fusse  stata  armata  e gagliarda,  sa- 
rebbe tutto  ito  per  contrario:  perchè 
tutti,  per  avere  la  protezione  di  essa, 
arebbero  dato  danari  a lei,  e cereo  non 
di  vendere  la  loro  amicizia,  ma  di  com- 
perare la  sua.  Nè  sono  in  questa  viltà 
vissuti  soli  i Fiorentini,  ma  i Yiniziani, 
ed  il  re  di  Francia;  il  quale,  con  uno 
tanto  regno,  vive  tributario  de’ Svizzeri 
e del  re  d’ Inghilterra.  Il  che  tutto  na- 
sce dallo  avere  disarmali  i popoli  suoi, 
ed  avere  piuttosto  voluto,  quel  re  e gli 
altri  prenominati,  godersi  un  presente 
utile  di  potere  saccheggiare  i popoli,  e 
fuggire  uno  immaginato  piuttosto  che 


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LIBRO  SECONDO. 


505 

vero  pericolo,  che  fare  cose  che  gli  as- 
sicurino, e faccino  i loro  Stati  felici  in 
perpetuo.  li  quale  disordine  se  parto- 
risce qualche  tempo  qualche  quiete,  è 
cagione  col  tempo  di  necessità,  di  danni 
e rovine  irrimediabili.  E sarebbe  lungo 
raccontare  quante  volte  i Fiorentini,  Ve- 
niziani,  e questo  regno,  si  sono  ricom- 
perati in  su  le  guerre  ; e quante  volte 
si  sono  sottomessi  ad  una  ignominia,  che 
i-  Romani  furono  una  sola  volta  per 
sottomettersi.  Sarebbe  lungo  raccontare 
quante  terre  i Fiorentini  e Veniziatri 
hanno  comperate;  di  che  si  è veduto 
poi  ii  disordine,  e come  le  cose  che 
si  acquistano  con  1’  oro,  non  si  sanno 
difendere  col  ferro.  Osservarono  i Ro- 
mani questa  generosità  e questo  modo 
di  vivere,  mentre  che  vissono  liberi; 
ma  poiché  egli  entrarono  sotto  gli  im- 
peradori,  e che  gli  imperadori  comin- 
ciarono ad  esser  cattivi,  ed  amore  più 
P ombra  che  il  sole,  cominciarono  an- 
cora essi  a ricomperarsi,  ora  dai  Parti, 


506 


DE!  DISCORSI 


ora  dai  Germani,  ora  da  altri  popoli 
convicitty:  il  che  fu  principio  della  ro- 
vina di  tanto  imperio.  Procedevano,  per- 
tanto, simili  inconvenienti  dallo  avere 
disarmati  i suoi  popoli:  di  che  ne  re- 
sulta un  altro  maggiore,  che  quanto  il 
nimico  più  ti  s’  appressa,  tanto  ti  trova 
più  debole.  Perchè  chi  vive  ne’  modi 
delti  di  sopra,  traila  male  quelli  sud- 
diti che  sono  dentro  all’  imperio  suo, 
per  avere  uomini  ben  disposti  a tenere 
il  nimico  discosto.  Di  questo  nasce,  che 
per.  tenerlo  più  discosto,  ei  dà  provvi- 
sione a questi  signori  e popoli  che  sono 
propinqui  ai  confini  suoi.  Donde  nasce 
che  questi  Stati  così  fatti  fanno  uu  poco 
di  resistenza  in  sui  confini,  ma  comeii 
nimico  gli  ha  passati,  ei  non  hanno  ri- 
medio alcuno.  E non  si  avveggono,  co- 
me questo  modo  del  loro  procedere  è 
conila  ad  ogni  buono  ordine.  Perchè  il 
cuore  c le  parti  vitali  d*  uu  corpo  si 
hanno  a tenere  armate,  e non  l’ estre- 
mità d’esso;  perchè  senza  quelle  si  vive, 

4 

4 


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LIBRO  secondo.  507 

• 

ed  offeso  quello  si  muore  : c questi  Stati 
tengono  il  cuore  disarmato,  e le  maui 
c li  piedi  armati.  Quello  che  abbia  fatto 
questo  disordine  a Firenze,  si  è veduto, 
e vedesi  ogni  di:  chè  come  uno  eser- 
cito passa  i confini,  e che  gli  entrano 
propinquo  al  cuore,  non  ritrova  più 
alcuno  rimedio.  De’  Veniziani  si  vidde 
pochi  anni  fono  la  medesima  pruova; 
c se  la  lorp  città  non  era  fasciata  dal- 
P acque,  se  ne  sarebbe  veduto  it  fine. 
Questa  isperienza  non  si  è vista  sì  spesso 
in  Francia,  per  essere  quello  sì  gran 
regno,  eh*  egli  ha  pochi  nimici  supe- 
riori. Nondimeno,  quando  gli  Inghilesi, 
nel  1513,  assaltarono  quel  regno,  tremò 
tutta  quella  provincia;  ed  il  re  mede- 
simo, e ciascuno  altro,  giudicava  che 
una  rotta  sola  gli  potesse  torre  lo  Stato. 
Ai  Romani  interveniva  il  contrario;  per- 
chè quanto  più  il  nimico  si  appressava 
a Roma,  tanto  più  trovava  quella  città 
potente  a resistergli.  E si  vidde  nella 
ventila  d’ Annibaie  in  Italia,  che  dopo 


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508 


DEI  DISCORSI 


tre  rotte,  c dopo  tante  morti  di  capi- 
tani e di  soldati,  ei  poterono  non  solo 
sostenere  il  nimico,  ma  vincere  la  guerra. 
Tutto  nacque  dallo  avere  bene  armato 
il  cuore,  e delle  estremità  tenere  poco 
conto.  Perchè  il  fondamento  dello  stato 
suo  era  il  popolo  di  Roma,  il  nome  la- 
tino, e V altre  terre  compagne  in  Italia, 
e le  loro  colonie;  donde  e' traevano  tanti 
soldati,  che  furono  suftmenti  con  quelli 
a combattere,  e tenere  il  mondo.  E che 
sia  vero,  si  vede  per  la  domanda  che 
fece  Annone  cartaginese  a quelli  oratori 
d’ Annibaie  dopo  la  rotta  di  Canne:  i 
quali  avendo  magnificato  le  cose  fatte 
da  Annibaie,  furono  domandali  da  An- 
none, se  del  popolo  romano  alcuno  era 
venuto  a domandar  pace,  e se  del  nome 
latino  e delle  colonie  alcuna  terra  si  era 
ribellata  dai  Romani;  e negando  quelli 
l’ una  e l’altra  cosa,  replicò  Annone: 
Questa  guerra  è ancora  intera  come 
prima.  Vedesi,  pertanto,  e per  questo 
discorso,  e per  quello  che  più  volte  ab- 


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LIBRO  SECONDO. 


509 


bianio  altrove  detto,  quanta  diversità 
sia  dal  modo  del  procedere  delle  repub- 
bliche presenti,  a quello  delle  antiche. 
Vedesi  ancora  per  questo  ogni  di  mira- 
colose perdite  e miracolosi  acquisti.  Per- 
chè, dove  gli  uomini  hanno  poca  virtù, 
la  fortuna  dimostra  assai  la  potenza  sua; 
e perchè  la  è varia,  variano  le  repub- 
bliche e gli  Stati  spesso;  e varieranno 
sempre,  iniino  che  non  surga  qualcuno 
che  sia  dell’  antichità  tanto  amatore,  che 
la  regoli  in  modo,  che  la  non  abbi  ca- 
gione di  dimostrare  ad  ogni  girare  di 
sole  quanto  ella  puote. 

Cap.  XXXI.  — Quanto  sia  pericoloso 
credere  agli  sbandili. 

E’  non  mi  pare  fuori  di  proposito  ra- 
gionare, intra  questi  altri  discorsi,  quanto 
sia  cosa  pericolosa  credere  a quelli  che 
sono  cacciati  della  patria  sua,  essendo 
cose  che  ciascuno  di  si  hanno  a prati- 
care da  coloro  che  tengono  Stati:  po- 


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510  DEI  DISCORSI 

tendo,  massime,  dimostrare  questo  con 
uno  memorabile  essempio  detto  da  Tito 
Livio  nelle  sue  istorie,  ancora  che  sia  foo-  x 
ra  di  proposito  suo.  Quando  Alessandro 
Magno  passò  con  Y esercito  suo  in  Asia, 
Alessandro  di  Epiro,  cognato  e zio  di 
quello,  venne  con  genti  in  Italia,  chia- 
mato dagli  sbanditi  Lucani,  i quali  gli 
dettono  speranza  che  potrebbe  mediatiti 
loro  occupare  tutta  quella  provincia. 
Donde  che  quello,  sotto  la  lode  e spe- 
ranza loro,  venuto  in  Italia,  fu  morto 
da  quelli;  sendo  loro  promesso  Hi  ritor- 
nata nella  patria  dai  loro  cittadini,  se 

10  ammazzavano.  Debbesi  considerare, 
pertanto,  quanto  sia  vana  e la  fede  e le 
promesse  di  quelli  che  si  trovano  privi 
della  loro  patria.  Perchè,  quanto  alla 
fede,  si  ha  ad  estimare  che  qualunque 
volta  possono  per  altri  mezzi  che  per 

11  tuoi  rientrare  nella  patria  loro,  che 
iasceranno  te  ed  aceosterannosi  ad  altri, 
nonostante  qualunque  promessa  ti  aves- 
sino fatta.  E quanto  alla  vana  promessa 


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LIBRO  SECONDO. 


51  i 


e speranza,  egli  è tanta  la  voglia  estrema 
die  è in  loro  di  ritornare  in  casa,  che 
e’ credono  naturalmente  molte  cose  che 
sono  false,  e molte  ad  arte  ne  aggiun- 
gono:  talché,  tra  quello  che  credono  e 
quello  che  dicono  di  credere,  ti  riem- 
piono di  speranza }.  tulmentechè  fonda- 
toti in  su  quella,  tu  fai  una  spesa  in 
vano,  o tu  fai  una  impresa  dove  tu  ro- 
vini. Io  voglio  per  cssempio  mi  basti 
Alessandro  predetto,  e di  più  Temisto- 
cle ateniese;  il  quale  essendo  fatto  ri- 
bello, se  ne  fuggi  in  Asia  a Dario,  dove 
gli  promisse  tanto,  quando  ei  volesse 
assaltare  la  Grecia,  che  Dario  si  volse 
alla  impresa.  Le  quali  promesse  non  gli 
potendo  poi  Temistocle  osservare,  o per 
vergogna  o per  tema  di  supplicio,  av- 
velenò sè  stesso.  E se  questo  errore  fu 
fatto  da  Temistocle,  nomo  eccellentissi- 
mo, si  debbe  stimare  che  tanto  più  vi 
errino  coloro  che,  per  minor  virtù,  si 
lasceranno  più  tirare  dalla  voglia  e dalla 
passione  loro.  Debbe,  adunque,  un  prin- 


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512 


DEI  DISCORSI 


cipe  andare  adagio  a pigliare  imprese 
sopra  la  relazione  d’ un  confinato,  per- 
chè il  più  delle  volle  se  ne  resta  o con 
vergogna,  o con  danno  gravissimo.  E 
perchè  ancora  rade  volle  riesce  il  pi- 
gliare le  terre  di  furto,  e per  intelli- 
genza che  altri  avesse  in  quelle,  non  mi 
pare  fuor  di  proposito  discorrerne  nel 
seguente  capitolo;  aggiungendovi  con 
quanti  modi  i Romani  le  acquistavano. 

Cap.  XXXII.  — In  quanti  modi  i Romani 
occupavano  le  terre. 

4 

Essendo  i Romani  tutti  volti  alla  guer- 
ra, fecero  sempre  mai  quella  con  ogni 
vantaggio,  e quanto  alla  spesa,  e quanto 
ad  ogni  altra  cosa  che  in  essa  si  ricerca. 
Da  questo  nacque  che  si  guardarono  dal 
pigliare  le  terre  per  ossidione  ; perchè 
giudicavano  questo  modo  di  tanta  spesa 
e di  tanto  scomodo,  che  superasse  di 
gran  lunga  la  utilità  che  dello  acquisto 
si  potesse  trarre:  e per  questo  pensa- 


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LIBRO  SECONDO. 


513 


rono  che  fusse  meglio  e più  utile  sog- 
giogare le  len  e per  ogni  altro  modo  che 
assediandole;  donde  in  tante  guerre  ed 
in  tanti  anni  ci  sono  pochissimi  essem- 
pi  di  ossidioni  fatte  da  loro.  I modi, 
adunque,  con  i quali  gli  acquistavano 
le  città,  erano  o per  espugnazione,  o 
per  dedizione.  La  espugnazione  era  o 
per  forza  e per  violenza  aperta,  o per 
forza  mescolata  con  fraude.  La  violenza 
aperta  era  o con  assalto,  senza  percuo- 
tere le  mura  (il  che  loro  chiamavano 
aggredì  urbem  coronaj  perchè  con  tutto 
l’ esercito  circondavano  la  città,  e da 
tutte  le  parti  la  combattevano;  e molte 
volte  riuscì  loro  che  in  uno  assalto  piglia- 
rono una  città,  ancora  che  grossissima, 
come  quando  Scipione  prese  Cartagine 
nuova  in  (spaglia)  : o,  quando  questo 
assalto  non  bastava,  si  dirizzavano  a 
rompere  le  mura  con  arieti,  o con  al- 
tre loro  macchine  belliche:  o e’ facevano 
una  cava,  e per  quella  entravano  nella 
città  (nel  qual  modo  presono  la  città 

JIachiavel' I,  Discorsi. — 1.  33 


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514 


DEI  DISCORSI 


de’  Veìenti)  : o,  per  essere  eguali  a quelli 
che  difendevano  le  mura,  facevano  torri 
di  legname,  o facevano  argini  di  terra 
appoggiati  alle  mura  di  fuori,  per  ve- 
nire all’  altezza  di  esse  sopra  quelli. 
Contea  questi  assalti,  chi  difendeva  le 
terre,  nel  primo  caso  circa  lo  essere 
assaltato  intorno  intorno,  portava  più 
subito  pericolo,  ed  avea  più  dubbi  rime- 
di: perchè  bisognandoli  in  ogni  loco 
avere  assai  difensori,  o quelli  ch’egli 
aveva  non  erano  tanti  che  potessero  o 
supplire  per  tutto,  o cambiarsi  ; o se 
potevano,  non  erano  tutti  di  eguale  ani- 
mo a resistere,  e da  una  parte  che  fusse 
inclinata  la  zuffa,  si  perdevano  tutti. 
Però  occorse,  come  io  ho  detto,  che 
molte  volte  questo  modo  ebbe  felice  suc- 
cesso. Ma  quando  non  riusciva  al  primo, 
non  lo  ritentavano  molto,  per  esser  mo- 
do pericoloso  per  lo  esercito  : perchè 
difendendosi  in  tanto  spazio,  restava  per 
tutto  debile  a potere  resistere  ad  una 
eruzione  che  quelli  di  dentro  avessino 


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LIBRO  SECONDO. 


515 


fatta,  ed  anche  si  disordinavano  e strac- 
cavano i soldati;  ma  per  una  volta  ed 
allo  improvviso  tentavano  tal  modo. 
Quanto  alla  rottura  delle  mura,  sì  op- 
ponevano, come  re’ presenti  tempi,  con 
ripari.  E per  resistere  alle  cave,  face- 
vano una  contraccava,  e per  quella  si 
opponevano  al  nimico,  o con  le  armi  o 
con  altri  ingegni:  intra  i quali  era  que- 
sto, che  egli  empivano  dogli  di  penne, 
nelle  quali  appiccavano  il  fuoco,  ed  ac- 
cesi gli  mettevano  nella  cava,  i quali 
con  il  fumo  e con  il  puzzo  impedivano 
l'entrata  a'  nimici.  E se  con  le  torri  gli 
assaltavano,  s' ingegnavano  con  il  fuoco 
rovinarle.  E quanto  agli  argini  di  terra, 
rompevano  il  muro  da  basso,  dove  l'ar- 
gine s'appoggiava,  tirando  dentro  la  ter- 
ra che  quelli  di  fuori  vi  ammontavano; 
talché  ponendosi  di  fuori  la  terra,  e le- 
vandosi di  dentro,  veniva  a non  cre- 
scere 1'  argine.  Questi  modi  di  espugna- 
zione non  si  possono  lungamente  tentare: 
ma  bisogna  o levarsi  da  campo,  e cer- 


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516 


DEI  DISCORSI 


care  per  altri  modi  vincere  la  guerra; 
come  fece  Scipione,  quando  entrato  in 
Affrica,  avendo  assaltato  litica  e non  gli 
riuscendo  pigliarla,  si  levò  dal  campo, 
e cercò  di  rompere  gii  eserciti  cartagi- 
nesi: ovvero  volgersi  alla  ossidione; 
come  feciono  a Vcio,  Capova,  Cartagine 
e lerusalem  e simili  terre,  che  per  os- 
sidione occuparono.  Quanto  allo  acqui- 
stare le  terre  per  violenza  furtiva,  oc- 
corre come  intervenne  di  Palepoli,  che 
per  trattato  di  quelli  di  dentro  i Romani 
la  occuparono.  Di  questa  sorte  espugna- 
zione dai  Romani  c da  altri  ne  sono 
state  tentate  molte,  e poche  ne  sono  riu- 
scite : la  ragione  è che  ogni  minimo 
impedimento  rompe  il  disegno,  e gli 
impedimenti  vengono  facilmente.  Perchè, 
o la  congiura  si  scuopre  innanzi  che  si 
venga  all’atto  : e scuopresi  non  con  molta 
diftìcultà,  sì  per  la  infedelità  di  coloro 
con  chi  la  è comunicata,  sì  per  la  diffì- 
cullù  del  praticarla,  avendo  a convenire 
con  nimici,  e con  chi  non  ci  è licito,  se 


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1 


LIBRO  StCOXDO. 


517 

non  sotto  qualche  colore,  parlare.  Ma 
quando  la  congiura  non  si  scoprisse  nel 
maneggiarla,  vi  surgono  poi  nel  met- 
terla in  atto  mille  dilYicultà.  Perchè,  o 
se  tu  vieni  innanzi  al  tempo  disegnato, 
o se  tu  vieni  dopo,  si  guasta  ogni  cosa  : 
se  si  lieva  un  rumore  furtivo,  come 
1’  oche  del  Campidoglio  : se  si  rompe 
uno  ordine  consueto  : ogni  minimo  erro- 
re ed  ogni  minima  fallacia  che  si  piglia, 
rovina  la  impresa.  Aggiungonsi  a que- 
sto le  tenebre  della  notte;  le  quali  met- 
tono più  paura  a chi  travaglia  in  quelle 
cose  pericolose.  Ed  essendo  la  maggior 
parte  degli  uomini  che  si  conducono  a 
simili  imprese,  inesperti  del  sito  del 
paese  e de’  luoghi,  dove  ei  sono  menati, 
si  confondono,  inviliscono,  ed  implicano 
per  ogni  minimo  e fortuito  accidente; 
ed  ogni  immagine  falsa  è per  fargli  met- 
tere in  volta.  Nè  si  trovò  mai  alcuno 
che  fusse  più  felice  in  queste  espedizioni 
fraudolente  c notturne,  che  Arato  Sicio- 
neo;  il  quale  quanto  valeva  in  queste, 


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518 


DEI  DISCORSI 


tanto  nelle  diurne  ed  aperte  fazioni  era 
pusillanime:  il  che  si  può  giudicare 
fusse  più  tosto  per  una  occulta  virtù  clic 
era  in  lui,  che  perchè  in  quelle  natu- 
ralmente dovesse  essere  più  felicità.  Di 
questi  modi,  adunque,  se  ne  praticano 
assai,  pochi  se  ne  conducono  alla  pruova,- 
e pochissimi  ne  riescono.  Quanto  allo 
acquistare  le  terre  per  dedizione,  o le 
si  danno  volontarie,  o forzate.  La  vo- 
lontà nasce  o per  qualche  necessità  estrin- 
seca che  gli  costringe  a rifuggirsi  sotto; 
come  fece  Capova  ai  Romani;  o per  de- 
siderio di  esser  governati  bene,  sendo 
allettati  dal  governo  buono  che  quel  prin- 
cipe tiene  in  coloro  che  se  gli  sono  vo- 
lontari rimessi  in  grembo  ; come  fcrono 
i Rodiani,  i Massiliensi  ed  altri  simili 
cittadini,  che  si  deltono  al  Popolo  ro-' 
mano.  Quanto  alla  dedizione  forzata,  o 
tale  forza  nasce  da  una  lunga  ossidione, 
come  di  sopra  si  è detto;  o la  nasce  da 
una  continua  oppressione  di  correrie, 
depredazioni,  ed  altri  mali  trattamenti,  i 


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LIBRO  SECONDO. 


519 


» 

quali  volendo  fuggire,  una  città  si  arren- 
de. Di  tutti  i modi  detti,  ì Romani  usa- 
rono più  questo  ultimo  che  nessuno;  ed 
attesono  più  che  quattrocento  cinquanta 
anni  a straccare  i vicini  con  le  rotte  e con 
le  scorrerie,  e pigliare  mediani!  gli  accor- 
di riputazione  sopra  di  loro,  come  altre 
volte  abbiamo  discorso.  E sopra  tal  modo 
si  fondarono  sempre,  ancora  che  gli  ten- 
tassino  tutti;  ma  negli  altri  trovarono 
cose  o pericolose,  o inutili.  Perchè  nella 
ossidione  è la  lunghezza  e la  spesa; 
nella  espugnazione,  dubbio  e pericolo; 
nelle  congiure,  la  incerlitudine.  E vid- 
dono  che  con  una  rotta  d’esercito  ini- 
mico acquistavano  un  regno  in  un  gior- 
no; e nel  pigliare  per  ossidione  una 
città  ostinata,  consumavano  molti  anni. 

* i 

Cap.  XXXUI.  — Come  i Romani  davano 
agli  loro  capitani  degli  eserciti  le 
commissioni  libere. 

lo  stimo  che  sia  da  considerare,  leg- 
gendo questa  liviana  istoria,  volendone 


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DEI  DISCORSI 


520 

far  profitto,  tutti  i modi  del  procedere 
del  Popolo  e Senato  romano.  E infra 
P altre  cose  che  meritano  considerazione, 
sono  : vedere  con  quale  autorità  ei  man- 
davano fuori  i loro  Consoli,  Dittatori 
ed  altri  Capitani  degli  eserciti  ; de’  quali 
si  vede  V autorità  essere  stata  grandis- 
sima, ed  il  Senato  non  si  riservare  al- 
tro che  P autorità  di  muovere  nuove 
guerre,  e di  confirmare  le  paci;  tutte 
P altre  cose  rimetteva  nell’  arbitrio  e 
potestà  del  Consolo.  Perchè,  deliberata 
eh*  era  dal  Popolo  e dal  Senato  una 
guerra,  verbigrazia  contra  ai  Latini, 
tutto  il  resto  rimettevano  nelP  arbitrio 
del  Consolo;  il  quale  poteva  o fare  uua 
giornata  o non  la  fare,  e campeggiare 
questa  o quell*  altra  terra,  come  a lui 
pareva.  Le  quali  cose  si  verificano  per 
molti  essempi,  e massime  per  quello  che 
occorse  in  una  ispedizione  contra  ai 
Toscani.  Perchè,  avendo  Fabio  Consolo 
vinto  quelli  presso  a Sutri,  e disegnando 
con  P esercito  dipoi  passare  la  selva 


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LIBRO  SECONDO. 


.V2 1 


Cimino,  ed  andare  in  Toscana;  non  so- 
lamente non  si  consigliò  col  Senato, 
raa  non  gli  ne  dette  alcuna  notizia,  an- 
cora che  la  guerra  fusse  per  aversi  a 
fare  in  paese  nuovo,  dubbio  e pericoloso. 
Il  che  si  testifica  ancora  per  la  dilibe- 
razione che  all’  incontro  di  questo  fu 
fatta  dal  Senato  : il  quale  avendo  inteso 
la  vittoria  che  Fabio  aveva  avuta,  du- 
bitando che  quello  non  pigliasse  partito 
di  passare  per  le  dette  selve  in  Tosca- 
na, giudicando  che  fusse  bene  non  ten- 
tare quella  guerra  e correre  quel  peri- 
colo, mandò  a Fabio  due  Legati  u far- 
gli intendere  non  passasse  in  Toscana; 
i quali  arrivarono  che  vi  era  già  pas- 
sato, ed  aveva  avuta  la  vittoria,  ed  in 
cambio  di  impeditoci  della  guerra,  tor- 
narono ambasciadori  dello  acquisto  e 
della  gloria  avuta.  E chi  considera  bene 
questo  termine,  lo  vedrà  prudentissima- 
mente  usato  : perchè,  se  il  Senato  avesse 
voluto  che  un  Consolo  procedesse  nella 
guerra  di  mano  in  mano,  secondo  che 


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52  2 


DEI  DISCORSI 


quello  gli  commelteva,  lo  faceva  meno 
circunspetlo  e più  lento;  perchè  non 
gli  sarebbe  parato  che  la  gloria  della 
vittoria  fusse  tutta  sua,  ma  che  ne  par- 
ticipasse  il  Senato  con  il  consiglio  del 
quale  ei  si  fusse  governato.  Oltra  di 
questo,  il  Senato  si  obbligava  a voler 
consigliare  una  cosa  che  non  se  ne  po- 
teva intendere;  perchè,  nonostante  che 
in  quello  fussino  tutti  uomini  esercita- 
tissimi nella  guerra,  nondimeno  non 
essendo  in  sul  luogo,  e non  sappiendo 
infiniti  particolari  che  sono  necessari 
sapere  a voler  consigliar  bene,  areb- 
bono,  consigliando,  fatti  infiniti  errori. 
E per  questo  e’  volevano  che  ’1  Consolo 
per  sè  facesse,  e che  la  gloria  fusse 
tutta  sua;  lo  amore  della  quale  giudica- 
vano che  fusse  freno  e regola  a farlo 
operar  bene.  Questa  parte  si  è più  vo- 
lentieri notata  da  me,  perchè  io  veggio 
che  le  repubbliche  de’  presenti  tempi, 
come  è la  veneziana  e fiorentina,  la 
intendono  altrimenti  ; e se  gli  loro  ca- 


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UBnO  SECONDO. 


523 


pitani,  provveditori  o commissari  hanno 
a piantare  una  artiglieria,  lo  vogliono 
intendere,  e consigliare.  Il  quale  modo 
merita  quella  laude  che  meritano  gli 
altri,  i quali  tutti  insieme  I’  hanno  con- 
dotte ne’  termini  che  al  presente  si 
truovano. . 


- 


DEI  DISCORSI 

LIBRO  TERZO. 


Cap.  I.  — A volere  che  una  sella  o una 
repubblica  viva  lungamente , è neces- 
sario ritirarla  spesso  verso  il  suo 
principio. 

Egli  è cosa  verissima,  come  tutte  le 
cose  del  mondo  hanno  il  termine  della 
vita  loro.  Ma  quelle  vanno  tutto  il  corso 
che  è loro  ordinato  dal  cielo  general- 
mente, che  non  disordinano  il  corpo 
loro,  ma  tengonlo  in  modo  ordinato,  o 
che  non  altera,  o s' egli  altera,  è a sa- 
lute, e non  a danno  suo.  E perchè  io 
parlo  de’  corpi  misti,  come  sono  le  re- 
pubbliche e le  sètte,  dico  clic  quelle  al- 


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DEI  DISCORSI  — LIBRO  TERZO.  525 

(eruzioni  sono  u salute,  che  le  riducono 
verso  i principi!  loro.  E però  quelle 
sono  meglio  ordinate,  ed  hanno  più  lunga 
vita,  che  mediatiti  gli  ordini  suoi  si  pos- 
sono  spesso  rinnovare;  ovvero  che  per 
accidente,  fuori  di  detto  ordine,  vengono 
a detta  rinnovazione.  Ed  è cosa  più  chiara 
che  la  luce,  che  non  si  rinnovando  que- 
sti corpi,  non  durano.  Il  modo  del  rin- 
novargli è,  come  è detto,  ridurgli  verso 
i principii  suoi.  Perchè  tutti  i pri  nei  pi  i 
delle  sètte,  e delle  repubbliche,  e dei 
regni,  conviene  che  abbino  in  sè  qual- 
che bontà,  mediante  la  quale  ripiglino 
la  prima  riputazione,  ed  il  primo  augu- 
mento  loro.  E perchè  nel  processo  del 
tempo  quella  bontà  si  corrompere  non 
interviene  cosa  che  la  riduca  al  segno, 
ammazza  di  necessità  quel  corpo.  E que- 
sti dottori  di  medicina  dicono,  parlando 
dei  corpi  degli  uomini,  quoti  quolidie 
aggregatur  aliquidj  quod  quandoque 
indiget  curalione.  Questa  riduzione  verso 
il  principio,  parlando  delle  repubbliche, 


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526 


DEI  DISCORSI 


si  fa  o per  accidente  estrinseco,  o per 
prudenza  intrinseca.  Quanto  al  primo, 
si  vede  come  gli  era  necessario  che  Roma 
fusse  presa  dai  Franciosi,  a volere  che 
la  rinascesse;  e rinascendo,  ripigliasse 
nuova  vita  e nuova  virtù;  e ripigliasse 
la  osservanza  della  religione  e della  giu- 
stizia, le  quali  in  lei  cominciavano  a 
macularsi.  Il  che  benissimo  si  comprende 
per  l’istoria  di,  Livio,  dove  ei  mostra 
che  nel  trar  fuori  1’  esercito  contra  ai 
Franciosi,  e nel  creare  i Tribuni  con 
potestà  consolare,  non  osservarono  al- 
cuna religiosa  cerimonia.  Così  medesi- 
mamente, non  solamente  non  privarono 
i tre  Fabi  i quali  conira  jus  gcntium 
avevano  combattuto  contra  i Franciosi, 
ma  gli  crearono  Tribuni.  E debbesi  fa- 
cilmente presupporre,  che  dell’ altre  con- 
stituzioni  buone  ordinate  da  Romolo,  e 
ila  quelli  altri  principi  prudenti,  si  co- 
minciasse a tenere  meno  conto  che  non 
era  ragionevole  e necessario  a tenere  il 
vivere  libero.  Veline,  adunque,  questa 


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LIBRO  TERZO. 


527 

battitura  estrinseca,  acciocché  tutti  gii 
ordini  di  quella  città  si  ripigliassero; 
e si  mostrasse  a quel  popolo,  non  so- 
lamente essere  necessario  mantenere  la 
religione  e la  giustizia,  ma  ancora  sti- 
mare i suoi  buoni  cittadini,  e far  più 
conto  della  loro  virtù,  che  di  quelli  co- 
modi che  e’  paresse  loro  mancare  me- 
diante 1’  opere  loro.  Il  che  si  vede  che 
successe  appunto;  perchè,  subito  Ripresa 
Roma,  rinnovarono  tutti  gli  ordini  del- 
1’  antica  religione  loro;  punirono  quelli 
Fabi  die  avevano  combattuto  conira 
jus  genfìum  ; ed  oppresso  stimarono 
tanto  la  virtù  e bontà  di  Cammillo,  che 
posposto,  il  Senato  e gli  altri,  ogni  in- 
vidia, rimettevano  in  lui  tutto  il  pondo 
di  quella  Repubblica.  È necessario,  adun- 
que, come  è detto,  che  gli  uomini  che 
vivono  insieme  in  qualunque  ordine, 
spesso  si  riconoschino,  o per  questi  ac- 
cidenti estrinsechi  o per  gli  intrinsechi. 
E quanto  a questi,  conviene  che  nasca 
o da  una  legge  la  quale  spesso  rivegga 


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DEI  DISCORSI 


528 

il  conto  agii  uomini  che  sono  in  quel 
corpo;  o veramente  da  uno  uomo  buono 
che  nasca  fra  loro,  il  quale  con  gli  suoi 
essempi  e con  le  sue  opere  virtuose, 
faccia  il  medesimo  effetto  che  l’ordine. 
Surge,  adunque,  questo  bene  nelle  re- 
pubbliche, o per  virtù  d’un  uomo  o per 
virtù  d’  uno  ordine.  E quanto  a questo 
ultimo,  gli  ordini  che  ritirarono  la  Re- 
pubblica romana  verso  il  suo  principio, 
furono  i Tribuni  della  plebe,  i Censori, 
e tutte  1’  altre  leggi  che  venivano  con- 
tra  all’ambizione  ed  alla  insolenza  degli 
uomini.  I quali  ordini  hanno  bisogno 
d’ esser  fatti  vivi  dalla  virtù  d’  un  cit- 
tadino, il  quale  animosamente  concorra 
ad  eseguirli  contra  alla  potenza  di  quelli 
che  gli  trapassano.  Delle  quali  esecu- 
zioni, innanzi  alla  presa  di  Roma  dai 
Franciosi,  furon  notabili,  la  morte  de’ 
figliuoli  di  Bruto,  la  morte  de’  dieci  cit- 
tadini, quella  di  Melio  Frumentario:  dopo 
la  presa  di  Roma,  fu  la  morte  di  Man- 
lio Capitolino,  la  morte  del  figliuolo  di 


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LIBRO  TERZO. 


' 529 

Manlio  Torquato,  la  esecuzione  di  Papi- 
rio Cursore  conira  a Fabio  suo  maestro 
de’ Cavalieri,  la  accusa  degli  Scipioni. 
Le  quali  cose,  perchè  erano  eccessive  e 
notabili,  qualunque  volta  ne  nasceva  una, 
facevano  gli  uomini  ritirare  verso  il  se- 
gno: e quando  le  cominciarono  ad  es- 
ser più  rare,  cominciarono  ancora  a dare 
più  spazio  agii  uomini  di  corrompersi, 
e farsi  con  maggiore  pericolo  e più  tu- 
multo. Perchè  dalP  una  all’altra  di  simili 
esecuzioni  non  vorrebbe  passare,  il  più, 
dieci  anni:  perchè,  passato  questo  tempo, 
gli  uomini  cominciano  a variare  co’  co- 
stumi, e trapassare  le  leggi  ; e se  non 
nasce  cosa  per  la  quale  si  riduca  loro 
a memoria  la  pena,  e ritruovisi  negli 
animi  loro  la  paura,  concorrono  tosto 
tanti  delinquenti,  che  non  si  possono 
più  punire  senza  pericolo.  Dicevano,  a 
questo  proposito,  quelli  che  hanno  go- 
vernato lo  Stato  di  Firenze  dal  1434 
infino  al  1494,  come  egli  era  necessario 
ripigliare  ogni  cinque  anni  lo  Stato; 

Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  3» 


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530 


DEI  DISCORSI 


altrimenti,  era  difficile  mantenerlo  : e 
chiamavano  ripigliare  lo  Stato,  mettere 
quel  terrore  e quella  paura  negli  uo- 
mini che  vi  avevano  messo  nel  pigliarlo, 
avendo  in  quel  tempo  battuti  quelli  che 
avevano,  secondo  quel  modo  di  vivere, 
male  operato.  Ma  come  di  quella  batti- 
tura la  memoria  si  spegne,  gli  uomini 
prendono  ardire  di  tentare  cose  nuove, 
e di  dir  male;  c però  è necessario  prov- 
vedervi, ritirando  quello  verso  i suoi 
principii.  Nasce  ancora  questo  ritira- 
mento delle  repubbliche  verso  il  loro 
principio  dalle  semplici  virtù  d’un  uomo, 
senza  dipendere  da  alcuna  legge  che  ti 
stimoli  ad  alcuna  esecuzione:  nondiman- 
co  sono  di  tanta  riputazione  e di  tanto 
essempio,  che  gli  uomini  buoni  dispe- 
rano imitarle,  e gli  tristi  si  vergognano 
a tenere  vita  contraria  a quelle.  Quelli 
che  in  Roma  particolarmente  feciono 
questi  buoni  effetti,  furono  Orazio  Code, 
Scevola,  Fabrizio,*  i duoi  Deci,  Regolo 
Attilio,  ed  alcuni  altri  ; i quali  con  i loro 


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LIBRO  TERZO. 


531 


essempi  rari  e virtuosi  facevano  in  Roma 
quasi  il  medesimo  effetto  che  si  faces- 
sino  le  leggi  e gli  ordini.  E se  le  ese- 
cuzioni soprascritte,  insieme  con  questi 
particolari  essempi,  fussino  almeno  se- 
guite ogni  dieci  anni  in  quella  città,  ne 
seguiva  di  necessità  che  la  non  si  sarebbe 
mai  corrotta:  ma  coinè  e’ cominciarono  a 
diradare  1’  una  e V altra  di  queste  due 
cose,  cominciarono  a moltiplicare  le  cor- 
ruzioni. Perchè  dopo  Marco  Regolo  non 
vi  si  vidde  alcun  simile  essempio:  e ben- 
ché in  Roma  surgessino  i duoi  Catoni, 
fu  tanta  distanza  da  quello  a loro,  ed 
intra  loro  dall’  uno  all’  altro,  e rimasono 
sì  soli,  che  non  potettono  con  gli  es- 
sempi  buoni  fare  alcuna  buona  opera; 
e massime  P ultimo  Catone,  il  quale  tro- 
vando in  buona  parte  la  città  corrotta, 
non  potette  con  lo  essempio  suo  fare 
che  i cittadini  diventassino  migliori.  E 
questo  basti  quanto  alle  repubbliche.  Ma 
quanto  alle  sètte,  si  vede  ancora  queste 
rinnovazioni  essere  necessarie  per  lo  es- 


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5a2 


DEI  DISCORSI 


sempio  della  nostra  religione;  la  quale 
se  non  fusse  stata  ritirata  verso  il  suo 
principio  da  san  Francesco  c da  san  Do- 
menico, sarebbe  al  lutto  spenta.  Perchè 
questi,  con  la  povertà  e con  ressempio 
della  vita  di  Cristo,  la  ridussono  nella 
mente  degli  uomini,  che  già  vi  era  spen- 
ta : e furono  sì  potenti  gli  ordini  loro 
nuovi,  cli’ei  sono  cagione  che  la  diso- 
nestà de’  prelati  e de’  capi  della  reli- 
gione non  la  rovini;  vivendo  ancora  po- 
veramente, ed  avendo  tanto  credito  nelle 
confessioni  con  i popoli  e nelle  predi- 
cazioni, che  c’  danno  loro  ad  intendere 
come  egli  è male  a dir  male  del  male, 
e che  sia  bene  vivere  sotto  1*  ubbidienza 
loro,  e se  fanno  errori,  lasciargli  gasli- 
gare  a Dio:  e così  quelli  fanno  il  peg- 
gio che  possono,  perchè  non  temono 
quella  punizione  che  non  veggono  e non 
credono.  Ha,  adunque,  questa  rinnova- 
zione mantenuto,  e mantiene  questa  re- 
ligione. Hanno  ancora  i regni  bisogno 
di  rinnovarsi,  e ridurre  le  leggi  di  quelli 


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LìBRO  TLRZO. 


533 

verso  il  suo  principio.  E si  vede  quanto 
buono  effetto  fa  questa  parte  nel  regno 
di  Francia;  il  quale  regno  vive  sotto  le 
leggi  e sotto  gli  ordini  più  clic  alcuno 
altro  regno  Delle  quali  leggi  ed  ordini 
ne  sono  mnntenitori  i parlamenti,  c mas- 
sime quel  di  Parigi  ; le  quali  sono  da 
lui  rinnovate  qualunque  volta  e’  fa  una 
esecuzione  contra  ad  uno  principe  di 
quel  regno,  e che  ei  condanna  il  re 
nelle  sue  sentenze.  Ed  infino  a qui  si  è 
mantenuto  per  essere  stato  uno  ostinato 
esecutore  contra  a quella  nobiltà  : ma 
qualunque  volta  e’  ne  lasciasse  alcuna 
impunita,  c che  le  venissino  a multi- 
plicare, senza  dubbio  ne  nascerebbe  o 
che  le  si  arebbono  a correggere  con 
disordine  grande,  o che  quel  regno  si 
risolverebbe.  Conchiudesi,  pertanto,  non 
esser  cosa  più  necessaria  in  un  vivere 
comune,  o setta  o regno  o repubblica 
che  sia,  che  rendergli  quella  riputazione 
ch’egli  aveva  ne’  princi pii  suoi;  ed  in- 
gegnarsi che  siano  ol  gli  ordini  buoni 


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534  DEI  DISCORSI 

O i buoni  uomini  che  facciano  questo 
effetto,  e non  l’ abbia  a fare  una  for/.a 
estrinseca.  Perchè,  ancora  che  qualche 
volta  la  sia  ottimo  rimedio,  come  fu  a 
Roma,  ella  è tanto  pericolosa,  che  non 
è in  modo  alcuno  da  disperarla.  E per 
dimostrare  a qualunque,  quanto  le  azioni 
degli  uomini  particolari  facessino  grande 
Roma,  e causassimo  in  quella  città  molti 
buoni  effetti,  verrò  alla  narrazione  e is- 
corso  di  quelli:  intra  i termini  de  qua I. 
questo  terzo  libro  ed  ultima  parte  d. 
questa  prima  Deca  si  conchiudera.  E 
benché  le  azioni  degli  re  bissino  grand, 
e notabili,  nondimeno,  dichiarandole  la 
istoria  diffusamente,  le  lasceremo  indie- 
tro; nè  parleremo  altrimenti  di  loro, 
eccetto  che  di  alcuna  cosa  che  «vessino 
operata  appartenente  alti  loro  privat, 
comodi  ; e coniincierenci  da  BiutOj  pa 
drc  della  romana  libertà. 


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LIBRO  TERZO. 


535 


Cap.  FI.  — Come  gli  è cosa  sapientissima 
simulare  in  tempo  la  pazzia. 

Non  fu  alcuno  mai  tanto  prudenti1,  - 
nè  tanto  stimato  savio,  per  alcuna  sua 
egregia  operazione,  quanto  merita  d’ es- 
ser tenuto  lunio  Bruto  nella  sua  simu- 
lazione della  stultizia.  Ed  ancora  che 
Tito  Livio  non  esprima  altro  che  una 
cagione  che  Io  inducesse  a tale  simula- 
zione, quale  fu  di  potere  più  sicura- 
mente vivere,  e mantenere  il  patrimonio 
suo;  nondimanco,  considerato  il  suo 
modo  di  procedere,  si  può  credere  che 
simulasse  ancora  questo  per  essere  man- 
co osservato,  ed  avere  più  comodità  di 
opprimere  i re  e di  liberare  la  sua  pa- 
tria, qualunque  volta  gliene  fussc  data 
occasione.  E che  pensasse  a questo,  si 
vide,  prima,  nello  interpretare  l’oracolo 
di  Apolline,  quando  simulò  cadere  per 
baciare  la  terra,  giudicando  per  quello 
aver  favorevoli  gli  Dii  ai  pensieri  suoi; 


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DEI  DISCORSI 


536 

e dipoi,  quando  sopra  la  moria  Lucre- 
zia, inira  il  padre  ed  il  marito  ed  altri 
parenti  di  lei,  ei  fu  il  primo  a trarle  il 
coltello  dalla  ferita,  e far  giurare  ai 
circonstanli,  che  mai  sopporterebbono 
che  per  lo  avvenire  alcuno  regnasse  in 
Roma.  Dallo  essempio  di  cgsIuì  hanno 
ad  imparare  tutti  coloro  che  sono  mal- 
contenti d’  uno  principe;  e debbono  pri- 
ma misurare  e pesare  le  forze  loro,  e 
se  sono  si  potenti  che  possino  scoprirsi 
suoi  nimici  e fargli  apertamente  guerra, 
debbono  entrare  per  questa  via,  come 
manco  pericolosa  e più  onorevole.  Ma 
se  sono  di  qualità  che  a fargli  guerra 
aperta  le  forze  loro  non  bastino,  deb- 
bono con  ogni  industria  cercare  di  far- 
segli  amici  ; cd  a questo  effetto,  entrare 
per  tutte  quelle  vie  che  giudicano  esser 
necessarie,  seguendo  i piaceri  suoi,  e 
pigliando  diletto  di  tutte  quelle  cose  che 
veggono  quello  dilettarsi.  Questa  dipie- 
sticliezza,  prima,  ti  fa  vivere  sicuro;  e, 
senza  portare  alcun  pericolo,  ti  fa  go- 


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LIBRO  TERZO. 


Ó37 


derc  la  buona  fortuna  di  quel  principe 
insieme  con  esso  lui,  e ti  arreca  ogni 
comodità  di  satisfare  all*  animo  tuo.  Vero 
è ebe  alcuni  dicono  che  si  vorrebbe  con 
gli  principi  non  stare  sì  presso  che  la 
rovina  loro  ti  coprisse,  nè  sì  discosto 
che  rovinando  quelli  tu  non  fussi  a 
tempo  a salire  sopra  la  rovina  loro:  la 
qual  via  del  mezzo  sarebbe  la  più  vera, 
quando  si  potesse  conservare;  ma  per- 
chè io  credo  che  sia  impossibile,  con- 
viene ridursi  ai  duoi  modi  soprascritti, 
cioè  di  allargarsi  o di  stringersi  con 
loro.  Chi  fa  altrimenti,  e sia  uomo  per 
le  qualità  sue  notabile,  vive  in  conti* 
novo  pericolo.  Nè  basta  dire:  io  non  mi 
curo  d’ alcuna  cosa,  non  desidero  nè 
onori  nè  utili,  io  mi  voglio  vivere  quie- 
tamente e senza  briga;  perchè  queste 
scuse  sono  udite  e non  accettate  : nè 
possono  gii  uomini  che  hanno  qualità 
eleggere  lo  starsi,  quando  bene  lo  eleg- 
gessino  veramente  e senza  alcuna  am- 
bizione, perchè  non  è loro  creduto  ; tal- 


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DEI  DISCORSI 


538 

chè  se  si  vogliono  star  loro,  non  sono 
lasciati  stare  da  altri.  Conviene  adun- 
que fare  il  pazzo,  come  Bruto  ; ed  assai 
si  fa  il  matto,  laudando,  parlando,  veg- 
gendo,  faccendo  cose  eontra  all*  animo 
tuo,  per  compiacere  al  principe.  E poi- 
ché noi  abbiamo  parlato  della  prudenza 
di  questo  uomo  per  ricuperare  la  li- 
bertà di  Roma,  parleremo  ora  della  sua 
severità  in  mantenerla. 

Cap.  HI.  — Come  egli  è necessariOj  a 
voler  mantenere  una  libertà  acquistata 
di  nuovo 9 ammazzare  i figliuoli  di 
Bruto. 

Non  fu  meno  necessaria  che  utile  la 
severità  di  Bruto  nel  mantenere  in  Roma 
quella  libertà  che  egli  vi  aveva  acqui- 
stala ; la  quale  è di  un  essempio  raro 
in  tutte  le  memorie  delle  cose:  vedere 
il  padre  sedere  prò  tribunali,  e non 
solamente  condennare  i suoi  figliuoli  a 
morte,  ma  esser  presente  alla  morte 


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LIBRO  TERZO. 


539 


loro.  E sempre  si  conoscerà  questo  per 
coloro  che  le  cose  antiche  leggeranno: 
come  dopo  una  mutazione  di  Stato,  o 
da  repubblica  in  tirannide  o da  tiran- 
nide in  repubblica,  è necessaria  una 
esecuzione  memorabile  contra  a’  nimici 
delle  condizioni  presenti.  E chi  piglia 
una  tirannide  e non  ammazza  Bruto,  e 
chi  fa  uno  Stato  libero  e non  ammazza 
i figliuoli  di  Bruto,  si  mantiene  poco 
tempo.  E perchè  di  sopra  è discorso 
questo  luogo  largamente,  mi  rimetto  a 
quello  che  allora  se  ne  disse:  solo  ci 
addurrò  uno  essempio  stato  ne’  dì  no- 
stri, e nella  nostra  patria  memorabile. 
E questo  è Piero  Soderini,  il  quale  si 
credeva  con  la  pazienza  e bontà  sua 
superare  quello  appetito  che  era  ne’  fi- 
gliuoli di  Bruto  di  ritornare  sotto  un 
altro  governo,  e se  ne  ingannò.  E ben- 
ché quello,  per  la  sua  prudenza,  cono- 
scesse questa  necessità  J e che  la  sorte 
e la  ambizione  di  quelli  che  lo  urtava- 
no, gli  desse  occasione  a spegnerli  ; non- 


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540 


DEI  DISCORSI 

dimeno  non  volse  mai  Y animo  a farlo. 
Perchè,  oltre  al  credere  di  potere  con 
la  pazienza  e con  la  bontà  estinguere  i 
mali  umori,  e con  i premi  verso  qual- 
cuno consumare  qualche  sua  inimicizia; 
giudicava  (e  molte  volle  ne  fece  con  gli 
amici  fede)  che  a volere  gagliardamente 
urtare  le  sue  opposizioni,  e battere  i 
suoi  avversari,  gli  bisognava  pigliare 
straordinaria  autorità,  e rompere  con 
le  leggi  la  civile  equalità  : la  qualcosa, 
ancora  che  dipoi  non  fusse  da  lui  usata 
tirannicamente,  arebbe  tanto  sbigottito 
I’  universale,  che  non  sarebbe  mai  poi 
concorso  dopo  la  morte  di  quello  a ri- 
fare un  gonfaloniere  a vita;  il  quale 
ordine  egli  giudicava  fusse  bene  uugu- 
mentarc  c mantenere.  Il  quale  rispetto 
era  savio  e buono  : nondimeno,  e’  non 
si  debbe  mai  lasciare  scorrere  un  male 
rispetto  ad  un  bene,  quando  quel  bene 
facilmente  possa  essere  da  quel  male 
oppressalo.  E doveva  credere  che,  aven- 
dosi a giudicare*  Y opere  sue  c la  in- 


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LIBRO  TERZO. 


541 


tenzione  sua  dal  One,  quando  la  fortuna 
e la  vita  lo  avesse  accompagnato,  che 
poteva  certificare  ciascuno,  come  quello 
aveva  fatto,  era  per  salute  della  patria, 
e non  per  ambizione  sua  ; e poteva  re- 
golare le  cose  in  mòdo,  che  un  suo  suc- 
cessore non  potesse  fare  per  male  quello 
che  egli  avesse  fatto  per  bene.  Ma  lo 
ingannò  la  prima  oppinione,  non  cono- 
scendo che  la  malignità  non  è doma  da 
tempo,  nè  placata  da  alcun  dono.  Tanto 
che,  per  non  sapere  somigliare  Bruto, 
ei  perde,  insieme  con  la  patria  sua,  lo 
Stato  e la  riputazione.  E come  egli  è 
cosa  difficile  salvare  uno  Stato  libero, 
cosi  è difficile  salvarne  un  regio;  come 
nel  seguente  capitolo  si  mostrerà. 

Cap.  IV.  - — Non  vive  sicuro  un  prin- 
cipe in  un  principato,  mentre  vivono 
coloro  che  ne  sono  stati  spogliali. 

La  morte  di  Tarquinio  Prisco  causata 
dai  figliuoli  di  Anco,  e la  morte  di  Ser- 


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DEI  DISCORSI 


542 

vio  Tulio  causata  da  Tarquinio  Super- 
bo, mostra  quanto  difficile  sia  e peri- 
coloso spogliar  uno  del  regno,  e quello 
lasciar  vivo,  ancora  che  cercasse  con 
meriti  guadagnarselo.  E vedesi  come 
Tarquinio  Prisco  fu  ingannato  da  pa- 
rergli possedere  quel  regno  giuridica- 
mente, essendogli  stato  dato  dal  Popolo, 
e confermato  dal  Senato:  nè  credette 
che  nei  figliuoli  di  Anco  potesse  tanto 
lo  sdegno,  che  non  avessino  a conten- 
tarsi di  quello  che  si  contentava  tutta 
Roma.  E Servio  Tulio  s’ ingannò,  cre- 
dendo potere  con  nuovi  meriti  guada- 
gnarsi i figliuoli  di  Tarquinio.  Dimodo- 
ché, quanto  al  primo,  si  può  avvertire 
ogni  principe,  che  non  viva  mai  sicuro 
del  suo  principato,  finché  vivono  coloro 
che  ne  sono  stati  spogliati.  Quanto  al 
secondo,  si  può  ricordare  ad  ogni  po- 
tente, che  mai  le  ingiurie  vecchie  non 
furono  cancellate  da’ benefizi  nuovi;  e 
tanto  meno,  quanto  il  benefizio  nuovo 
è minore  che  non  è stata  l’ingiuria.  E 


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LIBRO  TERZO. 


5 43 

senza  dubbio,  Servio  Tulio  fu  poco  pru- 
dente a credere  che  i figliuoli  di  Tar- 
quinio  fussino  pazienti  ad  esser  generi 
di  colui  di  chi  e’ giudicavano  dovere  es- 
sere re.  E questo  appetito  del  regnare 
è tanto  grande,  che  non  solamente  en- 
tra nei  petti  di  coloro  a chi  s’  aspetta 
il  regno,  ma  di  quelli  a chi  non  s’  aspet- 
ta: come  fu  nella  moglie  di  Tarquinio 
giovine,  figliuola  di  Servio;  la  quale, 
mossa  da  questa  rabbia,  coutra  ogni 
pietà  paterna,  mosse  il  marito  contro  al 
padre  a torgli  la  vita  ed  il  regno:  tanto 
stimava  più  essere  regina,  che  figliuola 
di  re  ! Se,  adunque,  Tarquinio  Prisco  e 
Servio  Tulio  perdettono  il  regno  per 
non  si  sapere  assicurare  di  coloro  a 
chi  ei  l’ avevano  usurpato,  Tarquinio 
Superbo  lo  perdè  per  non  osservare  gli 
ordini  degli  antichi  re;  come  nel  se- 
guente capitolo  si  mostrerà. 

i*- 


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544 


Dei  DISCORSI 


Cap.  V.  — Quello  che  fa  perdere  uno 
regno  ad  uno  re  che  sia  ereditario 
di  quello. 

Avendo  Tarquinio  Superbo  morto  Ser- 
vio Tulio,  e di  lui  non  rimanendo  eredi, 
veniva  a possedere  il  regno  sicuramen- 
te, non  avendo  a temere  di  quelle  cose 
che  avevano  offeso  i suoi  antecessori.  E 
benché  il  modo  dell’  occupare  il  regno 
fusse  stato  istraordinario  ed  odioso; 
nondimeno,  quando  egli  avesse  osservato 
gli  antichi  ordini  degli  altri  re,  sarebbe 
stato  comportato,  nè  si  sarebbe  conci- 
tato il  Senato  e la  Plebe  contra  di  lui 
per  torgli  lo  Stato.  Non  fu,  adunque, 
costui  cacciato  per  aver  Sesto  suo  figliuo- 
lo stuprata  Lucrezia,  ma  per  aver  rotte 
le  leggi  del  regno,  e governatolo  tiran- 
nicamente; avendo  tolto  al  Senato  ogni 
autorità,  e ridottola  a sé  proprio;  e 
quelle  faccende  che  nei  luoghi  pubblici 
con  satisfazione  del  Senato  romano  si 


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LIBRO  TERZO. 


545 


facevano,  le  ridusse  a fare  nel  palazzo 
suo  con  carico  ed  invidia  suo  ; talché 
in  breve  tempo  egli  spogliò  Roma  di 
tutta  quella  libertà  cl»’  ella  aveva  sotto 
gli  altri  Re  mantenuta.  Nò  gli  bastò 
farsi  nimici  i Padri,  che  si  concitò  an- 
cora contra  la  Plebe,  affaticandola  in 
cose  meccaniche,  e tutte  aliene  da  quello 
a che  P avevano  adoperata  i suoi  ante- 
cessori: talché,  avendo  ripiena  Roma  di 
essempi  crudeli  e superbi,  aveva  dispo- 
sti già  gli  animi  di  tutti  i Romani  alla 
ribellione,  qualunque  volta  ne  avessino 
occasione.  E se  lo  accidente  di  Lucrezia 
non  fusse  venuto,  come  prima  ne  fussc 
nato  un  altro,  arebbe  partorito  il  me- 
desimo effetto.  Perchè,  se  Tarquinio 
fusse  vissuto  come  gli  altri  Re,  e Sesto 
suo  figliuolo  avesse  fatto  quello  errore, 
sarebbero  Bruto  e Collatino  ricorsi  a 
Tarquinio  per  la  vendetta  contru  a Se- 
sto, e non  al  Popolo  romano.  Soppino 
adunque  i principi,  come  a quella  ora 
e*  cominciano  a perdere  lo  Stato,  eh’  ei 
Machi  stelli,  Discorsi.  — 1. 


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546 


DEI  DISCORSI 


cominciano  a rompere  le  leggi,  e quelli 
modi  e quelle  consuetudini  che  sono 
antiche,  e sotto  le  quali  gli  uomini  lungo 
tempo  sono  vivuti.  E se  privati  di’  ei 
sono  dello  Stato,  e'  diventassino  mai 
tanto  prudenti,  che  conoscessino  con 
quanta  facilità  i principati  si  tenghino 
da  coloro  che  saviamente  si  consiglia- 
no; dorrebbe  molto  più  loro  tal  perdi- 
ta, ed  a maggiore  pena  si  condanne- 
rebbono,  che  da  altri  fussino  condan- 
nati. Perchè  egli  è molto  più  facile  es- 
sere amato  da’  buoni  che  dai  cattivi,  ed 
ubbidire  alle  leggi  che  volere  comandare 
loro.  E volendo  intendere  il  modo  aves- 
sino a tenere  a fare  questo,  non  hanno 
a durare  altra  fatica  che  pigliare  per 
loro  specchio  la  vita  dei  principi  buo- 
ni; come  sarebbe  Tiinoleone  Corintio, 
Arato  Sicioneo,  e simili:  nella  vita 
de’  quali  ei  troveranno  tanta  sicurtà  e 
tanta  «atisfazione  di  chi  regge  e di  chi 
è retto,  che  doverrebbe  venirgli  voglia 
di  imitargli,  potendo  facilmente,  per  le 


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LIBRO  TERZO. 


547 


ragioni  dette,  farlo.  Perchè  gli  uomini, 
quando  sono  governati  bene,  non  cer- 
cano  uè  vogliono  altra  libertà  : come 
intervenne  ai  popoli  governati  dai  duoi 
prenominati  ; che  gli  costrinsono  ad  es- 
sere principi  mentre  che  vissono,  ancora 
che  da  quelli  più  volte  fusse  tentato  di 
ridursi  in  vita  privata.  E perchè  in  que- 
sto, e ne'  duoi  antecedenti  capitoli,  si  è 
ragionato  degli  umori  concitati  contra 
a'  principi,  e delle  congiure  fatte  dai 
figliuoli  di  Bruto  contra  alla  patria,  e 
di  quelle  fatte  contra  a Tarquinio  Pri- 
sco ed  a Servio  Tulio;  non  mi  pare 
cosa  fuori  di  proposito,  nel  seguente 
capitolo,  parlarne  diffusamente,  sendo 
materia  degna  di  essere  notata  dai  prin- 
cipi e dai  privati. 

Cap.  VI.  — Delle  congiure. 

E'  non  mi  è parso  da  lasciare  indie- 
tro il  ragionare  delle  congiure,  essendo 
cosa  tanto  pericolosa  ai  principi  ed  ai 


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DEI  DISCORSI 


548 

privali  ; perché  si  vede  per  quelle  molli 
più  principi  aver  perduta  la  vita  e lo 
Stato,  die  per  guerra  aperta.  Perchè  il 
poter  fare  aperta  guerra  con  un  prin- 
cipe, è conceduto  a pochi  ; il  potergli 
congiurar  contra,  è conceduto  a ciascuno' 
DalP  altra  parte,  gli  uomini  privati  non 
entrano  in  impresa  più  pericolosa  nè 
più  temeraria  di  questa;  perchè  la  è 
difficile  e pericolosissima  in  ogni  sua 
parte.  Donde  ne  nasce,  che  molte  se  ne 
tentano,  e pochissime  hanno  il  line  de- 
siderato. Acciocché,  adunque,  i principi 
imparino  a guardarsi  da  questi  pericoli, 
e che  i privati  più  timidamente  vi  si 
niellino;  anzi  imparino  ad  esser  contenti 
a vivere  sotto  quello  imperio  che  dalla 
sorte  è stato  loro  preposto;  io  ne  par- 
lerò diffusamente,  non  lasciando  indietro 
alcun  caso  notabile  in  documento  del- 
1’  uno  e dell’  altro.  E veramente,  quella 
sentenza  di  Cornelio  Tacito  è aurea, 
che  dice:  che  gli  uomini  hanno  ad  ono- 
rare le  cose  passate,  ed  ubbidire  alle 


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LIBRO  TLRZO. 


549 

presenti  ; e debbono  desiderare  i buoni 
principi,  e comunque  si  siano  fatti  tol- 
lerargli. E veramente  chi  fa  altrimenti, 
il  più  delle  volte  rovina  sè  e la  sua 
patria.  Dobbiamo,  adunque,  entrando 
nella  materia,  considerare  prima  contra 
a chi  si  fanno  le  congiure;  e troveremo 
farsi  o contra  alla  patria,  o contra  ad 
uno  principe;  delle  quali  due  voglio 
che  al  presente  ragioniamo;  perchè  di 
quelle  che  si  fanno  per  dare  una  terra 
ai  nimici  che  la  assediano,  o che  abbino 
per  qualunque  cagione  similitudine  con 
questa,  se,  n’  è parlato  di  sopra  a suf- 
ficienza. E tratteremo  in  questa  prima 
parte  di  quelle  contra  al  principe,  e pri- 
ma esamineremo  le  cagioni  di  esse:  le 
quali  sono  molte;  ma  una  ne  è impor- 
tantissima più  che  tutte  V altre.  E que- 
sta è l’essere  odiato  dall’universale; 
perchè  quel  principe  che  si  è concitato 
questo  universale  odio,  è ragionevole 
che  abbi  de’  particolari  i quali  da  lui 
siano  stati  più  offesi,  e che  desiderino 


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550 


DEI  Disconsi 


vendicarsi.  Questo  desiderio  è accresciuto 
loro  da  quella  mala  disposizione  univer- 
sale, che  veggono  essergli  concitata  con- 
tra.  Debbe,  adunque,  un  principe  fug- 
gire questi  carichi  pubblici  : e come  egli 
abbia  a fare  a fuggirli,  avendone  altrove 
trattato,  non  ne  voglio  parlare  qui;  per- 
chè guardandosi  da  questo,  le  semplici 
offese  particolari  gli  faranno  meno  guer- 
ra. L’ una,  perchè  si  riscontra  rade  volte 
in  uomini  che  stimino  tanto  una  ingiu- 
rio, che  si  menino  a tanto  pericolo  per 
vendicarla;  l’altra,  che  quando  pur  ei 
lussino  d’animo  e di  potenza  da  farlo, 
sono  ritenuti  da  quella  benivolenza  uni- 
versale, che  veggono  avere  ad  uno  prin- 
cipe. Le  ingiurie,  conviene  che  siano 
nella  roba,  nel  sangue,  o nell’onore.  Di 
quelle  del  sangue  sono  più  pericolose  le 
minacce  che  la  esecuzione;  anzi,  le  mi- 
nacce sono  pericolosissime,  e nella  ese- 
cuzione non  vi  è pericolo  alcuno:  perchè 
chi  è morto,  non  può  pensare  alla  ven- 
detta; quelli  che  rimangono  vivi,  il  più 


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LIBRO  TERZO. 


551 

delle  volte  ne  lasciano  il  pensiero  al 
morto.  Ma  colui  che  è minacciato,  e che 
si  vede  constretto  da  una  necessità  o di 
fare  o di  patire,  diventa  un  uomo  pe- 
ricolosissimo per  il  principe:  come  nel 
suo  luogo  particolarmente  diremo.  Fuora 
di  queste  necessità,  la  roba  e l’onore 
sono  quelle  due  cose  che  offendono  più 
gii  uomiui  che  alcun’ altra  offesa,  e dalle 
quali  il  principe  si  debbe  guardare  : per- 
chè e’  non  può  mai  spogliare  uno  tanto, 
che  non  gli  resti  un  coltello  da  vendi- 
carsi: non  può  mai  tanto  disonorare 
uno,  che  non  gli  resti  un  animo  ostinato 
alla  vendetta.  E degli  onori  che  si  tol- 
gono agli  uomini,  quello  delle  donne 
importa  più:  dopo  questo,  il  vilipendio 
della  sua  persona.  Questo  armò  Pausa- 
sania  contro  a Filippo  di  Macedonia; 
questo  ha  armato  molti  altri  contra  a 
molti  altri  principi:  e nei  nostri  tempi 
Iulio  Belanti  non  si  mosse  a congiurare 
contra  Pandolfo  tiranno  di  Siena,  se  non 
per  avergli  quello  data,  e poi  tolta  per 


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DEI  DISCORSI 


5d“2 

moglie  una  sua  figliuola  ; come  nel  suo 
luogo  diremo.  La  maggior  cagione  che 
fece  che  i Pazzi  congiurarono  contea 
a’  Medici,  fu  l’eredità  di  Giovanni  Bon- 
romei,  la  quale  fu  loro  tolta  per  ordine 
di  quelli.  Un’altra  cagione  ci  è,  e gran- 
dissima, che  fu  gli  uomini  congiurare 
contro  al  principe;  la  quale  è il,  disi- 
derio  di  liberare  la  patria  stata  da 
quello  occupata.  Questa  cagione  mosse 
Bruto  e Cassio  contro  a Cesare;  questa 
ha  mosso  molti  altri  contro  ai  Palali, 
Dionisi,  ed  altri  oceupatori  della  patria 
loro.  Nè  può  da  questo  umore  alcuno 
tiranno  guardarsi,  se  non  con  diporre 
la  tirannide.  E perchè  non  si  truovu 
alcuno  che  faccia  questo,  si  truovauo 
pochi  che  non  capitino  male;  donde 
nacque  quel  verso  di  Iuvenale: 

« Adgcnerum  Cereria  sineccedeet  vulnere  parici 
Descendunt  reges,  et  sicca  morte  tiranni.  » 

1 pericoli  che  si  portano,  come  io  dissi 

di  sopra,  nelle  congiure,  sono  grandi, 

portandosi  per  lutti  i tempi;  perchè  in 


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LIBRO  TERZO. 


5Ó3 


tali  casi  si  coire  pericolo  nel  maneg- 
giarli, nello  eseguirli,  ed  eseguiti  che 
sono.  Quelli  che  congiurano,  o e’sono 
uno,  o e’  sono  più.  Uno  non  si  può  dire 
che  sia  congiura,  ma  è una  ferma  dispo- 
sizione nata  in  un  uomo  d’  ammazzare 
il  principe.  Questo  solo  dei  tre  pericoli 
che  si  corrono  nelle  congiure,  manca 
del  primo;  perchè  innanzi  alla  esecu- 
zione non  porta  alcun  pericolo,  non 
avendo  altri  il  suo  segreto,  nè  portando 
pericolo  che  torni  il  disegno  suo  all*  orec- 
chie del  principe.  Questa  diliberazione 
cosi  fatta  può  cadere  in  qualunque  uomo, 
di  qualunque  sorte,  piccolo,  grande,  no- 
bile, ignobile,  famigliare  e non  famiglia- 
re al  principe;  perchè  ad  ognuno  è le- 
cito qualche  volta  parlargli;  ed  a chi  è 
lecito  parlare,  è lecito  sfogare  T animo 
suo.  Pausanio,  del  quale  altre  volte  si  è 
parlato,  ammazzò  Filippo  di  Macedonia 
che  andava  al  tempio,  con  mille  armati 
d*  intorno,  ed  in  mezzo  intra  il  figliuolo 
ed  il  genero:  ma  costui  fu  nobile  e co- 


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554 


DEI  DISCORSI 


gnito  al  principe.  Uno  Spagnuolo  povero 
ed  abietto,  dette  una  coltellata  in  su  M 
collo  al  re  Ferrante,  re  di  Spagna  : non 
fu  la  ferita  mortale,  ma  per  questo  si 
vidde  che  colui  ebbe  animo  e comodità 
a farlo.  Uno  dervis,  sacerdote  turchesco, 
trasse  d’  una  scimitarra  a Baisit,  padre 
del  presente  Turco:  non  lo  ferì,  ma  ebbe 
pur  animo  e comodità  a volerlo  fare. 
Di  questi  animi  «fatti  cosi,  se  ne  truo- 
vano,  credo,  assai  che  lo  vorrebbono 
fare,  perchè  nel  volere  non  è pena  uè 
pericolo  alcuno  ; ma  pochi  che  lo  facci- 
no. Ma  di  quelli  che  lo  fanno,  pochis- 
simi o nessuno  che  non  siano  ammaz- 
zati in  sul  fatto:  però  non  si  truova  chi 
voglia  andare  ad  una  certa  morte.  Ma 
lasciamo  andare  queste  uniche  volontà, 
e veniamo  alle  congiure  intra  i più. 
Dico,  trovarsi  nelle  istorie,  tutte  le  con- 
giure esser  fatte  da  uomini  grandi,  o 
famigliarissimi  de!  principe:  perchè  gli 
altri,  se  non  sono  matti  affatto,  non  pos- 
sono congiurare  ; perchè  gli  uomini  de- 


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LIBRO  TERZO. 


555 


boli,  e non  famiglial  i al  principe,  man- 
cano di  tutte  quelle  speranze  e di  tutte 
quelle  comodità  che  si  richiede  alla  ese- 
cuzione d’  una  congiura.  Prima,  gli  uo- 
mini deboli  non  possono  trovare  riscon- 
tro di  chi  tenga  lor  fede;  perchè  uno 
non  può  consentire  alla  volontà  loro, 
sotto  alcuna  di  quelle  speranze  che  fa 
entrare  gli  uomini  ne’ pericoli  grandi; 
in  modo  che,  come  e’  si  sono  allargati 
in  due  o in  tre  persone,  e’  trovano  lo 
accusatore  c rovinano:  ma  quando  pure 
ei  fussino  tanto  felici  che  mancassino 
di  questo  accusatore,  sono  nella  esecu- 
zione intorniati  da  tale  difficultà,  per 
non  aver  V entrata  facile  al  principe, 
che  gli  è impossibile  che  in  essa  ese- 
cuzione ei  non  rovinino.  Perchè,  se  gli 
uomini  grandi,  e che  hanno  Y entrata 
facile,  sono  oppressi  da  quelle  difficultà. 
che  di  sotto  si  diranno,  conviene  che  in 
costoro  quelle  difficultà  senza  fine  crc- 
schino.  Pertanto  gli  uomini  (perchè  dove 
ne  va  la  vita  e la  roba  non  sono  al  tutto 

% 


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DEI  DISCORSI 


556 

insani),  quando  si  veggono  deboli,  se  ne 
guardano;  e quando  egli  hanno  a noia 
un  principe,  attendono  a biastemmarlo, 
cd  aspettano  che  quelli  che  hanno  mag- 
giore qualità  di  loro,  gli  vendichino.  E 
se  pure  si  trovasse  che  alcuno  di  que- 
sti simili  avesse  tentato  qualche  cosa,  si 
debbe  laudare  in  loro  la  intenzione,  e 
non  la  prudenza.  Vedesi,  pertanto,  quelli 
che  hanno  congiurato,  essere  stali  tutti 
uomini  grandi,  o famiglial  i del  princi- 
pe; de’ quali  molti  hanno  congiuralo, 
mossi  cosi  da  troppi  benefìzi,  come 
dalle  troppe  ingiurie:  come  fu  Peren- 
nio  contra  a Commodo,  Plauziano  con- 
tro a Severo,  Sciano  contra  a Tiberio. 
Costoro  tutti  furono  dai  loro  imperadori 
con stituiti  in  tanta  ricchezza,  onore  e 
grado,  che  non  pareva  che  mancasse 
loro  alla  perfezione  della  potenza  altro 
che  l’ imperio;  e di  questo  non  volendo 
mancare,  si  missono  a congiurare  con- 
ila al  principe:  ed  ebbono  le  loro  con- 
giure tutte  quel  fine  che  meritava  la 


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LIBRO  TERZO. 


557 


loro  ingratitudine;  ancora  che  di  que- 
ste simili  ne’  tempi  più  freschi  ne  avesse 
buon  fine  quella  di  Iacopo  d’Appiano 
contra  a messer  Piero  Gambacorti,  prin- 
cipe di  Pisa  : il  quale  Iacopo,  allevato  e 
nutrito  e fatto  riputato  da  lui,  gli  tolse 
poi  lo  Stato.  Fu  di  queste  quella  del 
Coppola,  ne’  nostri  tempi,  contra  al  re 
Ferrando  d' Aragona  ; il  quale  Coppola 
venuto  a tanta  grandezza  che  non  gli 
pareva  gli  mancasse  se  non  il  regno, 
per  volere  ancora  quello,  perde  la  vita. 
E veramente,  se  alcuna  congiura  contra 
a’ principi  fatta  da  uomini  grandi  do- 
vesse avere  buon  fine,  doverrebbé  es- 
sere questa;  essendo  fatta  da  un  altro 
re,  si  può  dire,  e da  chi  ha  tanta  co- 
modità di  adempire  il  suo  desiderio: 
ma  quella  cupidità  del  dominare  che 
gli  accieca,  gli  accieca  ancora  nel  ma- 
neggiare questa  impresa  ; perchè,  se 
sapessino  fare  questa  cattività  con  pru- 
denza, sarebbe  impossibile  non  riuscisse 
loro.  Debbe,  adunque,  un  principe  che 


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DEI  DISCORSI 


558 

si  vuole  guardare  dalie  congiure,  temere 
più  coloro  a chi  egli  ha  fatto  troppi 
piaceri,  che  quelli  a chi  gli  avesse  fatte 
troppe  ingiurie.  Perchè  questi  mancano 
di  comodità,  quelli  ne  abbondano;  e la 
voglia  è simile,  perchè  gli  è così  grande 
o maggiore  il  desiderio  del  dominare, 
che  non  è quello  della  vendetta.  Deb- 
bono, pertanto,  dare  tanta  autorità  agli 
loro  amici,  che  da  quella  al  principato 
sia  qualche  intervallo,  e che  vi  sia  in 
mezzo  qualche  cosa  da  disiderare:  al- 
trimenti, sarà  coso  rara  se  non  inter- 
verrà loro  come  ai  principi  soprascritti. 
.Ma  torniamo  all’  ordine  nostro.  Dico, 
che  avendo  ad  esser  quelli  che  congiu- 
rano uomini  grandi,  e che  abbino  l’adito 
facile  al  principe,  si  ha  a discorrere  i 
successi  di  queste  loro  imprese  quali 
siano  stati,  e vedere  la  cagione  che  gli  « 
ha  fatti  essere  felici  ed  infelici.  E come 
io  dissi  di  sopra,  ci  si  trovano  dentro 
in  tre  tempi,  pericoli:  prima,  in  su  ’l 
fatto,  e poi.  Però  se  ne  trovano  poche 


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LIBRO  TERZO.  559 

che  abbiano  buono  esito,  perchè  gli  è 
impossibile  quasi  passargli  tutti  felice- 
mente. E cominciando  a discorrere  i 
pericoli  di  prima,  che  sono  i più  impor- 
tanti; dico,  come  e’  bisogna  essere  molto 
prudente,  ed  avere  una  gran  sorte,  che 
nel  maneggiare  una  congiura  la  non  si 
scuopra.  E si  scuoprono  o per  relazio- 
ne, o per  coniettura.  La  relazione  nasce 
da  trovare  poca  fede,  o poca  prudenza, 
negli  uomini  con  chi  tu  la  comunichi. 
La  poca  fede  si  truova  facilmente,  per- 
chè tu  non  puoi  comunicarla  se  non 
con  tuoi  fidati,  che  per  tuo  amore  si 
mettino  alla  morte,  o con  uomini  che 
siano  malcontenti  del  principe.  De’  fidati 
se  ne  potrebbe  trovare  uno  o due;  ma 
come  tu  Li  distendi  in  molti,  è impos- 
sibile gli  truovi:  dipoi,  c’bisogna  bene 
che  la  benevolenza  che  ti  portano  sia 
grande,  a volere  che  non  paia  loro  mag- 
giore il  pericolo  e la  paura  della  pena. 
Dipoi  gli  uomini  s' ingannano  il  più 
delle  volte  dello  amore  che  tu  giudichi 


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DEI  DISCORSI 


500 

che  un  uomo  ti  porti,  nè  le  ne  puoi 
mai  assicurare,  se  tu  non  ne  fai  espe- 
rienza: e farne  esperienza  in  questo  è 
pericolosissimo:  e sebbene  he  avessi  fatto 
esperienza  in  qualche  altra  cosa  perico- 
losa dove  e’ ti  fussono  stali  fedeli,  non 
puoi  da  quella  fede  misurare  questa, 
passando  questa  di  gran  lunga  ogni  al- 
tra qualità  di  pericolo.  Se  misuri  la  fede 
dalla  mala  contentezza  che  uno  abbia 
del  principe,  in  questo  tu  ti  puoi  facil- 
mente ingannare:  perchè  subito  che  tu 
hai  manifestato  a quel  malcontento  l’ani- 
mo  tuo,  tu  gli  dai  materia  di  conten- 
tarsi, e convien  bene  o che  1’  odio  sia 
grande,  o che  1’  autorità  tua  sia  gran- 
dissima a mantenerlo  in  fede.  Di  qui 
nasce  che  assai  ne  sono  rivelate  ed 
oppresse  ne’  primi  principii  loro;  e che 
quando  una  è stata  infra  molti  uomini 
segreta  lungo  tempo,  è tenuta  cosa  mi- 
racolosa: come  fu  quella  di  Pisone  con- 
tea a Nerone,  e ne' nostri  tempi  quella 
de’  Pazzi  conira  a Lorenzo  e Giuliano 


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LIBRO  TERZO. 


561 


de'  Medici;  delle  quali  erano  consapevoli 
più  clic  cinquanta  uomini,  c condus- 
sonsi  alla  esecuzione  a scoprirsi.  Quanto 
a scoprirsi  per  poca  prudenza,  nasce 
quando  uno  congiurato  ne  parla  poco 
cauto,  in  modo  che  un  servo  o altra 
terza  persona  intenda;  come  intervenne 
ai  figliuoli  di  Bruto,  che  nel  maneggiare 
la  cosa  con  i legali  di  Tarquinio,  fu- 
rono intesi  da  un  servo,  che  gli  accusò: 
ovvero  quando  per  leggerezza  ti  viene 
comunicala  a donna  o a fanciullo  che 
tu  ami,  o a simile  leggieri  persona  ; 
come  fece  Dinno,  uno  de*  congiurati  con 
Filota  centra  ad  Alessandro  Magno,  il 
quale  comunicò  la  congiura  a Nicomaco 
fanciullo  amato  da  lui,  il  quale  subito 
lo  disse  a Ciballino  suo  fratello,  e Ci- 
bullino  al  re.  Quanto  a scoprirsi  per 
conieltura,  ce  tf  è in  essempio  la  con- 
giura Pisoniana  conira  a Nerone;  nella 
quale  Scevino,  uno  de’  congiurati,  il  dì 
dinanzi  eh’  egli  aveva  ad  ammazzare 
Nerone,  fece  testamento,  ordinò  che  Me- 
Machiavelli,  Discorsi  — i.  36 


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562  DEI  DISCORSI 

lichio  suo  liberto  facesse  arrotare  un 
suo  pugnale  vecchio  e rugginoso,  liberò 
tutti  i suoi  servi  e dette  loro  danari, 
fece  ordinare  fasciature  da  legare  ferite: 
per  le  quali  conietture  accertatosi  .Meli- 
chio  della  cosa,  lo  accusò  a Nerone.  Fu 
preso  Scevino,  e con  lui  Natale,  un  altro 
congiurato,  i quali  erano  stati  veduti 
parlare  a lungo  e di  segreto  insieme  il 
di  davanti;  e non  si  accordando  del 
ragionamento  avuto,  furono  forzati  a 
confessare  il  vero;  talché  la  congiura 
fu  scoperta,  con  rovina  di  tutti  i con- 
giurati. Da  queste  cagioni  dello  scoprire 
le  congiure  è impossibile  guardarsi,  che 
per  malizia,  per  imprudenza  o per  leg- 
gerezza, la  non  si  scuopra,  qualunque 
volta  i conscii  d’essa  passano  il  numero 
di  tre  o di  quattro.  E come  e’  ne  è preso 
più  che  uno,  è impossibile  non  riscon- 
trarla, perchè  due  non  possono  esser 
convenuti  insieme  di  tutti  i ragiona- 
menti loro.  Quando  e’  sia  preso  solo 
uno  che  sia  uomo  forte,  può  egli  con  la 


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LIBRO  TERZO. 


563 


fortezza  dello  animo  tacere  i congiurati; 
ina  conviene  che  i congiurati  non  ab- 
bino meno  animo  di  lui  a star  saldi, 
e non  si  scoprire  con  la  fuga  : perchè 
da  una  parte  che  P animo  manca,  o da 
chi  è sostenuto  o da  chi  è libero,  la 
congiura  è scoperta.  Ed  è raro  lo  es- 
sempio  addotto  da  Tito  Livio  nella  con- 
giura fatta  contra  a Girolamo  re  di 
Siracusa  ; dove,  sendo  Teodoro  uno  de’ 
congiurati  preso,  celò  con  una  virtù 
grande  tutti  i congiurati,  ed  accusò  gli 
amici  del  re;  e dall’altra  parte,  tulli  i 
congiurati  confidarono  tanto  nella  virtù 
di  Teodoro,  che  nessuno  si  parti  di 
Siracusa,  o fece  alcuno  segno  di  timore. 
Passasi,  adunque,  per  tutti  questi  peri- 
coli nel  maneggiare  una  congiura  in- 
nanzi che  si  venga  alla  esecuzione 
d'essa:  i quali  volendo  fuggire,  ci  sono 
questi  rimedi.  Il  primo  ed  il  più  vero, 
anzi  a dir  meglio,  unico,  è non  dare 
tempo  ai  congiurati  di  accusarti;  e 
perciò  comunicare  loro  la  cosa  quando 


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564 


DEI  DISCORSI 


tu  ia  vuoi  fare,  e non  prima:  quelli 
che  hanno  fatto  cosi,  fuggono  al  certo  i 
pericoli  che  sono  nel  praticarla,  e il  più 
delle  volte  gli  altri  ; anzi  hanno  tutte 
avuto  felice  fine:  e qualunque  prudente 
arebbe  comodità  di  governarsi  in  que- 
sto modo,  lo  voglio  che  mi  basti  ad- 
durre due  essempi.  Nelemato,  non  po- 
tendo sopportare  la  tirannide  di  Ari- 
slotimo  tiranno  di  Epiro,  ragunò  in  casa 
sua  molti  parenti  ed  amici,  e conforta- 
togli a liberare  la  patria,  alcuni  di  loro 
chiesono  tempo  a deliberarsi  ed  ordi- 
narsi; donde  Nelemato  fece  a’  suoi  servi 
serrare  la  casa,  ed  a quelli  che  esso 
aveva  chiamati,  disse:  0 voi  giurerete 
di  andare  ora  a fare  questa  esecuzione, 
o io  vi  darò  tutti  prigioni  ad  Aristoti- 
mo.  Dalle  quali  parole  mossi  coloro, 
giurarono;  ed  andati  senza  intermissio- 
ne di  tempo,  felicemente  l’ ordine  di 
Nelemato  eseguirono.  Avendo  un  Mago, 
per  inganno,  occupato  il  regno  de’Persi, 
ed  avendo  Orlano,  uno  de’grandi  uomini 


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LIBRO  TERZO. 


565 


del  regno,  intesa  e scoperta  la  fraude, 
lo  conferì  con  sei  altri  principi  di  quello 
Stato,  dicendo  come  egli  era  da  vendi- 
care il  regno  dalla  tirannide  di  quel 
Mago;  e domandando  alcuno  di  loro 
tempo,  si  levò  Dario,  uno  de’  sei  chia- 
mati da  Orlano,  e disse:  0 noi  andre- 
mo ora  a far  questa  esecuzione,  o io  vi 
andrò  ad  accusar  tutti.  E così  d’ac- 
cordo levatisi,  senza  dar  tempo  ad  al- 
cuno di  pentirsi,  eseguirono  felicemente 
i disegni  loro.  Simile  a questi  duoi 
essempi  ancora  è il  modo  che  gli  Etoli 
tennero  ad  ammazzare  Nabide,  tiranno 
spartano  ; i quali  mandarono  Alessame- 
no  loro  cittadino,  con  trenta  cavalli  e 
dugento  fanti,  a Nabide,  sotto  colore  di 
mandargli  aiuto;  ed  il  segreto  solamente 
comunicarono  ad  Alessameno;  ed  agli 
altri  imposono  che  lo  ubbidissino  in 
ogni  e qualunque  cosa,  sotto  pena  di 
esilio.  Andò  costui  in  Sparta,  e non  co- 
municò mai  la  commissione  sua  se  non 
quando  ei  la  voile  eseguire:  donde  gli 


r 


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566 


DEI  DISCORSI 


riusci  d’  ammazzarlo.  Costoro,  adunque, 
per  questi  modi  hanno  fuggiti  quelli 
pericoli  che  si  portano  ne!  maneggiare 
le  congiure  ; e chi  imiterà  loro,  sempre 
gli  fuggirà.  E che  ciascuno  possa  fare 
come  loro,  io  ne  voglio  dare  lo  essein- 
pio  di  Pisone,  preallegato  di  sopra.  Era 
Pisone  grandissimo  e riputatissimo 
uomo,  e famigliare  di  Nerone,  e in  chi 
egli  confidava  assai.  Andava  Nerone 
ne’  suoi  orli  spesso  a mangiare  seco. 
Poteva,  adunque,  Pisone  farsi  amici 
uomini  d’animo,  di  cuore,  e di  dispo- 
sizione atti  ad  una  tale  esecuzione  (il 
che  ad  uno  uomo  grande  è facilissimo); 
e quando  Nerone  fusse  stato  ne*  suoi 
orti,  comunicare  loro  la  cosa,  e con 
parole  convenienti  inanimirli  a far  quello 
che  loro  non  avevano  tempo  a ricusa- 
re, e che  era  impossibile  che  non  riu- 
scisse. E cosi,  se  si  esamineranno  tutte 
1’  altre,  si  troverà  poche  non  esser  po- 
tute condursi  nel  medesimo  modo:  ma 
gli  uomini  per  lo  ordinario  poco  inten- 


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LIBRO  TERZO. 


567 


denti  delie  azioni  del  mondo,  spesso 
fanno  errori  grandissimi,  e tanto  mag- 
giori in  quelle  che  hanno  più  dello 
istraordinario,  come  è questa.  Debbesi, 
adunque,  non  comunicare  mai  la  cosa 
se  non  necessitato  ed  in  sul  fatto;  e 
se  pure  la  vuoi  comunicare,  comunicala 
ad  un  solo,  del  quale  abbi  fatto  lun- 
ghissima isperienza,  o che  sia  mosso 
dalle  medesime  cagioni  che  tu.  Tro- 
varne uno  così  fatto  è molto  più  facile 
che  trovarne  più,  e per  questo  vi  è 
meno  pericolo;  dipoi,  quando  pure  ei 
ti  ingannasse,  vi  è qualche  rimedio  a 
difendersi,  che  non  è dove  siano  con- 
giurati assai:  perchè  da  alcuno  prudente 
ho  sentito  dire  che  con  uno  si  può  par- 
lare ogni  cosa,  perchè  tanto  vale,  se  tu 
non  ti  lasci  condurre  a scrivere  di  tua 
mano,  il  sì  dell*  uno  quanto  il  no  del- 
l’altro; e dallo  scrivere  ciascuno  debbe 
guardarsi  come  da  uno  scoglio,  perchè 
non  è cosa  che  più  facilmente  ti  con- 
vinca, che  lo  scritto  di  tua  mano.  Plau- 


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568  DEI  DISCORSI 

ziano  volendo  fare  ammazzare  Severo 
imperadore  ed  Antonino  suo  figliuolo, 
commise  la  cosa  a Saturnino  tribuno; 
il  quale  volendo  accusarlo  e non  ubbi- 
dirlo,  e dubitando  che  venendo  alla  ac- 
cusa non  fusse  più  creduto  a Plauziano 
che  a lui,  gli  chiese  una  cedola  di  sua 
mano,  che  facesse  fede  di  questa  cora- 
missione  ; la  quale  Plauziano , acce- 
cato dalla  ambizione,  gli  fece:  donde 
seguì  che  fu  dal  tribuno  accusato  e 
convinto  ; e senza  quella  cedola,  e 
certi  altri  contrassegni,  sarebbe  stato 
Plauziano  superiore  : tanto  audacemente 
negava.  Truovasi,  adunque,  nella  accusa 
d’uno  qualche  rimedio,  quando  tu  non 
puoi  esser  da  una  scrittura,  o altri 
contrassegni,  convinto:  da  che  uno  si 
debbe  guardare.  Era  nella  congiura  Pi- 
soniana  una  femmina  chiamata  Epicari, 
9tata  per  lo  addietro  amica  di  Nerone; 
la  quale  giudicando  che  fusse  a propo- 
sito mettere  tra  i congiurati  uno  capi- 
tano di  alcune  triremi  che  Nerone  teneva 


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LIBRO  TERZO. 


569 


per  sua  guardia,  gli  coipunicò  la  con- 
giura, ma  non  i congiurati.  Donde,  rom- 
pendogli quel  capitano  la  fede  ed  accu- 
sandola a Nerone,  fu  tanta  l’ audacia  di 
Epicari  nel  negarlo,  che  Nerone,  rimaso 
confuso,  non  la  condennò.  Sono,  adun- 
que, nel  comunicare  la  cosa  ad  un  solo 
due  pericoli  : l’ uno,  che  non  ti  accusi  in 
pruova;  l’altro,  che  non  ti  accusi  con- 
vinto e constretto  dalla  pena,  sendo  egli 
preso  per  qualche  sospetto  o per  qual- 
che indizio  avuto  di  lui.  Ma  nell’  uno  e 
nell’altro  di  questi  duoi  pericoli  è qual- 
che rimedio,  potendosi  uegare  l’uno  al- 
legandone l’odio  che  colui  avesse  teco, 
e negare  l’altro  allegandone  la  forza 
che  lo  costringesse  a dire  le  bugie.  E, 
adunque,  prudenza  non  comunicare  la 
cosa  a nessuno,  ma  fare  secondo  quelli 
essenipi  soprascritti;  o quando  pure  la 
comunichi,  non  passare  uno,  dove  se  è 
qualche  più  pericolo,  ve  n’è  meno  assai 
che  comunicarla  con  molti.  Propinquo 
a questo  modo  è quando  una  necessità 


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570 


DEI  DISCORSI 


ti  constringa  a fare  quello  al  principe 
che  tu  vedi  che  '1  principe  vorrebbe 
fare  a te,  la  quale  sia  tanto  grande  che 
non  ti  dia  tempo  se  non  a pensare  d’as* 
sicurarti.  Questa  necessità  conduce  quasi 
sempre  la  cosa  al  (ine  disiderato:  ed  a 
provarlo  voglio  bastino  duoi  essempi. 
Aveva  Commodo,  imperadore,  Leto  ed 
Eletto,  capi  de’ soldati  pretoriani,  intra 
i primi  amici  e famigliaci  suoi,  ed  aveva 
Marzia  intra  le  sue  prime  concubine  ed 
amiche;  e perchè  egli  era  da  costoro 
qualche  volta  ripreso  de' modi  con  i 
quali  maculava  la  persona  sua  e lo  im- 
perio, deliberò  di  fargli  morire,  e scrisse 
in  su  una  lista:  Marzia,  Leto  ed  Eletto, 
ed  alcuni  altri  che  voleva  la  notte  se- 
guente far  morire;  e questa  lista  messe 
sotto  il  capezzale  del  suo  letto.  Ed  essen- 
do ito  a lavarsi,  un  fanciullo  favorito 
di  lui  scherzando  per  camera  e su  pel 
letto,  gli  venne  trovata  questa  lista,  ed 
uscendo  fuora  con  essa  in  mano,  ri- 
scontrò Marzia;  la  quale  gliene  tolse, 


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LIBRO  TERZO. 


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e lettola,  e veduto  il  contenuto  d’essa, 
subito  mandò  per  Leto  ed  Eletto;  e co- 
nosciuto tutti  tre  il  pericolo  in  quale 
erano,  diliberarono  prevenire;  e,  senza 
metter  tempo  in  mezzo,  la  notte  seguente 
ammazzarono  Commodo.  Era  Antonino 
Caracalla,  imperadore,  con  gli  eserciti 
suoi  in  Mesopotamia,  ed  aveva  per  suo 
prefetto  Macrino,  uomo  più  civile  che 
armigero;  e,  come  avviene  che.  i prin- 
cipi non  buoni  temono  sempre  che  altri 
non  operi  contra  di  loro  quello  che  par 
loro  meritare,  scrisse  Antonino  a Ma- 
terniano  suo  amico  a Roma,  che  inten- 
desse dagli  astrologi,  se  gli  era  alcuno 
che  aspirasse  allo  imperio,  e gliene  av- 
visasse. Donde  Materniano  gli  riscrisse, 
come  Macrino  era  quello  che  vi  aspira- 
• va;  e pervenuta  la  lettera,  prima  alle 
mani  di  Macrino  che  dello  imperadore, 
e per  quella  conosciuta  la  necessità  o 
d’ammazzare  lui  prima  che  nuova  let- 
tera venisse  da  Roma,  o di  morire, 
commise  a Marziale  centurione,  suo  fida- 


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572 


DEI  DISCORSI 


lo,  ed  a chi  Antonino  aveva  morto  pochi 
giorni  innanzi  un  fratello,  che  lo  am- 
mazzasse: il  che  fu  eseguito  da  lui  fe- 
licemente. Vedesi,  adunque,  che  questa 
necessità  che  non  dà  tempo,  fa  quasi 
quel  medesimo  effetto  che  ’l  modo  da 
me  sopraddetto  che  tenne  Nelemato  di 
Epiro.  Vedesi  ancora  quello  che  io  dissi 
quasi  nel  principio  di  questo  discorso, 
come  le  minacce  offendono  più  gii  prin- 
cipi, e sono  cagione  di  più  efficaci  con- 
giure che  le  offese  : da  che  un  principe 
si  debbe  guardare;  perchè  gli  uomini 
si  hanno  o a carezzare,  o assicurarsi  di 
loro,  e non  gli  ridurre  mai  in  termine 
che  gli  abbino  a pensare  che  bisogni 
loro  o morire,  o far  morire  altrui. 
Quanto  ai  pericoli  che  si  corrono  in  su 
la  esecuzione,  nascono  questi  o da  va- 
riare l’ordine,  o da  mancare  V animo 
a colui  che  eseguisce,  o da  errore  che 
lo  esecutore  faccia  per  poca  prudenza, 
o per  non  dar  perfezione  alla  cosa,  ri- 
manendo vivi  parte  di  quelli  che  si  di- 


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LIBRO  TERZO. 


673 


segnavano  ammazzare.  Dico,  adunque, 
come  e'  non  è cosa  alcuna  che  faccia 
tanto  sturbo  o impedimento  a tutte  le 
azioni  degli  uomini,  quanto  è in  uno 
instante,  senza  aver  tempo,  avere  a va- 
riare un  ordine,  e pervertirlo  da  quello 
che  si  era  ordinato  prima.  E se  questa 
variazione  fa  disordine  in  cosa  alcuna, 
lo  fa  nelle  cose  della  guerra,  ed  in  cose 
simili  a quelle  di  che  noi  parliamo;  per- 
chè in  tali  azioni  non  è cosa  tanto  ne- 
cessaria a fare,  quanto  che  gli  uomini 
fermino  gli  animi  loro  ad  eseguire  quella 
parte  che  tocca  loro;  e se  gli  uomini 
hanno  volto  la  fantasia  per  più  giorni 
ad  un  modo  e ad  uno  ordine,  e quello 
subito  varii,  è impossibile  che  non  si 
perturbino  tutti,  e non  rovini  ogni  co- 
sa; in  modo  ch'egli  è meglio  assai  ese- 
guire una  cosa  secondo  l' ordine  dato, 
ancora  che  vi  si  vegga  qualche  incon- 
veniente, che  non  è,  per  voler  cancellare 
quello,  entrare  in  mille  inconvenienti. 
Questo  interviene  quando  e’  non  si  ha 


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• 574 


DEI  DISCORSI 


tempo  a riordinarsi;  perchè  quando  si 
ha  tempo,  si  può  1’  uomo  governare  a 
suo  modo.  La  congiura  de’ Pazzi  contra 
a Lorenzo  e Giuliano  de’  Medici,  è nota. 
L’ ordine  dato  era,  che  dessino  desinare 
al  cardinale  di  San  Giorgio,  ed  a quel 
desinare  ammazzargli:  dove  si  era  di- 
stribuito chi  aveva  a ammazzargli,  chi 
aveva  a pigliare  il  palazzo,  e chi  correre 
la  città  e chiamare  il  popolo  alla  libertà. 
Accadde  che  essendo  nella  chiesa  catte- 
drale in  Firenze  i Pazzi,  i Medici  ed  il 
Cardinale  ad  uno  offizio  solenne,  s’in- 
tese come  Giuliano  la  mattina  non  vi 
desinava  : il  che  fece  che  i congiurati 
s’adunarono  insieme,^  quello  che  gli 
avevano  a far  in  casa  i Medici,  dilibe- 
rarono di  farlo  in  chiesa.  Il  che  venne 
a perturbare  tutto  l’ordine;  perchè  Gio- 
vambatista  da  Montesecco  non  volle  con- 
correre all’  omicidio,  dicendo  non  lo  co- 
lere fare  in  chiesa:  talché  gli  ebbono  a“ 
mutare  nuovi  ministri  in  ogni  azione;  i 
quali,  non  avendo  tempo  a fermare  l’ani- 


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LIBRO  TERZO. 


575 


mo,  feci ono  tali  errori,  che  in  essa  ese- 
cuzione furono  oppressi.  Manca  l’animo 
a chi  eseguisce,  o per  riverenza,  o per 
propria  viltà  dello  esecutore,  lì)  tanta  la 
maestà  e la  riverenza  che  si  tira  dietro 
la  presenza  d’uno  principe,  eh’  egli  è fa- 
cil  cosa  o che  mitighi  o ch’egli  sbigot- 
tisca uno  esecutore.  A Mario,  essendo 
preso  da’  Minturnesi,  fu  mandato  uno  ser- 
vo che  lo  ammazzasse  ; il  quale  spaventato 
dalla  presenza  di  quello  uomo  e dalla  me- 
moria del  nome  suo  divenuto  vile,  per- 
de ogni  forza  ad  ucciderlo.  E se  que- 
sta potenza  è in  uno  uomo  legato  e 
prigione,  ed  affogato  in  la  mala  fortuna, 
quanto  si  può  temere  che  la  sia  mag- 
giore in  un  principe  sciolto,  con  la 
maestà  degli  ornamenti,  della  pompa  c 
della  comitiva  sua?  talché  ti  può  questa 
pompa  spaventare,  o vero  con  qualche 
grata  accoglienza  raumiliare.  Congiura- 
rono alcuni  contro  a Sitalce  re  di  Tra- 
cia; deputarono  il  dì  della  esecuzione; 
convennono  al  luogo  deputato,  dov’ era 


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576  DEI  DISCORSI 

il  principe;  nessuno  di  loro  si  mosse 
per  offenderlo:  Unto  che  si  partirono 
senza  aver  tentato  alcuna  cosa  e senza 
sapere  quello  che  se  gli  avesse  impediti; 
ed  incolpavano  1’  uno  1’  altro.  Caddono 
in  tale  errore  più  volte  ; tanto  che  sco- 
pertasi la  congiura,  portarono  pena  di 
quel  male  che  poterono  e non  volleno 
fare.  Congiurarono  contra  Alfonso  duca 
di  Ferrara  due  suoi  fratelli,  ed  usarono 
mezzano  Giennes  prete  e cantore  del 
duca;  il  quale  più  volte  a loro  richiesta, 
condusse  il  duca  fra  loro,  talché  gli 
avevano  arbitrio  di  ammazzarlo.  Nondi- 
meno, mai  nessuno  di  loro  non  ardì  di 
farlo;  tanto  che  scoperti,  portarono  la 
pena  della  cattività  e poca  prudenza 
loro.  Questa  negligenza  non  potette  na- 
scere da  altro,  se  non  che  convenne  o 
che  la  presenza  gli  sbigottisse  o che 
qualche  umanità  del  principe  gli  umi- 
liasse. Nasce  in  tali  esecuzioni  inconve- 
niente o errore  per  poca  prudenza,  o 
per  poco  animo;  perchè  V una  e 1’  altra 


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LIBRO  TERZO. 


577 


di  queste  due  cose  ti  ’nvasa,  e,  portato 
da  quella  confusione  di  cervello,  ti  fa 
dire  e fare  quello  che  tu  non  debbi.  E 
che  gli  uomini  invasino  e si  confondino, 
non  lo  può  meglio  dimostrare  Tito  Livio 
quando  descrive  d’  Alessameno  elolo, 
quando  ei  volse  ammazzare  Nabide  spar- 
tano^ di  che  abbiamo  di  sopra  parlato; 
che,  venuto  il  tempo  della  esecuzione, 
scoperto  che  egli  ebbe  a’  suoi  quello 
che  af  aveva  a fare,"  dice  Tito  Livio 
queste  parole:  Collegi!  et  i psc  animunij 
confusimi  tanice  cogilatione  rei.  Perchè 
gli  è impossibile  eh*  alcuno,  àncora  che 
di  animo  fermo,  ed  uso  alla  morte  de- 
gli uomini  e ad  operare  il  ferro,  non 
si  confonda.  Però  si  debbe  eleggere  uo- 
mini sperimentati  in  tali  maneggi,  ed  a 
nessun  altro  credere,  ancora  che  tenuto 
animosissimo.  Perchè,  dello  animo  nelle 
cose  grandi,  senza  avere  fatto  isperien- 
za,  non  sia  alcuno  che  se  ne  prometta 
cosa  certa.  Può,  adunque,  questa  con- 
fusione o farti  cascare  Panni  di  mano, 

.Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  37 


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DEI  DISCORSI 

o farti  dire  cose  che  faccino  il  medesi- 
mo effetto.  Lucilla,  sorella  di  Commodo, 
ordinò  che  Quinziano  lo  ammazzasse. 
Costui  aspettò  Commodo  nella  entrata 
dello  anfiteatro,  c con  un  pugnale  ignudo 
accosta ndosegli,  gridò:  Questo  ti  manda 
il  Senato:  le  quali  parole  fecero  che  fu 
prima  preso  eh’  egli  avesse  calato  il 
braccio  per  ferire.  Messer  Antonio  da 
Volterra,  diputato,  come  di  sopra  si 
disse,  ad  ammazzare  Lorenzo  de*  Medici, 
nello  accostategli,  disse:  Ah  traditore! 
la  qual  voce  fu  la  salute  di  Lorenzo,  e 
la  rovina  di  quella  congiura.  Può  non 
si  dare  perfezione  alla  cosa,  quando  si 
congiura  contro  ad  un  capo,  per  le  ca- 
gioni delle:  ma  facilmente  non  se  le  dà 
perfezione  quando  si  congiura  contro  a 
due  capi;  anzi  è tanto  difficile,  che  gli 
è quasi  impossibile  eli»  la  riesca.  Per- 
chè fare  una  simile  azione  in  un  mede- 
simo tempo  in  diversi  luoghi,  è quasi 
impossibile;  perchè  in  diversi  tempi 
non  si  può  fare,  non  volendo  che  l’una 


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LIBRO  TLRZO. 


579 


guasti  1’  altra.  In  modo  clic,  se  il  con- 
giurare contro  ad  uu  principe  è cosa 
dubbia,  pericolosa  e poco  prudente  ; 
congiurare  contro  a due,  è al  tutto  vana 
e leggieri.  E se  non  fusse  la  riverenza 
dello  istorieo,  io  non  crederei  mai  che 
fusse  possibile  quello  che  Erodiano  dice 
di  Plauziano,  quando  ei  commise  a Sa- 
turnino centurione,  che  egli  solo  am- 
mazzasse Severo  ed  Antonino,  abitanti 
in  diversi  luoghi:  perchè  la  è cosa  tanto 
discosto  dal  ragionevole,  che  altro  che 
questa  autorità  non  me  lo  farebbe  cre- 
dere. Congiurarono  certi  giovani  ateniesi 
contra  a Diocle  ed  Ippia,  tiranni  di 
Alene.  Ammazzarono  Diocle;  ed  Ippia 
che  rimase,  Io  vendicò.  Chione  e Leo- 
nide, eradensi  e discepoli  di  Platone, 
congiurarono  contro  a Clearco  e Satiro, 
tiranni:  ammazzarono  Clearco;  e Satiro 
che  restò  vivo,  lo  vendicò.  Ai  Pazzi,  piu 
volte  da  noi  allegati,  non  successe  di 
ammazzare  se  non  Giuliano.  In  modo 
che,  di  simili  congiure  contro  a più  capi 


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580 


DEI  DISCORSI 


se  ne  dcbbe  astenere  ciascuno,  perchè 
non  si  fa  bene  nè  a sè  nè  olla  patria 
nè  ad  alcuno:  anzi  quelli  che  riman- 
gono , diventano  più  insopportabili  c 
più  acerbi;  come  sa  Firenze,  Atene 
ed  Eraclea,  state  da  ine  preallegate. 
È vero  che  la  congiura  clic  Pelopida 
fece  per  liberare  Tebe  sua  patria , 
ebbe  tutte  le  diffìcultù;  nondimeno 
ebbe  felicissimo  fine:  perchè  Pelopida 
non  solamente  congiurò  contra  a due 
tiranni,  ma  contra  a dieci;  non  sola- 
mente non  era  confidente  e non  gli  era 
facile  1’  entrata  ai  tiranni,  ma  era  ri- 
bello: nondimeno  ei  potè  venire  iti  Te- 
be, ammazzare  i tiranni,  e liberare  la 
patria.  Pur  nondimeno  fece  lutto,  con 
I’  aiuto  d’  uno  Carione,  consigliere  de’ ti- 
ranni, dal  quale  ebbe  1’  entrata  fucile 
alla  esecuzione  sua.  Non  sia  alcuno,  non- 
dimeno, che  pigli  lo  essempio  da  co- 
stui : perchè  come  la  fu  impresa  impos- 
sibile, e cosa  maravigliosa  a riuscire, 
cosi  fu  ed  è tenuta  dagli  scrittori  i 


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LIBRO  TERZO. 


581 

quali  la  celebrano  come  cosa  rara,  e 
quasi  senza  essempio.  Può  essere  inter- 
rotta tale  esecuzione  da  una  falsa  im- 
maginazione, o da  uno  accidente  im- 
provviso che  nasca  in  su  M fatto.  La 
mattina  che  Bruto  e gli  altri  congiurati 
volevano  ammazzare  Cesare,  accadde,  che 
quello  parlò  a lungo  con  Gneo  Popiiio 
Cenate,  uno  de’ congiurati  ; e vedendo 
gli  altri  questo  lungo  parlamento,  du- 
bitarono che  detto  Popiiio  non  rivelasse 
a Cesare  la  congiura.  Furono  per  ten- 
tare d*  ammazzare  Cesare  quivi,  e non 
aspettare  che  fusse  in  Senato;  ed  areb- 
bonlo  fatto,  se  non  che  il  ragionamento 
fini,  e visto  non  fare  a Cesare  moto 
alcuno  straordinario,  si  rassicurarono. 

Sono  queste  false  immaginazioni  da  con- 
siderarle, ed  avervi  con  prudenza  ri- 
spetto ; e tanto  più,  quanto  egli  è facile 
ad  averle.  Perchè  chi  ha  la  sua  con- 

l| 

scienza  macchiata,  facilmente  crede  che 
si  parli  di  lui:  puossi  sentire  una  pa- 
rola detta  ad  un  altro  fine,  che  ti  fac- 


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DEI  DISCORSI 


h 8 2 

eia  perturbare  t’  animo,  e credere  che 
ia  sia  detta  sopra  il  caso  tuo;  e farti 
o con  la  fuga  scoprire  la  congiura  da 
te,  o confondere  I'  azione  con  accelerarla 
fuora  di  tempo.  E questo  tanto  più  fa- 
cilmente nasce,  quanto  ei  sono  molti  ad 
esser  consci  della  congiura.  Quanto  agli 
accidenti,  perchè  sono  insperati,  non  si 
può  se  non  con  gli  essempi  mostrargli, 
e fare  gli  uomini  cauti  secondo  quelli, 
lulio  Belanti  da  Siena,  del  quale  di  so- 
pra abbiamo  futto  menzione,  per  lo 
sdegno  aveva  contra  a Pandolfo,  che  gli 
aveva  tolta  la  figliuola  che  prima  gli 
aveva  data  per  moglie,  deliberò  d’  am- 
mazzarlo, ed  elesse  questo  tempo.  An- 
dava Pandolfo  quasi  ogni  giorno  a vi- 
sitare un  suo  parente  infermo,  e nello 
andarvi  passava  dalle  case  di  lulio.  Co- 
stui adunque,  veduto  questo,  ordinò 
d*  avere  i suoi  congiurali  in  casa  ad 
ordine  per  ammazzare  Pandolfo  nel  pas- 
sare ; e messisi  dentro  alP  uscio  armati, 
teneva  uno  alla  fenestra,  che,  passando 


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LIBRO  TERZO. 


Ò.S3 


Pandolfo,  quando  ci  fosse  slato  presso 
all’  uscio,  facesse  un  cenno.  Accadde  che 
venendo  Pandolfo,  ed  avendo  fallo  colui 
il  cenno,  riscontrò  uno  amico  che  Io 
fermò;  ed  alcuni  di  quelli  che  erano  con 
lui,  vennero  a trascorrere  innanti,  e 
veduto  e sentito  il  rornore  d’arme,  sco- 
persono  l’agguato;  in  modo  che  Pan- 
dolfo si  salvò,  e tulio  coi  compagni  s’ eh* 
bono  a fuggire  di  Siena.  Impedì  quello 
accidente  di  quello  scontro  quella  azione, 
e fece  a Iulio  rovinare  la  sua  impresa. 
Ai  quali  accidenti,  perchè  ei  sono  rari, 
non  si  può  fare  alcuno  rimedio.  È ben 
necessario  esaminare  tutti  quelli  che 

possono  nascere,  e rimediarvi.  Restaci, 
* 

al  presente,  solo  a disputare  de’  pericoli 
che  si  corrono  dopo  la  esecuzione  : i 
quali  sono  solamente  uno;  e questo  è, 
quando  e’  rimane  alcuno  che  vendichi 
il  principe  morto.  Possono  rimanere, 
adunque,  suoi  fratelli,  o suoi  figliuoli,  o 
altri  aderenti,  a chi  s’  aspetti  il  prin- 
cipato; e possono  rimanere  o per  tua. 


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DEI  DISCORSI 


584 

negligenza,  o per  le  cagioni  dette  di  so- 
pra, che  faccino  questa  vendetta:  come 
intervenne  a Giovannandrea  da  Lampo- 
gnano,  il  quale,  insieme  con  i suoi  con- 
giurati, avendo  morto  il  duca  di  Mi- 
lano, ed  essendo  rimaso  uno  suo  figliuolo 
c due  suoi  fratelli,  furono  a tempo  a 
vendicare  il  morto.  E veramente,  in 
questi  casi  i congiurati  sono  scusati, 
perchè  non  ci  hanno  rimedio;  ma  quando 
ei  ne  ripiene  vivo  alcuno  per  poca  pru- 
denza, o per  loro  negligenza,  allora  è 
che  non  meritano  scusa.  Ammazzarono 
alcuni  congiurati  Forlivesi  il  conte  Gi- 
rolamo loro  signore,  presono  la  moglie, 
cd  i suoi  figliuoli,  che  erano  piccoli  ; e 
non  parendo  loro  poter  vivere  sicuri  se 
non  si  insignorivano  della  fortezza,  e 
non  volendo  il  castellano  darla  loro, 
Madonna  Caterina  (che  così  si  chiamava 
la  contessa)  promise  a’  congiurati,  se  la 
lasciavano  entrare  in  quella,  di  farla 
consegnare  loro,  e che  ritenessino  ap- 
presso di  loro  i suoi  figliuoli  per  ista- 


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LIBRO  TERZO. 


585 

ticiii.  Costoro  sotto  questa  fede  ve  la  la- 
sciarono entrare  ; la  quale  come  fu  den- 
tro dalie  mura  rimproverò  loro  la  morte 
del  marito,  e minacciógli  d’ ogni  qua- 
lità di  vendetta.  B per  mostrare  che 
de’ suoi  figliuoli  non  si  curava,  mostrò 
loro  le  membra  genitali,  dicendo  che 
aveva  ancora  il  modo  a rifarne.  Cosi 
costoro,  scarsi  di  consiglio  e tardi  av- 
vedutisi del  loro  errore,  con  uno  per- 
petuo esilio  patirono  pene  della  poca 
prudenza  loro.  Ma  di  tutti  i pericoli  che 
possono  dopo  la  esecuzione  avvenire, 
non  ci  è il  più  certo,  nè  quello  che  sia 
più  da  temere,  che  quando  il  popolo  è 
amico  del  principe  che  tu  hai  morto: 
perchè  a questo  i congiurati  non  hanno 
rimedio  alcuno,  perchè  e’  non  se  ne  pos- 
sono mai  assicurare.  In  essempio  ci  è 
Cesare,  il  quale  per  avere  il  popolo  di 
Roma  amico,  fu  vendicato  da  lui;  per- 
chè avendo  cacciati  i congiurati  di  Ro- 
ma, fu  cagione  che  furono  tutti  in  vari 
tempi  e in  vari  luoghi  ammazzati.  Le 


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DEI  DISCORSI 


586 

congiure  che  si  fanno  contro  alla  patria 
sono  meno  pericolose  per  coloro  che  le 
fanno,  che  non  sono  quelle  che  si  fanno 
contro  ai  principi:  perchè  nel  maneg- 
giarle vi  sono  meno  pericoli  che  in 
quelle;  nello  eseguirle  vi  sono  quelli 
medesimi;  dopo  la  esecuzione,  non  ve 
li*  è alcuno.  Nel  maneggiarle  non  vi  è 
pericoli  molti:  perchè  un  cittadino  può 
ordinarsi  alia  potenza  senza  manifestare 
l’animo  e disegno  suo  ad  alcuno; e se 
quelli  suoi  ordini  non  gli  sono  inter- 
rotti; seguire  felicemente  I*  impresa  sua; 
se  gli  sono  interrotti  con  qualche  legge, 
aspettar  tempo,  ed  entrare  per  altra  via. 
Questo  s’ intende  in  una  repubblica  dove 
è qualche  parte  di  corruzione;  perchè 
iu  una  non  corrotta,  non  vi  avendo 
luogo  nessuno  principio  cattivo,  non 
possono  cadere  in  un  suo  cittadino  que- 
sti pensieri.  Possono,  adunque,  i cittadini 
per  molti  mezzi  e molte  vie  aspirare  al 
principato,  dove  ei  non  portano  peri- 
colo d’  essere  oppressi:  si  perchè  le  re- 


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LIBRO  TERZO. 


òhi 


pubbliche  sono  più  tarde  che  uno  prin- 
cipe, dubitano  meno,  e per  questo  sono 
manco  caute;  sì  perchè  hanno  più  ri- 
spetto  ai  loro  cittadini  grandi,  e per 
questo  quelli  sono  più  audaci  e più 
animosi  a far  loro  contro.  Ciascuno  ha 
letto  la  congiura  di  Catilina  scritta  da 
Salustio,  e sa  come  poi  che  la  congiura 
fu  scoperta,  Catilina  non  solamente  stette 
in  Roma,  ma  venne  in  Senato,  e disse 
villania  al  Senato  ed  al  Consolo:  tanto 
era  il  rispetto  che  quella  città  aveva  ai 
suoi  cittadini.  E partito  che  fu  di  Roma, 
e eh’  egli  era  di  già  in  su  gli  eserciti, 
non  si  sarebbe  preso  Lentolo  e quelli 
altri,  se  non  si  fussero  avute  lettere  di 
lor  mano  che  gli  accusavano  manifesta- 
mente. Annone,  grandissimo  cittadino 
in  Cartagine,  aspirando  alla  tirannide, 
aveva  ordinato  nelle  nozze  d’ una  sua 
figliuola  di  avvelenare  tutto  il  Senato, 
e dipoi  farsi  principe.  Questa  cosa  in- 
tesasi, non  vi  fece  il  Senato  altra  prov- 
visione che  d’  una  legge,  la  quale  po- 


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DEI  DISCORSI 


588 

neva  termine  alle  spese  de’ conviti  e 
delle  nozze:  tanto  fu  il  rispetto  die  gli 
ebbero  alle  qualità  sue.  È ben  vero,  che 
nello  eseguire  una  congiura  contra  alla 
patria,  Vi  è più  difficoltà  e maggiori 
pericoli;  perchè1  rade  volte  è che  ba- 
stino le  tue  forze  proprie  conspirando 
contra  u tanti;  e ciascuno  non  è prin- 
cipe d’  uno  esercito,  come  era  Cesare  o 
Agatocle  o Cleomene  e simili,  che  hanno 
ad  un  tratto  e con  la  forza  occupata  la 
patria.  Perchè  a simili  è la  via  assai 
facile,  ed  assai  sicura;  ma  gli  altri  che 
non  hanno  tante  aggiunte  di  forze,  con- 
viene che  faccino  la  cosa  o con  inganno 
ed  arte,  o con  forze  forestiere.  Quanto 
allo  inganno  ed  all’arte,  avendo  Pisi- 
strato  ateniese  vinti  i Megarensi,  e per 
questo  acquistata  grazia  nel  popolo,  uscì 
una  mattina  fuori  ferito,  dicendo  che 
la  nobiltà  per  invklia  P aveva  ingiuria- 
to, e domandò  di  poter  menare  armati 
seco  per  guardia  sua.  Da  questa  auto- 
rità facilmente  salse  a tanta  grandezza, 


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• LIBRO  TERZO. 


589 


che  diventò  tiranno  d’ Alene.  Pandolfo 
Petrucci  tornò  con  altri  fuorusciti  in 
Siena,  e gli  fu  data  la  guardia  della 
piazza  in  governo,  come  cosa  meccanica, 
e che  gli  altri  rifiutarono;  nondiinaneo 
quelli  armati,  con  il  tempo,  gli  dierono 
tanta  riputazione,  che  in  poco  tempo 
ne  diventò  principe.  Molti  altri  hanno 
tenute  altre  industrie  ed  altri  modi,  e 
con  ispazio  di  tempo  e senza  pericolo 
vi  si  sono  condotti.  Quelli  che  con  forza 
loro,  o con  eserciti  esterni,  hanno  con- 
giurato per  occupare  la  patria,  hanno 
avuti  vari  eventi,  secondo  la  fortuna. 
Catilina  preallegato  vi  rovinò  sotto.  An- 
none, di  chi  di  sopra  facemmo  men- 
zione, non  essendo  riuscito  il  veleno, 
armò  di  suoi  partigiani  molte  migliaia 
di  persone,  e loro  ed  eglino  furono  mor- 
ti. Alcuni  primi  cittadini  di  Tebe  per 
farsi  tiranni  chiamarono  in  aiuto  uno 
esercito  spartano,  e presono  la  tirannide 
di  quella  città.  Tanto  che,  esaminate 
tutte  le  congiure  fatte  contro  alla  pa- 


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DEI  DISCORSI 


590 

Iria,  non  ne  troverai  alcuna,  o poche, 
che  nel  maneggiarle  siano  oppresse; 
ma  tutte  q sono  riuscite,  o sono  rovi- 
nate nella  esecuzione.  Eseguite  che  le 
sono,  ancora  non  portano  altri  pericoli, 
che  si  porti  la  natura  del  principato  in 
sé:  perchè  divenuto  che  uno  è tiranno, 
ha  i suoi  naturali  ed  ordinari  pericoli 
che  gli  arreca  la  tirannide,  alli  quali 
non  ha  altri  rimedi  che  di  sopra  si 
siano  discorsi.  Questo  è quanto  mi  è 
occorso  scrivere  delle  congiure;  e se  io 
ho  ragionato  di  quelle  che  si  fanno  con 
il  ferro,  e non  col  veleno,  nasce  che 
P hanno  tutte  un  medesimo  ordine.  Vero 
è che  quelle  del  veleno  sono  più  pe- 
ricolose, per  esser  più  incerte:  per- 
chè non  si  ha  comodità  per  ognuno; 
e bisogna  conferirlo  con  chi  la  ha  ; e 
questa  necessità  del  conferire  ti  fa  pe- 
ricolo. Dipoi,  per  molte  cagioni,  un  be- 
veraggio di  veleno  non  può  esser  mor- 
tale: come  intervenne  a quelli  che  am- 
mazzarono Commodo,  che,  avendo  quello 


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LIBRO  TERZO.  591 

ributtato  il  veleno  che  gli  avevano  dato, 
furono  forzati  a strangolarlo,  se  volleno 
che  morisse.  Non  hanno,  pertanto,  i 
principi  il  maggiore  nimico  che  la  con* 
giura  ; perchè  fatta  che  è una  congiura 
loro  conira,  o la  gli  ammazza,  o la  gli 
infama.  Perchè,  se  la  riesce,  e’  muoio- 
no; se  la  si  scopre,  e loro  ammazzino 
i congiurati,  si  crede  sempre  che  lu 
sia  stata  invenzione  di  quel  principe, 
per  isfogarc  1*  avarizia  e la  crudeltà  sua 
conira  al  sangue  ed  alla  roba  di  quelli 
eh’  egli  ha  morti.  Non  voglio  però  man- 
care di  avvertire  quel  principe  o quella 
repubblica  contra  a chi  fusse  congiu- 
rato, che  abbino  avvertenza,  quando 
una  congiura  si  manifesta  loro,  innanzi 
che  faccino  impresa  di  vendicarla,  di 
cercare  ed  intendere  molto  bene  la  qua- 
lità di  essa,  e misurino  bene  le  condi- 
zioni de’ congiurati  e le  loro  ; c quando 
la  truovino  grossa  e potente,  non  la 
scuoprino  mai,  infimo  a tanto  che  si 
siano  preparati  con  forze  sufficienti  ad 


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DEI  DISCORSI 


592 

opprimerla:  altrimenti  facendo,  scopri- 
rebbono  la  loro  rovina.  Però  debbono 
con  ogni  industria  dissimularla,  perchè 
i congiurati  veggendosi  scoperti,  cac- 
ciati da  necessità,  operano  sema  ris- 
petto. In  esseinpio  ci  sono  i Romani; 
i quali  aveudo  lasciate  due  legioni  di 
soldati  a guardia  de’  Capovani  contra 
ai  Sanniti,  come  altrove  dicemmo,  con- 
giurarono quelli  capi  delle  legioni  in- 
sieme di  opprimere  i Capovani:  la  qual 
cosa  intesasi  a Roma,  commessono  a 
Rutilio  nuovo  consolo  che  vi  provve- 
desse: il  quale,  per  addormentare  i con- 
giurali, pubblicò  come  il  Senato  aveva 
raffermo  le  stanze  alle  legioni  capovane. 
Il  che  credendosi  quelli  soldati,  e pa- 
rendo loro  aver  tempo  ad  eseguire  il 
disegno  loro,  non  cercarono  di  accele- 
rare la  cosa  ; e così  stettono  infino  che 
cominciarono  a vedere  che  il  Consolo 
gli  separava  1’  uno  dull’  altro  ; la  qual 
cosa  generato  in  loro  sospetto,  fece  che 
si  scopersono,  e mandarono  ad  esecu- 


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LIBRO  TERZO. 


503 


zionc  la  voglia  loro.  Nè  può  essere 
questo  maggiore  essempio  nell’  una  e nel- 
Y altra  parte:  perchè  per  questo  si  vede, 
quanto  gli  uomini  sono  lenti  nelle  cose 
dove  ei  credono  avere  tempo;  e quanto 
ei  sono  presti  dove  la  necessità  gli  cac- 
cia. Nè  può  uno  principe  o una  repub- 
blica, che  vuole  differire  lo  scoprire  una 
congiura  a suo  vantaggio,  usare  ter- 
mine migliore  che  offerire  di  prossimo 
occasione  con  arte  ai  congiurati,  accioc- 
ché aspettando  quella,  o parendo  loro 
aver  tempo,  diano  tempo  a quello  o a 
quella  a castigargli.  Chi  ha  fatto  altri- 
menti, ha  accelerato  la  sua  rovina: 
come  fece  il  duca  di  Atene  e Guglielmo 
de*  Pazzi.  Il  duca,  diventato  tiranno  di 
Firenze,  ed  intendendo  essergli  congiu- 
rato contro,  fece,  senza  esaminare  altri- 
menti la  cosa,  pigliare  uno  de’  congiu- 
rali: il  che  fece  subito  pigliare  V anni 
agli  altri  e torgli  lo  Stato.  Guglielmo, 
sendo  commessario  in  Val  di  Chiana 
nel  1501,  ed  avendo  inteso  come  in 
SI achuvelii.  Discorsi.  — 1.  38 


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DEI  DISCOr.Si 


59Ì 

Arezzo  erti  congiura  in  favore  de*  Vi- 
telli per  tórre  quella  terra  ai  Fiorentini, 
subito  se  uè  andò  in  quella  città,  e 
senza  pensare  alle  forze  de’ congiurati 
o alle  sue,  e senza  prepararsi  di  alcuna 
forza,  con  il  consiglio  del  Vescovo  suo 
figliuolo,  fece  pigliare  uno  de’ congiu- 
rati: dopo  la  qual  presura,  gli  altri 
subito  presono  1’  armi  e tolseno  In  ter- 
ra ai  Fiorentini;  e Guglielmo,  di  com- 
tnessario,  diventò  prigione.  Ma  quando 
le  congiure  sono  deboli,  si  possono  e 
debbono  senza  rispetto  opprimere.  Non 
è ancora  da  imitare  in  alcun  modo  duoi 
termini  usati,  quasi  contrari  1’  uno  al- 
I’  altro  ; 1’  uno  dal  prenominato  duca 
d’  Atene,  il  quale,  per  mostrare  di  cre- 
dere d’  avere  la  benivolenza  de’  cittadini 
fiorentini,  fece  morire  uno  che  gli  ma- 
nifestò una  congiura:  l’altro  da  Dione 
siracusano,  il  quale,  per  tentare  1’  animo 
di  alcuno  ch’egli  aveva  a sospetto,  con- 
sentì a Callippo,  nel  quale  ei  confidava, 
che  mostrasse  di  fargli  una  congiura 


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LIBRO  TERZO. 


595 


contra.  E tutti  due  questi  capitarono 
male:  perchè  l’uno  tolse  l’animo  agli 
accusatori,  e dettelo  a chi  volse  congiu- 
rare: l’altro  dette  la  via  fucile  alta 
morte  sua,  anzi  fu  egli  proprio  capo 
della  sua  congiura;  come  per  isperienza 
gli  intervenne,  perchè  Callippo  potendo 
senza  rispetto  praticare  contra  a Dione, 
praticò  tanto,  che  gli  tolse  lo  Stato  e 
la  vita. 

Cap.  VII.  — Donde  nasce  che  le  muta- 
zioni dalla  libertà  alla  servitù , e dalla 
servitù  alla  libertàj  alcuna  n'  è senza 
sangue , alcuna  n*  è piena. 

Dubiterà  forse  alcuno  donde  nasca 
che  molte  mutazioni  che  si  fanno  dalla 
vita  libera  alla  tirannica  e per  contra- 
rio, alcuna  se  ne  faccia  con  sangue,  al- 
cuna senza  ; perchè,  come  per  le  istorie 
si  comprende,  in  simili  variazioni  alcuna 
volta  sono  stali  morti  infiniti  uomini, 
alcuna  volta  non  è stato  ingiurialo  al- 


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596  DEI  DISCORSI 

cimo:  come  intervenne  nella  mutazione 
clic  fece  Roma  dai  Re  ai  Consoli,  dove 
non  furono  cacciati  altri  die  i Tarquini, 
fuora  delia  offensione  di  qualunque  altro. 
Il  che  dipende  da  questo:  perchè  quello 
stato  che  si  muta,  nacque  con  violenza, 
o non  ; e perchè  quando  e’  nasce  con 
violenza,  conviene  nasca  con  ingiuria  di 
molti,  è necessario  poi,  nella  rovina  sua, 
che  gl’ ingiuriati  si  vogliono  vendicare; 
e da  questo  disiderio  di  vendetta  nasce 
il  sangue  e la  morte  degli  uomini.  Ma 
quando  quello  stato  è causato  da  uno 
comune  consenso  di  una  universalità 
che  lo  lia  fatto  grande,  non  ha  cagione 

i 

poi,  quando  rovina  detta  universalità, 
di  offendere  altri  che  il  capo.  E di  que- 
sta sorte  fu  lo  stato  di  Roma  e la  cac- 
ciata de*  Tarquini;  come  fu  ancora  in 
Firenze  lo  stato  de* Medici,  che  poi  nelle 
rovine  loro  nel  1494,  non  furono  offesi 
altri  che  loro.  E così  tali  mutazioni  non 
vengono  ad  esser  molto  pericolose  : ma 
son  bene  pericolosissime  quelle  che  sono 


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LIBRO  TERZO. 


597 


fatte  da  quelli  che  si  hanno  a vendica- 
re; le  quali  furono  sempre  mai  di  sorte, 
da  fare,  non  che  altro,  sbigottire  chi 
le  legge.  E perchè  di  questi  essempi  ne- 
son  piene  l’ istorie,  io  le  voglio  lasciare 
indietro. 

Cap.  Vili.  — Chi  vuole  alterare  una  re- 
pubblicaj  debbo  considerare  il  sogget- 
to di  quella. 

E’  si  è di  sopra  discorso,  come  un  tri- 
sto cittadino  non  può  male  operare  in 
una  repubblica  clic  non  sia  corrotta  : la 
quale  conclusione  si  fortifica,  oltre  alle 
ragioni  che  allora  si  dissono,  con  l’es* 
sempio  di  Spurio  Cassio  e di  Manlio 
Capitolino.  11  quale  Spurio  sendo  uomo 
ambizioso,  e volendo  pigliare  autorità 
istraordinaria  in  Roma,  e guadagnarsi 
la  Plebe  con  il  fargli  molti  benefizi,  come 
era  di  vendergli  quelli  campi  che  i Ro- 
mani avevano  tolti  alt i Ernici;  fu  sco- 
perta dai  Padri  questa  sua  ambizione, 


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598 


DEI  DISCORSI 


ed  in  tanto  recata  a sospetto,  r:lie  par- 
lando egli  al  Popolo,  ed  offerendo  dì 
dargli  quelli  danari  che  s’  erano  ritratti 
de’  grani  che  il  pubblico  aveva  fatti  ve- 
nire di  Sicilia,  al  tutto  gli  recusò,  pa- 
rendo a quello  che  Spurio  volesse  dare 
loro  il  pregio  della  loro  libertà.  Ma  se 
tal  Popolo  fusse  stato  corrotto,  non  areb- 
be  recusato  detto  prezzo,  e gli  arebbe 
aperta  alla  tirannide  quella  via  che  gli 
chiuse.  Fa  molto  maggiore  essempio  di 
questo,  Manlio  Capitolino  ; perchè  me- 
diante costui  si  vede  quanta  virtù  d’ani- 
mo e di  corpo,  quante  buone  opere  fatte 
in  favore  della  patria,  cancella  dipoi 
una  brutta  cupidità  di  regnare:  la  quale, 
come  si  vede,  nacque  in  costui  per  la 
invidia  che  lui  aveva  degli  onori  erano 
fatti  a Cammillo;  e venne  in  tanta  cecità 
di  niente,  che  nou  pensando  al  modo 
del  vivere  della  città,  non  esaminando 
il  soggetto  quale  esso  aveva,  non  atto 
a ricevere  ancora  trista  forma,  si  mise 
a fare  tumulti  in  Roma  contra  al  Se- 


Digi 

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LIBRO  TERZO. 


59# 

nato  e con  tra  alle  leggi  patrie.  Dove 
si  conosce  la  perfezione  di  quella  città, 
e la  bontà  della  materia  sua  : perchè 
nel  caso  suo  nessuno  della  Nobiltà,  an- 
cora che  fussino  acerrimi  difensori  l’uno 
deli’  altro,  si  mosse  a favorirlo  ; nessuno 
de’ parenti  fece  impresa  in  suo  favore: 
e con  gli  altri  accusati  solevano  com- 
parire sordidati,  vestiti  di  nero,  tutti 
mesti,  per  cattare  misericordia  in  fa- 
vore dello  accusato;  e con  Manlio  non 
se  ne  vide  alcuno.  I Tribuni  della  plebe, 
che  solevano  sempre  favorire  le  cose 
che  pareva  venissino  in  benefizio  del 
Popolo  ; e quanto  erano  più  contra  ai 
Nobili,  tanto  piu  le  tiravano  innanzi;  in 
questo  caso  si  unirono  coi  Nobili,  per 
opprimere  una  comune  peste.  Il  Popolo 
di  Roma,  disiderosissimo  dello  utile  pro- 
prio, ed  amatore  delle  cose  che  veniva- 
no contra  alla  Nobiltà,  avvenga  clic 
facesse  a Manlio  assai  favori;  nondi- 
meno, come  i Tribuni  lo  citarono,  e che 
rimessono  la  causa  sua  al  giudizio  del 


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eoo 


DEI  DISCORSI 


Popolo,  quel  Popolo,  diventalo  di  difen* 
sore  giudice,  sema  rispetto  alcuno  lo 
condennò  a morte.  Pertanto  io  non  credo 
che  sia  essempio  in  questa  istoria  più 
atto  a mostrare  la  bontà  di  tutti  gli 
ordini  di  quella  Repubblica,  quanto  è 
questo  ; veggendo  che  nessuno  di  quella 
città  si  mosse  a difendere  un  cittadino 
pieno  d’  ogni  virtù,  e che  pubblicamente 
e privatamente  aveva  fatte  moltissime 
opere  laudabili.  Perchè  in  tutti  loro  potè 
più  T amore  della  patria,  che  nessuno 
-altro  rispetto;  e considerarono  molto 
più  ai  pericoli  presenti  che  da  lui  di- 
pendevano, che  ai  meriti  passati:  tanto 
che  con  la  morte  sua  e’  si  liberarono. 
.E  Tito  Livio  dice:  Hunc  ex  itimi  habuìt 
vii',  nisi  in  libera  civilate  natus  esset, 
memorabili Dove  sono  da  considerare 
due  cose:  P una,  che  per  altri  modi 
s’  ha  a cercare  gloria  in  una  città  cor- 
rotta, che  in  una  che  ancora  viva  poli- 
ticamente; V altra  (che  è quasi  quel  me- 
desimo che  la  prima) , che  gli  uomini 


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LIBRO  TERZO. 


601 


nel  proceder  loro,  e tanto  più  nelle 
azioni  grandi,  debbono  considerare  i 
tempi,  ed  accomodarsi  a quelli.  E coloro 
cbe,  per  cattiva  elezione  o per  naturale 
inclinazione,  si  discordano  dai  tempi, 
vivono  il  più  delle  volte  infelici,  ed  hanno 
cattivo  esito  razioni  loro;  al  contrario 
Y hanno  quelli  cbe  si  concordano  col 
tempo.  E senza  dubbio,  per  le  parole 
preallegate  dello  istorico  si  può  con- 
chiudere, che  se  Manlio  fusse  nato  ne’ 
tempi  di  Mario  e di  Siila,  dove  già  la 
materia  era  corrotta  e dove  esso  arebbe 
potuto  imprimere  la  forma  dell’  ambi- 
zione sua,  arebbe  avuti  quelli  medesimi 
seguiti  e successi  cbe  Mario  e Siila,  e 
gli  altri  poi,  che  dopo  loro  alla  tiran- 
nide aspirarono.  Così  medesimamente, 
se  Siila  e Mario  fussino  stati  ne’  tempi 
di  Manlio,  sarebbero  stati  intra  le  prime 
loro  imprese  oppressi.  Perchè  un  uomo 
può  bene  cominciare  con  suoi  modi  e 
con  suoi  tristi  termini  a corrompere  un 
popolo  di  uno  città,  ma  gli  è impossi- 


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602  DEI  DISCOIISI 

bile  che  la  vita  d*  uno  basti  a corrom- 
perla in  modo  che  egli  medesimo  ne 
possa  trai*  frutto;  e quando  bene  e’fusse  - 
possibile  con  lunghezza  di  tempo  che  lo 
facesse,  sarebbe  impossibile  quanto  al 
modo  del  procedere  degli  uomini,  che 
sono  impazienti,  e non  possono  lunga- 
mente differire  una  loro  passione.  Ap- 
presso, s’ ingannano  nelle  còse  loro,  ecl 
in  quelle,  massime,  che  disiderano  assai: 
talché,  o per  poca  pazienza  o per  in- 
gannarsene, entrerebbero  in  impresa 
contea  a tempo,  e capiterebbero  male. 
Però  è bisogno,  a voler  pigliare  auto- 
rità in  una  repubblica  e mettervi  trista 
forma,  trovare  la  materia  disordinata 
dal  tempo,  e che  a poco  a poco,  e di 
generazione  in  generazione,  si  sia  con- 
dotta al  disordine:  la  quale  vi  si  con- 
duce di  necessità,  quando  la  non  sia, 
come  di  sopra  si  discorse,  spesso  rin- 
frescata di  buoni  essempi,  o con  nuove 
leggi  ritirata  verso  i principii  suoi.  Sa- 
rebbe, adunque,  stato  Manlio  un  uomo 


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LIBRO  TERZO. 


603 


raro  e memorabile,  se  lusso  nato  in  una 
città  corrotta.  E però  debbono  i citta- 
dini che  nelle  repubbliche  fanno  alcuna 
impresa  o in  favore  della  libertà  o in 
favore  della  tirannide,  considerare  il 
soggetto  che  eglino  hanno,  e giudicare 
da  quello  la  dilficultà  delle  imprese  loro. 
Perchè  tanto  è diffìcile  e pericoloso  voler 
fare  libero  un  popolo  che  voglia  viver 
servo,  quanto  è voler  fare  servo  un  po- 
polo che  voglia  viver  libero.  E perchè 
di  sopra  si  dice,  che  gli  uomini  nello 
operare  debbono  considerare  la  qualità 
de’  tempi  e procedere  secondo  quelli,  ne 
parleremo  a lungo  nel  seguente  capi- 
tolo. 

Cap.  IX.  — Come  conviene  variare  coi 
tempi , volendo  sempre  aver  buona 
fortuna. 

Io  ho  considerato  più  volte  come  la 
cagione  della  trista  e della  buona  for- 
tuna degli  uomini  è riscontrare  il  modo 


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DEI  DISCORSI 


604 

del  procedere  suo  coi  tempi:  perché  e’ si 
vede  che  gli  uomini  nell’  opere  loro  pro- 
cedono alcuni  con  impeto,  alcuni  con 
rispetto  e con  cauzione.  E perchè  nel- 
l’uno e nell’  altro  di  questi  modi  si  pas- 
sano i termini  convenienti,  non  si  po- 
tendo osservare  la  vera  via,  nell’uno  e 
nell’  altro  si  erra.  Ma  quello  viene  ad 
errar  meno,  ed  avere  la  fortuna  pro- 
spera, che  riscontra,  come  io  ho  detto, 
con  il  suo  modo  il  tempo,  e sempre  mai 
si  procede,  secondo  ti  sforza  la  natura. 
Ciascuno  sa  come  Fabio  Massimo  proce- 
deva con  lo  esercito  suo  rispettivamente 
c cautamente,  discosto  da  ogni  impeto 
e da  ogni  audacia  romana;  e la  buona 
fortuna  fece,  che  questo  suo  modo  ris- 
contrò bene  coi  tempi.  Perchè,  sendo 
venuto  Annibaie  in  Italia,  giovine  e con 
una  fortuna  fresca;  ed  avendo  già  rotto 
il  popolo  romano  due  volte;  ed  essendo 
quella  repubblica  priva  quasi  della  sua 
buona  milizia,  e sbigottita  ; non  potette 
sortire  miglior  fortuna,  che  avere  un 


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LIBRO  TERZO. 


605 

capitano  il  quale,  con  la  sua  tardità  e 
cauzione,  tenesse  a bada  il  nimico.  Nè 
ancora  Fabio  potette  riscontrare  tempi 
più  convenienti  ai  modi  suoi:  di  che 
nacque  che  fu  glorioso.  E che  Fabio 
facesse  questo  per  natura  e non  per 
elezione,  si  vede,  che  volendo  Scipione 
passare  in  Affrica  con  quelli  eserciti 
per  ultimare  la  guerra,  Fabio  la  con- 
tradisse assai,  come  quello  che  non  si 
poteva  spiccare  dai  suoi  modi  e dalla 
consuetudine  sua;  talché,  se  fosse  stato 
, a lui,  Annibaie  sarebbe  ancora  in  Italia, 
come  quello  che  non  si  avvedeva  che 
gli  erano  mutati  i tempi,  e che  bisogna- 
va mutar  modo  di  guerra.  E se  Fabio 
fusse  stato  re  di  Roma,  poteva  facil- 
mente perdere  quella  guerra  : perchè 
non  arebbe  saputo  variare  col  proce- 
dere suo,  secondo  che  variavano  i tempi  : 
ma  sendo  nato  in  una  repubblica  dove 
erano  diversi  cittadini  e diversi  umori, 
come  la  ebbe  Fabio,  che  fu  ottimo  ne’ 
tempi  debiti  a sostenere  la  guerra,  cosi 


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606 


DEI  DISCORSI 


ebbe  poi  Scipione  ne’  tempi  atti  a vin- 
cerla. Di  qui  nasce,  che  una  repubblica 
ha  maggior  vita,  ed  ha  più  lungamente 
buona  fortuna  che  un  principato;  per- 
chè la  può  meglio  accomodarsi  alla  di- 
versità de’  temporali,  per  la  diversità 
de’ cittadini  che  sono  in  quella,  che  non 
può  un  principe.  Perchè  un  uomo  che 
sia  consueto  a procedere  in  un  modo, 
non  si  muta  mai,  come  è detto;  e con- 
viene di  necessità,  quando  si  mutano  i 
tempi  disformi  a quel  suo  modo,  che 
rovini.  Piero  Soderini,  altre  volte  preal- 
legato,  procedeva  in  tutte  le  cose  sue 
con  umanità  e pazienza.  Prosperò  egli 
e la  sua  patria  mentre  che  i tempi  fu- 
rono conformi  al  modo  del  proceder 
suo:  ma  come  vennero  dipoiìempi  dove 
bisognava  rompere  la  pazienza  e 1’  umi- 
lila, non  lo  seppe  fare;  talché  insieme 
con  la  sua  patria  rovinò.  Papa  lulio  11 
procedette  in  tutto  il  tempo  del  suo  pon- 
tificato con  impeto  e con  furia  ; e per- 
chè i tempi  l’accompagnarono  bene,  gli 


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LIBRO  TERZO. 


607 

riuscirono  le  sue  imprese  tulle.  Ma  se 
fossero  venuti  altri  tempi  che  avessero 
ricerco  altro  consiglio,  di  necessità  ro- 
vinava; perchè  non  arebbe  mutato  nè 
modo  nè  ordine  nel  maneggiarsi.  E clic 
noi  non  ci  possiamo  mutare,  ne  sono 
cagione  due  cose:  V una,  che  noi  non  ci 
possiamo  opporre  a quello  a che  c’  in- 
clina la  natura  ; 1*  altra,  che  avendo  uno 
con  un  modo  di  procedere  prosperato 
assai,  non  è possibile  persuadergli  che 
possa  far  bene  a procedere  altrimenti: 
donde  ne  nasce  che  in  uno  uomo  la  for- 
tuna varia,  perchè  ella  varia  i tempi, 
ed  egli  non  varia  i modi.  Nascene  an- 
cora la  rovina  della  città,  per  non 
si  variare  gli  ordini  delle  repubbliche 
co’  tempi  ; come  lungamente  di  sopra  dis- 
corremmo : ma  sono  più  tarde,  perchè 
le  penano  più  a variare,  perchè  biso- 
gna che  venghino  tempi  che  commovino 
tutta  la  repubblica;  a che  un  solo  col 
variare  il  modo  del  procedere  non  ba- 
sta. E perchè  noi  abbiamo  fatto  inenzio- 


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608  DEI  DISCORSI 

ne  di  Fabio  Massimo  che  tenne  a bada 

* « 

Annibale,  mi  pare  da  discorrere  nel  ca- 
pitolo seguente,  se  un  capitano,  volendo 
far  la  giornata  in  ogni  modo  col  nimico, 
può  essere  impedito  da  quello,  che  non 
la  faccia. 

Cap.  X.  — Che  un  capitano  non  può 
fuggire  la  giornata , quando  V av- 
versario la  vuol  fare  in  ogni  moda. 

Cncus  Sulpitius  Diclator  advcrsus  Gal- 
lo s bcllum  trahcbal,  nolens  se  fot  tunce 
coturni  Nere  ad  versus  hostentj  qucm  lem- 
pus  dcteriorcm  in  dieSj  et  locus  alte- 
rnisi faccrct.  Quando  e’ seguita  uno  er- 
rore dove  lutti  gli  uomini  o la  maggior 
parte  s' ingannino,  io  non  credo  che  sia 
male  molte  volle  riprovarlo.  Pertanto, 
ancora  che  io  abbia  di  sopra  più  volte 
mostro,  quanto  le  azioni  circa  le  cose 
grandi  siano  disformi  a quelle  degli 
antichi  tempi,  nondimeno  non  mi  par 
superfluo  al  presente  replicarlo.  Perchè, 


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LIBRO  TERZO. 


609 


se  in  alcuna  parte  si  devia  dagli  anti- 
chi ordini,  si  devia  massime  nelle  azioni 
militari,  dove  al  presente  non  è osser- 
vata alcuna  di  quelle  cose  che  dagli  an- 
tichi erano  stimate  assai.  Ed  è nato 
questo  inconveniente,  perchè,  le  repub- 
bliche ed  i principi  hanno  imposta  que- 
sta cura  ad  altrui;  e per  fuggire  i pe- 
ricoli, si  sono  discostati  da  questo  eser- 
cizio: e se  pure  si  vede  qualche  volta 
un  re  de’  tempi  nostri  andare  in  per  - 
sona, non  si  crede  però  che  da  lui  na- 
scano altri  modi  clic  meritino  più  laude. 
Perchè  quello  esercizio,  quando  pure  Io 
fanno,  lo  fanno  a * pompa,  e non  per 
alcuna  altra  laudabile  cagione.  Pure, 
questi  fatino  minori  errori  rivedendo  i 
loro  eserciti  qualche  volta  in  viso,  te- 
nendo appresso  di  loro  il  titolo  del- 
V imperio,  che  non  fanno  le  repubbli- 
che, e massime  le  italiane;  le  quali,  * 
fidandosi  d’  altrui,  nè  s’ intendendo  in 
alcuna  cosa  di  quello  che  appartenga 
alla  guerra;  e dall’  altro  canto,  volendo, 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  39 


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610 


DEI  DISCORSI 


per  parere  d* essere  loro  il  principe, 
diliberarne,  fanno  in  tale  diliberazione 
mille  errori.  E benché  d’  alcuno  ne  abbi 
discorso  altrove,  voglio  al  presente  non 
ne  tacere  uno  importantissimo.  Quando 
questi  principi  ociosi,  o repubbliche  ef- 
feminate, mandano  fuori  un  loro  capi- 
tano,  la  più  savia  commissione  che  paia 
loro  darli,  è quando  gl*  impongono  che 
per  alcun  modo  non  venga  a giornata, 
anzi  sopra  ogni  cosa  si  guardi  dalla 
zuffa  ; e parendo  loro  in  questo  imitare 
la  prudenza  di  Fabio  Massimo,  clic  dif- 
ferendo il  combattere  salvò  lo  Stato 
a’  Romani,  non  intendono  che  la  mag- 
giore parte  delle  volte  questa  commis- 
sione è nulla  o è dannosa.  Perchè  si 
debbe  pigliare  questa  conclusione:  che 
un  capitano  che  voglia  stare  alla  cam- 
pagna, non  può  fuggire  la  giornata 
qualunche  volta  il  nimico  la  vuole  fare 
in  ogni  modo.  E non  è altro  questa 
commissione  che  dire  : fa*  la  giornata  a 
posta  del  nimico,  e non  a tua.  Perchè 


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LIBRO  TERZO. 


611 


a volere  stare  in  campagna,  e non  far 
la  giornata,  non  ci  è altro  rimedio  si- 
curo che  porsi  cinquanta  miglia  almeno 
discosto  al  nimico;  e dipoi  tenere  buone 
spie,  che  venendo  quello  verso  di  te, 
tu  abbi  tempo  a discostarti.  Uno  altro 
partito  ci  è;  rinchiudersi  in  una  città: 
e P uno  e P altro  di  questi  due  partiti 
è dannosissimo.  Nel  primo  si  lascia  in 
preda  il  paese  suo  al  nimico  ; ed  uno 
principe  valente  vorrà  più  tosto  tentare 
la  fortuna  della  zuffa,  che  allungare  la 
- guerra  con  tanto  danno  de’  sudditi.  Nel 
secondo  partito  è la  perdita  manifesta; 
perchè  conviene  che,  riducendoti  con 
uno  esercito  in  una  città,  tu  venga  ad 
essere  assediato,  ed  in  poco  tempo  pa- 
tir fame,  e venire  a dedizione.  Talché 
fuggire  la  giornata  per  queste  due  vie, 
è dannosissimo.  Il  modo  che  tenne  Fa- 
bio Massimo  di  stare  ne’  luoghi  forti,  è 
buono  quando  tu  hai  si  virtuoso  eser- 
cito, che  il  nimico  non  abbia  ardire  di 
venirti  a trovare  dentro  a’  tuoi  vantag- 


612 


DEI  DISCORSI 


gi.  Nè  si  può  dire  che  Fabio  I 
la  giornata,  ma  più  tosto  che  la 
fare  a suo  vantaggio.  Perchè  s 
buie  fusse  ilo  a trovarlo,  Fabio  1 
aspettato,  e fatto  giornata  se 
Annibale  non  ardi  mai  di  con 
con  lui  a modo  di  quello.  Tanti 
giornata  fu  fuggita  cosi  da  A 
come  da  Fabio:  ma  se  uno 
l’ avesse  voluta  fare  in  ogni  mo 
Irò  non  vi  aveva  se  non  uno 
rimedi;  cioè  i due  sopraddetti 
girsi.  Clic  questo  eh’  io  dico  si 
si  vede  manifestamente  con  n 
sempi,  e massime  nella  guerra 
Romani  feciono  con  Filippo  di 
nia,  padre  di  Perse:  perchè 
seudo  assaltato  dai  Romani, 
non  venire  alla  zuffa;  e per  nc 
nire,  volle  fare  prima  come  ave 
Fabio  Massimo  in  Italia;  e si  ; 
suo  esercito  sopra  la  sommil 
monte,  dove  si  afforzò  assai,  giu 
che  i Romani  non  avessero  ardii 


V 


LIBRO  TER i£0 . 613 

ilare  a trovarlo.  Ma  andativi  c combat- 
tutolo, lo  cacciarono  di  quel  monte;  ed 
egli  non  potendo  resistere,  si  fuggì  con 
la  maggior  parte  delle  genti.  E quel 
che  lo  salvò,  che  non  fu  consumato  in 
tutto,  fu  la  iniquità  del  paese,  qual  fece 
che  i Romani  non  poterono  seguirlo. 
Filippo,  adunque,  non  volendo  azzuf- 
farsi, ed  essendosi  posto  con  il  campo 
presso  ai  Romani,  si  ebbe  a fuggire; 
ed  avendo  conosciuto  per  questa  espe- 
rienza, come  non  volendo  combattere, 
non  gli  bastava  stare  sopra  i monti,  e 
nelle  terre  non  volendo  rinchiudersi, 
diliberò  pigliare  l’altro  modo,  di  stare 
discosto  molte  miglia  al  campo  romano. 
Donde,  se  i Romani  erano  in  una  pro- 
vincia, ei  se  ne  andava  nell’altra;  e 
così  sempre  donde  i Romani,  partivano, 
esso  entrava.  E veggendo,  al  fine,  come 
nello  allungare  la  guerra  per  questa 
via,  le  sue  condizioni  peggioravano,  e 
che  i suoi  soggetti  ora  da  lui  ora  dai 
minici  erano  oppressi,  diliberò  di  ten- 


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614 


DEI  D1SC0RS 

lare  la  fortuna  della  zu(¥ 
coi  Romani  ad  una  giori 
utile,  adunque,  non  comi 
gli  eserciti  hanno  queste 
aveva  1’  esercito  di  Fabic 
quello  di  Caio  Sulpizio: 
esercito  sì  buono,  che  il 
disca  venirti  a trovare  < 
tezze  tue  ; e che  il  nimh 
tua  senza  avere  preso  ir 
ei  patisca  necessità  del 
questo  caso  il  partito  ut 
gioni  che  dice  Tito  Li' 
far lance  commi lieve  adì 
quem  lempus  deteriorati 
cus  alicnuSj  faccret.  Ma 
termine  non  si  può  fugg 
se  non  con  tuo  disonore 
che  fuggirsi,  come  fece 
essere  rotto;  e con  più  vi 
meno  s’  è fatto  prova  de 
se  a lui  riuscì  salvarsi,  i 
ad  un  altro  che  non  fus 
paese  come  egli.  Che  Ann 


B 


V 


». 

LIBRO  TERZO.  615 

» 

maestro  di  guerra,  nessuno  mai  non  io 
dirà  ; ed  essendo  allo  ’neontro  di  Sèi- 

li* 

pione  in  Affrica,  s’egli  avesse  veduto 
vantaggio  in  allungare  la  guerra,  ei 
Farebbe  fatto;  e per  avventura,  sendo 
lui  buon  capitano,  ed  avendo  buono 
esercito,  lo  arebbe  potuto  fare,  come 
fece  Fabio  in  Italia:  ma  non  l’avendo 
fatto,  si  debbe  credere  che  qualche  ca- 
gione importante  lo  movesse.  Perchè  un 
principe  che  abbi  uno  esercito  messo 
insieme,  e vegga  che  per  difetto  di  da-  !> 

nari  o di  amici  ei  non  può  tenere  lun- 
gamente tale  esercito,  è matto  al  tutto 
se  non  tenta  la  fortuna  innanzi  che  tale 
esercito  si  abbia  a risolvere:  perchè 
aspettando,  ei  perde  al  certo;  tentando, 
potrebbe  vincere.  Un’altra  cosa  ci  è 
ancora  da  stimare  assai  : la  quale  è, 
che  si  debbe,  eziandio  perdendo,  volere 
acquistar  gloria;  e più  gloria  si  ha  ad 
esser  vinto  per  forza,  che  per  altro  in- 
conveniente che  t’abbia  fatto  perdere. 

Sì  che  Annibaie  doveva  essere  constretto 


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GI6 


dei  niscons 


«la  queste  necessità.  E dì 
Scipione,  quando  Anuiba 
ferita  la  giornata,  e non 
stalo  l’animo  andarlo  a t 
ghi  forti,  non  pativa,  pe 
vinto  Siface,  e acquistate 
Affrica,  che  vi  poteva  sta 
comodità  come  in  Italia, 
terveniva  ad  Annibaie,  q 
V incontro  di  Fabio  ; nè 
ciosi,  che  erano  all’  inct 
zio.  Tanto  meno  ancora 
giornata  colui  che  con  l’ 
il  paese  altrui  ; perchè, 
trare  nel  paese  del  nii 
viene  quando  il  nimico  s 
contro,  azzuffarsi  seco;  < 
campo  ad  una  terra,  si 
più  alla  zuffa:  come  ne’  t 
tervenne  al  duca  Carlo  di 
sendo  a campo  a Moratto, 
zeri,  fu  da’  Svizzeri  assa 
come  intervenne  all’  ese 
eia,  che  campeggiando  P 
desimamentc  da’  Svizzeri 


LIBRO  TERZO. 


617 


Cap.  XI.  — Che  chi  ha  a fare  con  assaij 
ancora  che  sia  inferiore,  purché  possa 
sostenere  i primi  impeli,  vince. 

La  potenza  de’ Tribuni  della  plebe  nella 
città  di  Roma  fu  grande,  e fu  necessaria, 
come  molte  volte  da  noi  è stato  discorso; 
perchè  altrimenti  non  si  sarebbe  potuto 
por  freno  all’ambizione  della  Nobiltà,  la 
({«ale  arebbe  molto  tempo  innanzi  corrot- 
ta quella  Repubblica,  che  la  non  si  cor- 
ruppe. Nondimeno,  perchè  in  ogni  cosa, 
come  altre  volte  si  è detto,  è nascoso 
qualche  proprio  male, che  fa  surgere  nuo- 
vi accidenti,  è necessario  a questi  con 
nuovi  ordini  provvedere.  Essendo,  per- 
tanto, divenuta  l’autorità  tribunizia  in- 
solente e formidabile  alla  Nobiltà  ed  a 
tutta  Roma,  e’  ne  sarebbe  nato  qualche 
inconveniente  dannoso  alla  libertà  ro- 
mana, se  da  Appio  Claudio  non  fosse 
stato  mostro  il  modo  con  il  quale  si 
avevano  a difendere  contro  all’ ambizione 


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Gl  8 DEI  DISCORÌ 

de’ Tribuni:  il  quale  fu 
sempre  infra  loro  qualci 
pauroso,  o corruttibile, 
comun  bene  ; talmenteebè 
ad  opporsi  alla  volontà 
che  volessino  tirare  inn 
liberazione  contro  alla  i 
nato.  Il  quale  rimedio 
temperamento  a tanta  f 
molti  tempi  giovò  a Ron 
ha  fatto  considerare, 
volta  e’ sono  molli  poter 
ad  un  altro  potente,  an 
insieme  siano  molto  più 
nondimanco  si  debb 
più  in  quello  solo  ■ 
, che  in  quelli  assai, 
gliardissimi.  Perchè,»  1 
ulte  quelle  cose  delle  q 
più  die  molti  previ 
infinite),  sempre  occorri 
potrà,  usando  un  poco 
sunire  gli  assai,  e quel 
gagliardo,  far  debole.  li 


LIBRO  TERZO. 


619 


questo  addurre  antichi  essempi,  che  ce 
ne  sarebbono  assai  j ma  voglio  mi  ba- 
stino  i moderni,  seguiti  ne’  tempi  no- 
stri. Congiurò  net  1484  tutta  Italia  con-  . 
tra  a’  Vinizianij  e poiché  loro  al  tutto 
erano  persi,  e non  potevano  stare  più 
con  1’  esercito  in  campagna,  corruppono 
il  signor  Lodovico  che  governava  Mi* 
lano;  e per  tale  corruzione  feciono  uno 
accordo,  ne!  quale  non  solamente  deb- 
bono le  terre  perse,  ma  usurparono 
parte  dello  Stato  di  Ferrara.  E cosi  co- 
loro che  perdevano  nella  guerra,  resta- 
rono superiori  nella  pace.  Pochi  anni 
sono  congiurò  contea  a Francia  tutto  il 
mondo:  nondimeno,  avanti  che  si  ve- 
desse  il  fine  della  guerra,  Spagna  si 
ribellò  da’  confederati,  e fece  accordo 
seeo;  in  modo  che  gli  altri  confederati 
furono  constretti  poco  dipoi  ad  accor- 
darsi  ancora  essi.  Talché,  senza  dubbio, 
si  debbe  sempre  mai  fare  giudizio, 
quando  e’  si  vede  una  guerra  mossa  da 
molti  contea  ad  uno,  che  quello  uno 


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C20 


DEI  Discoli* 


abbia  a restar  superio» 
di  tale  virtù,  che  possa  se 
impeti,  e col  temporegg 
tempo.  Perchè  quando  e’ 
porterebbe  mille  perieoi 
venne  ai  Viniziani  nclP 
avessero  potuto  tempori 
esercito  francioso,  ed  i 
guadagnarsi  alcuni  di 
erano  collegati  contra,  ai 
quella  rovina;  ma  non  i 
armi  da  potere  temporeg 
c per  questo  non  aventi 
a separarne  alcuno,  rovi 
si  vidde  che  il  papa,  1 
ebbe  le  cose  sue,  si  fece 
così  Spagna  : e molto  v 
e V altro  di  questi  due 
bono  salvato  loro  lo  Stai 
contea  a Francia,  per  i 
grande  in  Italia,  se  gli  ; 
Potevano,  adunque,  i 
parte  per  salvare  il  resti 
avessino  fatto  in  tempo 


LIBRO  TERZO. 


621 

la  non  fusse  stata  necessità,  ed  innanzi 
ai  moti  della  guerra,  era  savissimo  par- 
tito; ma  in  su’ moti  era  vituperoso,  e 
per  avventura  di  poco  profitto.  Ma  in- 
uanzi  a tali  moti,  pochi  in  Yinegia 
de’ cittadini  potevano  vedere  il  pericolo, 
pochissimi  vedere  il  rimedio,  e nessuno 
consigliarlo.  Ma,  per  tornare  al  princi- 
pio di  questo  discorso,  conchiudo:  che 
così  come  il  Senato  romano  ebbe  rime- 
dio per  la  salute  della  patria  contra  al- 
1'  ambizione  de’  Tribuni,  per  essere  mol- 
ti; così  arà  rimedio  qualunque  principe 
che  sia  assaltato  da  molti,  qualunque 
volta  ei  sappia  con  prudenza  usare  ter- 
mini convenienti  a disunirgli. 

r « « , 

Cap.  XII.  — Come  un  capitano  prudente 
debbo  imporre  ogni  necessità  di  com- 
battere ai  suoi  soldati,  e a quelli 
delti  ninnici  torta. 

Altre  volte  abbiamo  discorso  quanto 
sia  utile  alle  umane  azioni  la  necessità, 


622  DEI  DISCORSI 

ed  a qual  gloria  siano  sul 
da  quella;  c come  da  alcuni 
sofi  è slato  scritto,  le  mani 
degli  uomini,  due  nobilissimi  i 
a nobilitarlo,  non  arcbbero  o 
fellamente,  nè  condotte  l’op 
a quella  altezza  si  veggono  < 
dalla  necessità  non  fussero  sp 
conosciuto,  adunque,  dagli  a 
talli  degli  eserciti  la  virtù  c 
sita,  e quanto  per  quella 
de’  soldati  diventavano  ostini 
battere;  facevano  ogni  oper 
soldati  loro  fussino  costretti 
E dall’altra  parte,  usavano 
stria,  perchè  gli  nimiei  se 
sino:  e per  questo  molte  voli 
al  nimico  quella  via  che  lor 
vano  chiudere  ; ed  a’  suoi  s< 
pri  chiusono  quella  che  pc 
sciare  aperta.  Quello,  adì 
disidera  o che  una  città  si  di 
natamente,  o che  uno  esercì 
paglia  ostinatamente  comba 


LIBRO  TERZO.  623 

sopra  ogni  altra  cosa,  ingegnarsi  di 
mettere  ne’  petti  di  chi  ha  a combat- 
lere,  tale  necessità.  Onde,  un  capitano 
pi  udente,  che  avesse  ad  andare  ad  una 
espugnazione  d’  una  città,  debbe  misu- 
rai e la  facilità  o la  difficultà  ilell’ espu- 
gnarla dal  conoscere  e considerare  quale 
necessità  costringa  gli  abitatori  di  quella 
a difendersi:  e quando  vi  trovi  assai 
necessità  che  gli  constringa  alla  difesa, 
giudichi  la  ispugnazioue  difficile;  altri- 
menti la  giudichi  facile.  Di  qui  nasce 
che  le  terre  dopo  la  ribellione  sono  più 
difficili  ad  acquistare,  che  le  non  sono 
nel  primo  acquisto:  perchè  nel  princi- 
pio non  avendo  cagione  di  temer  di 
pena,  per  non  avere  offeso,  si  arrendono 
facilmente;  ma  parendo  loro,  scndosi 
dipoi  ribellate,  avere  offeso,  e per  que- 
sto temendo  la  pena,  diventano  difficili 
ad  essere  ispugnate.  Nasce  ancora  tale 
ostinazione  dai  naturali  odii  che  hanno 
i principi  vicini  e repubbliche  vicine 
l’uno  con  l’altro:  il  che  procede  da 


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g-24  DEl  DISCORSI 

ambizione  di  dominare,  e gelosia  del 
loro  Stato,  massimamente  se  le  sono 
repubbliche,  come  interviene  in  Tosca- 
na • la  quale  gara  c contenzione  ha  fatto 
e farà  sempre  difficile  la  espugnatone 
p una  dell’  altra.  Pertanto,  chi  considerila 
bene  i vicini  della  città  di  Firenze  ed  i 
vicini  della  città  di  Yincgia,  non  si  me- 
ra viglierà,  come  molti  fanno,  che  Firenze 
abbia  più  speso  nelle  guerre,  ed  acqui- 
stato meno  di  Yinegia:  perchè  tutto 
nasce  da  non  avere  avuto  i NmUiani  le 
terre  vicine  si  ostinate  alla  difesa,  quanto 
ha  avuto  Firenze,  per  esser  state  tutte 
le  ciltadi  finitime  a Yinegia  use  a vi- 
vere sotto  un  principe,  e non  libere;  c 
quelli  che  sono  consueti  a servire,  sti- 
mano molte  volle  poco  il  mutare  pa- 
drone, anzi  molte  volte  lo  desiderano. 
Talché  Yinegia,  benché  abbia  avuti  i 
vicini  più  potenti  che  Firenze,  per  avere 
trovate  le  terre  meno  ostinate,  le  ha 
potute  piu  tosto  vincere,  che  non  ha 
fatto  quella  scudo  circundala  da  tutte 


LIBRO  TERZO. 


625 

città  libere.  Debbe  adunque  un  capitano, 
per  tornare  al  primo  discorso,  quando 
egli  assalta  una  terra,  con  ogni  dili- 
genza ingegnarsi  di  levare  a*  difensori 
di  quella  tale  necessità,  e per  conse- 
guenza tale  ostinazione;  promettendo 
perdono,  se  gli  hanno  paura  della  pe- 
na ; c se  gli  avessino  paura  della  li- 
bertà, mostrare  di  non  andare  contra 
al  comune  bene,  ma  contra  a pochi 
ambiziosi  della  città:  la  quale  cosa  molte 
volte  ha  facilitato  V imprese  e 1’  espu- 
gnazioni delle  terre.  E benché  simili  co- 
lori siano  facilmente  conosciuti,  e mas- 
sime dagli  uomini  prudenti;  nondimeno 
vi  sono  spesso  ingannati  i popoli,  i 
quali,  cupidi  della  presente  pace,  chiug- 
gono  gli  occhi  a qualunque  altro  laccio 
che  sotto  le  larghe  promesse  si  ten- 
desse. E per  questa  via  infinite  città 
sono  diventale  serve:  come  intervenne 
a Firenze  nei  prossimi  tempi;  e come 
intervenne  a Crasso  ed  allo  esercito  suo, 
il  quale  ancora  che  conoscesse  le  vane 
Machiavelli,  Discorsi.  — i.  40 


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nr.i  discorsi 


626 

promesse  de’  Parti,  le  qu 
per  tor  via  la  necessità  \ 
del  difendersi,  nondimam 
tenerli  ostinati,  accecati 
della  pace  che  erano  fall 
nimici:  come  si  vnde  p 
leggendo  la  vita  di  quel 
tanto,  che  avendo  i Sano 
convenzione  dello  accordo 
zionc  di  pochi  corso  e pi 
campi  de’ confederali  Rom 
dipoi  mandati  ambasciati 
chieder  pace,  offerendo  d 
cose  predate,  c di  dare  p 
tori  de’  tumulti  e della  \ 
ributtati  dai  Romani:  e ri 
nio  senza  speranza  d’ acc 
Ponzio,  capitano  allora 
de’  Sanniti,  con  una  sua 
zionc  mostrò,  come  i Roi 
in  ogni  modo  guerra;  e l)< 
si  desiderasse  la  pace,  la 
faceva  seguire  la  guerra  ; 
sic  parole  : Juslum  est  bi 


LIBRO  TtnZO. 


627 


necessariuitij  et  pia  arma , quibus  ni  si 
in  armis  spes  est : sopra  la  qual  ne- 
cessità egli  fondò  con  gli  suoi  soldati 
la  speranza  della  vittoria.  E per  non 
avere  a tornare  più  sopra  questa  ma- 
teria, mi  pare  da  addurvi  quelli  essempi 
romani  che  sono  più  degni  (E  annota- 
zione.  Era  Caio  Manilio  con  lo  esercito 
alP  incontro  dei  Vcienti;  ed  essendo 
parte  dello  esercito  veicolano  entrato 
dentro  agii  steccati  di  Manilio,  corse 
Manilio  con  una  banda  al  soccorso  di 
quelli;  e perchè  i Vcienti  non  potessino 
salvarsi,  occupò  tutti  gli  aditi  del  cam- 
po: donde  veggendosi  i Veienti  rin- 
chiusi, cominciarono  a combattere  con 
tanta  rabbia,  eh’  egli  ammazzarono  Ma- 
nilio; ed  arebbero  tutto  il  resto  dei 
Romani  oppressi,  se  dalla  prudenza 
d*  uno  Tribuno  non  fusse  stato  loro 
aperta  la  via  ad  andarsene.  Dove  si  ve- 
de, come  mentre  la  necessità  costrinse 
i Veienti  a combattere,  e*  combatterono 
ferocissiraamente;  ma  quando  videro 


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G2S 


DEI  DISCORSI 


aperta  la  via,  pensarono  | 
elio  a combattere.  Erano  < 
sci  e gli  Equi  con  gli 
nc*  confini  romani.  Mandi 
I’  incontro  i Consoli.  Talcl 
gliare  la  zuffa,  lo  esercito 
del  quale  era  capo  Vetti 
trovò  ad  un  tratto  rinchit 
steccati  suoi  occupali  da 
P altro  esercito  romano; 
eome  gli  bisognava  o mor 
via  col  ferro,  disse  ai  suo 
ste  parole:  Ile  mecum  ; n< 
valium , armati  arinatis  obi 
pareSj  qii(e  ullùnum  ac  ma 
est,  necessitate  super iores 
questa  necessitò  è chiama 
vio  ultimum  ac  maximum 
millo  prudentissimo  di  tui 
romani,  sendo  già  dentro  i 
Yeienti  con  il  suo  esercito, 
il  pigliare  quella  e torre  i 
ultima  necessità  di  difende 
in  modo  che  i Yeienti  udir 


UDRÒ  TERZO. 


629 


suno  offendesse  quelli  che  fussino  disar- 
mati; talché,  gittate  Tarmi  in  terra,  si 
prese  quella  città  quasi  senza  sangue. 
Il  quale  modo  fu  dipoi  da  molli  capi- 
tani osservato. 

Gap.  XIII.  — Dove  sia  più  da  confidare , 
o in  uno  buono  capitano  che  abbia 
l*  esercito  debole,  o in  uno  buono 
esercito  che  abbia  il  capitano  debole. 

Essendo  diventato  Coriolano  esule  di 
Roma,  se  ne  andò  ai  Volsci,  dove  con- 
tratto uno  esercito  per  vendicarsi  con- 
tro ai  suoi  cittadini,  se  ne  venne  a Ro- 
ma ; donde  dipoi  si  parti,  più  per  pietà 
della  sua  madre,  che  per  le  forze  dei 
Romani.  Sopra  il  quale  luogo  Tito  Li- 
vio dice,  essersi  per  questo  conosciuto, 
come  la  Repubblica  romana  crebbe  più 
per  la  virtù  dei  Capitani,  che  de’  sol- 
dati; considerato  come  i Volsci  per  lo 
addietro  erano  stati  vinti,  e solo  poi 
avevano  vinto  che  Coriolano  fu  loro 


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030 


DEI  DISCORSI 


Capitano.  E benché  Livio 
pinionc,  nondimeno  si  v 
luoghi  della  sua  istoria  I; 
dati  senza  capitano  aver 
gliose  pruove,  ed  esser  sta 
e più  feroci  dopo  la  nr 
soli  loro,  che  innanzi  cl 
come  occorse  nello  esercì 
mani  avevano  in  Ispagna 
pioni  ; il  quale,  morti  i < 
potè  con  la  virtù  sua  n 
salvare  sè  stesso,  ma  vin 
e conservare  quella  provi 
pubblica.  Talché,  discorre 
troverà  molli  essempi,  dov 
dei  soldati  ara  vinto  la 
molti  altri,  dove  solo  la 
pitan i ara  fatto  il  medesi 
modo  che  si  può  giudicar 
bisogno  dell’  altro,  e V a 
Ecci  bene  da  considerare 
sia  più  da  temere,  o d’  ui 
cito  male  capitanato,  o 
capitano  accompagnato  d 


LIBRO  TERZO. 


631 

cito.  E seguendo  in  questo  1’  oppiniouc 
di  Cesare,  si  debbe  stimare  poco  l’uno 
e l’altro.  Perchè  andando  egli  in  Ispa- 
gna  contra  ad  Afranio  e Petreio,  che 
avevano  un  buono  esercito,  disse  che 
gli  stimava  poco,  quia  ibat  ad  exercitum 
sino  duce,  mostrando  la  debolezza  dei 
capitani.  Al  contrario,  quando  andò  in 
Tessaglia  conira  Pompeo,  disse:  Vado 
ad  ducem  sine  exerciiu.  Puossi  consi- 
derare un’  altra  cosa  : a quale  è più  fa- 
cile, o ad  uno  buono  capitano  fare  un 
buono  esercito,  o ad  uno  buono  eser- 
cito fare  un  buono  capitano.  Sopra  che 
dico,  che  tale  questione  pare  decisa  ; 
perchè  più  facilmente  molti  buoni  tro- 
veranno o inslruiranno  uno,  tanto  che 
diventi  buono,  che  non  farà  uno  molti. 
Lucullo,  quando  fu  mandato  contra  a 
Mitridate,  era  al  tutto  inesperto  della 
guerra;  uondimanco  quel  buono  eser- 
cito, dove  erano  assai  ottimi  capi,  lo 
feciono  tosto  un  buon  capitano.  Arma- 
rono i Komani,  per  difetto  d’ uomini, 


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G32  DEI  DISCORSI 

assai  servi,  o gli  dierono 
n Sempronio  Gracco,  il  qi 
tempo  fece  un  buono  eseri 
ed  Epaminonda,  come  alt r< 
poich’egli  ebbero  tratta  T 
trio  della  servitù  degli  Spa: 
tempo  feciono  de’conladin 
dati  ottimi,  che  poterono  n 
sostenere  la  milizia  spartii 
cerla.  Sì  clic  la  cosa  è 
V uno  buono' può  trovare 
dimeno,  un  esercito  buoni 
buono  suole  diventare  ins 
ricoloso;  come  diventò  l’e 
cedonia  dopo  la  morte  di 
come  erano  i soldati  veleran 
civili.  Tanto  che  io  credo 
da  confidare  assai  in  uno 
abbi  tempo  a instruire  ut 
dità  di  armargli,  che  in 
insolente,  con  uno  capo 
fatto  da  lui.  Però  è da  dii 
ria  e la  laude  a quelli  caj 
solamente  hanno  avuto  a 


LIBRO  TERZO. 


633 


mieo,  ma  prima  che  venghino  alle  mani 
con  quello,  è convenuto  loro  instruire 
l’esercito  loro  e farlo  buono:  perchè 
in  questi  si  mostra  doppia  virtù,  e 
tanto  rara,  che  se  tale  fatica  fusse  stata 
data  a molti,  ne  sarebbero  stimati  e ri- 
putati meno  ussai  che  non  sono. 

Cap.  XIV.  — Le  invenzioni  nuove  che 
appariscono  nel  mezzo  della  zuffa,  e 
le  voci  nuove  che  si  odono,  quali  ef- 
fetti faccino. 

Di  quanto  momento  sia  ne*  conflitti  e 
nelle  zuffe  un  nuovo  occidente  che  na- 
sca per  cosa  che  di  nuovo  si  vegga  o 
oda,  si  dimostra  in  assai  luoghi,  e mas- 
sime per  questo  essempio  che  occorse 
nella  zuffa  che  i Romani  fecero  coi  Vol- 
sci  ; dove  Quinzio  veggendo  inclinare 
uno  de’  corni  del  suo  esercito,  cominciò 
a gridare  forte,  che  gli  stessino  saldi, 
perchè  1’  altro  corno  dello  esercito  era 
vittorioso:  con  la  qual  parola,  avendo 


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631  DEI  DISCORSI 

dato  animo  a’  suoi  e si 
nimici,  vinse.  E se  tali  ve 
cito  bene  ordinato  fanno 
in  uno  tumultuario  e ni; 
fanno  grandissimi,  pere 
mosso  da  siinil  vento.  Io 
durre  uno  cssenipio  nc 
ne’  nostri  tempi.  Era  la  ( 
pochi  anni  sono  divisa 
Oddi  e Buglioni  Questi  re 
altri  erano  esuli:  i qua 
elianti  loro  amici,  ragun 
ridottisi  iu  alcuna  loro  t 
a Perugia  con  il  favor 
una  notte  entrarono  in 
senza  essere  scoperti,  s 
per  pigliare  la  piazza.  F 
città  iu  su  tutti  i cani 
catene  che  la  tengono  sb; 
le  genti  oddesche  davani 
una  mazza  ferrata  romjr 
di  quelle,  acciocché  i C£ 
passare;  e restandogli  i 
quella  che  sboccava  iu  pi; 


LIBRO  TERZO. 


I VÒJ 


già  levato  il  romore  all7  armi,  ed  essen- 
do colui  che  rompeva  oppresso  dalla 
turba  che  gli  veniva  dietro,  nè  potendo 
per  questo  alzare  bene  le  braccia  per 
rompere  per  potersi  maneggiare  gli 
venne  detto:  Fatevi  indietro:  la  qual 
voce  andando  di  grado  in  grado  dicendo 
addietro,  cominciò  a far  fuggire  gli 
ultimi,  e di  mano  in  mano  gii  altri, 
con  tanta  furia,  che  per  loro  medesimi 
si  ruppono;  e cosi  restò  vano  il  disegno 
degli  Oddi,  per  cagione  di  sì  debole  acci- 
dente. Dove  è da  considerare,  che  non 
tanto  gli  ordini  in  uno  esercito  sono 
necessari  per  potere  ordinatamente  com- 
battere, quanto  perchè  ogni  minimo 
accidente  non  ti  disordini.  Perchè,  non 
per  altro  le  moltitudini  popolari  sono 
disutili  per  la  guerra,  se  non  perchè 
ogni  rumore,  ogni  voce,  ogni  strepito 
gli  altera,  e fagli  fuggire.  E però  un 
buon  capitano  intra  gli  altri  suoi  ordini 
debbe  ordinare  chi  sono  quelli  che  ab- 
bino a pigliare  la  sua  voce  e rimetterla 


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636 


DEI  DISCORSI 


ad  altri,  ed  assuefare  i suoi  soldati  che 
non  credino  se  non  a quelli  suoi  capi, 
che  non  dichino  se  non  quel  che  da  lui 
è commesso  ; perchè,  non  osservata  bene 
questa  parte,  si  è visto  molte  volte 
avere  fatti  disordini  grandissimi.  Quanto 
al  vedere  cose  nuove,  debbe  ogni  capi- 
tano ingegnarsi  di  farne  apparire  al- 
cuna, mentre  che  gli  eserciti  sono  alle 
mani,  che  dia  animo  agli  suoi  e tolgalo 
agli  nimici;  perchè,  intra  gli  accidenti 
che  ti  diano  la  vittoria,  questo  è effica- 
cissimo. Di  che  se  ne  può  addurre  per 
testimone  Caio  Sulpizio  dittatore  roma- 
no; il  quale  venendo  a giornata  con  i 
Franciosi,  ormò  tutti  i saccomanni  e 
gente  vile  del  campo;  e quelli  fatti  sa- 
lire sopra  i muli  ed  altri  somieri  con 
armi  ed  insegne  da  parere  gente  a ca- 
vallo, gli  mise  dietro  a un  colle,  e co- 
mandò che  ad  un  segno  dato,  nel  tempo 
che  la  zuffa  fusse  più  gagliarda,  si  sco- 
prissero e mostrassiusi  a*  nimici.  La 
qual  cosa  così  ordinata  e fatta,  dette 


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LIBRO  TERZO. 


637 


tanto  terrore  ai  Franciosi,  che  perita- 
rono la  giornata.  E però  un  buon  ca- 
pitano debbo  fare  due  cose:  1*  una,  di 
vedere  con  alcune  di  queste  nuove  in- 
venzioni di  sbigottire  il  nimico;  1’  altra, 
di  stare  preparato  che  essendo  fatte 
dal  nimico  contro  di  lui,  le  possa  sco- 
prire, c fargliene  tornar  vane:  come 
fece  il  re  d’india  a Semiramis;  la  quale 
veggendo  come  quel  re  aveva  buon  nu- 
mero d’elefanti,  per  sbigottirlo,  e per 
mostrargli  che  ancora  essa  n’  era  co- 
piosa, ne  formò  assai  con  cuoia  di  bu- 
fali e di  vacche,  e quelli  messi  sopra  i 
cammelli,  gli  mandò  davanti;  ma  cono- 
sciuto dal  re  1’  inganno,  gli  tornò  non 
solamente  quel  suo  disegno  vano,  ma 
dannoso.  Era  Mamerco  dittatore  contea 
a’  Fidenati,  i quali,  per  isbigott ire  lo 
esercito  romano,  ordinarono  che  in  sul- 
P ardore  della  zuffa  uscisse  fuora  di  Fi- 
ttane numero  di  soldati  con  fuochi  in 
sulle  lance,  acciocché  i Romani  occupati 
dalla  novità  della  cosa,  rompessino  in- 


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63S 


DEI  DISCORSI 


Ira  lóro  gli  ordini.  Sopra  clic  è da  no- 
tare, che  quando  tali  invenzioni  hanno 
più  del  vero  che  del  fìnto,  si  può  bene 
allora  rappresentarle  agli  uomini,  per- 
chè avendo  assai  del  gagliardo,  non  si 
può  scoprire  così  presto  la  debolezza 
loro:  ma  quando  Y hanno  pjp  del  fìnto 
che  del  vero,  è bene  o non  le  fare,  o, 
facendole,  tenerle  discosto,  di  qualità  clic 
le  non  possino  essere  così  presto  sco- 
perte; come  fece  Caio  Sulpizio  de*  mu- 
lattieri. Perchè  quando  vi  è dentro  de- 
bolezza, appressandosi,  le  si  scuoprono 
tosto,  e ti  fanno  danno,  e non  favore; 
come  feciono  gii  elefanti  a Semiramis, 
e a’ Fidenali  i fuochi:  i quali  benché 
nel  principio  turbassino  un  poco  l’eser- 
cito; nondimeno  come  e’ sopravvenne  il 
Dittatore,  e cominciò  a sgridargli,  di- 
cendo che  non  si  vergognavano  a fug- 
gire il  fumo  come  le  pecchie,  e che  do- 
vessino  rivoltarsi  a loro,  gridando:  Suis 
flammit  deletc  FidenaSj  qnas  veslris  bc - 
nefìctts  placare  non  potuistis  ; tornò 


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LIBRO  TERZO.  6^9 

quello  trovato  ai  Fidenati  inutile,  e re- 
starono perditori  della  zuffa. 

Cap.  XV.  — Come  uno  c non  molti  sia- 
no preposti  ad  uno  esercito , e coinè 
i più  comandatovi  offendono. 

Essendosi  ribellati  i Fidenati,  ed  aven- 
do morto  quella  colonia  che  i Romani 
avevano  mandata  in  Fidene,  crearono  i 
Romani,  per  rimediare  a questo  insulto, 
quattro  Tribuni  con  potestà  consolare; 
de’ quali  lasciatone  uno  alla  guardia  di 
Roma,  ne  mandarono  tre  contro  ai  Fi- 
denati  ed  i Veienti:  i quali  per  esser 
divisi  intra  loro  e disuniti,  ne  riporta- 
rono disonore,  e non  danno.  Perchè  del 
disonore,  ne  furono  cagione  loro;  del 
non  ricevere  danno,  ne  fu  cagione  la 
virtù  de*  soldati.  Donde  i Romani,  veu- 
gendo  questo  disordine,  ricorsono  alla 
creazione  del  Dittatore,  acciocché  un 
solo  riordinasse  quello  che  tre  avevano 
disordinato.  Donde  si  conosce  la  inuti- 


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DEI  DISCORSI 


640 

lilà  di  molti  comandatoci  in  uno  eser- 
cito, o in  una  terra  die  s’abbia  a di- 
fendere; e Tito  Livio  11011  lo  può  più 
chiaramente  dire  che  con  le  infrascritte 
parole!  Tres  Tribuni  potcsUitc  consil- 
iari documento  fucre , quam  plurium 
imperium  bello  inutile  esscl  ; tendendo 
ad  sua  quisque  consilia , cutn  aht  ali  ad 
videreluvj  aperuerunt  ad  occasionem  lo- 
cum  hosti.  E beneliè  questo  sia  assai 
csscmpio  a provare  il  disordine  che 
fanno  nella  guerra  i più  comandatori, 
ne  voglio  addurre  alcuno  altro,  e mo- 
derno ed  antico,  per  maggiore  dichia- 
razione. Nel  1500,  dopo  la  ripresa  che 
fece  il  re  di  Trancia  Luigi  XII  di  Mi- 
lano, mandò  le  sue  genti  a Pisa  per 
restituirla  ai  Fiorentini;  dove  furono 
mandali  commessaci  Giovambatista  Ri- 
dolfi  e Luca  iV  Antonio  degli  Albizi.  E 
perchè  Giovambatista  era  uomo  di  ri- 
putazione, e di  più  tempo,  Luca  lasciava 
al  tutto  governare  ogni  cosa  a lui:  e 
se  egli  non  dimostrava  la  sua  ambizione 


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LIBRO  TERZO. 


641 


con  opporseli,  la  dimostrava  col  ta- 
cere, e con  lo  stracurare  e vilipendere 
ogni  cosa  in. modo,  che  non  aiutava  le 
azioni  dei  campo  nè  coll’  opere  nè  col 
consiglio,  come  se  fosse  stato  uomo  di 
nessuno  momento.  Ma  si  vidde  poi  tutto 
il  contrario  quando  Giovambatista,  per 
certo  accidente  seguito,  se  n*  ebbe  a tor- 
nare a Firenze;  dove  Luca,  rimasto  solo, 
dimostrò  quanto  con  V animo,  con  la 
industria  e con  il  consiglio  valeva  : le 
quali  tutte  cose  mentre  vi  fu  la  com- 
pagnia erano  perdute.  Voglio  di  nuovo 
addurre  in  confirmazione  di  questo  le 
parole  di  Tito  Invio;  il  quale  referendo 
come  essendo  mandato  dai  Romani  con- 
tro agli  Equi  Quinzio  cd  Agrippa  suo 
collega,  Agrippa  volle  che  tutta  1*  am- 
ministrazione della  guerra  fusse  ap- 
presso a Quinzio,  e’  dice:  Suluberri - 
mum  in  adminislralione  magnarum  re- 
rum eilj  summam  imperii  apud  unum 
esse.  Il  che  è contrario  a quello  che 
oggi  fanno  queste  nostre  repubbliche  c 
SIaciii atcli.1,  Discorsi.  — i.  -VI 


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642 


DEI  DISCORSI 


princìpi,  (li  mandare  ne’  luoghi,  per  mi- 
nistrargli meglio,  più  d’  un  commessa- 
rio e più  d’ un  capo:  il  che  fa  una 
inestimabile  confusione.  E se  si  cercasse 
la  cagione  della  rovina  degli  eserciti 
italiani  e franciosi  ne’  nostri  tempi,  si 
troverebbe  la  potissima  cagione  essere 
stata  questa.  E puossi  conchiudere  ve- 
ramente, come  gli  è meglio  mandare  in 
una  espedizione  un  uomo  solo  di  co- 
munale prudenza,  che  duoi  valentissimi 
uomini  insieme  con  la  medesima  au- 
torità. 

Cap  XVf.  — Che  la  vera  viriti  si  va 
ne ' tempi  difficili  a trovare  ; e ne3 tem- 
pi facili  non  gli  uomini  virtuosi , ma 
quelli  che  per  ricchezze  o per  paren- 
tado prcvaglionO;  hanno  più  grazia. 

Egli  fu  sempre,  e sempre  sarà,  che 
gli  uomini  grandi  e rari  in  una  repub- 
blica nei  tempi  pacifichi  sono  negletti  ; 
perchè  per  la  invidia  che  s’  ha  tirato 


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LIBRO  TERZO. 


643 


dietro  la  riputazione  che  la  virtù  d’essi 
ha  dato  loro,  si  truova  in  tali  tempi 
assai  cittadini  che  vogliono,  non  che 
esser  loro  eguali,  ma  esser  loro  supe- 
riori. E di  questo  n’  è un  luogo  buono 
in  Tucidide  istorico  greco;  il  quale  mo- 
stra come  sendo  la  repubblica  ateniese 
rimusa  superiore  in  la  guerra  pelopon- 
nesiaca, ed  avendo  frenato  l’ orgoglio 
degli  Spartani,  e quasi  sottomessa  tutta 
la  Grecia,  satse  in  tanta  riputazione, 
che  la  disegnò  d’ occupare  la  Sicilia. 
Venne  questa  impresa  in  disputa  in 
Atene.  Alcibiade  e qualche  altro  citta- 
dino consigliavano  che  la  si  facesse, 
come  quelli  che  pensando  poco  al  bene 
pubblico,  pensavano  all’  onor  loro,  di- 
segnando esser  capi  di  tale  impresa. 
Ma  Micia,  che  era  il  primo  intra  i ri- 
putati d’  Atene,  la  dissuadeva;  e la  mag- 
gior ragione  che  nel  concionare  al  po- 
polo, perchè  gli  fusse  prestato  fede, 
adducesse,  fu  questa:  clic  consigliando 
esso  che  non  si  facesse  questa  guerra, 


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Gii 


DEI  DISCORSI 


ci  consigliava  cosa  che  non  faceva  per 
lui;  perchè  stando  Atene  in  pace,  sa- 
peva come  v’  erano  infiniti  cittadini  che 
gli  volevano  andare  innanzi;  ma  facen- 
dosi guerra,  sapeva  che  nessuno  citta- 
dino gli  sarebbe  superiore,  o eguale. 
Vedesi,  pertanto,  come  nelle  repubbliche 
è questo  disordine,  di  fare  poca  stima 
de’  valentuomini  ne’  tempi  quieti.  La 
qua)  cosa  gli  fa  indeguare  in  due  modi: 
I’  uno  per  vedersi  mancar  del  grado 
loro;  l’altro  per  vedersi  fare  compagni 
e superiori  uomini  indegni  e di  manco 
sufficienza  di  loro.  11  quale  disordine 
nelle  repubbliche  ha  causato  di  molte 
rovine;  perchè  quelli  cittadini  che  ini- 
meritamenle  si  veggono  sprezzare,  e co- 
noscono clic  e’  ne  sono  cagione  i tempi 
facili  c non  pericolosi,  s’  ingegnano  di 
turbargli,  movendo  nuove  guerre  in 
pregiudizio  della  repubblica.  E pensan- 
do quali  potessino  essere  i rimedi,  ce 
ne  trovo  due:  l’uno,  mantenere  i cit- 
tadini poveri,  acciocché  con  le  ricchezze 


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LIBRO  TERZO.  G 45 

senza  virtù  non  potessino  corrompere 
ni  loro  nò  altri;  l’altro,  eli  ordinarsi 
in  modo  alla  guerra,  die  sempre  si  po- 
tesse far  guerra,  e sempre  s’avesse  bi- 
sogno di  cittadini  riputati,  come  fe  Ro- 
ma ne’  suoi  primi  tempi.  Perchè  te- 
nendo fuori  quella  città  sempre  eserciti, 
sempre  v’  era  luogo  alla  virtù  degli  uo- 
mini ; nè  si  poteva  torre  il  grado  .ad 
uno  che  lo  meritasse,  e darlo  ad  uno 
altro  che  non  lo  meritasse.  Perchè  se 
pure  lo  faceva  qualche  volta  per  er- 
rore, o per  provare,  ne  seguiva  tosto 
tanto  suo  disordine  e pericolo,  che  la 
ritornava  subito  nella  vera  via.  Ma  le 
altre  repubbliche  che  non  sono  ordinate 
come  quella,  e che  fanno  solo  guerra 
quando  la  necessità  le  constringe,  non 
si  possono  difendere  da  tale  inconve- 
niente: anzi  sempre  vi  correranno  den- 
tro; e sempre  ne  nascerà  disordine, 
quando  quel  cittadino  negletto  e vir- 
tuoso, sia  vendicativo,  ed  abbia  nella 
città  qualche  riputazione  e aderenza. 


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616 


DEI  DISCORSI 


E se  la  città  (ti  Roma  un  tempo  se  ne 
difese,  a quella  ancora,  poiché  la  ebbe 
vinto  Cartagine  cd  Antioco  (come  al- 
trove si  disse),  non  temendo  più  di 
guerra,  pareva  poter  commettere  gli 
eserciti  a qualunque  la  voleva  ; non  ri- 
guardando tanto  alla  virtù,  quanto  alle 
altre  qualità  che  gli  dessino  grazia  nel 
popolo.  Perchè  si  vede  che  Paulo  Emi- 
lio ebbe  più  volte  la  repulsa  nel  con- 
solato, nò  fu  prima  fatto  Consolo  che 
surgesse  la  guerra  macedonica  ; la  quale 
giudicandosi  pericolosa,  di  consenso  di 
tutta  la  città  fu  commessa  a lui.  Sendo 
nella  città  nostra  di  Firenze  seguite 
dopo  il  1494  di  molte  guerre,  ed  aven- 
do fatto  i cittadini  fiorentini  tutti  una 
cattiva  pruova,  si  riscontrò  la  città,  a 
sorte,  in  uno  che  mostrò  in  che  ma- 
niera s’aveva  a comandare  agli  eser- 
citi; il  quale  fu  Antonio  Giacomini:  e 
mentre  che  si  ebbe  a far  guerre  peri- 
colose, tutta  P ambizione  degli  altri  cit- 
tadini cessò,  e nella  elezione  del  Com- 


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LIBRO  TERZO. 


647 

messa  rio  e capo  degli  eserciti  non  aveva 
competitore  alcuno  ; ma  come  s’  ebbe  u 
fare  una  guerra  dove  non  era  dubbio 
alcuno,  ed  assai  onore  e grado,  ei  vi 
trovò  tanti  competitori,  che  avendosi  ad 
eleggere  tre  Commessa  ri  per  campeg- 
giar  Pisa,  fu  lasciato  indietro.  E benché 
e*  non  si  vedesse  evidentemente  che 
male  ne  seguisse  al  pubblico  per  non 
v’avere  inandato  Antonio,  nondimeno 
se  ne  potette  fare  facilissima  coniettura; 
perchè  non  avendo  più  i Pisani  da  di- 
fendersi nè  da  vivere,  se  vi  fusse  stalo 
Antonio,  sarebbero  stati  tanto  innanzi 
stretti,  che  si  sarebbero  dati  a discre- 
zione de’ Fiorentini.  Ma  sendo  loro  as- 
sediati da  capi  che  non  sapevano  nè 
stringerli  nè  sforzarli,  furono  tanto  in- 
trattenuti, che  la  città  di  Firenze  gli 
comperò,  dove  la  gli  poteva  avere  a 
forza.  Convenne  che  tale  sdegno  potesse 
assai  in  Antonio;  e bisognava  che  fusse 
bene  paziente  e buono,  a non  dispe- 
rare di  vendicarsene  o con  la  rovina 


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DEI  DISCORSI 


648 

della  città,  potendo,  o con  i*  ingiuria 
d’  alcuno  particolare  cittadino;  da  che 
si  debbe  una  repubblica  guardare;  come 
nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. 

Cap.  XVII.  — Che  non  si  offenda  uno, 
e poi  quel  medesimo  si  mandi  in  am- 
ministrazione e governo  d*  impor- 
tanza. 

Debbe  una  repubblica  assai  conside- 
rare di  non  preporre  alcuno  ad  alcuna 
importantè  amministrazione,  al  quale 
sia  stato  fatto  da  altri  alcuna  notabile 
ingiuria.  Claudio  Nerone,  il  quale  si  part  ì 
dallo  esercito  che  lui  aveva  a fronte  ad 
Annibaie,  e con  parte  d’esso  n’andò 
nella  Marca  a trovare  1*  altro  Consolo 
per  combattere  con  Asdrubale  avanti  che 
si  congiungesse  con  Annibaie  ; s’ era 
trovato  per  lo  addietro  in  Ispagna  a 
fronte  d’  Asdrubale,  ed  avendolo  serrato 
in  luogo  con  lo  esercito,  che  bisognava 
o che  Asdrubale  combattesse  con  suo 


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LIBRO  TERZO. 


649 


disavvantaggio,  o si  morisse  di  fame, 
fu  da  Asdrubale  astutamente  tanto  in* 
trattenuto  con  certe  pratiche  d*  accordo, 
che  gli  usci  di  sotto,  e totsegli  quella 
occasione  d’ oppressarlo.  La  qual  cosa 
saputa  a Roma,  gli  dette  carico  grande 
appresso  al  Senato  ed  al  Popolo,  e di 
lui  fu  parlato  inonestamente  per  tutta 
quella  città,  non  senza  suo  grande  di- 
sonore ed  isdegno.  Ma  sendo  poi  fatto 
Consolo,  e inandato  all*  incontro  d’  An- 
nibale, prese  il  soprascritto  partito:  il 
quale  fu  pericolosissimo;  talmente  che 
Roma  stette  tutta  dubbia  c sollevata, 
infino  a tanto  che  vennono  le  nuove 
della  rotta  d’  Asdrubale.  Ed  essendo  do- 
mandato poi  Claudio  per  qual  cagione 
avesse  preso  si  pericoloso  partito,  dove 
senza  una  estrema  necessità  egli  aveva 
giocata  quasi  la  libertà  di  Roma  ; ri- 
spose che  V aveva  fatto  perchè  sapeva 
che,  se  gli  riusciva,  riacquistava  quella 
gloria  che  s'aveva  perduta  in  Ispagua; 
e se  non  gli  riuscivo,  e che  questo  suo 


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650 


DEI  DISCORSI 


partito  avesse  avuto  contrario  fine,  sa- 
peva come  ei  si  vendicava  contra  a 
(jucila  città  ed  a quelli  cittadini  clic 
Tavevano  tanto  ingratamente  ed  indi- 
scretamente offeso.  E quando  queste 
passioni  di  tali  offese  possono  tanto  in 
un  cittadino  romano,  e in  quelli  tempi 
che  Roma  ancora  era  incorrotta,  si 
debbe  pensare  quanto  elle  possino  in  un 
cittadino  d’  una  città  che  non  sia  fatta 
come  era  allora  quella.  E perchè  a si- 
mili disordini  che  nascono  nelle  repub- 
bliche non  si  può  dare  certo  rimedio, 
ne  seguita  che  gli  è impossibile  ordi- 
nare una  repubblica  perpetua,  perchè 
per  mille  inopinate  vie  si  causa  la  sua 
rovina. 

Cip.  XVIII.  — Nessuna  cosa  è più  de- 
gna d*  un  capitano che  presentire  « 
parlili  del  nimico. 

Diceva  Epaminonda  tebano,  nessuna 
cosa  esser  più  necessaria  c più  utile  ad 


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LIBRO  TERZO. 


65i 


un  capitano,  che  conoscere  le  ^libera- 
zioni e partiti  del  nimico.  E perchè  tale 
cognizione  è diffìcile,  merita  tanto  più 
laude  quello  che  adopera  in  modo  che 
le  conicttura.  E non  tanto  è diffìcile  in- 
tendere gli  disegni  del  nimico,  eh’  egli 
è qualche  volta  diffìcile  intendere  le 
azioni  sue  ; e non  tanto  le  azioni  sue 
che  per  lui  si  fanno  discosto,  quanto  le 
presenti  e le  propinque.  Perché  molte 
volte  è accaduto,  che  sendo  durala  una 
zuffa  infino  a notte,  chi  ha  vinto  crede 
aver  perduto,  e chi  ha  perduto  crede 
aver  vinto.  11  quale  errore  ha  fatto  di- 
liberare cose  contrarie  alla  salute  di  co- 
lui che  ha  diliberato:  come  intervenne  a 
Bruto  e Cassio,  i quali  per  questo  er- 
rore perderono  la  guerra;  perchè,  aven- 
do vinto  Bruto  dal  corno  suo,  credette 
Cassio,  che  aveva  perduto,  che  tutto 
1’  esercito  fusse  rotto  ; e disperatosi  per 
questo  errore  della  salute,  ammazzò  «è 
stesso.  Nei  nostri  tempi,  nella  giornata 
che  fece  in  Lombardia  a Santa  Cecilia 


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652  dei  discorsi 

Francesco  re  di  Francia  con  i Svizzeri, 
sopravvenendo  la  notte,  credetleno  quella 
parte  dei  Svizzeri  che  erano  rimasti  in- 
teri aver  vinto,  non  sappiendo  di  quelli 
che  erano  stati  rotti  e morti:  il  quale 
errore  fece  che  loro  medesimi  non  si 
salvarono,  aspettando  di  ricombattere 
la  mattina  con  tanto  loro  disavvantag- 
gio ; e fecero  ancora  errare,  e per  tale 
errore  presso  che  rovinare,  F esercito 
del  papa  e di  Spagna,  il  quale  in  su 
la  falsa  nuova  della  vittoria  passò  il 
Po,  e se  procedeva  troppo  innanzi,  re- 
stava prigione  de’  Franciosi  che  erano 
vittoriosi.  Questo  simile  errore  occorse 
ne’  campi  romani  e in  quelli  delli  Equi. 
Dove,  sendo  Sempronio  consolo  con 
l’esercito  all’ incontro  degli  inimici,  ed 
appiccandosi  la  zuffa,  si  travagliò  quella 
giornata  infino  a sera  con  varia  fortuna 
dell’  uno  e dell’altro:  e venuta  la  notte, 
sendo  l’ uno  e l’ altro  esercito  mezzo 
rotto,  non  ritornò  alcuno  di  loro  ne’ suoi 
alloggiamenti;  anzi  ciascuno  si  ritrasse 


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LIBRO  TERZO. 


653 


uc’  prossimi  colli,  dove  credevano  esser 
più  sicuri;  e l’esercito  romano  si  di- 
vise in  due  parti  : 1’  una  n’  andò  col 
Consolo,  1’  altra  con  un  Teinpanio  cen- 
turione, per  la  virtù  del  quale  1’  eser- 
cito romano  quel  giorno  non  era  stato 
rotto  interamente.  Venuta  la  mattina, 
il  Consolo  romano  senza  intendere  altro 
de’  nimici  si  tirò  verso  Roma  ; il  simile 
fece  l’esercito  degli  Equi:  perchè  cia- 
scuno di  questi  credeva  che  il  nimico 
avesse  vinto,  c però  ciascuno  si  ritrasse 
senza  curare  di  lasciare  i suoi  allog- 
giamenti in  preda.  Accadde  che  Tempa- 
nio,  eh’  era  col  resto  dello  esercito  ro- 
mano, ritirandosi  ancora  esso,  intese 
da  certi  feriti  degli  Equi,  come  i capi- 
tani loro  s’ erano  partiti,  cd  avevano 
abbandonati  gli  alloggiamenti:  donde 
che  egli,  in  su  questa  nuova,  se  ne  en- 
trò negli  alloggiamenti  romani,  c salvò- 
gli;  e dipoi  saccheggiò  quelli  degli  Equi, 
e se  ne  tornò  a Roma  vittorioso.  La 
qual  vittoria,  come  si  vede,  consistè  solo 


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DE!  DISCORSI 


65-4 

in  chi  prima  di  loro  intese  i disordini 
del  nimico.  Dove  si  debbe  considerare, 
come  e’  può  spesso  occorrere  che  i duci 
eserciti  che  siano  a fronte  V uno  del- 
P altro,  siano  nel  medesimo  disordine, 
e patischino  le  medesime  necessità;  e 
che  quello  resti  poi  vincitore  che  è il 
primo  a intendere  le  necessità  dell’  al- 
tro. Io  voglio  dare  di  questo  un  essem- 
pio  domestico  e moderno.  Nel  1498, 
quando  i Fiorentini  avevano  uno  eser- 
cito grosso  in  quel  di  Pisa,  e stringe- 
vano forte  quella  città;  della  quale 
avendo  presa  i Viniziani  la  protezione, 
non  veggeudo  altro  modo  a salvarla, 
diliberarono  di  divertire  quella  guerra, 
assaltando  da  un’altra  banda  il  domi- 
nio di  Firenze;  e fatto  uno  esercito  po- 
tente, entrarono  per  la  Val  di  Lamona, 
ed  occuparono  il  borgo  di  Marradi,  ed 
assediarono  la  ròcca  di  Castiglione,  che 
è in  sul  colle  di  sopra.  Il  che  sentendo 
i Fiorentini,  diliberarono  soccorrer  Mar- 
radi, e non  diminuire  le  forze  avevano 


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LIBRO  TERZO. 


655 

in  quel  di  Pisa;  e fatte  nuove  fanterie, 
ed  ordinale  nuove  genti  a cavallo,  le 
mandarono  a quella  volta:  delle  quali 
ne  furono  capi  Iacopo  quarto  d’ Appiano 
signore  di  Piombino,  ed  il  conte  Rinuc- 
cio  da  Marciano.  Sendosi,  adunque,  con* 
dotte  queste  genti  in  sul  colle  sopra 
Marradi,  si  levarono  i ninnici  di  ’ntorno 
a Castiglione,  e ridussonsi  tutti  nel  bor- 
go: ed  essendo  stato  P uno  e P altro  di 
questi  due  eserciti  a fronte  qualche 
giorno,  pativa  P uno  e l’altro  assai  di 
vettovaglie  e d’ogni  altra  cosa  neces- 
saria : e non  avendo  ardire  P uno  d*  af- 
frontare P altro,  nè  sappiendo  i disor- 
dini P uno  dell’altro,  diliberarono  in 
una  sera  medesima  P uno  e P altro  di 
levare  gli  alloggiamenti  la  mattina  ve- 
gnente, e ritirarsi  in  dietro;  il  Mili- 
ziano verso  Berzighella  e Faenza,  il 
Fiorentino  verso  Casaglia  e il  Mugello.  Ve- 
nula adunque  la  mattina,  ed  avendo  cia- 
scuno de’ campi  cominciato  ad  avviare* 
i suoi  impedimenti;  a caso  una  donna 


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DEI  DISCORSI 


656 

si  partì  dal  borgo  di  Ùarradi,  e venne 
verso  il  campo  fiorentino,  secura  per  la 
vecchiezza  e per  la  povertà,  disiderosa 
di  vedere  certi  suoi  che  erano  in  quel 
campo:  dalla  quale  intendendo  i capitani 
delle  genti  fiorentine,  come  il  campo  vi- 
niziano  partiva,  si  fecero  in  su  questa 
nuova  gagliardi;  e mutato  consiglio, 
come  se  gli  avessino  disalloggiati  i ni- 
nnici, ne  andarono  sopra  di  loro,  e scris- 
sero a Firenze  avergli  ributtati,  e vinta 
la  guerra.  La  qual  vittoria  non  nacque 
da  altro,  che  dallo  aver  inteso  prima 
dei  nemici,  come  e’ se  ne  andavano:  la 
quale  notizia  se  fusse  prima  venuta  dal- 
r altra  parte,  arebbe  fatto  conira  ai  no- 
stri il  medesimo  effetto. 

Cap.  XIX.  — Se  a reggere  una  molti- 
tudine è più  necessario  lo  ossequio 
che  la  pena. 

Era  la  Repubblica  romana  sollevata 
per  le  inimicizie  de’ Nobili  e de’ Plebei: 


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LIBRO  TERZO. 


057 


nondimeno,  soprastando  loro  la  guerra, 
mandarono  fuori  con  gli  eserciti  Quin- 
zio ed  Appio  Claudio.  Appio,  per  essere 
crudele  e rozzo  nel  comandare,  fu  male 
ubbidito  da’ suoi;  tanto  che  quasi  rotto 
si  fuggì  della  sua  provincia.  Quinzio, 
per  esser  benigno  e di  umano  ingegno, 
ebbe  i suoi  soldati  ubbidienti,  e ripor- 
to mie  la  vittoria.  Donde  e’  pare  elle  sia 
meglio,  a governare  una  moltitudine, 
essere  umano  che  superbo,  pietoso  che 
crudele.  Nondimeno,  Cornelio  Tacito,  al 
quale  molti  altri  scrittori  acconsentono, 
in  una  sua  sentenza  couchiude  il  con- 
trario, quando  dice  : In  molliludine 
regenda  plus  pana,  quam  obsequium 
vaici.  E considerando  come  si  possa  sal- 
vare I’ una  e l’altra  di  queste  oppinio- 
ni,  dico:  o clic  tu  bai  a reggere  uomini 
che  ti  sono  per  l’ordinario  compagni, 
o uomini  che  ti  sono  sempre  soggetti. 
Quando  ti  sono  compagni,  non  si  può 
interamente  usare  la  pena,  nè  quella  se- 
verità di  che  ragiona  Cornelio:  e perchè 

U «chiavelli,  Discorsi.  — 1.  42 


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05  S 


DEI  DISCORSI 


la  Plebe  romana  aveva  in  Roma  eguale 
imperio  con  la  Nobiltà,  non  poteva  uno 
che  ne  diventava  principe  a tempo,  con 
crudeltà  e rozzezza  maneggiarla.  £ molte 
volle  si  vide  che  miglior  frutto  feciono 
i Capitani  romani  che  si  facevano  amare 
dagli  eserciti,  e che  con  ossequio  gli 
maneggiavano,  che  quelli  che  si  face- 
vano straordinariamente  temere;  se  già 
e’ non  erano  accompagnati  da  una  ec- 
cessiva virtù,  come  fu  Manlio  Torquato. 
Ma  chi  comanda  ai  sudditi,  de’  quali 
ragiona  Cornelio,  acciocché  non  diven- 
tino insolenti,  e che  per  troppa  tua  fa- 
cilità non  ti  calpestino,  debbe  volgersi 
più  tosto  alla  pena  che  allo  ossequio. 
Ma  questa  ancora  debbe  esser  iu  modo 
moderata,  che  si  fugga  l’odio;  perchè 
farsi  odiare  non  torna  mai  bene  ad  al- 
cuno principe.  Il  modo  del  fuggirlo  è 
lasciar  stare  la  roba  de’ sudditi:  perchè 
del  sangue,  quando  non  vi  sia  sotto 
ascosa  la  rapina,  nessuno  principe  ne 
è disideroso  se  non  necessitato,  c que- 


LIBRO  TLRZO. 


659 


sta  necessità  viene  rare  volte;  ma  seti» 
dovi  mescolata  la  rapina,  viene  sempre, 
nè  mancano  mai  le  cagioni  ed  il  disi* 
derio  di  spargerlo:  come  in  altro  trat- 
tato sopra  questa  materia  s’ è larga- 
mente discorso.  Meritò,  adunque,  più 
laude  Quinzio  che  Appio  ; e la  sentenza 
di  Cornelio  dentro  ai  termini  suoi,  c 
non  ne*  casi  osservati  da  Appio,  merita 
d*  essere  approvata.  E perchè  noi  ab- 
biamo parlato  della  pena  e dello  osse- 
quio, non  mi  pare  superfluo  mostrare, 
come  uno  essempio  d’  umanità  potè  ap- 
presso ai  Falisci  più  che  V armi. 

Cap.  XX.  — Uno  essempio  df  umanità 
appresso  ai  Falisci  potette  più  d*  ogni 
forza  romana. 

Essendo  Cammillo  con  V esercito  in- 
torno alla  città  de*  Falisci,  e quella  as- 
sediando, un  maestro  di  scuola  de’  più 
nobili  fanciulli  di  quella  città,  pensando 
di  gratificarsi  Cammillo  ed  il  Popolo 


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DEI  DISCORSI 


C60 

romano,  sotto  colore  di  esercizio  usciendo 
con  quelli  fuora  della  città  gli  con- 
dusse lutti  nel  campo  innanzi  a Cani- 
inilio,  e,  presentatigli,  disse,  come  me- 
diami loro  quella  terra  si  darebbe  nelle 
sue  mani.  Il  quale  preseute  non  sola- 
mente non  fu  accettato  da  Cammillo, 
ma  fatto  spogliare  quel  maestro,  c lega- 
togli le  mani  di  dietro,  e dato  a cia- 
scuno di  quelli  fanciulli  una  verga  in 
inano,  lo  fece  da  quelli  con  di  molte  bat- 
titure accompagnare  nella  terra.  La  qual 
cosa  intesa  da  quelli  cittadini,  piacque 
tanto  loro  l’ umanità  ed  integrità  di 
Cammillo,  che  senza  voler  più  difendersi, 
diliberarono  di  dargli  la  terra.  Dove  è 
da  considerare,  con  questo  vero  essem- 
pio,  quanto  qualche  volta  possa  più 
nelli  animi  degli  uomini  un  atto  umano 
e pieno  di  carità,  che  un  atto  feroce  e 
violento;  e come  molte  volte  quelle  pro- 
vincie  e quelle  città  che  le  armi,  gl’  instru- 
menti bellici  ed  ogni  altra  umana  forza 
non  ha  potuto  aprire,  uno  essempio 


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LIBRO  TERZO.  GG  I 

ti*  umanità  c di  pietà,  di  castità  o di 
liberalità,  ha  aperte.  Di  che  ne  sono 
nelle  istorie,  oltre  a questo,  molti  altri 
essempi.  E vedesi  come  1*  armi  romane 
non  potevano  cacciare  Pirro  d’ Italia,  e 
ne  lo  cacciò  la  liberalità  di  Fabrizio, 
quando  li  manifestò  Y offerta  die  aveva 
fatta  ai  Romani  quel  suo  famigliare, 
d’avvelenarlo.  Vedesi  ancora,  come  a Sci- 
pione Afifricano  non  dette  tanta  riputa- 
zione in  Ispagna  la  espugnazione  di 
Cartagine  nuova,  quanto  gli  dette  quello 
essempio  di  castità,  d’  aver  fenduta  la 
moglie  giovine,  bella  ed  intatta  al  suo 
marito;  la  fuma  della  quale  azione  gli 
fece  amica  tutta  l’Ispagna.  Vedesi  ancora 
questa  parte  quanto  la  sia  disiderata 
dai  popoli  negli  uomini  grandi,  c quanto 
sia  laudata  dagli  scrittori  ; e da  quelli 
che  descrivono  la  vita  dei  principi,  e 
da  quelli  che  ordinano  come  debbono 
vivere.  Intra  i quali  Senofonte  s'  affatica 
assai  in  dimostrare  quanti  onori,  quante 
vittorie,  quanta  buona  fama  arrecasse  a 


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DEI  DISCORSI 


662 

Ciro  l’essere  umano  ed  affabile;  c non 
dare  alcuno  essempio  di  sè  nè  di  su- 
perbo, nè  di  crudele,  nè  di  lussurioso, 
nè  di  nessuno  altro  vizio  che  macelli 
la  vita  degli  uomini.  Pur  nondimeno, 
veggendo  Annibaie  con  modi  contrari 
a questi  avere  conseguito  gran  fama  e 
grandi  vittorie,  mi.  pare  da  discorre* 
re  nel  seguente  capitolo,  donde  questo 
nacque. 

Cap.  XXI.  — Donde  nacque  che  Annibaie 
con  diverso  modo  dì  procedere  da 
ScipionCj  fece  quelli  medesimi  effetti 
in  Italia  che  quello  in  I spugna. 


Io  stimo  che  alcuni  si  potrebbono 
meravigliare  veggendo  qualche  capitano, 
nonostante  eh’  egli  abbia  tenuta  contra- 
ria via,  aver  nondimeno  fatti  simili  ef- 
fetti a coloro  che  sono  vissuti  nel  modo 
soprascritto  : talché  pare  che  la  cagione 
delle  vittorie  non  dipenda  dalle  predette 
cause;  anzi  pare  che  quelli  modi  non 


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LIBRO  TLRZO. 


G63 

fi  rechino  nè  più  forza  nè  più  fortuna, 
potendosi  per  contrari  modi  acquistare 
gloria  e riputazione.  E per  non  mi  par- 
tire dagli  uomini  soprascritti,  e per 
chiarir  meglio  quello  che  io  ho  voluto 
dire;  dico  come  e’  si  vede  Scipione 
entrare  in  Ispagna,  c con  quella  sua 
umanità  e pietà  subito  farsi  amica  quella 
provincia,  e adorare  ed  ammirare  dai 
popoli.  Vedesi,  all*  incontro,  entrare  An- 
nibaie in  balia,  e con  modi  tutti  con- 
trari, cioè  con  violenza  e crudeltà  e 
rapina  ed  ogni  ragione  d’ infedeltà,  fa- 
re il  medesimo  effetto  che  aveva  fatto 
Scipione  in  Ispagna;  perchè  ad  Annibaie 
si  ribellarono  tutte  le  città  d’ Italia,  tutti 
i popoli  lo  seguirono.  E pensando  donde 
questa  cosa  possa  nascere,  ci  si  veggono 
dentro  più  ragioni.  La  prima  è,  che  gli 
uomini  sono  disiderosi  di  cose  nuove; 
in  tanto  che  cosi  desiderano  il  più  delle 
volte  novità  quelli  che  stanno  bene,  come 
quelli  che  stanno  male  : perchè  come  altra 
volta  si  disse,  ed  è il  vero,  gli  uomini  si 


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tì'U 


DEI  DISCORSI 


stuccano  nel  bene,  e nel  male  s’  afflig- 
gono. Fu,  adunque,  questo  disiderio  apri- 
re le  porle  a ciascuno  che  in  una  pro- 
vincia si  fa  capo  d’  una  innovazione;  e 
s’  egli  è forestiero,  gli  corrono  dietro; 
s’  egli  è provinciale,  gli  sono  intorno, 
angumentanlo  e favoriscono:  lalmente- 
cliè,  in  qualunque  modo  che  egli  pro- 
ceda, gli  riesce  il  fare  progressi  grandi 
in  quelli  luoghi.  Oltre  a questo,  gli 
uomini  sono  spinti  da  due  cose  princi- 
pali ; o dallo  amore,  o dal  timore:  tal- 
ché cosi  gli  comanda  chi  si  fa  amare, 
come  colui  che  si  fa  temere;  anzi,  il 
più  delle  volte  è seguito  ed  ubbidito  più 
chi  si  fa  temere,  che  chi  si  fa  amare. 
Imporla,  pertanto,  poco  ad  un  capitano, 
per  quaiunehe  di  queste  vie  ei  si  cam- 
mini, purché  sia  uomo  virtuoso,  e che 
quella  virtù  lo  faccia  riputato  intra  gli 
uomini.  Perchè,  quando  la  è grande, 
come  la  fu  in  Annibaie  ed  in  Scipione, 
ella  cancella  tutti  quelli  errori  che  si 
fanno  per  farsi  troppo  amare,  o per 


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Lì BKO  TERZO. 


665 

farsi  troppo  temere.  Perchè  dell’  uno  c 
delP  altro  di  questi  duoi  modi  possono 
nascere  inconvenienti  grandi,  ed  atti 
a far  rovinare  un  principe  : perchè  co- 
lui che  troppo  disidera  esser  amato, 
ogni  poco  che  si  parte  dalla  vera  via, 
diventa  disprezzabile:  quell’ altro  che 
disidera  troppo  d’ esser  temuto,  ogni 
poco  ch’egli  eccede  il  modo,  diventa 
odioso.  E tenere  la  via  del  mezzo,  non 
si  può  appunto,  perchè  la  nostra  natura 
non  ce  io  consente:  ma  è necessario 
queste  cose  che  eccedono  mitigare  con 
una  eccessiva  virtù,  come  faceva  Anni- 
baie  e Scipione.  Nondimeno  si  vede  co- 
me l’  uno  e l’ altro  furono  offesi  da  questi 
loro  modi  di  vivere,  e così  furono  es- 
saltati.  La  essudazione  di  tutti  due  s’è 
detta.  La  offesa  quanto  a Scipione  fu, 
che  gl»  suoi  soldati  in  Ispagna  se  gli 
ribellarono  insieme  con  pai*te  degli  suoi 
amici:  la  qual  cosa  non  nacque  da  altro 
che  da  non  lo  temere;  perchè  gli  uomini 
sono  tanto  inquieti,  che  ogni  poco  di 


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DI'.!  Dlsl'.onsi 


C66 

porta  clic  si  apra  loro  all’ambizione, 
dimenticano  subito  ogni  amore  ch’egli 
avessero  posto  al  principe  per  la  uma- 
nità sua;  come  fecero  i soldati  ed  amici 
predetti:  tanto  che  Scipione,  per  rime- 
diare a questo  inconveniente,  fu  con- 
stretto usare  parte  di  quella  crudeltà 
che  egli  aveva  fuggita.  Quanto  ad  Au- 
nihaie,  non  ci  è essempio  alcuno  parti- 
colare, dove  quella  sua  crudeltà  e poca 
fede  gli  nocesse:  ma  si  può  bene  pre- 
supporre che  Napoli  e molte  altre  terre, 
che  stettero  in  fede  del  Popolo  romano, 
stessero  per  paura  di  quella.  Vedcsi 
bene  questo,  che  quel  suo  modo  di  vi- 
vere impio,  lo  fece  più  odioso  al  Popolo 
romano,  che  alcuno  altro  nimico  che 
avesse  mai  quella  Repubblica:  in  modo 
che  dove  a Pirro,  mentre  che  egli  era 
con  lo  esercito  in  Italia,  manifestarono 
quello  che  lo  voleva  avvelenare,  ad  An- 
nibaie mai,  ancora  che  disarmalo  e 
disperso,  perdonarono,  tanto  che  lo  fe- 
ciono  morire.  Nacquero,  dunque,  ad 


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LIBRO  TERZO. 


667 


Annibaie,  per  essere  tenuto  impio  e rom- 
pitore  di  fede  e crudele,  queste  incomo- 
dità; ma  gliene  risultò  all’ incontro  una 
comodità  grandissima,  la  quale  è am- 
mirata da  tutti  gli  scrittori:  clic  nel 
suo  esercito,  ancoraché  composto  di 
varie  generazioni  d’ uomini,  non  nacque 
mai  alcuna  dissensione,  nè  infra  loro 
medesimi,  nè  contra  di  lui.  Il  che  non 
potette  derivare  da  altro,  che  dal  ter- 
rore che  nasceva  dalla  persona  sua:  il 
quale  era  tanto  grande,  mescolato  con 
la  riputazione  che  gli  dava  la  sua  vir- 
tù, che  teneva  gli  suoi  soldati  quieti  ed 
uniti.  Conchiudo,  adunque,  come  e’  non 
importa  molto  in  qual  modo  un  capi- 
tano si  proceda,  purché  in  esso  sia  virtù 
grande,  che  condisca  bene  l’uno  e l’al- 
tro modo  di  vivere:  perchè,  come  è 
detto,  nell’uno  e nell’ altro  è difetto  e 
pericolo,  quando  da  una  virtù  istraor- 
dinaria  non  sia  corretto.  C se  Annibaie 
e Scipione,  l’uno  con  cose  laudabili, 
l’altro  con  detestabili,  feciono  il  mede- 


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DEI  DISCORSI 


668 

simo  effetto;  non  mi  pare  ila  lasciar 
indietro  il  discorrere  ancora  di  duoi 
cittadini  romani,  che  conseguirono  con 
diversi  modi,  ma  tutti  duoi  laudabili, 
una  medesima  gloria. 

Cap.  XXII.  — Come  la  durezza  di  Man- 
lio Torquato  e T umanità  di  Valerio 
' Corvino  acquistò  a ciascuno  la  mede- 
sima gloria. 

E*  furono  in  Roma  in  un  medesimo 
tempo  due  capitani  eccellenti,  Manlio 
Torquato  e Valerio  Corvino:  i quali  di 
pari  virtù,  di  pari  trionfi  e gloria,  vis- 
sono  in  Roma;  e ciascuno  di  loro,  in 
quanto  s’ apparteneva  al  nimico,  con 
pari  virtù  l’acquistarono;  ma  quanto 
s’apparteneva  agli  eserciti  ed  agl’ in- 
trattenimenti de’  soldati,  diversissima- 
mente procederono:  perchè  Manlio  con 
ogni  generazione  di  severità,  senza  in- 
termettere ai  suoi  soldati  o fatica,  o pe- 
na, gli  comandava:  Valerio,  dall’ altra 


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LIBRO  TERZO. 


G6U 


parte,  con  ogni  modo  e termine  umano, 
e pieno  d’ una  famigliare  dimestichezza 
gl’ intratteneva.  Perchè  si  vede,  che  per 
aver  1’  ubbidienza  dei  soldati,  1’  uno  ani' 
mazzo  il  figliuolo,  e 1’  altro  non  offese 
mai  alcuno.  Nondimeno,  in  tanta  diver- 
sità di  procedere,  ciascuno  fece  il  me- 
desimo frutto,  e contro  a’  nimici,  ed  in 
favore  della  Repubblica  e suo.  Perchè 
nessuno  soldato  non  mai  o detratto  la 
zuffa,  o si  ribellò  da  loro,  o fu  in  alcuna 
parte  discrepante  dalla  voglia  di  quel! i ; 
quantunque  gl’  imperii  di  Manlio  fussino 
si  aspri,  che  tutti  gii  altri  imperii  che 
eccedevano  il  modo,  erano  chiamati  man- 
liana  imperia.  Dove  è da  considerare 
prima  donde  nacque  che  Manlio  fu  co- 
stretto procedere  sì  rigidamente;  l’al- 
tro, donde  avvenne  che  Valerio  potette 
procedere  si  umanamente;  l’altro,  qual 
cagione  fe  che  questi  diversi  modi  faces- 
sero il  medesimo  effetto;  ed  in  ultimo, 
quale  sia  di  loro  meglio  e più  utile  imita- 
re. Se  alcuno  considera  bene  la  natura  di 


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070  DEI  DISCORSI 

Manlio  dall’ora  che  Tilo  Livio  nc  comin- 
cia a far  menzione,  lo  vedrà  uomo  fortissi- 
mo, pietoso  verso  il  padre  e verso  la  pa- 
tria, e reverentissimo  a’  suoi  maggiori. 
Queste  cose  si  conoscono  dalla  morte  di 
quel  Francioso;  dalla  difesa  del  padre 
contea  al  Tribuno; e come  avanti  ch'egli 
andasse  alla  zuffa  del  Francioso,  ei 
n’andò  al  Consolo  con  queste  parole: 
Injussu  tuo  adversus  hoslem  nunquam 
pugnalo,  non  si  ccrtam  victoriam  vi- 
dcam.  Venendo,  adunque,  un  uomo  così 
fatto  a grado  che  comandi,  desidera  di 
trovare  tutti  gli  uomini  simili  a sè;  e 
l’animo  suo  forte  gli  fa  comandare  cose 
forti;  e quel  medesimo,  comandate  che 
le  sono,  vuole  si  osservino.  Ed  è una 
regola  verissima,  che  quando  si  coman- 
da cose  aspre,  conviene  con  asprezza 
farle  osservare:  altrimenti,  te  ne  tro- 
veresti ingannato.  Dove  è da  notare, 
clic  a voler  essere  ubbidito,  è necessario 
saper  comandare  : e coloro  sanno  co- 
mandare, che  fanno  comparazione  della 


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LIBRO  TIIRZO. 


G71 


qualità  loro  a quelle  ili  dii  ha  a ubbi- 
dire; e quando  vi  veggnino  proporzio- 
ne, allora  comandino;  quando  spropor- 
zione, se  ne  astenghino.  E però  diceva 
un  uomo  prudente,  che  a tenere  una 
repubblica  con  violenza,  conveniva  fusse 
proporzione  da  chi  sforzava  a quel  ch’ero 
sforzato.  E qualunque  volta  questa  pro- 
porzione v’  era,  si  poteva  credere  che 
quella  violenza  fusse  durabile:  ma  quan- 
do il  violentato  era  più  forte  del  violen- 
tante, si  poteva  dubitare  che  ogni  giorno 
quella  violenza  cessasse.  Ma  tornando  al 
discorso  nostro,  dico  che  a comandare 
le  cose  forti,  conviene  esser  forte;  e 
quello  che  è df  questa  fortezza  e che  le 
comanda,  non  può  poi  con  dolcezza  farle 
osservare.  Ma  chi  non  è di  questa  for- 
tezza d’animo,  si  debbe  guardare  da- 
gl’imperii  istraordinari,  e negli  ordi- 
nari può  usare  la  sua  umanità:  perchè 
le  punizioni  ordinarie  non  sono  impu- 
tate al  principe,  ma  alle  leggi  ed  agli 
ordini.  Debbesi,  adunque,  credere  che 


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672 


DEI  DISCORSI 


Manlio  fosse  costretto  procedere  si  ri- 
gidamente dagli  istraordinari  suoi  im- 
perii, ai  fjuali  lo  inclinava  la  sua  natu- 
ra: i quali  sono  utili  in  una  repubblica, 
perchè  e’  riducono  gli  ordini  di  quella 
verso  il  principio  loro,  e nella  sua  an- 
tica virtù.  E se  una  repubblica  fussc  si 
felice,  eh*  ella  avesse  spesso,  come  di 
sopra  dicemmo,  citi  con  io  esseinpio  suo 
le  rinnovasse  le  leggi;  e non  solo  la  ri- 
tenesse che  la  non  corresse  alla  rovi- 
na, ma  la  ritirasse  indietro;  la  sarebbe 
perpetua.  Si  che  Manlio  fu  uno  di  quelli 
che  con  l’asprezza  de’ suoi  i inperii  ri- 
- tenne  la  disciplina  mUitarc  in  Roma, 
constretto  prima  dalla  natura  sua,  dipoi 
dal  desiderio  che  aveva  s’ osservasse 
quello  che  il  suo  naturale  appetito  gii 
aveva  fatto  ordinare.  Dall’  altro  canto, 
Valerio  potette  procedere  umanamente, 
come  colui  a cui  bastava  s’  osservassino 
le  cose  consuete  osservarsi  negli  eserciti 
romani.  La  qual  consuetudine,  perchè 
era  buona,  bastava  ad  onorarlo,  c non 


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LIBRO  TERZO. 


673 

era  faticosa  ad  osservarla,  e non  neces- 
sitava Valerio  a punire  i transgressori; 
si  perchè  e’ non  ve  n’  erano;  sì  perchè 
quando  e*  ve  ne  Tassino  stati,  imputa- 
vano, come  è detto,  la  punizione  loro 
agli  ordini,  c non  alla  crudeltà  del  prin- 
cipe. In  modo  che,  Valerio  poteva  far 
nascere  da  lui  ogni  umanità,  dalla  quale 
ei  potesse  acquistare  grado  con  i solda- 
ti, e la  contentezza  loro.  Donde  nacque, 
che  avendo  l’uno  e l’altro  la  medesima 
ubbidienza,  poterono,  diversamente  ope- 
rando, fare  il  medesimo  effetto.  Possono 
quelli  che  volessero  imitar  costoro,  ca- 
dere in  quelli  vizi  di  dispregio  e d*  odio 
che  io  dico  di  sopra  d’ Annibaie  e di 
Scipione:  il  che*  si  fugge  con  una  virtù 
eccessiva  che  sia  in  te,  e non  altrimenti. 
Resta  ora  considerare  quale  di  questi 
modi  di  procedere  sia  più  laudabile.  Il 
che  credo  sia  disputabile,  perchè  gli 
scrittori  lodano  l’ un  modo  e l’ altro. 
Nondimeno,  quelli  che  scrivono  come 
un  principe  s’ abbia  a governare,  si 

Machiavelli,  Discorsi.-—!.  *3 


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DEI  DISCORSI 


C74 

accostano  piu  a Valerio  che  a Manlio  ; 
c Senofonte,  preallegato  da  me,  dando 
di  molti  essempi  della  umanità  di  Ciro, 
si  conforma  assai  con  quello  che  dice 
di  Valerio  Tito  Livio.  Perchè,  sendo  fatto 
Consolo  contro  i Sanniti,  e venendo  il 
dì  che  doveva  combattere,  parlò  ai  suoi 
soldati  con  quella  umanità  con  la  quale 
ei  si  governava  ; e dopo  tal  parlare, 
Tito  Livio  dice  queste  parole:  Non 
alias  militi  familiarior  dux  fuit , inter 
infimos  militimi  omnia  hauti  gravate 
munia  obcuntlo.  In  ludo  praterea  mili- 
tari, cum  velocitatis  viriumquc  in  ter  se 
cequales  cer lamina  ineuntj  comiler  faci- 
lis vincere  ac  vinci,  nulla  eodcm  ; nec 
qucmquam  aspcrnari  parem  qui  se  offer- 
ret  ; factis  benignus  prò  re;  clic  ti  s, 
hauti  minus  libertalis  aliena  , quam  sua 
dignilatis  memor  ; et  (quo  nihil  popu- 
lariit8  est)  quibus  artibus  pelierat  magi- 
strati^, iisdem  gerebat.  Parla  medesi- 
mamente di  Manlio  Tito  Livio  onorévol- 
mente, mostrando  che  la  sua  severità 


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LIBRO  TERZO. 


G75 


nella  mol  te  del  figliuolo  fece  tanto  ub- 
bidiente l' esercito  al  Consolo,  che  fu 
cagione  delia  vittoria  che  il  Popolo  ro- 
mano ebbe  contro  ai  Latini  ; ed  in  tanto 
procede  in  laudarlo,  che  dopo  tal  vit- 
toria, descritto  eh’  egli  ha  tutto  1’  ordine 
di  quella  zuffa,  e mostri  tutti  i pericoli 
che  ’1  Popolo  romano  vi  corse,  e le  dif- 
ficoltà che  vTTurono  a vincere,  fa  questa 
conclusione:  che  solo  la  virtù  di  Manlio 
dette  quella  vittoria  ai  Romani.  E facen- 
do comparazione  delle  forze  dell’ uno  .e 
dell’  altro  esercito,  afferma  come  quella 
parte  arebbe  vinto  che  avesse  avuto  per 
Consolo  Manlio:  talché,  considerato  tutto 
quello  che  gli  scrittori  ne  parlano,  sa- 
rebbe difficile  giudicarne.  Nondimeno, 
per  non  lasciare  questa  parte  indecisa, 
dico,  come  in  un  cittadino  che  viva 
sotto  le  leggi  d’  una  repubblica,  credo 
sia  piu  laudabile  c meno  pericoloso  il 
procedere  di  Manlio;  perchè  questo  modo 
tutto  è in  favore  del  pubblico,  e non 
risguarda  in  alcuna  parte  all’  ambizione 


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(J7G  DEI  DISCORSI 

privata;  perchè  per  tale  modo  non  si 
può  acquistare  partigiani,  mostrandosi 
sempre  aspro  a ciascuno,  ed  amando 
solo  il  ben  comune;  perchè  chi  fa  que- 
sto, non  s’ acquista  particolari  amici, 
quali  noi  chiamiamo,  come  di  sopra 
si  disse,  partigiani.  Talmentechè,  simil 
modo  di  procedere  non  può  esser  più 
utile  nè  più  desiderabile  in  una  repub- 
blica; non  mancando  in  quello  l’ utilità 
pubblica,  e non  vi  potendo  essere  alcun 
sospetto  della  potenza  privata.  Ma  nel 
modo  di  procedere  di  Valerio  è il  con- 
trario: perchè  se  bene  in  quanto  al 
pubblico  si  fanno  i medesimi  effetti, 
nondimeno  vi  surgono  molte  dubitazioni, 
per  la  particolar  benivolenza  che  colui 
s’  acquista  con  i soldati,  da  fare  in  un 
lungo  imperio  cattivi  effetti  contra  alla 
libertà.  E se  in  Publicola  questi  cattivi 
effetti  non  nacquero,  ne  fu  cagione  non 
essere  ancora  gli  animi  dei  Romani  cor- 
rottile quello  non  esser  stato  lun- 
gamente e continovamente  al  governo 


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LIBRO  TERZO.  677 

loro.  Ma  se  noi  abbiamo  a considerare 
un  principe,  come  considera  Senofonte, 
noi  ci  accosteremo  al  tutto  a Valerio,  e 
lasceremo  Manlio;  perchè  un  principe 
debbe  cercare  nei  soldati  e nei  sudditi 
1*  ubbidienza  e 1’  amore.  1/  ubbidienza 
gli  dà  lo  essere  osservatore  degli  ordini, 
Tesser  tenuto  virtuoso:  lo  amore  gli 
dà  P affabilità,  P umanità,  la  pietà  e 
quell'  altre  parli  che  erano  in  Valerio, 
e che  Senofonte  scrive  essere  state  in 
Ciro.  Perchè  lo  essere  un  principe  ben 
^voluto  particolarmente,  ed  avere  lo  eser- 
cito suo  partigiano,  si  conforma  con 
tutte  P altre  parti  dello  Stato  suo:  ma 
in  un  cittadino  che  abbia  P esercito  suo 
partigiano,  non  si  conforma  già  questa 
parte  con  P altre  sue  parti,  che  P hanno 
a far  vivere  sotto  le  leggi,  ed  ubbidire 
ai  magistrali.  Leggesi  intra  le  cose  an- 
tiche della  Repubblica  viniziana,  come 
essendo  le  galee  viniziane  tornate  in 
Vinegia,  e venendo  certa  differenza  in- 
tra quelli  delle  galee  ed  il  popolo,  donde 


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C78 


DEI  DISCORSI 


si  venne  al  tumulto  ed  all’ armi;  nè  si 
potendo  la  cosa  quietare  nè  per  forza 
di  ministri,  nè  per  reverenza  de’  citta- 
dini, nè  timore  di  magistrati;  subito 
che  a quelli  marinari  apparve  innanzi 
un  gentiluomo  che  era  1’  anno  davanti 
stato  capitano  loro,  per  amore  di  quello 
si  partirono  e lasciarono  la  zuffa.  La 
qual  ubbidienza  generò  tanta  sospizioue 
al  Senato,  che  poco  tempo  dipoi  i Vini- 
ziani,  o per  prigione  o per  morte,  se 
ne  assicurarono.  Conchiudo  pertanto,  il 
procedere  di  Valerio  essere  utile  in  uno 
principe,  e pernizioso  in  un  cittadino; 
non  solamente  alia  patria,  ma  a sè:  a 
lei,  perchè  quelli  modi  preparano  la  via 
alla  tirannide;  a sè,  perchè  in  sospet- 
tando la  sua  città  del  modo  del  proce- 
dere suo  è costretta  assicurarsene  con 
suo  danno.  E così,  per  il  contrario,  af- 
fermo il  procedere  di  Manlio  in  un  prin- 
cipe esser  dannoso,  ed  in  uno  cittadino 
utile,  e massime  alla  patria:  ed  aneora 
rare  volte  offende;  se  già  questo  odio 


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LiBRO  TERZO.  679 

clic  ti  tira  dietro  la  tua  severità  non  è 
accresciuto  da  sospetto  che  1’  altre  tue 
virtù  per  la  gran  riputazione  ti  arrecas- 
sino:  come  di  sotto  di  Cammillo  si  di- 
scorrerà. 

Cap.  XXIH.  — Per  quale  cagione  Cammillo 
fosse  cacciato  di  Roma. 

Noi  abbiamo  conchiuso  di  sopra,  come 
procedendo  come  Valerio,  si  nuoce  alla 
patria  ed  a sè;  c procedendo  come 
Manlio,  si  giova  alia  patria,  e nuocesi 
qualche  volta  a sè.  Il  che  si  pruova  as- 
sai bene  per  lo  essempio  di  Cammillo, 
il  quale  nel  procedere  suo  simigliava 
più.  tosto  Manlio  che  Valerio.  Donde 
Tito  Livio,  parlando  di  lui,  dice,  come 
ejus  virlutem  mililes  odorante  et  mira- 
banlur . Quello  che  lo  faceva  tenere  me- 
raviglioso, era  la  sollicitudine,  la  pru- 
denza, la  grandezza  dell’  animo,  il  buono 
ordine  che  lui  servava  nello  adoperarsi 
e nel  comandare  agli  eserciti:  quello 


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680 


DEI  DISCORSI 


che  lo  faceva  odiare,  era  essere  piu  se- 
vero nel  gastigargli,  che  liberale  nel  ri- 
munerargli. G Tito  Livio  ne  adduce  di 
questo  odio  queste  cagioni:  la  prima, 
che  i danari  che  si  trassero  de*  beni 
dei  Veienti  che  si  venderono,  esso  gli 
applicò  al  pubblico,  e non  gli  divise  con 
la  preda  : V altra,  che  nel  trionfo  ei  fece 
tirare  il  suo  carro  trionfale  da  quattro 
cavagli  bianchi,  dove  essi  dissero  che 
per  superbia  ei  s’  era  voluto  agguagliare 
al  sole  : la  terza,  che  fece  voto  di  dare 
ad  Apolline  la  decima  parte  della  preda 
dei  Veienti,  la  quale,  volendo  satisfare 
al  voto,  s’  aveva  a trarre  dalle  mani  dei 
soldati  che  l’ avevano  di  già  occupata. 
Dove  si  notano  bene  e facilmente  quelle 
cose  che  fanno  un  principe  odioso  ap- 
presso il  popolo;  delle  quali  la  princi- 
pale è privarlo  d’  uno  utile.  La  qual  co- 
sa è di  importanza  assai;  perchè  le  cose 
che  hanno  in  sè  utilità,  quando  I’  uomo 
n*  è privo,  non  le  dimentica  mai,  ed 
ogni  minima  necessità  te  ne  fa  ricorda- 


j-  — 


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LIBRO  TERZO. 


681 

re;  e perchè  le  necessità  vengono  ogni 
giorno,  tu  te  ne  ricordi  ogni  giorno. 
L’altra  cosa  è lo  apparire  superbo  ed 
enfiato;  il  che  non  può  essere  più  odioso 
ai  popoli,  e massime  ai  liberi.  E ben- 
ché da  quella  superbia  e da  quel  fasto 
non  ne  nascesse  loro  alcuna  incomodi- 
tà, nondimeno  hanno  in  odio  chi  l’usa: 
da  che  un  principe  si  debbe  guardare 
come  da  uno  scoglio;  perchè  tirarsi 
odio  addosso  senza  suo  profitto,  è al 
tutto  partito  temerario  e poco  pru- 
dente. 

Cap.  XXIV.  — La  prolungazione 
degl*  imperi  fece  serva  Roma. 

Se  si  considera  bene  il  procedere 
della  Repubblica  romana,  si  vedrà  due 
cose  essere  state  cagione  della  resolu- 
zione di  quella  Repubblica:  l’una  fu- 
rono le  contenzioni  che  nacquero  dalla 
legge  agraria;  l’altra  la  prolungazione 
degli  imperi:  le  quali  cose  se  fussino 


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682 


DEI  DISCORSI 


stale  conosciute  bene  da  principio,  e 
fattivi  debiti  rimedi,  sarebbe  stato  il  vi- 
ver libero  più  lungo,  e per  avventura 
più  quieto.  C benché,  quanto  alia  pro- 
lungazione dello  imperio,  non  si  vegga 
che  in  Roma  nascesse  mai  alcuno  tu- 
multo; nondimeno  si  vedde  in  fatto, 
quanto  noce  alla  città  quella  autorità 
che  i cittadini  per  tali  diliberazioni  pre- 
sono. E se  gli  altri  cittadini  a chi  era 
prorogato  il  magistrato,  fussino  stali 
savi  e buoni  come  fu  Lucio  Quinzio, 
non  si  sarebbe  incorso  in  questo  incon- 
veniente. La  bontà  del  quale  è d’  uno 
essempio  notabile;  perchè,  sendosi  fatto 
intra  la  Plebe  ed  il  Senato  convenzione 
d’  accordo,  ed  avendo  la  Plebe  prolun- 
gato in  uno  anno  V imperio  ai  Tribuni, 
giudicandogli  atti  a poter  resistere  al- 
l’ambizione dei  Nobili,  volle  il  Senato, 
per  gara  della  Plebe  e per  non  parere 
da  meno  di  lei,  prolungare  il  consolato 
a Lucio  Quinzio:  il  quale  al  tutto  negò 
questa  diliberazionc,  dicendo  che  i cat- 


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LIBRO  TERZO. 


683 

livi  essempi  si  volevano  cereare  ili  spe- 
gnergli, non  di  accrescergli  con  uno  al- 
tro più  cattivo  essempio;  e volle  si  fa- 
cessino  nuovi  Consoli.  La  qual  bontà  e 
prudenza  se  fusse  stata  in  tutti  i citta- 
dini romani,  non  arebbe  lasciata  intro- 
durre quella  consuetudine  di  prolungare 
i magistrati,  e da  quella  non  si  sarebbe 
venuto  alla  prolungazione  delti  imperi: 
la  qua!  cosa,  col  tempo,  rovinò  quella 
Repubblica.  Il  primo  a eli i fu  proro- 
gato l’imperio,  fu  Publio  Pilone;  il 
quale  essendo  a campo  alla  città  di  Pa- 
lepoli,  e venendo  la  line  del  suo  conso- 
lato, e parendo  al  Senato  ch’egli  avesse 
in  mano  quella  vittoria,  non  gli  manda- 
rono il  successore,  ma  lo  fecero  Procon- 
solo; talché  fu  il  primo  Proconsolo.  La 
qual  cosa,  ancora  che  mossa  dal  Senato 
per  utilità  pubblica,  fu  quella  che  con 
il  tempo  fece  serva  Roma.  Perchè,  quanto 
più  i Romani  si  discostaron  con  le  ar- 
mi, tanto  più  pareva  loro  tale  proroga- 
zione necessaria,  e più  P usarono.  La 


% 


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tìS4 


DEI  DISCORSI 


qual  cosa  fece  due  inconvenienti:  l’uno 
che  meno  numero  di  uomini  si  eserci- 
tarono negl’imperi;  e si  venne  per 
questo  a ristringere  la  reputazione  in 
pochi:  l’altro,  che  stando  un  cittadino 
assai  tempo  comandatole  d’  uno  eserci- 
to, se  lo  guadagnava,  e facevaselo  par- 
tigiano; perchè  quello  esercito  col  tem- 
po dimenticava  il  Senato,  e riconosceva 
quello  capo.  Per  questo  Siila  e Mario  po- 
terono trovare  soldati  che  contea  al  bene 
pubblico  gli  seguitassino  : per  questo  Ce- 
sare potette  occupare  la  patria.  Che  se 
mai  i Romani  non  avessiuo  prolungati  i 
magistrati  e gli  imperi,  se  non  venivano 
si  tosto  a tanta  potenza,  e se  fussino 
stati  più  tardi  gli  acquisti  loro,  sarebbe- 
ro ancora  venuti  più  tardi  nella  servitù. 

Cap.  XXV.  — Della  povertà  di  Cincinnato , 
e di  molti  cittadini  romani. 

; Noi  abbiamo  ragionato  altrove,  come 
la  più  ulil  cosa  che  si  ordini  in  un  vi- 


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LIBRO  TERZO. 


685 


ver  libero  è che  si  mantenghino  i citta- 
dini poveri.  E benché  iti  Roma  non  ap- 
parisca quale  ordine  fusse  quello  che 
facesse  questo  effetto,  avendo,  massime, 
la  legge  agraria  avuta  tanta  oppugna- 
zione; nondimeno  per  esperienza  si  vid- 
de,  ' che  dopo  quattrocento  anni  che 
Roma  era  stata  edificata,  v’era  una  gran- 
dissima povertà  ;**nè  si  può  credere  che 
altro  ordine  maggiore  facesse  questo  ef- 
fetto, che  vedere  come  per  la  povertà 
non  t’ era  impedita  la  via  a qualunque 
grado  ed  a qualunque  onore,  e come 
s’  andava  a trovare  la  virtù  in  qualun- 
que casa  l'abitasse.  11  qual  modo  di 
vivere  faceva  manco  disperabili  le  ric- 
chezze. Questo  si  vede  manifesto;  per- 
chè essendo  Minuzio  consolo  assediato 
con  lo  esercito  suo  dagli  Equi,  si  empiè 
di  paura  Roma,  che  quello  esercito  non 
si  perdesse;  tanto  che  ricorsero  a creare 
il  Dittatore,  ultimo  rimedio  nelle  loro 
cose  afflitte.  E crearono  Lucio  Quinzio 
Cincinnato,  il  quale  allora  si  trovava 


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DEI  DISCORSI 


C$6 

«ella  sua  piccola  villa,  la  quale  lavora- 
va di  sua  mano.  La  qual  cosa  con  pa- 
role auree  è celebrala  da  Tito  Livio,  di- 
cendo: Opera  precium  est  audire,  qui 
omnia  prue  divifiis  Humana  spera  uni, 
ncque  honori  magno  locum,  neque  tir- 
tuli  putanl  esse,  nisi  effuse  affluant 
opes.  Arava  Cincinnato  la  sua  piccola 
villa,  la  quale  non  trapassava  il  termi- 
ne di  quattro  iugeri,  quando  da  Roma 
vennero  i Legati  del  Senato  a signifi* 
Carli  la  elezione  della  sua  dittatura,  ed 
a mostrarli  in  quale  pericolo  si  trovava 
la  romana  Repubblica.  Egli,  presa  la  sua 
toga,  venuto  in  Roma  e ragunato  uno 
esercito,  n’andò  a liberar  Minuzio;  ed 
avendo  rotti  e spogliati  i nimici,  e libe- 
rato quello,  non  volle  che  1’  esercito  as- 
sediato fusse  partecipe  della  preda,  di- 
cendogli queste  parole:  Io  non  voglio 
che  tu  participi  della  preda  di  coloro 
de’ quali  tu  sei  stato  per  essere  preda; 
— e privò  Minuzio  del  consolato,  e fe- 
eclo  Legato,  dicendogli:  Starai  tanto  in 


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LIBRO  TERZO. 


6S7 


questo  grado,  che  tu  impari  a sapere 
essere  Consolo.  — Aveva  fatto  suo  Maestro 
de’  cavalli  Lucio  Tarquiuio,  il  quale  per 
la  povertà  militava  a piede.  Notasi,  co- 
me è detto,  T onore  che  si  faceva  in 
Roma  alla  povertà;  e come  ad  uno  uo- 
mo buono  e valente,  quale  era  Cincin- 
nato, quattro  iugeri  di  terra  bastavano 
a nutrirlo.  La  quale  povertà  si  vede  co- 
me era  ancora  nei  tempi  di  Marco  Re- 
golo; perchè  sendo  in  Affrica  con  gli 
eserciti,  domandò  licenzia  al  Senato  per 
poter  tornare  a custodire  la  sua  villa, 
la  quale  gli  era  guasta  da’ suoi  lavora- 
tori. Dove  si  vede  due  cose  notabilissi- 
me : 1*  una  la  povertà,  e come  vi  sta- 
vano dentro  contenti,  e come  bastava  a 
quelli  cittadini  trarre  della  guerra  ono- 
re, e l’ utile  tutto  lasciavano  al  pub- 
blico. Perchè,  s’ egli  avessero  pensato 
d’arricchire  della  guerra,  gli  sarebbe 
dato  poca  briga,  che  i suoi  campi  fus- 
sino  stati  guasti.  L’  altra  è,  considerare 
la  generosità  dell’ animo  di  quelli  citta- 


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688 


DEI  DISCORSI 


dini,  i quali  preposti  ad  uno  esercito, 
saliva  la  grandezza  dell’animo  loro  so- 
pra ogni  principe;  non  stimavano  i re, 
non  le  repubbliche  ; non  gli  sbigottiva 
nè  spaventava  cosa  alcuna;  e tornati 
dipoi  privati,  diventavano  parchi,  umili, 
curatori  delle  piccole  facultà  loro,  ubbi- 
dienti ai  magistrati,  reverenti  alti  loro 
maggiori:  talché  pure  impossibile  che 
uno  medesimo  animo  patisca  tanta  mu- 
tazione. Durò  questa  povertà  ancora  to- 
sino ai  tempi  di  Paulo  Emilio,  che  fu- 
rono quasi  gli  ultimi  felici  tempi  di 
quella  Repubblica,  dove  un  cittadino  che 
col  trionfo  suo  arricchì  Roma,  nondi- 
meno mantenne  povero  sè.  E cotanto  si 
stimava  ancora  la  povertà,  che  Paulo 
nell’  onorare  chi  s’ era  portato  bene 
nella  guerra,  donò  a un  suo  genero  una 
tazza  d’ oriento,  il  quale  fu  il  primo 
oriento  che  fusse  nella  sua  casa.  E po- 
trebbesi  con  un  lungo  parlare  mostrare 
quanti  migliori  frutti  produca  la  po- 
vertà che  la  ricchezza,  e come  V una  ha 


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LIBRO  TERZO. 


689 

onorato  le  città,  le  provincia,  le  sètte; 
c l’altra  V ha  rovinate;  se  questa  ma- 
teria nou  fusse  stata  molte  volte  da  al- 
tri uomini  celebrata. 

4 

C\p.  XXVI.  — Come  per  cagione 
di  femmine  si  rovina  uno  Slato. 

Nacque  nella  città  d’ Ardea  intra  i pa- 
trizi e i plebei  una  sedizione  per  ca- 
gione d’  un  parentado,  dove  avendosi  a 
maritare  una.  femmina  erede,  la  doman- 
darono parimente  un  plebeo  ed  un  no- 
bile; e non  avendo  quella  padre,  i tu- 
tori la  volevano  congiugnere  al  plebeo, 
la  madre  al  nobile:  di  che  nacque. tanto 
tumulto,  che  si  venne  all’  armi  ; dove 
tutta  la  Nobiltà  s’ armò  in  favore  del 
nobile,  e tutta  la  Plebe  in  favore  del 
plebeo.  Talché  essendo  superata  la  Ple- 
be, s’  uscì  d’  Ardea,  e mandò  ai  Yolsci 
per  aiuto:  i nobili  mandarono  a Roma. 
Furono  prima  i Volsci,  e,  giunti  intorno 
ad  Ardea,  s’accamparono.  Sopravvenne- 
Machiave.hi,  Discorsi  — l.  '*'* 


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690 


DEI  DISCORSI 


ro  i Romani,  e rinchiusone  i Volsci  in- 
fra ia  terra  e loro;  tanto  che  gli  co; 
slrinsono,  essendo  stretti  dalla  fame,  a 
darsi  a discrezione.  Ed  entrati  i Romani 
in  Ardea,  e morti  lutti  i capi  della  se- 
dizione, composono  le  cose  di  quella 
città.  Sono  in  questo  testo  più  cose  da 
notare.  Prima  si  vede,  come  le  donne 
sono  state  cagioni  di  molte  rovine,  ed 
hanno  fatti  gran  danni  a quelli  che  go- 
vernano una  città,  ed  hanno  causato  di 
molte  divisioni  in  quella  : e,  come  si  è 
veduto  in  questa  nostra  istoria,  V ec- 
cesso fatto  contra  a Lucrezia  tolse  lo 
stato  ai  Tarquini;  quell’ altro  fatto  con- 
tra a Virginia  privò  i Dieci  dell’  auto- 
rità loro.  Ed  Aristotele  intra  le  prime 
cose  che  mette  della  rovina  dei  tiranni, 
è V avere  ingiuriato  altrui  per  conto  di 
donne,  o con  stuprarle,  o con  violarle, 
o corrompere  i matrimoni  ; come  di  que- 
sta parte,  nel  capitolo  dove  noi  trat- 
tammo delle  congiure,  largamente  si 
parlò.  Dico,  adunque,  come  i principi 


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LIBRO  TERZO. 


691 


assoluti  ed  i governatot  i delle  repub* 
bliche  non  hanno  a tenere  poco  conto 
di  questa  parte  ; ma  debbono  conside- 
rare i disordini  clic  per  tuie  accidente 
possono  nascere,  e rimediarvi  in  tempo 
che  il  rimedio  non  sia  con  danno  e vi- 
tuperio delio  Stato  loro  o della  loro  re? 
pubblica:  come  intervenne  agli  Ardenti, 
i quali  per  avere  lasciato  crescere  quella 
gara  intra  i loro  cittadini,  si  condusso- 
tio  a dividersi  infra  loro;  e volendo  riu- 
nirsi, ebbono  a mandare  per  soccorsi 
esterni  : il  che  è un  gran  principio  d’una 
propinqua  servitù.  Ma  vegniamo  all’ al- 
tro notabile  del  modo  del  riunire  le  città, 
del  quale  nel  futuro  capitolo  parleremo. 

C*r.  XXVII.  — Come  e*  si  ha  a unire 
una  città  divisa  ; c come  quella  oppi- 
nionc  non  è vera , che  a tenere  le  città 
bisogna  tenerle  disunite. 

Per  lo  essempio  dei  Consoli  romani 
che  riconciliarono  insieme  gli  Ardeati, 


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692  DEI  DISCORSI 

si  nota  il  modo  come  si  debbe  comporre 
una  citta  divisa:  il  quale  non  è altro, 
nè  altrimenti  si  debbe  medicare,  clic 
ammazzare  i capi  de’  tumulti.  Perché 
gli  è necessario  pigliare  uno  de’  tre 
modi  : o ammazzargli,  come  fecero  co- 
storo ; o rimuovergli  della  città;  o far 
loro  far  pace  insieme,  sotto  obblighi  di 
non  si  offendere.  Di  questi  tre  modi, 
questo  ultimo  è più  dannoso,  men  cer- 
to e più  inutile.  Perchè  gli  è impossi- 
bile, dove  sia  corso  assai  sangue,  o al- 
tre simili  ingiurie,  che  una  pace  fatta 
per  forza  duri,  riveggendosi  ogni  di  in- 
sieme in  viso;  ed  è difficile  che  si  asten- 
gano dallo  ingiuriare  V uno  V altro,  po- 
tendo nascere  infra  loro  ogni  dì,  per  la 
conversazione,  nuove  cagioni  di  querele. 
Sopra  che  non  si  può  dare  il  migliore 
essempio  che  la  città  di  Pistoia.  Era  di- 
visa quella  città,  come  è ancora,  quin- 
dici anni  sono,  in  Panciatichi  e Cancel- 
lieri ; ma  allora  era  in  sull’  orme,  ed 
oggi  V ha  posate.  E dopo  molte  dispute 


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LIBRO  TERZO. 


693 


infra  loro,  vennero  al  sangue,  alla  ro- 
vina delle  case,  al  predarsi  la  roba,  e 
ad  ogni  altro  termine  di  nimico.  Ed  i 
Fiorentini,  che  gli  avevano  a comporre, 
sempre  vi  usarono  quel  terzo  modo;  e 
sempre  ne  nacquero  maggiori  tumulti 
c maggiori  scandali:  tanto  che,  strac- 
chi, si  venne  al  secondo  modo,  di  ri- 
muovere i capi  delle  parli;  de’ quali  al- 
cuni messono  in  prigione,  alcuni  altri 
confinarono  in  vari  luoghi:  tanto  che 
1’  accordo  fatto  potette  stare,  ed  è stato 
infino  a oggi.  Ma  senza  dubbio  più  si- 
curo saria  stato  il  primo.  Ma  perchè 
simili  esecuzioni  hanno  il  grande  ed  il 
generoso,  una  repubblica  debole  non  le 
sa  fare,  ed  ènne  tanto  discosto,  che  a 
fatica  la  si  conduce  al  rimedio  secondo. 
E questi  sono  di  quelli  errori  che  io 
dissi  nel  principio,  che  fanno  i principi 
dei  nostri  tempi,  che  hanno  a giudicare 
le  cose  grandi;  perchè  doverebbouo  vo- 
ler vedere,  come  si  sono  governati  co- 
loro che  hanno  avuto  a giudicare  auti- 


A. 


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694  DEI  DISCORSI 

canìcole  simili  casi.  Ma  la  debolezza 
de’  presenti  uomini,  causala  dalla  debole 
educazione  loro  e dalla  poca  notizia 
delle  cose,  fa  che  si  giudichino  i giudizi 
antichi  parte  inumani,  parte  impossibili. 
Ed  hanno  certe  loro  moderne  oppinioni 
discoste  al  tutto  dal  vero;  corn’è  quella 
che  dicevano  i savi  della  nostra  città, 
un  tempo  è:  che  bisognava  tener  Pi- 
stoia con  le  parti j e Pisa  con  le  for- 
tezze ; e non  s’avveggono,  quanto  runa 
e l’ altra  di  queste  due  cose  è inutile. 
Io  voglio  lasciare  le  fortezze,  perchè  di 
sopra  ne  parlammo  a lungo;  e voglio 
discorrere  la  inutilità  che  si  trae  dai 
tenere  le  terre,  che  tu  hai  iu  governo, 
divise.  In  prima,  c impossibile  che  tu  ti 
mantenga  tutte  due  quelle  parti  amiche 
o principe  o repubblica  che  le  governi. 
Perchè  dalla  natura  è dato  agli  uomini 
pigliar  parte  in  qualunque  cosa  divisa, 
e piacergli  più  questa  che  quella.  Tal- 
ché, avendo  una  parte  di  quella  terra 
malcontenta,  fa  che  lu  prima  guerra  che 


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LIBRO  TERZO. 


605 


viene,  tu  la  perdi  ; perchè  gli  è impos- 
sibile guardare  una  città  che  abbia  i 
ni  mici  fuori  e dentro.  Se  la  è una  re- 
pubblica che  la  governi,  non  ci  è il  più 
bel  modo  a far  cattivi  i tuoi  cittadini 
cd  a far  dividere  la  tua  città,  clic  avere 
in  governo  una  città  divisa;  perchè  cia- 
scuna parte  cerca  d’aver  favori,  ciascu- 
na si  fa  amici  con  varie  corruttele  : tal- 
ché ne  nasce  due  grandissimi  inconve- 
nienti; l’uno,  che  tu  non  to  gli  fai  mai 
amici,  per  non  gli  poter  governar  bene, 
variando  il  governo  spesso,  ora  con 
l’uno,  ora  con  l’altro  umore;  l’altro, 
clic  tale  studio  di  parte  divide  di  neces- 
sità la  tua  repubblica.  Ed  il  Biondo, 
parlando  dei  Fiorentini  c de’  Pistoiesi, 
ne  fa  fede,  dicendo:  Mentre  che  i Fio- 
ventini  disegnavano  di  riunir  PistoiaJ 
divisano  se  medesimi.  Pertanto,  si  può 
facilmente  considerare  il  male  che  da 
questa  divisione  nasca.  Nel  1501,  quan- 
do si  perdè  Arezzo,  c tutto  Val  di  Te- 
vere e Val  di  Chiana,  occupatoci  dai 


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69o 


DEI  DISCORSI 


Vitelli  e dal  duca  Valentino,  venne  un 
monsignor  di  Lant,  mandato  dal  re  di 
Francia  a fare  restituire  ai  Fiorentini 
tutte  quelle  terre  perdute;  e trovando 
Lant  in  ogni  castello  uomini  die,  nel 
visitarlo,  dicevano  che  erano  della  parte 
di  Marzocco,  biasimò  assai  questa  divi- 
sione: dicendo,  che  se  in  Francia  uuo 
di  quelli  sudditi  del  re  dicesse  d’essere 
della  parte  del  re,  sarebbe  gastigato, 
perchè  tal  voce  non  significherebbe  al- 
tro, se  non  che  in  quella  terra  fusse 
gente  nimica  del  re  ; e quel  re  vuole 
che  le  terre  tutte  siano  sue  amiche,  uni- 
te, e senza  parti.  Ma  tutti  questi  modi 
e queste  oppinioni  diverse  dalla  verità 
nascono  dalla  debolezza  di  chi  sono  si- 
gnori; i quali,  veggendo  di  non  poter 
tenere  gli  Stati  con  forza  e con  virtà,  si 
voltano  a simili  industrie:  le  quali  qual- 
che volta  nei  tempi  quieti  giovano  qual- 
che cosa;  ma  come  e’  vengono  l’avver- 
sità ed  i tempi  forti,  le  mostrano  la 
fallacia  loro. 


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LIBRO  TERZO. 


697 


Gap.  XXVIII.  — Che  si  debbe  por  mente 
alle  opere  de*  cittadini , perchè  molte 
volte  sotto  un'opera  pia  si  nasconde 
un  principio  di  tirannide. 

Essendo  la  città  di  Roma  aggravata 
dalla  fame,  e non  bastando  le  provvi- 
sioni pubbliche  a cessarla,  prese  animo 
uno  Spurio  Melio,  essendo  assai  ricco 
secondo  quelli  tempi,  di  far  provvisione 
di  frumento  privatamente,  e pascerne 
con  suo  grado  la  Plebe.  Per  la  qual  cosa 
egli  ebbe  tanto  concorso  di  popolo  in 
suo  favore,  che  ’l  Senato  pensando  al- 
P inconveniente  che  di  quella  sua  libe- 
ralità poteva  nascere,  per  opprimerla 
avanti  che  la  pigliasse  più  forze,  gli 
creò  un  Dittatore  addosso,  e fecelo  mo- 
rire. Qui  è da  notare,  come  molle  volte 
P opere  che  paiono  pie  c da  non  le  po- 
tere ragionevolmente  dannare,  diventano 
crudeli,  e per  una  repubblica  sono  pe- 
ricolosissime, quando  non  siano  a buo- 


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69S 


DEI  DISCORSI 


n*  oi  a corrette.  E per  discorrere  questa 
cosa  più  particolarmente,  dico  che  una 
repubblica  senza  cittadini  riputati  non 
può  stare,  nè  può  governarsi  in  alcun 
modo  bene.  Dall’  altro  canto,  la  ripu- 
tazione de’  cittadini  è cagione  della  ti- 
rannide delle  repubbliche.  E volendo  re- 
golare questa  cosa,  bisogna  talmente 
ordinarsi,  che  i cittadini  sieno  riputati 
di  riputazione  che  giovi,  c non  nuoca, 
alla  città  ed  alla  libertà  di  quella.  E 
però  si  debbe  esaminare  i modi  con  i 
quali  ei  pigliano  riputazione  j che  sono 
in  effetto  due:  o pubblici  o privati.  I 
modi  pubblici  sono,  quando  uno  consi- 
gliando bene,  e operando  meglio  in  be- 
nefìzio comune,  acquista  riputazione.  A 
questo  onore  si  debbe  aprire  la  via  ai 
cittadini,  e proporre  prèmi  ed  ai  con- 
sigli ed  all’ opere,  talché  se  n’abbino 
ad  onorare  e satisfare.  E quando  queste 
riputazioni  prese  per  queste  vie,  siano 
schiette  e semplici,  non  saranno  mai 
pericolose:  ina  quando  le  sono  prese 


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LIBRO  TERZO. 


699 

per  vie  private,  che  è l’altro  modo  preal- 
legato, sono  pericolosissime  ed  in  tutto 
nocive.  Le  vie  private  sono,  facendo  be- 
nefizio a questo  ed  a quell’ altro  privato, 
con  prestargli  danari,  maritargli  le  fi- 
gliuole, difendendolo  dai  magistrali,  e 
facendogli  simili  privati  favori,  i quali 
si  fanno  gli  uomini  partigiani,  e danno 
animo  a chi  è cosi  favorito  di  poter 
corrompere  il  pubblieoe  sforzar  le  leggi. 
Debbe,  pertanto,  una  repubblica  bene 
ordinata  aprire  le  vie,  come  è detto,  a 
chi  cerca  favori  per  vie  pubbliche,  e 
chiuderle  a chi  li  cerca  per  vie  private; 
come  si  vede  che  fece  Roma:  perchè  in 
premio  di  chi  operava  bene  per  il  pubbli- 
co, ordinò  i trionfi  c tutti  gli  altri  onori 
che  la  dava  ai  suoi  cittadini  ; ed  in  danno 
di  chi  sotto  vari  colori  per  vie  private 
cercava  di  farsi  grande,  ordinò  l’accuse; 
e quando  queste  non  bastassero,  per 
èssere  accecato  il  popolo  da  una  spezie 
di  falso  bene,  ordinò  il  Dittatore,  il  quale 
con  il  braccio  regio  facesse  tornare  den- 


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700 


DEI  DISCORSI 


tro  al  seguo  chi  ne  fusse  uscito,  come 
la  fece  pei*  punir  Spurio  Melio.  Ed  una 
che  di  queste  cose  si  lasci  impunita,  è 
atta  a rovinare  una  repubblica;  perchè 
difficilmente  con  quello  essempio  si  ri- 
duce dipoi  in  la  vera  via. 

Cap.  XXIX.  — Che  gli  peccali  dei  popoli 
nascono  dai  principi. 

Non  si  dolghino  i principi  d’ alcuno 
peccato  che  faccino  i popoli  €11’  egli  ab- 
biano in  governo  ; perchè  tali  peccali 
conviene  che  naschino  o per  sua  negli- 
genza, o per  esser  lui  macchialo  di  si- 
mili errori.  E chi  discorrerà  i popoli 
che  nei  nostri  tempi  sono  stati  tenuti 
pieni  di  ruberie  e di  simili  peccati,  ve- 
drà che  sarà  al  tutto  nato  da  quelli  che 
gli  governavano,  che  erano  di  simile 
natura.  La  Romagna,  innanzi  che  in 
quella  fossero  spenti  da  papa  Alessan- 
dro \ 1 quelli  signori  che  la  comanda- 
vano, era  uno  essempio  d’ ogni  seclle- 


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LIBRO  TERZO. 


701 


ratissima  vita,  perchè  quivi  si  vedeva 
per  ogni  leggiere  cagione  seguire  occi- 
sioni  e rapine  grandissime.  Il  che  na- 
sceva dalla  tristizia  di  quei  principi  $ 
non  dalla  natura  trista  degli  uomini, 
come  loro  dicevano.  Perchè  sendo  quelli 
principi  poveri,  e volendo  vivere  da  ric- 
chi, erano  forzati  volgersi  a molte  ra- 
pine, e quelle  per  vari  modi  usare.  Ed 
intra  Poltre  disoneste  vie  che  e’ tene- 
vano, facevano  leggi,  e proibivano  alcuna 
azione;  dipoi  erano  i primi  che  davano 
cagione  della  inosservanza  d’ esse,  nè 
inai  punivano  gli  inosservanti,  se  non 
poi  quando  vedevano  esser  incorsi  assai 
in  simile  pregiudizio;  ed  allora  si  vol- 
tavano alla  punizione,  non  per  zelo  della 
legge  fatta,  ma  per  cupidità  di  riscuo- 
ter la  pena.  Donde  nascevano  molti  in- 
convenienti, e sopra  tutto  questo:  che  i 
popoli  si  impoverivano,  e non  si  cor- 
reggevano; e quelli  che  erano  impove- 
riti, s’ ingegnavano  contra  ai  meno  po- 
tenti di  loro  prevalersi.  Donde  surgevano 


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702 


DEI  DISCORSI 


tutti  questi  mali  che  di  sopra  si  dicono, 
de’  quali  era  cagione  il  principe.  E che 
questo  sia  vero,  lo  mostra  Tito  Livio 
quando  ei  narro,  che  portando  i Legati 
romani  il  dono  della  preda  dei  Veienti 
ad  Apolline,  furono  presi  dai  corsari  di 
Lipari  in  Sicilia,  e condotti  in  quella 
terra  : ed  inteso  Timasiteo  loro  principe 
che  dono  era  questo,  dove  egli  andava 
e chi  lo  mandava,  si  portò,  quantunque 
nato  a Lipari,  come  uomo  romano,  e 
mostrò  al  popolo  quanto  era  impio  oc- 
cupare simil  dono;  tanto  che,  con  il  con- 
senso dell*  universale,  ne  lasciò  andare 
i Legati  con  tutte  le  cose  loro.  E le  pa- 
role dello  istorieo  sono  queste:  Tima- 
sitheus  muhitudinem  religione  implevilj 
guoe  seniper  regenti  est  similis.  E Lorenzo 
dei  Medici,  a con  Orinazione  di  questa 
sentenza,  dice  : 

« 

u E quel  che  fa  il  signor,  fanno  poi  molti  ; 

Chè  nel  signor  son  tutti  gli  occhi  volti.  „ 


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LIBRO  TERZO. 


703 


Cap.  XXX.  — Ad  uno  cittadino  che  t co- 
glia nella  sua  repubblica  far  di  sua 
autorità  alcuna  opera  buona , è neces- 
sario prima  spegnere  /*  invidia:  c co- 
me, venendo  il  nimico j s'  ha  a ordi- 
nare la  difesa  dJ  una  città. 

Intendendo  il  Senato  romano  come  la 
Toscana  tutta  aveva  fatto  nuovo  deletto 
per  venire  a' danni  di  Roma;  e cornei 
Latini  e gli  Ernici,  stati  per  lo  addietro 
amici  del  Popolo  romano,  s’  erano  acco- 
stati coi  Volaci,  perpetui  nimici  di  Ro- 
ma ; giudicò  questa  guerra  dovere  esser 
pericolosa.  E trovandosi  Cnnimilio  tri- 
buno di  potestà  consolare,  pensò  che  si 
potesse  fare  senza  creare  il  Dittatore, 
quando  gli  altri  Tribuni  suoi  colleglli 
volessino  cedergli  la  somma  dello  impe- 
rio. Il  che  detti  Tribuni  fecero  volonta- 
riamente: nec  quicquam  (dice  Tito  Livio) 
de  majestate  sua  delractum  crcdcbant, 
rjund  ma j està  li  ejus  concessissent.  Onde 


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DEI  DISCORSI 


704 

Cammillo,  presa  a parole  questa  ubbi- 
dienza, comandò  che  si  scrivessino  tre 
eserciti.  Del  primo  volse  esser  capo  lui, 
per  ire  eontra  i Toscani.  Del  secondo 
fece  capo  Quinto  Servilio,  il  quale  volle 
stesse  propinquo  a Roma,  per  ostare  ai 
Latini  ed  agli  Ernici,  se  si  movessino. 
Al  terzo  esercito  prepose  Lucio  Quinzio, 
il  quale  scrisse  per  tenere  guardata  la 
città,  e difese  le  porte  e la  curia,  in 
ogni  caso  che  nascesse.  Oltre  a questo 
ordinò  che  Orazio,  uno  de’ suoi  colleglli, 
provvedesse  1*  arme,  ed  il  frumento,  e 
l’ altre  cose  che  richieggono  i tempi 
della  guerra.  Prepose  Cornelio,  ancora 
suo  collega,  al  Senato  ed  al  pubblico 
consiglio,  acciocché  potesse  consigliare 
le  azioni  che  giornalmente  s’  avevano  a 
fare  ed  eseguire.  Iu  questo  modo  furo- 
no quelli  Tribuni,  in  quelli  tempi,  per 
la  salute  della  patria  disposti  a coman- 
dare e ad  ubbidire.  Notasi  per  questo 
testo,  quello  che  faccia  uno  uomo  buono 
e savio,  e di  quanto  bene  sia  cagione, 


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LIBRO  TERZO. 


705 


c quanto  utile  ei  possi  fare  alla  sua  pa- 
tria, quando,  mediante  la  sua  bontà  e 
virtù,  egli  ba  spenta  l’ invidia  ; la  quale 
è molte  volte  cagione  che  gli  uomini 
rton  possono  operar  bene,  non  permet- 
tendo detta  invidia  che  gli  abbino  quella 
autorità  la  quale  è necessaria  avere 
nelle  cose  d’ importanza.  Spegnesi  que- 
sta invidia  in  duoi  modi:  o per  qualche 
accidente  forte  e difficile,  dove  ciascuno 
veggendosi  perire,  posposta  ogni  ambi- 
zione, corre  volontariamente  ad  ubbidi- 
re a colui  che  crede  che  con  la  sua 
virtù  lo  possa  liberare:  come  interven- 
ne a Cammillo;  il  quale  avendo  dato  di 
sè  tanti  saggi  d’  uomo  eccellentissimo, 
ed  essendo  stato  tre  volte  Dittatore,  ed 
avendo  amministrato  sempre  quel  grado 
ad  utile  pubblico,  e non  a propria  uti- 
lità, aveva  fatto  che  gli  uomini  non  te- 
mevano della  grandezza  sua  ; e per  esser 
tanto  grande  e tanto  ripututo,  non  sti- 
mavano cosa  vergognosa  essere  inferio- 
re a lui.  E però  dice  Tito  Livio  savia* 

Machiavelli.  Discorsi.  — 1.  45 


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DEI  DISCORSI 


706 

mente  quelle  parole:  JSep  quicquam  eie. 
In  un  altro  modo  si  spegne  l’invidia, 
quando  o per  violenza  o per  ordine  na- 
turale muoiono  coloro  che  sono  stati 
tuoi  concorrenti  nel  venire  a qualche 
riputazione  ed  a qualche  grandezza  ; i 
quali  veggendoti  riputato  più  di  loro,  è 
impossibile  che  mai  acquieschino,  e stia- 
no pazienti.  E quando  sono  uomini  eh» 
siano  usi  a vivere  in  una  citta  corrot- 
ta, dove  la  educazione  non  abbia  fatto 
in  loro  alcuna  bontà,  è impossibile  che 
per  accidente  alcuno  mai  si  indichino; 
e per  ottenere  la  voglia  loro,  e satisfare 
alla  loro  perversità  d’animo,  sarebbero 
contenti  vedere  la  rovina  della  loro  pa- 
tria. A vincer  questa  invidia  non  ci  è 
altro  rimedio  che  la  morte  di  coloro 
che  l’hanno;  e quando  la  fortuna  è 
tanto  propizia  a quell’  uomo  virtuoso, 
che  si  muoiano  ordinariamente,  diventa 
senza  scandalo  glorioso,  quando  senza 
ostacolo  e senza  offesa  ei  può  mostrare 
la  sua  virtù:  ma  quando  ei  non  abbi 


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LIBRO  TERZO. 


707 


questa  ventura,  gli  conviene  pensare  per 
ogni  via  torsegli  dinanzi;  e prima  che 
ei  facci  cosa  alcuna,  gli  bisogna  tenere 
modi  eli*  ei  vinca  questa  difTìcultà.  E chi 
legge  la  Bibbia  sensatamente,  vedrà 
Moisè  essere  stato  sforzato,  a volere  che 
le  sue  leggi  e gli  suoi  ordini  andassero 
innanzi,  ad  ammazzare  infiniti  uomini, 
ì quali,  non  mossi  da  altro  che  da  in- 
vidia, si  opponevano  a*  disegni  suoi. 
Questa  necessità  conosceva  benissimo 
frate  Girolamo  Savonarola;  conoscevala 
ancora  Pietro  Soderini,  gonfaloniere  di 
Firenze.  V uno  non  potette  vincerla,  per 
non  avere  autorità  a poterlo  fare  (che 
fu  il  frate),  e per  non  essere  inteso  be- 
ne da  coloro  che  lo  seguitavano,  che  ne 
arebbono  avuto  autorità.  Nondimeno  per 
lui  non  rimase,  e le  sue  prediche  sono 
piene  d’  accuse  dei  savi  del  mondo,  e di 
invettive  contro  a loro;  perchè  chiama- 
va così  questi  invidi,  e quelli  che  si  op- 
ponevano agli  ordini  suoi.  Quell’ altro 
credeva  col  tempo,  con  la  bontà,  con  la 


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70S 


DEI  DISCORSI 


fortuna  sua,  con  beneficarne  alcuno,  spe- 
gner questa  invidia  ; vedendosi  d*  assai 
fresca  età,  e con  tanti  nuovi  favori  che 
gli  arrecava  il  modo  del  suo  procedere, 
che  credeva  poter  superare  quelli  tanti 
che  per  invidia  se  gli  opponevano,  senza 
alcuno  scandalo,  violenza  e tumulto  : e 
non  sapeva  che  M tempo  non  si  può 
aspettare,  la  bontà  non  basta,  la  fortu- 
na varia,  e la  malignità  non  trova  dono 
che  la  plachi.  Tanto  che  V uno  e l’altro 
di  questi  due  rovinarono,  e la  rovina 
loro  fu  causata  da  non  aver  saputo  o 
potuto  vincere  questa  invidia.  1/  altro 
notabile  è 1’  ordine  che  Cammillo  dette 
dentro  e fuori  per  la  salute  di  Roma. 
E veramente,  non  senza  cagione,  gli  isto- 
rici buoni,  com’ è questo  nostro,  metto- 
no particolarmente  e distintamente  certi 
casi,  acciocché  i posteri  imparino  come 
gli  abbino  in  simili  accidenti  a difen- 
dersi. E debbesi  in  questo  testo  notare, 
che  non  è la  più  pericolosa  nè  la  più 
inutile  difesa,  che  quella  che  si  fa  tu- 


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LIBRO  TERZO. 


709 


multuariamente  e senza  ordine.  E que- 
sto si  mostra  per  quello  terzo  esercito 
che  Carminilo  fece  scrivere  per  lasciarlo 
in  Roma  a guardia  della  città  : perchè 
molti  arebbero  giudicato  e giudichereb- 
bono  questa  parte  superflua,  scudo  quel 
popolo  per  1’  ordinario  armato  e belli- 
coso; e per  questo,  che  non  gli  biso- 
gnasse di  scriverlo  altrimente,  ma  ba- 
stasse farlo  armare  quando  il  bisogno 
venisse.  Ma  Cammillo,  e qualunche  fusse 
savio  come  era  esso,  la  giudica  altri- 
mente;  perchè  non  permette  mai  che 
una  moltitudine  pigli  1’  arme,  se  non  cou 
certo  ordine  e certo  modo.  E però,  iu 
su  questo  essempio,  uno  che  sia  prepo- 
sto a guardia  d’  una  città,  debbe  fug- 
gire come  uno  scoglio  il  fare  armare 
gli  uomini  tumultuosamente;  ma  dcbbc 
prima  avere  scritti  e scelti  quelli  che 
voglia  s’  armino,  chi  gli  abbino  a ubbi- 
dire, dove  a convenire,  dove  andare;  ed 
a quelli  che  non  sono  scritti,  comanda- 
re che  stiano  ciascuno  alle  case  sue  a 


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DEI  DISCORSI 


710 

guardia  di  quelle.  Coloro  che  terranno 
questo  ordine  in  uiia  città  assaltata,  fa- 
cilmente si  potranno  difendere:  chi  farà 
altrimenti,  non  imiterà  Cammillo,  e non 
si  difenderà. 

» » 

Gap.  XXXI.  — Le  repubbliche  forti  e gli 
uomini  eccellenti  ritengono  in  ogni 
fortuna  il  medesimo  animo  e la  loro 
medesima  dignità. 

.Intra  1*  altre  magnifiche  cose  che  il 
nostro  istorico  fa  dire  e fare  a Cammil- 
lo, per  mostrare  come  debbo  esser  fatto 
un  uomo  eccellente,  gii  mette  in  bocca 
queste  parole:  iSec  mi  hi  diclattira  ani - 
mo8  fecilj  nec  exilium  ademil.  Per  le 
quali  parole  si  Yede,  come  gli  uomini 
grandi  sono  sempre  io  ogni  fortuna 
quelli  medesimi  ; e se  la  varia,  ora  con 
esaltargli  ora  con  opprimergli,  quelli 
non  variano,  ma  tengono  sempre  P ani- 
mo fermo,  ed  in  tal  modo  congiunto 
con  il  modo  del  vivere  loro,  che  fncil- 


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♦ 

LIBRO  TERZO.  711 

mente  si  conosce  per  ciascuno,  la  for- 
tuna non  aver  potenza  sopra  di  loro. 
Altrimenti  si  governano  gli  uomini  de- 
boli; perchè  invaniscono  ed  inebriano 
nella  buona  fortuna,  attribuendo  tutto 
il  bene  che  gli  hanno  a quelle  virtù  che 
' non  conobbero  mai.  D’onde  nasce  che 
diventano  insopportabili  ed  odiosi  a tutti 
coloro  che  gli  hanno  intorno.  Da  che 
poi  dipende  la  subita  variazione  della 
sorte;  la  quale  come  veggono  in  viso, 
caggiono  subito  nell’  altro  difetto,  e di- 
ventano vili  ed  abietti.  Di  qui  nasce  che 
i principi  così  fatti  pensano  nella  av- 
versità più  a fuggirsi  che  a difendersi, 
come  quelli  che  per  aver  male  usata  la 
buona  fortuna,  sono  ad  ogni  difesa  im- 
preparati. Questa  virtù  e questo  vizio, 
eh’  io  dico  trovarsi  in  uno  uomo  solo,  si 
trova  ancora  in  una  repubblica:  ed  in 
fessempio  ci  sono  i Romani  ed  i Vini- 
ziani.  Quelli  primi,  nessuna  cattiva  sorte 
gli  fece  mai  divenire  abietti,  nè  nessu- 
na buona  fortuna  gli  fece  mai  essere  in- 


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7i-2 


DEI  DISCORSI 


solenti;  come  si  vidde  manifestamente 
dopo  la  rotta  eli’  egli  ebbouo  a Canile, 
e dopo  la  vittoria  eli’  egli  ebbono  con- 
tea ad  Antioco;  perchè  per  quella  rot- 
ta, ancora  che  gravissima  per  esser 
stata  la  terza,  non  invilirono  mai;  e 
mandarono  fuori  eserciti;  non  volleno 
riscattare  i loro  prigioni  contra  agli  or- 
dini loro;  non  mandarono  ad  Annibaie 
o a Cartagine  a chiedere  pace  : ma,  la- 
sciate stare  tutte  queste  cose  abiette  in- 
dietro, pensarono  sempre  alla  guerra  ; 
armando,  per  carestia  d’  uomini,  i vec- 
chi ed  i servi  loro.  La  qual  cosa  cono- 
sciuta da  Annoile  cartaginese,  come  di 
sopra  si  disse,  mostrò  a quel  Senato 
quanto  poco  conto  s’ aveva  a tenere 
della  rotta  di  Canne.  E così  si  vidde 
come  i tempi  difficili  non  gli  sbigottiro- 
no, nè  gli  renderono  umili.  Dall’  altra 
parte,  i tempi  prosperi  non  gli  fecero 
insolenti;  perchè  mandando  Antioco  ora- 
tori a Scipione  a chiedere  accordo, 
avanti  che  fussino  venuti  alla  giornata, 


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LIBRO  TERZO. 


713 


e eh'  egli  avesse  perduto,  Scipione  gli 
delle  certe  condizioni  della  pace;  quali 
erano  che  si  ritirasse  dentro  alla  Siria, 
ed  il  resto  lasciasse  nello  arbitrio  de’ Ro- 
mani. Il  quale  accordo  ricusando  Antio- 
co, e venendo  alla  giornata,  e perden- 
dola, rimandò  ambasciadori  a Scipione, 
con  commissione  che  pigliassero  tutte 
quelle  condizioni  erano  date  loro  da) 
vincitore:  ai  quali  non  propose  altri 
patti  che  quelli  s’avesse  offerti  innanzi 
che  vincesse;  soggiungendo  queste  pa- 
role: quod  Romani j si  vincunluVj  non 
minuunlur  animi s ; ncc  si  vincimi in- 
solescere  solent.  Al  contrario  appunto  di 
questo  s’è  veduto  fare  ai  Yiniziani:  i 
quali  nella  buona  fortuna,  parendo  loro 
aversela  guadagnata  con  quella  virtù  che 
non  avevano,  erano  venuti  a tanta  inso- 
lenza, che  chiamavano  il  re  di  Francia 
figliuolo  di  San  Marco;  non  stimavano 
la  Chiesa  ; non  capivano  in  modo  alcu- 
no in  Italia;  e avevansi  presupposto  nel- 
1’  animo  d’ aver  a fare  una  monarchia 


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714 


DEI  DISCORSI 


simile  alla  romana.  Dipoi,  come  la  buo- 
na  sorte  gli  abbandonò,  e eli’  egli  eb* 
bero  una  mezza  rotta  a Vaila  dal  re  di 
Francia,  pcrderono  non  solamente  tutto 
lo  Stato  loro  per  ribellione,  ma  buona 
parte  ne  dettero  ed  al  papa  ed  al  redi 
Spagna  per  viltà  ed  abiezione  d’animo; 
ed  in  tanto  invilirono,  che  mandarono 
nmbasciadori  allo  imperadore  a farsi 
(libatori;  e scrissono  al  papa  lettere 
piene  di  viltà,  e di  sommissione  per 
muoverlo  a compassione.  Alla  quale  in* 
felicità  pervennero  in  quattro  giorni,  e 
dopo  una  mezza  rotta:  perchè  avendo 
combattuto  il  loro  esercito,  nel  ritirarsi 
venne  a combattere  ed  essere  oppresso 
circa  la  metà;  in  modo  che,  l’uno  de’ 
provveditori  che  si  salvò,  arrivò  a Ve- 
rona con  più  di  venticinquemila  soldati, 
intra  piè  e cavallo.  Talmentechè,  se  a 
Vinegia  e negli  ordini  loro  fusse  stata 
alcuna  qualità  di  virtù,  facilmente  si  po- 
tevano rifare,  e dimostrare  di  nuovo  il 
viso  alla  fortuna  ed  essere  a tempo  o a 


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LIBRO  TERZO.  715 

vincere,  o a perdere  più  gloriosamente, 
o ad  avere  accordo  più  onorevole.  Ma  la 
viltà  dell’  animo  loro,  causata  dalla  qua- 
lità de’  loro  ordini  non  buoni  nelle  cose 
della  guerra,  gli  fece  ad  un  tratto  per- 
dere lo  Stato  e 1’  animo.  E sempre  in- 
tervewà  così  a qualunque  si  governi 
come  loro.  Perchè  questo  diventare  in- 
solente nella  buona  fortuna  ed  abietto 
nella  cattiva,  nasce  dal  modo  del  pro- 
ceder tuo,  e dalla  educazione,  nella  quale 
tu  sei  nudrito:  la  quale  quando  è de- 
bole c vana,  ti  rende  simile  a sè:  quan- 
do-è stata  altrimenti,  ti  rende  ancora 
d’  un’  altra  sorte;  e facendoli  migliore 
conoscitore  del  mondo,  ti  fa  meno  ral- 
legrare del  bene,  e meno  rattristare  del 
male.  E quello  che  si  dice  d’  un  solo,  si 
dice  di  molti  che  vivono  in  una  repub- 
blica medesima;  i quali  si  fanno  di 
quella  perfezione,  che  ha  il  modo  del 
vivere  di  quella.  E benché  altra  volta  si 
sia  detto,  come  il  fondamento  di  tutti 
gli  Stali  è la  buona  milizia  ; e come  do- 


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DEI  DISCORSI 


716 

ve  non  è questa,  non  possono  essere  nè 
leggi  buone,  nè  alcuna  altra  cosa  buo- 
na ; non  mi  pare  superfluo  replicarlo  : 
perchè  ad  ogni  punto  nel  leggere  que- 
sta istoria  si  vede  apparire  questa  ne- 
cessità; e si  vede  come  la  milizia  non 
puote  essere  buona,  se  la  non  è «ecci- 
tata; e come  la  non  si  può  esercitare, 
se  la  non  è composta  di  tuoi  sudditi. 
Perchè  sempre  non  si  sta  in  guerra,  nè 
si  può  starvi  ; però  conviene  poterla  cser-, 
citare  a tempo  di  pace:  e con  altri  che 
con  sudditi  non  si  può  fare  questo  eser- 
cizio, rispetto  alla  spesa.  Era  Cammillo 
andato,  come  di  sopra  dicemmo,  con 
l’esercito  conira  ai  Toscani;  ed  avendo 
i suoi  soldati  veduto  la  grandezza  dello 
esercito  dei  nimici,  s’  erano  tutti  sbigot- 
titi, parendo  loro  essere  tanto  inferio- 
ri da  non  poter  sostenere  l’ impeto  di 
quelli.  E pervenendo  questa  mala  dispo- 
sizione del  campo  agli  orecchi  di  Cam- 
millo, si  mostrò  fuora,  ed  andando  par- 
lando per  il  campo  a questi  ed  a quelli 


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LIBRO  TERZO. 


717 


soldati,  trasse  loro  del  capo  quella  op- 
pinione;  e nell’ultimo,  senza  ordinare 
altrimenti  il  campo,  disse:  Quod  qinsque 
didicit,  aiti  consucvilj  facict.  E chi  con- 
sidererà bene  questo  termine,  e le  pa- 
role disse  loro,  per  inanimarli  a ire  con- 
tro al  nimici,  considererà  come  e’  non 
si  poteva  nè  dire  nè  far  fare  alcuna  di 
quelle  cose  ad  uno  esercito  che  prima 
non  fusse  stalo  ordinato  ed  esercitato 
ed  in  pace  ed  in  guerra.  Perchè  di  quelli 
soldati  che  non  hanno  imparato  a far 
cosa  alcuna,  non  può  un  capitano  fidar- 
si. e credere  che  faccino  alcuna  cosa  che 
stia  bene;  e se  gli  comandasse  un  nuo- 
vo Annibaie,  vi  rovinerebbe  sotto.  Per- 
chè, non  potendo  un  capitano  essere 
mentre  si  fa  la  giornata  in  ogni  parte, 
se  non  ha  prima  in  ogni  parte  ordinato 
di  potere  avere  uomini  che  abbino  lo 
spirito  suo,  e bene  gli  ordini  ed  i modi 
del  procedere  suo,  conviene  di  necessità 
che  ci  rovini.  Se,  adunque,  una  città 
sarà  armata  ed  ordinata  come  Roma;  c 


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DEI  DISCORSI 


718 

che  ogni  dì  ai  suoi  cittadini,  ed  in  par* 
ticolare  ed  in  pubblico,  tocchi  a fare 
isperienza  c della  virtù  loro,  e delia  po- 
tenza della  fortuna;  interverrà  sempre 
che  in  ogni  condizione  di  tempo  e’  siano 
dei  medesimo  animo,  e manterranno  la 
medesima  loro  degnila:  ma  quaudo  e’  sia- 
no disarmati,  e che  si  appoggeranno 
solo  olii  impeti  della  fortuna,  e non  alla 
propria  virtù,  varieranno  col  variare  di 
quella,  e daranno  sempre  di  loro  quello 
essempio  che  hanno  dato  i Viniziani. 

Gap.  XXXII.  — Quali  modi  hanno  tentili 
alcuni  a turbare  una  pace. 

Essendosi  ribellate  dal  Popolo  romano 
Circe»  e V elitre,  due  sue  colonie,  sotto 
speranza  d’ esser  difese  dai  Latini;  ed 
essendo  dipoi  vinti  i Latini,  e mancando 
di  quelle  speranze;  consigliavano,  assai 
cittadini  che  si  dovesse  mandare  a Roma 
oratori  a raccomandarsi  al  Senato  : il 
qual  partilo  fu  turbato  da  coloro  che 


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LIBRO  TKRZO. 


719 


erano  stali  autori  della  ribellione,  i quali 
temevano  che  tutta  la  pena  non  si  vol- 
tasse sopra  le  teste  loro.  E per  tor  via 
ogni  ragionamento  di  pace,  incitarono 
la  moltitudine  ad  armarsi,  ed  a correr 
sopra  i confini  romani.  E veramente, 
quando  alcuno  vuole  o che  uno  popolo 
o un  principe  levi  al  tutto  1’  animo  da 
uno  accordo,  non  ci  è altro  modo  più 
vero  nè  più  stabile,  che  fargli  usare 
qualche  grave  scelleratezza  contro  a co- 
lui con  il  quale  tu  non  vuoi  che  l’ac- 
cordo si  faccia  : perchè  sempre  lo  terrà 
discosto  quella  paura  di  quella  pena  che 
a lui  parrà  per  lo  errore  commesso 
aver  meritata.  Dopo  la  prima  guerra 
che  i Cartaginesi  ebbono  coi  Romani, 
quelli  soldati  che  dai  Cartaginesi  erano 
stati  adoperati  in  quella  guerra  in  Si* 
cilia  ed  in  Sardigna,  fatta  che  fu  la  pa- 
ce, se  ne  andarono  in  Affrica;  dovè  non 
essendo  satisfatti  del  loro  stipendio,  mos- 
sono  l’armi  contra  ai  Cartaginesi;  e 
fatti  di  loro  due  capi,  Nato  e Spendio, 


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DEI  DJSCOnSl 


720 

occuparono  molte  terre  ai  Cartaginesi, 
e molte  ne  saccheggiarono.  I Cartagine- 
si, per  tentare  prima  ogni  altra  via  che 
la  zuffa,  mandarono  a quelli  ainbascia- 
dore  Asdrubale  loro  cittadino,  il  quale 
pensavano  avesse  alcuna  autorità  con 
quelli,  essendo  stato  per  lo  addietro  lor 
capitano.  Ed  arrivato  costui,  e volendo 
Spendio  e .Muto  obbligare  tutti  quelli  sol- 
dati a non  sperare  d’  aver  mai  più  pace 
coi  Cartaginesi,  e per  questo  obbligarli 
alla  guerra;  persuasono  loro,  ch’egli 
era  meglio  ammazzare  costui,  con  lutti 
i cittadini  cartaginesi,  quali  erano  ap- 
presso loro  prigioni.  Donde,  non  sola- 
mente gli  ammazzarono,  ma  con  mille 
supplizii  in  prima  gli  straziarono  ; ag- 
giungendo a questa  scelleratezza  uno 
editto,  che  tutti  i Cartaginesi  che  per  lo 
avvenire  si  pigliassino,  si  dovessino  in 
simil  modo  oecidere.  La  qual  dilibera- 
zione ed  esecuzione  fece  quello  esercito 
crudele  ed  ostinato  contra  ai  Cartagi- 
nesi. 


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Lier.O  TLRZO. 


721 


Gap.  XXXlll.  — Egli  è necessario , a vo- 
ler vincere  una  giornalaj  fare  lJ  eser- 
cito confidente  ed  infra  lorOj  e con  il 
capitano. 

A volere  che  uno  esercito  vinca  una 
giornata,  è necessario  farlo  confidente, 
in  modo  che  creda  dovere  in  ogni  mo- 
do vincere.  Le  cose  che  lo  fanno  confi- 
dente sono:  che  sia  armato  ed  ordinato 
bene;  conoschinsi  l’uno  1’ altro.  Nè  può 
nascer  questa  confidenza  o questo  ordi- 
ne, se  non  in  quelli  soldati  che  sono 
nati  e vissuti  insieme.  Conviene  che  ’l 
capitano  sia  stimato,  di  qualità  che  con- 
fidino nella  prudenza  sua:  e sempre 
confideranno,  quando  lo  vegghino  ordi- 
nato, sollecito  ed  animoso,  e che  tenga 
bene  e con  riputazione  la  maestà  del 
grado  suo:  c sempre  la  manterrà,  quan- 
do gli  punisca  degli  errori,  e non  gli 
affatichi  invano;  osservi  loro  le  promes- 
se; mostri  facile  la  via  del  vincere; 

M fieni elli,  Discorsi.  — t . *0 


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DEI  DISCORSI 


722 

quelle  cose  che  discosto  potessino  mo- 
strare i pericoli,  le  nasconda,  le  allegge- 
risca. Le  quali  cose  osservate  bene,  sono 
cagione  grande  che  P esercito  confida,  e 
confidando  vince.  Usavano  i Romani  di 
far  pigliare  agli  eserciti  loro  questa  con- 
fidenza per  via  di  religione:  donde  na- 
sceva, che  con  gli  augurii  ed  auspizii 
creavano  i Consoli,  facevano  il  dcletto, 
partivano  con  li  eserciti,  e venivano  alla 
giornata:  e senza  aver  fatto  alcuna  di 
queste  cose,  non  inai  arebbe  un  buon 
capitano  e savio  tentata  alcuna  fazione, 
giudicando  d’  averla  potuta  perdere  fa- 
cilmente, se  i suoi  soldati  non  avessero 
prima  inteso  gli  dii  essere  dalla  parte 
loro.  E quando  alcuno  Consolo,  o altro 
loro  capitano,  avesse  combattuto  contra 
agli  auspizii,  P arebbero  punito;  come 
e*  punirono  Claudio  Pulero.  E benché 
questa  parte  in  tutte  P istorie  romane 
si  conosca,  nondimeno  si  pruova  più 
certo  per  le  parole  che  Livio  usa  nella 
bocca  di  Appio  Claudio;  il  quale,  dolen- 


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LIBRO  TERZO. 


723 


dosi  col  popolo  della  insolenza  de’ Tri- 
buni della  plebe,  e mostrando  che  me- 
diatiti quelli,  gli  auspizii  e 1’ altre  cose 
pertinenti  alla  religione  si  corrompeva- 
no, dice  così  : Etudaut  nttnc  licet  reli - 
gionem.  Quid  cnim  interest , si  pulii  non 
pasccnlur , si  ex  cavea  tardine  rxierint , 
si  occinuerit  avis  ? Parva  sunt  hcec ; sed 
parva  isla  non  contemnendoj  major  e* 
nostri  maximam  Itane  Rcmpublicam  fe- 
cerunt.  Perchè  in  queste  cose  piccole  è 
quella  forza  di  tenere  uniti  e confidenti 
i soldati:  la  qual  cosa  è prima  cagione 
d’  ogni  vittoria.  Nondi  manco,  conviene 
con  queste  cose  sia  accompagnata  la 
virtù:  altrimenti,  le  non  vogliono.  I Pre- 
nestini,  avendo  contra  ai  Romani  fuori 
il  loro  esercito,  se  n*  andarono  ad  al- 
loggiare in  sul  fiume  d’  Allia,  luogo  do- 
ve i Romani  furono  vinti  da*  Franciosi  ; 
il  che  fecero  per  metter  fiducia  nei  loro 
soldati,  e sbigottire  i Romani  per  la 
fortuna  del  luogo.  E benché  questo  loro 
partito  fusse  probabile,  per  quelle  ra- 


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724 


DEI  Disconsi 


gioni  che  di  sopra  si  sono  discorse  ; 
nientedimeno  il  (ine  della  cosa  mostrò, 
che  la  vera  virtù  non  teme  ogni  mini- 
mo accidente.  Il  che  l’ istorico  benissi- 
mo dice  con  queste  parole,  in  bocca  po- 
ste del  Dittatore,  che  parla  così  al  suo 
Maestro  de’  cavagli  : Vides  tu,  fortuna 
illos  fvelos  ad  Alliam  conscdisse  ; al  tu, 
frelus  armis  animisque,  invade  mediani 
acietn.  Perchè  una  vera  virtù,  un  ordi- 
ne buono,  una  sicurtà  presa  da  tante 
vittorie,  non  si  può  con  cose  di  poco 
momento  spegnere;  nè  una  cosa  vana 
fa  lor  paura,  nè  un  disordine  gli  offen- 
de: come  si  vede  certo,  che  essendo  due 
Manlii  consoli  contra  ai  Volsci,  per  aver 
mandato  temerariamente  parte  del  cam- 
po a predare,  ne  seguì  che  in  un  tem- 
po e quelli  che  erano  iti,  e quelli  che 
erano  rimasti,  si  trovarono  assediati; 
dal  qual  pericolo  non  la  prudenza  dei 
Consoli,  ma  la  virtù  de’ propri  soldati 
gli  liberò.  Dove  Tito  Livio  dice  queste 
parole:  Militimi,  etiam  sine  reclorc , sta - 


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UDRÒ  TERZO. 


725 


bilia  virtus  lutala  est.  Non  voglio  lascia- 
re indietro  un  termine  usato  da  Fabio, 
sendo  entrato  di  nuovo  con  V esercito 
in  Toscana,  per  farlo  confidente;  giudi- 
cando quella  tal  fidanza  esser  più  ne- 
cessaria per  averlo  condotto  in  paese 
nuovo,  e contra  a ninnici  nuovi  : che, 
parlando  avanti  la  zuffa  ai  soldati,  e 
detto  eli*  ebbe  molte  ragioni,  mediante 
le  quali  e’  potevano  sperare  la  vittoria, 
disse  che  potrebbe  ancora  loro  dire  certe 
cose  buone,  e dove  e’  vedrebbono  la  vit- 
toria certa,  se  non  fusse  pericoloso  il  ma- 
nifestarle. Il  qual  modo  come  fu  savia- 
mente usato,  così  merita  d’essere  imitato. 

Cap.  XXXIV.  — Quale  fama  o voce  o 
oppiatone  fa  che  il  popolo  comincia 
a favorire  un  cittadino:  e se  ei  di- 
stribuisce i magistrati  con  maggior 
prudenza  che  un  principe. 

Altra  volta  parlammo  come  Tito  Man- 
lio, clic  fu  poi  detto  Torquato,  salvò  Lu- 


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726 


DEI  DISCORSI 


ciò  Manlio  suo  padre  da  una  accusa  clic 
gli  aveva  fatta  Marco  Pomponio  tribuno 
della  plebe.  E benché  il  modo  del  sal- 
varlo fusse  alquanto  violento  ed  istraor- 
dinario,  nondimeno  quella  Oliale  pietà 
verso  del  padre  fu  tanto  grata  all’uni- 
versale, che  non  solamente  non  nc  fu 
ripreso,  ma  avendosi  a fare  i Tribuni 
delle  legioni,  fu  fatto  Tito  Manlio  nel 
secondo  luogo.  Per  il  quale  successo, 
credo  che  sia  bene  considerare  il  modo 
che  tiene  il  popolo  a giudicare  gli  uo- 
mini nelle  distribuzioni  sue;  e che  per 
quello  noi  veggiamo,  se  egli  è vero  quanto 
di  sopra  si  conchiuse,  che  il  popolo  sia 
migliore  distributore  che  un  principe. 
Dico,  adunque,  come  il  popolo  nel  suo 
distribuire  va  dietro  a quello  che  si  dice 
d’uno  per  pubblica  voce  e fama,  quando 
per  sue  opere  note  non  lo  conosce  al- 
trimenti; o per  presunzione  o oppinione 
che  s’ ha  di  1 ni.  Le  quali  due  cose  sono 
causate  o dai  padri  di  quelli  tali,  che 
per  esser  stati  grandi  uomini  e valenti 


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LIBRO  TERZO. 


727 


nelle  città,  si  crede  che  i figliuoli  deb- 
bino esser  simili  a loro,  infino  a tanto 
che  per  l’ opere  di  quelli  non  s’intende 
il  contrario;  o la  è causata  dai  modi 
che  tiene  quello  di  chi  si  parla.  I modi 
migliori  che  si  possono  tenere,  sono  : avere 
compagnia  d’uomini  gravi,  di  buoni  co- 
stumi, e riputati  savi  da  ciascuno.  E per- 
chè nessuno  indizio  si  può  aver  mag- 
giore d’uii  uomo,  che  le  compagnie  con 
quali  egli  usa;  meritamente  uno  che  usa 
con  compagnia  onesta,  acquista  buon 
nome,  perchè  è impossibile  che  non  ab- 
bia qualche  similitudine  con  quella.  0 
veramente  s’  acquista  questa  pubblica 
fama  per  qualche  azione  istraordinaria 
e notabile,  ancora  che  privata,  la  quale 
ti  sia  riuscita  onorevolmente.  E di  tutte 
tre  queste  cose  che  danno  nel  principio 
buoua  riputazione  ad  uno,  nessuna  la 
dà  maggiore  che  questa  ultima  : perchè 
quella  prima  de’  parenti  e de’  padri  è 
sì  fallace,  che  gli  uomini  vi  vanno  a 
rilento  ; ed  in  poco  si  consuma,  quando 


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728  dei  discorsi 

la  virtù  propria  di  colui  che  ha  ad  es- 
sere giudicato  non  I’  accompagna.  La 
seconda  che  ti  fa  conoscere  per  via  delle 
pratiche  tue,  è miglior  della  prima,  ma 
è mollo  inferiore  alla  terza  ; perchè,  in- 
fino a tanto  che  non  si  vede  qualche 
segno  che  nasca  da  te,  sta  la  riputa- 
zione tua  fondata  in  su  V oppili  ione,  la 
quale  è facilissima  a cancellarla.  Ma 
quella  terza,  essendo  principiata  e fon- 
data in  su  le  opere  lue,  ti  dà  nel  prin- 
cipio tanto  nome,  che  bisogna  bene  che 
tu  operi  poi  molte  cose  contrarie  a que- 
sto, volendo  annullarla.  Debbono,  adun- 
que, gli  uomini  che  nascono  in  una 
repubblica  pigliare  questo  verso,  ed  in- 
gegnarsi con  qualche  operazione  istraor- 
dinaria  cominciare  a rilevarsi.  Il  che 
molti  a Roma  in  gioventù  feciono  o con 
il  promulgare  una  legge  che  venisse  in 
comune  utilità  ; o con  accusare  qualche 
pytente  cittadino  come  transgressore 
delle  leggi;  o col  fare  simili  cose  nota- 
bili c nuove,  di  che  s’  avesse  a parlare. 


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LIBRO  TERZO.  729 

Nè  solamente  sono  necessarie  simili  cose 
per  cominciare  a darsi  riputazione,  ma 
sono  ancora  necessarie  per  mantenerla 
ed  accrescerla.  Ed  a voler  fare  questo, 
bisogna  rinnovarle;  come  per  tutto  il 
tempo  della  sua  vita  fece  Tito  Manlio: 
perchè,  difeso  eh’  egli  ebbe  il  padre 
tanto  virtuosamente  e straordinariamen- 
te, e per  questa  azione  presa  la  prima 
reputazione  sua,  dopo  certi  anni  com- 
battè con  quel  Francioso,  e morto  gli 
trasse  quella  collana  d’oro  che  gli  dette 
il  nome  di  Torquato.  Non  bastò  questo, 
che  dipoi,  già  in  età  matura,  ammazzò 
il  figliuolo  per  aver  combattuto  senza 
licenza,  ancora  ch’egli  avesse  superato 
il  nimico.  Le  quali  tre  azioni  allora  gli 
dettono  più  nome  e per  tutti  i secoli  lo 
fanno  più  celebre,  che  non  lo  fece  alcuno 
trionfo,  alcuna  vittoria,  di  che  egli  fu  or- 
natoquanto alcun  altro  Romano.  E la  ca- 
gione è perchè  in  quelle  vittorie  Manlio 
ebbe  moltissimi  simili;  in  queste  partico- 
lari azioni  n’ebbe  o pochissimi  o nessu- 


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730 


DEI  DISCORSI 


no.  A Scipione  maggiore  non  arrecarono 
tanta  gloria  tutti  i suoi  trionfi,  quanto 
gli  dette  l'avere,  ancora  giovinetto,  in 
sul  Tesino  difeso  il  padre;  e l’aver,  dopo 
la  rotta  di  Canne,  animosamente  con  la 
spada  sguainata  fatto  giurare  più  gio- 
veni  romani,  che  ei  non  abbandonerei)- 
bono  Italia,  come  di  già  intra  loro  ave- 
vano diliberato:  le  quali  due  azioni  fu- 
rono principio  alla  riputazione  sua,  e 
gli  fecero  scala  ai  trionfi  della  Spagna 
e dell’  Affrica.  La  quale  oppinione  da  lui 
fu  ancora  accresciuta,  quando  ei  ri- 
mandò la  figliuola  al  padre  e la  moglie 
al  marito  in  Ispagna.  Questo  modo  del 
procedere  non  è necessario  solamente 
a quelli  cittadini  che  vogliono  acqui- 
star fama  per  ottenere  gli  onori  nella 
loro  repubblica,  ma  è ancora  necessa- 
rio ai  principi  per  mantenersi  la  ri- 
putazione nel  principato  loro  : perchè 
nessuna  cosa  gli  fa  tanto  stimare,  quan- 
to dare  di  sè  rari  esempi  con  qualche 
fatto  o detto  raro,  conforme  al  bene 


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LIBRO  TERZO. 


73 1 

comune,  il  quale  mostri  il  signore  o 
magnanimo  o liberale  o giusto,  e che 
sia  tale  che  si  riduca  come  in  prover- 
bio intra  i suoi  soggetti.  Ma,  per  tor- 
nare donde  noi  cominciammo  questo 
discorso,  dico  come  il  popolo  quando 
ei  comincia  a dare  un  grado  ad  un  suo 
cittadino,  fondandosi  sopra  quelle  tre 
cagioni  soprascritte,  non  si  fonda  male; 
ma  quando  poi  gli  assai  essempi  de’  buoni 
portamenti  d’uno  lo  fanno  più  noto, 
si  fonda  meglio,  perchè  in  tal  caso  non 
può  essere  che  quasi  mai  s’ inganni,  lo 
parlo  solamente  di  quelli  gradi  che  si 
danno  agli  uomini  nel  principio,  avanti 
che  per  ferma  isperienza  siano  cono- 
sciuti, o che  passano  da  una  azione  ad 
un’altra  dissimile:  dove,  e quanto  alia 
falsa  oppinione,  e quanto  alla  corru- 
zione, sempre  fanno  minori  errori  che 
i principi.  E perchè  e’  può  essere  che  i 
popoli  s’  ingannerebbono  della  fama, 
della  oppinione  e delle  opere  d’  uno 
uomo  stimandole  maggiori  che  in  verità 


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DEI  DISCORSI 


732 

non  sono;  il  che  non  interverrebbe  ad 
uno  principe,  perchè  gli  sarebbe  detto, 
e sarebbe  avvertito  da  chi  lo  consiglias- 
se : perchè  ancora  i popoli  non  man- 
chino di  questi  consigli,  i buoni  ordi- 
natori delle  repubbliche  hanno  ordinalo 
che,  avendosi  a creare  i supremi  gradi 
nelle  città,  dove  fusse  pericoloso  met- 
tervi uomini  insufficienti,  e reggendosi 
la  voglia  popolare  esser  diritta  a creare 
alcuno  che  fusse  insuffiziente,  sia  lecito 
ad  ogni  cittadino,  e gli  sia  imputato  a 
gloria,  di  pubblicare  nelle  concioni  i di- 
fetti di  quello,  acciocché  il  popolo,  non 
mancando  della  sua  conoscenza,  possa 
meglio  giudicare.  E che  questo  si  usasse 
a Roma,  ne  rende  testimonio  la  ora- 
zione di  Fabio  Massimo,  la  quale  ei  fece 
al  Popolo  nella  seconda  guerra  punica, 
quando  nella  creazione  dei  Consoli  i 
favori  si  volgevano  a creare  Tito  Otta- 
cilio;e  giudicandolo  Fabio  insuffiziente 
a governare  in  quelli  tempi  il  consolato, 
gli  parlò  contro,  mostrando  la  insuffi* 


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UDRÒ  TF.RZO. 


733 


ziciua  sua  ; tanto  che  gli  tolse  quel  gra- 
do, e volse  i favori  del  Popolo  a chi 
più  lo  meritava  che  lui.  Giudicano,  adun- 
que, i popoli  nella  elezione  a’ magistrati 
secondo  quei  contrassegni  che  degli  uo- 
mini si  possono  aver  più  veri;  e quando 
ei  possono  esser  consigliati  come  i prin- 
cipi, errano  meno  che  i principi;  e quel 
cittadino  che  voglia  cominciare  ad  avere 
i favori  del  popolo,  debbe  con  qualche 
fatto  notabile,  come  fece  Tito  Manlio, 
guadagnarseli. 

Cap.  XXXV.  — Quali  perìcoli  si  portino 
nel  farsi  capo  a consigliare  una  cosa  ; 
e quanto  ella  ha  più  dello  straordi- 
nario,  maggiori  pericoli  vi  si  cor~ 
rono. 

Quanto  sia  cosa  pericolosa  farsi  capo 
d’  una  cosa  nuova  che  appartenga  a 
molti,  e quanto  sia  difficile  trattarla  ed 
a condurla  ; e condotta,  a mantenerla, 
sarebbe  troppo  lunga  e troppo  alta  ma- 


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DEI  DISCORSI 


734 

leria  a discorrerla:  però,  riserbandola 
a luogo  più  conveniente,  parlerò  solo  di 
quelli  pericoli  che  portano  i cittadini,  o 
quelli  che  consigliano  uno  principe  a 
farsi  capo  d’ una  diliberazione  grave  ed 
importante,  in  modo  che  tutto  il  consi- 
glio d’  essa  sia  imputato  a lui.  Perchè, 
giudicando  gli  uomini  le  cose  dal  fine, 
tutto  il  male  che  ne  risulta,  s’ imputa 
all’autore  del  consiglio;  e se  ne  risulta 
bene,  ne  è commendato:  ma  di  lunga  il 
premio  non  contrappesa  il  danno.  Il  pre- 
sente Sultan  Sali,  dello  Gran  Turco,  es- 
sendosi preparato  (secondo  che  uè  ri- 
feriscono alcuni  che  vengono  de’  suoi 
paesi)  di  fare  l’ impresa  di  Soria  e di 
Egitto,  fu  confortato  da  un  suo  Rascia, 
quale  ei  teneva  ai  confini  di  Persia,  d’an- 
dare contea  al  Sofi:  dal  quale  consiglio 
mosso,  andò  con  esercito  grossissimo  a 
quella  impresa;  ed  arrivando  in  paese 
larghissimo,  dove  sono  assai  deserti  e 
le  fiumare  rade,  e trovandovi  quelle 
diflìculta  che  già  fecero  rovinare  molli 


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LIBRO  TERZO. 


735 


eserciti  romani,  fu  in  modo  oppressalo 
da  quelle,  che  vi  perdè  per  fame  e per 
peste,  ancora  che  nella  guerra  fusse  su- 
periore, gran  parte  delle  sue  genti  : tal- 
ché irato  contro  all’autore  del  consiglio, 
l’ammazzò.  Leggesi,  assai  cittadini  stati 
confortatori  d’  una  impresa,  e per  avere 
avuto  quella  tristo  fine,  essere  stati  man- 
dati in  esilio.  Fecionsi  capi  alcuni  cit- 
tadini romani,  che  si  facesse  in  Roma 
il  Consolo  plebeo.  Occorse  che  il  primo 
che  uscì  fuori  con  gli  eserciti,  fu  rotto  ; 
onde  a quelli  consigliatori  sarebbe  av- 
venuto qualche  danno,  se  non  fusse  stata 
tanto  gagliarda  quella  parte,  in  onore 
della  quale  tale  diliberazione  era  venuta. 
È cosa  adunque  certissima,  che  quelli 
che  consigliano  una  repubblica,  e quelli 
che  consigliano  un  principe,  sono  posti 
intra  queste  angustie,  che  se  non  con- 
sigliano le  cose  che  paiono  loro  utili,  o 
per  la  città  o per  il  principe,  senza  ri- 
spetto, ei  mancano  dell’ uffìzio  loro;  se 
le  consigliano,  egli  entrano  nel  pericolo 


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736  DEI  DISCORSI 

della  vita  e dello  Stato:  essendo  lutti 
gli  uomini  in  questo  ciechi,  di  giudi- 
care i buoni  e cattivi  consigli  dal  fine. 
E pensando  in  che  modo  ei  potessino 
fuggire  o questa  infamia  o questo  pe- 
ricolo, non  ci  veggo  altra  via  che  pi- 
gliar le  cose  moderatamente,  e non  ne 
prendere  alcuna  per  sua  impresa,  e dire 
V oppinione  sua  senza  passione,  e senza 
passione  con  modestia  difenderla  : in  modo 
che,  se  la  città  o il  principe  la  segue, 
(die  la  segua  volontario,  e non  paia  che 
vi  venga  tirato  dalla  tua  importunità. 
Quando  tu  faccia  così,  non  è ragione- 
vole che  un  principe  ed  un  popolo  del 
tuo  consiglio  ti  voglia  male,  non  essendo 
seguito  contra  alla  voglia  di  molti  : perchè 
quivi  si  porta  pericolo  dove  molti  han- 
no contradetto,  i quali  poi  nello  infelice 
fine  concorrono  a farti  rovinare.  E se 
in  questo  caso  si  manca  di  quella  gloria 
che  si  acquista  nell’  esser  solo  contra 
molti  a consigliare  una  cosa,  quando 
ella  sortisce  buon  fine,  ci  sono  al  riu- 


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LIBRO  TERZO. 


737 


contro  due  beni  : il  primo,  di  mancare 
del  pericolo  ; il  secondo,  che  se  tu  con- 
sigli una  cosa  modestamente,  e per  la 
contradizione  il  tuo  consiglio  non  sia 
preso,  e per  il  consiglio  d’altrui  ne  se- 
guiti qualche  rovina,  ne  risulta  a te 
grandissima  gloria.  E benché  la  gloria 
che  s’acquista  de’ mali  che  abbia  o la 
tua  città  o il  tuo  principe,  non  si  possa 
godere,  nondimeno  è da  tenerne  qualche 
conto.  Altro  consiglio  non  credo  si  possa 
dare  agli  uomini  in  questa  parte:  per- 
chè consigliandogli  che  tacessino,  e non 
dicessino  I’  oppinione  loro,  sarebbe  cosa 
inutile  alla  repubblica  o ai  loro  principi, 
e non  fuggirebbono  il  pericolo  ; perchè 
in  poco  tempo  diventerebbono  sospetti: 
e ancora  potrebbe  loro  intervenire  co- 
me a quelli  amici  di  Perse  re  dei  Ma- 
cedoni, il  quale  essendo  stato  rotto  da 
Paulo  Emilio,  c fuggendosi  con  pochi 
amici,  accadde  che  nel  replicar  le  cose 
passate,  uno  di  loro  cominciò  a dire  a 
Perse  molti  errori  fatti  da  lui,  che  erano 

Machiavelli,  Discorsi.  — t.  *7 


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73S 


DEI  DISCORSI 


stati  cagione  della  sua  rovina;  al  quale 
Perse  rivoltosi,  disse:  Traditore,  si  che 
tu  hai  indugiato  a dirmelo  ora  ch’io 
non  ho  più  rimedio;  e sopra  queste  pa- 
role, di  sua  mano  l’ammazzò.  E cosi 
colui  portò  la  pena  d’essere  stato  cheto 
quando  ci  doveva  parlare,  e d’aver  par- 
lato quando  ei  doveva  tacere;  nè  fuggi 
il  pericolo  per  non  avere  dato  il  con- 
siglio. Però  credo  che  sia  da  tenere  ed 
osservare  i termini  soprascritti.  " 

Gap.  XXXVI.  — La  cagione  perchè  « Fran- 
ciosi sono  stali  e sono  ancora  giudi- 
cati nelle  zuffe  da  principio  più  che 
uomini j e dipoi  meno  che  femmine. 

La  ferocità  di  quel  Francioso  che  pro- 
vocava qualunque  Romano  appresso  al 
Piume  Aniene  a combatter  seco,  dipoi 
la  zuffa  falla  intra  lui  e Tito  Manlio, 
mi  fa  ricordare  di  quello  che  Tito  Livio 
più  volte  dice,  che  i Franciosi  sono  ne 
principio  della  zuffa  più  che  uomini,  e 


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LIBRO  TERZO. 


739 


nel  successo  di  combattere  riescono  poi 
meno  che  femmine.  E pensando  donde 
questo  nasca,  si  crede  per  molti  che  sia 
la  natura  loro  così  fatta:  il  che  credo 
sia  vero;  ma  non  è per  questo,  che 
questa  loro  natura  che  gli  fa  feroci  nel 
principio,  non  si  potesse  in  modo  con 
I*  arte  ordinare,  che  la  gli  mantenesse 
feroci  infino  nell’  ultimo.  Ed  a voler 
provare  questo,  dico  come  e’  sono  di  tre 
ragioni  eserciti:  V uno  dove  è furore  ed 
ordine;  perchè  dall’  ordine  nasce  il  furo- 
re e la  virtù,  come  era  quello  dei  Ro- 
mani: perchè  si  vede  in  tutte  l’ istorie, 
clic  in  quello  esercito  era  uno  ordine 
buono,  che  v’  aveva  introdotto  una  di- 
sciplina militare  per  lungo  tempo.  Per- 
chè in  uno  esercito  bene  ordinato,  nes- 
suno debbe  fare  alcuna  opera  se  non 
regolato:  e si  troverà  per  questo,  che 
nello  esercito  romano,  dal  quale,  avendo 
egli  vinto  il  mondo,  debbono  prendere 
essempio  tutti  gli  altri  eserciti,  non  si 
mangiava,  non  si  dormiva,  non  si  mer- 


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740 


DEI  DISCORSI 


calava,  non  si  faceva  alcuna  azione  o 
militare  o domestica  senza  l'ordine  del 
consolo.  Perchè  quelli  eserciti  che  fanno 
altrimenti,  non  sono  veri  eserciti;  c se 
fanno  alcuna  pruova,  la  fanno  per  fu- 
rore e per  impeto,  non  per  virtù.  Mu 
dove  è la  virtù  ordinata,  usa  il  furore 
suo  coi  modi  e co’ tempi;  nè  diflicultà 
veruna  lo  invilisce,  nè  gli  fa  mancare 
l'animo:  perchè  gli  ordini  buoni  gli 
rinfrescano  l’ animo  ed  il  furore,  nu- 
triti dalla  speranza  del  vincere;  la  quale 
mai  non  manca,  infìno  a tanto  che  gli 
ordini  stanno  saldi.  Al  contrario  inter- 
viene in  quelli  eserciti  dove  è furore  c 
non  ordine,  come  erano  i franciosi  : i 
quali  tuttavia  nel  combattere  mancavano; 
perchè  non  riuscendo  loro  col  primo 
impeto  vincere,  e non  essendo  sostenuto 
da  una  virtù  ordinata  quello  loro  furore 
nel  quale  egli  speravano,  nè  avendo  fuori 
di  quello  cosa  in  la  quale  ei  confidassi- 
no,  come  quello  era  raffreddo,  manca- 
vano. Al  contrario  i Romani,  dubitando 


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LIBRO  TER 7.0. 


741 


meno  dei  pericoli  per  gli  ordini  loro 
buoni,  non  diffidando  della  vittoria,  fer- 
mi ed  ostinali  combattevano  col  mede- 
simo animo  e con  la  medesima  virtù 
nel  fine  che  nel  principio:  anzi,  agitati 
dall’  arme,  sempre  s’ accendevano.  La 
terza  qualità  d’eserciti,  è,  dove  non  è 
furore  naturale,  nè  ordine  accidentale: 
come  sono  gli  eserciti  nostri  italiani 
de’  nostri  tempi,  i quali  sono  al  tutto 
inutili;  e se  non  si  abbattono  ad  uno 
esercito  che  per  qualche  accidente  si 
fugga,  mai  non  vinceranno.  E senza  ad- 
durne altri  essempi,  si  vede  ciascuno 
di  come  ei  fanno  pruove  di  non  avere 
alcuna  virtù.  E perchè  con  il  testimo- 
nio di  Tito  Livio  ciascuno  intenda  co- 
me debbe  esser  fatta  la  buona  milizia, 
e come  è fatta  la  rea;  io  voglio  addurre 
le  parole  di  Papirio  Cursore,  quando  ei 
voleva  punire  Fabio  maestro  de’ cavalli, 
quando  disse:  Nano  hominum y nano 
Deorum  verecundiam  hubcat  ; non  cdù 
da  impcralorum^  non  auspicio,  obser- 


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742  DEI  DISCORSI 

ventar:  sine  commenta , vagì  tnililcs  in 
pacato , in  hostico  errcnt;  immcmores 
sacramenti , se  ubi  velini  exauctorenl / 
infrequentia  deserant  tigna ; ncque  con - 
veniant  ad  edictum,  nec  discernant  in- 
terdiuj  nodo  ; (equo,  iniquo  loco,  jussu, 
injussu  imperatorie  pugncnt  ; et  non 
sigila,  non  ordines  serventi  lalroctnti 
modo,  cieca  et  fortuita,  prò  solcami  et 
sacrala  rnilitia  sit.  Puossi  per  questo 
testo,  adunque,  facilmente  vedere,  se  la 
milizia  de’  nostri  tempi  è cieca  e fortuita, 
o sacrata  e solenne  j e quanto  le  manca  ad 
esser  simile  a quella  die  si  può  chiamar 
milizia  ; e quanto  ella  è discosto  da. es- 
sere furiosa  ed  ordinala  come  la  roma- 
na, o furiosa  solo  come  la  franciosa. 

Cap.  XXXVII.  — Se  le  piccole  battaglie 
innanzi  alla  giornata  sono  necessarie, 
e come  si  debbe  fare  a conoscere  un 
nimico  nuovo , volendo  fuggire  quelle. 

E’  pare  che  nelle  azioni  degli  uomini, 
come  altre  volte  abbiamo  discorso,  si 


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LIBRO  TERZO.  743 

tvuovi,  oltre  all’  altre  diftìcultà,  nel  vo- 
ler condurre  la  cosa  olla  sua  perfezio- 
ne, che  sempre  propinquo  al  bene  sia 
qualche  male,  il  quale  con  quel  bene  sì 
facilmente  nasce,  che  pare  impossibile 
poter  mancare  dell’  uno  volendo  I’  altro. 
E questo  si  vede  in  tutte  le  cose  che 
gli  uomini  operano.  E però  s’  acquista 
il  bene  con  diftìcultà,  se  dalla  fortuna 
tu  non  se’  aiutato  in  modo,  che  ella  con 
la  sua  forza  vinca  questo  ordinario  e 
naturale  inconveniente.  Di  questo  mi  ha 
fatto  ricordare  la  zuffa  di  Manlio  Tor- 
quato e dei  Fraucioso,  dove  Tito  Livio 
dice:  Tanti  ca  dimicatio  ad  universi 
belli  eventtim  momenti  fuitj  ut  Gallo- 
rum excrciluSj  relictis  trepide  castri s, 
in  Tiburlem  agrum , inox  in  Campaniam 
transierit.  Perchè  io  considero  dall’  un 
canto,  che  un  buon  capitano  debbe  fug- 
gire al  tutto  di  operare  alcuna  cosa  che, 
essendo  di  poco  momento,  possa  fare 
cattivi  effetti  nel  suo  esercito:  perchè 
cominciare  una  zuffa  dove  non  si  ope- 


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744 


DEI  DISCORSI 

l ino  tutte  le  forze  e vi  si  arrisichi  tutta 
la  fortuna,  è cosa  al  tutto  temeraria; 
come  io  dissi  di  sopra,  quando  io  dan- 
nai il  guardare  de’  passi.  Dall’  altra  parte 
io  considero  come  capitani  savi,  quando 
ei  vengono  all’  incontro  d’  un  nuovo  ni- 
mico, e che  sia  riputato,  ei  sono  neces- 
sitati, prima  che  venghino  alia  giornata, 
far  provare  con  leggieri  zuffe  ai  loro 
soldati  tali  nimici;  acciocché  comincian- 
dogli a conoscere  c maneggiare,  perdino 
quel  terrore  che  la  fama  e la  riputa- 
zione aveva  dato  loro.  E questa  parte 
in  un  capitano  è importantissima  ; per- 
chè ella  ha  in  sé  quasi  una  necessità  che 
ti  constringe  a farla,  parendoti  andare 
ad  una  manifesta  perdita,  senza  aver 
prima  fatto  con  piccole  isperienze  de- 
porre ai  tuoi  soldati  quello  terrore  che 
la  riputazione  del  nimico  aveva  messo 
negli  animi  loro.  Fu  Valerio  Corvino 
mandato  dai  Romani  con  gli  eserciti 
contro  ai  Sanniti,  nuovi  nimici,  e che 
per  lo  addietro  mai  non  avevano  pro- 


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LIBRO  TERZO. 


745 


vate  1*  arme  1’  uno  dell’  altro;  dove  dice 
Tito  Livio,  che  Valerio  fece  fare  ai  Ro- 
mani coi  Sanniti  alcune  leggieri  zuffe: 
jV©  eos  novum  bellutn , ne  novus  hoslis 
. lerreret.  Nondimeno  è pericolo  grandis- 
simo, che  restando  i tuoi  soldati  in  quelle 
battaglie  vinti,  la  paura  e la  viltà  non 
cresca  loro,  e ne  conseguitino  contrari 
effetti  ai  disegni  tuoi;  cioè  che  tu  gli 
sbigottisca,  avendo  disegnalo  d’  assicu- 
rarli: tanto  che  questa  è una  di  quelle 
cose  che  ha  il  male  sì  propinquo  al  bene, 
e tanto  sono  congiunti  insieme,  che  gli 
è facil  cosa  prendere  l’ uno  credendo 
pigliar  P altro.  Sopra  che  io  dico,  che 
• un  buon  capitano  debbo  osservare  con 
ogni  diligenza,  che  non  surga  alcuna 
cosa  che  per  alcuno  accidente  possa  torre 
Panimo  alP  esercito  suo.  Quello  che  gli 
può  torre  P animo  è cominciare  a per- 
dere; e però  si  debbe  guardare  dalle 
zuffe  piccole,  e non  le  permettere  se 
non  con  grandissimo  vantaggio  e con 
certa  speranza  di  vittoria  ; non  debbo 


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746  ■ 


DEI  DISCORSI 


fare  impresa  di  guardar  passi,  dove 
non  possa  tenere  tutto  l’esercito  suo: 
non  debbe  guardare  terre,  se  non  quelle 
che  perdendole  di  necessità  ne  seguis- 
se la  rovina  sua;  e quelle  che  guar- 
da, ordinarsi  in  modo,  e con  le  guar- 
die d’  esse  e con  l’esercito,  clic  trat- 
tandosi della  espugnazione  di  esse,  ei 
possa  adoperare  tutte  le  forze  sue; 
P altre  debbe  lasciare  indifese.  Perchè 
ogni  volta  che  si  perde  una  cosa  che  si 
abbandoni,  e P esercito  sia  ancora  in- 
sieme, e’  non  si  perde  la  riputazione  della 
guerra,  nè  la  speranza  di  vincerla:  ma 
quando  si  perde  una  cosa  che  tu  hai 
disegnata  difendere,  e ciascuno  crede  che 
tu  la  difenda,  allora  è il  danno  e la  per- 
dita ; ed  hai  quasi,  come  i Franciosi,  con 
una  cosa  di  piccolo  momento  perduta  la 
guerra.  Filippo  di  Macedonia  padre  di 
Perse,  uomo  militare  e di  gran  condi- 
zione ne’  tempi  suoi,  essendo  assaltato 
dai  Romani;  assai  de’  suoi  paesi,  i quali 
ei  giudicava  non  potere  guardare,  ab- 


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LIBRO  TERZO. 


747 


bandonò  e guastò  scoine  quello  che,  per 
essere  prudente,  giudicava  più  perni- 
cioso perdere  la  riputazione  col  non  po- 
tere difendere  quello  che  si  metteva  a 
difendere,  che  lasciandolo  in  preda  al 
nimico,  perderlo  come  cosa  negletta.  I 
Romani,  quando  dopo  la  rotta  di  Canne 
le  cose  loro  erano  afflitte,  negarono  a 
molti  loro  raccomandati  e sudditi  li  aiuti, 
commettendo  loro  che  si  difendessino  il 
meglio  potessino.  I quali  partiti  sono 
migliori  assai,  che  pigliare  difese,  e poi 
non  le  difendere:  perchè  in  questo  par- 
tito si  perde  amici  e forze;  in  quello, 
amici  solo.  Ma  tornando  alle  piccole  zuffe, 
dico  che  se  pure  un  capitano  è costretto 
per  la  novità  del  nimico  far  qualche  zuffa, 
debbe  farla  con  tanto  suo  vantaggio,  che 
non  vi  sia  alcun  pericolo  di  perderla  : 
o veramente  far  come  Mario  (il  che  è 
migliore  partito),  il  quale  andando  con- 
tro ai  Cimbri,  popoli  ferocissimi,  che 
venivano  e predare  Italia,  e venendo  con 
uno  spavento  grande  per  la  ferocità  e 


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DEI  DISCORSI 


moltitudine  loro,  e per  avere  di  già  vinto 
un  esercito  romano  ; giudicò  Mario  esser 
necessario,  innanzi  che  venisse  alla  zuffa, 
operare  alcuna  cosa  per  la  quale  l’ eser- 
cito suo  deponesse  quel  terrore  che  la 
paura  del  nimico  gli  aveva  dato;  e,  co- 
me prudentissimo  capitano,  più  che  una 
volta  collocò  l’esercito  suo  in  luogo  donde 
i Cimbri  con  1*  esercito  loro  dovessino 
passare.  E così,  dentro  alle  fortezze  del 
suo  campo,  volle  che  i suoi  soldati  gli 
vedessino,  ed  assuefacessino  gli  occhi 
alla  vista  di  quello  nimico  ; acciochè,  ve- 
dendo una  moltitudine  inordinata,  piena 
di  impedimenti,  con  arme  inutili,  e parte 
disarmati,  si  rassicurussino,  e diventas- 
sino  disiderosi  della  zuffa.  11  quale  par- 
tito come  fu  da  Mario  saviamente  preso, 
così  dagli  altri  debbe  essere  diligente- 
mente imitato,  per  non  incorrere  in 
quelli  pericoli  che  io  di  sopra  dico,  e 
non  avere  a fare  come  i Franciosi,  qui 
ob  rem  parvi  ponderis  trepidi iti  Ti- 
burietn  agrum  et  in  Campaniam  trans- 


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LIBRO  TERZO. 


749 

ierunt.  E perchè  noi  abbiamo  allegato 
in  questo  discorso  Valerio  Corvino,  vo- 
glio, mediatiti  le  parole  sue,  nel  seguente 
capitolo,  come  debbe  esser  fatto  un  ca- 
pitano, dimostrare. 

Cap.  XXXVIII.  — Come  debbe  esser  fatto 
un  capitano  nel  quale  V esercito  suo 
possa  confidare. 

Era,  come  di  sopra  dicemmo,  Valerio 
Corvino  con  1’  esercito  contea  ai  Sanniti,  * 
nuovi  nimici  del  Popolo  romano:  donde 
che,  per  assicurare  i suoi  soldati,  e per 
fargli  conoscere  i nimici,  fece  fare  ai 
suoi  certe  leggieri  zuffe  j nè  gli  bastando 
questo,  volle  avanti  alla  giornata  parlar 
loro,  e mostrò  con  ogni  efficacia  quanto 
e'  dovevano  stimare  poco  tali  nimici,  al- 
legando la  virtù  de’ suoi  soldati  e la  pro- 
pria. Dove  si  può  notare,  per  le  parole 
che  Livio  gli  fa  dire,  come  debbe  essere 
fatto  un  capitano  in  chi  I’  esercito  abbia 
a confidare  j le  quali  parole  sono  queste: 


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750 


DEI  DISCORSI 


Tutti  ctiam  intuerì  cujtis  ductu  auspi- 
cioque  ineunda  pugna  sii:  ulritm  qui 
audtcndus  dumlaxat  magnifìcus  adhor- 
tator  sit,  ver  bis  tantum  ferox , operimi 
mililarium  expers  ; an  qui,  et  ipsc  tela 
frodare,  procedere  ante  signa,  versavi 
media  in  mole  pugna  sciai.  Facla  mea, 
non  dieta  vos  militcs  sequi  volo  ; nec 
disciplinavi  modo,  sed  cxcmplum  ctiam 
a me  potere , qui  hac  dextra  tnihi  tres 
consulalus,  summamque  laudem  pepcri. 
Le  quali  parole  considerate  bene,  inse- 
gnano a qualunque,  come  ei  debbe  pro- 
cedere a voler  tenere  il  grado  del  capi- 
tano : e quello  che  sarà  fatto  altrimenti, 
troverà,  con  il  tempo,  quel  grado,  quando 
per  fortuna  o per  ambizione  vi  sia  con- 
dotto, torgli  e non  dargli  riputazione; 
perchè  non  i titoli  illustrano  gli  uomini, 
ma  gli  uomini  i titoli.  Debbesi  ancora 
dal  principio  di  questo  discorso  consi- 
derare, che  se  i capitani  grandi  hanno 
usato  termini  istraordinari  a fermare 
gli  animi  d’uno  esercito  veterano  quando 


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LIBRO  TERZO.  751 

coi  nimici  inconsueti  debbe  affrontarsi  ; 
quanto  maggiormente  si  abbia  ad  usare 
l’ industria  quando  si  comandi  uno  eser-> 
cito  nuovo,  che  non  abbia  mai  veduto 
il  nimico  in  viso.  Perchè,  se  lo  inusitato 
nimico  allo  esercito  vecchio  dà  terrore, 
tanto  maggiormente  lo  debbe  dare  ogni 
nimico  ad  uno  esercito  nuovo.  Pure,  s’ò 
veduto  molte  volte  dai  buoni  capitani 
tutte  queste  diflìcultù  con  somma  pru- 
denza esser  vinte:  come  fece  quel  Gracco 
romano,  ed  Epaminonda  tebano,  de’quali 
altra  volta  abbiamo  parlato,  che  con 
eserciti  nuovi  vinsono  eserciti  veterani 
ed  esercitatissimi.  I modi  che  tenevano, 
erano:  parecchi  mesi  esercitargli  in  bat- 
taglie fìnte;  assuefargli  alla  ubbidienza 
ed  all’ ordine:  e da  quelli  dipoi,  con 
massima  confidenza,  nella  vera  zuffa  gli 
adoperavano.  Non  si  debbe,  adunque, 
diffidare  alcuno  uomo  militare  di  non 
poter  fare  buoni  eserciti,  quando  non 
gli  manchi  uomini  ; perchè  quel  prin- 
cipe che  abbonda  d’  uomini  e manca  di 


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752 


DEI  DISCORSI 


soldati,  debbe  solamente,  non  della  viltà 
degli  uomini,  ma  della  sua  pigrizia  e 
e poca  prudenza  dolersi. 

C*p.  XXXIX.  — Che  un  capitano 
debbe  esser  conoscitore  dei  eiti. 

Intra  1’  altre  cose  che  sono  necessarie 
ad  un  capitano  d’ eserciti,  è la  cogni- 
zione dei  sili  e de’ paesi;  perchè  senza 
questa  cognizione  generale  e particola- 
re, un  capitano  d’  eserciti  non  può  be- 
ne operare  alcuna  cosa.  E perchè  tutte 
le  scienze-  vogliono  pratica  a voler  per- 
fettamente possederle,  questa  è una  che 
ricerca  pratica  grandissima.  Questa  pra- 
tica, ovvero  questa  particolare  cognizio- 
ne, s’ acquista  più  mediatiti  le  cacce, 
che  per  verun  altro  esercizio.  Però  gli 
antichi  scrittori  dicono,  che  quelli  ^roi 
che  governarono  nel  loro  tempo  il  mon- 
do, si  nutrirono  nelle  selve  e nelle  cac- 
ce; perchè  la  caccia,  oltre  a questa  co- 
gnizione, ti  insegna  infìttile  cose  che 


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LIBRO  TERZO. 


753 


sono  nella  guerra  necessarie.  E Seno- 
fonte,  nella  vita  di  Ciro,  mostra  che 
andando  Ciro  od  assaltare  il  re  d’  Arme- 
nia, nel  divisare  quella  fazione,  ricordò 
a quelli  suoi,  che  questa  non  era  altro 
che  una  di  quelle  cacce  le  quali  molle 
volte  avevano  fatte  seco.  E ricordava  a 
quelli  che  mandava  in  aguato  su  i monti, 
che  gli  erano  simili  a quelli  eh’ anda- 
vano a tendere  le  reti  in  su  i gioghi;  ed 
a quelli  che  scorrevano  per  il  piano,  che 
erano  simili  a quelti  che  andavano  a 
levare  del  suo  covile  la  fera,  acciocché, 
cacciata,  desse  nelle  reti.  Questo  si  dice 
per  mostrare  come  le  cacce,  secondo  che 
Senofonte  appruova,  sono  una  immagine 
d’  una  guerra:  e per  questo  agli  uomini 
grandi  tale  esercizio  è onorevole  e ne- 
cessario. Non  si  può  ancora  imparare 
questa  cognizione  de’  paesi  in  altro  co- 
modo modo  che  per  via  di  caccia;  per- 
chè la  caccia  fa  a colui  che  1’  usa  sa- 
pere come  sta  particolarmente  quel  paese 
dove  ei  1*  esercita.  E fatto  che  uno  s’  è 
Machiavelli,  Discorsi.  — t . 48 


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DEI  DISCORSI 


754 

familiare  bene  una  regione,  con  facilità 
comprende  poi  tulli  i paesi  nuovi  j per- 
chè ogni  paese  ed  ogni  membro  di  quelli 
hanno  insieme  qualche  conformità,  in 
modo  clic  dalla  cognizione  d’  uno  facil- 
mente si  passa  alla  cognizione  dell’  al- 
tro. Ma  chi  non  ne  ha  ancora  bene  pra- 
tico uno,  con  difficoltà,  anzi  non  mai  se 
non  con  un  lungo  tempo,  può  conoscer 
1’  altro.  E chi  ha  questa  pratica,  in  un 
voltar  d’ occhio  sa  come  giace  quel  pia- 
no, come  surge  quel  monte,  dove  arriva 
quella  valle,  e tutte  l*  altre  simili  cose, 
di  che  ei  ha  per  lo  addietro  fatto  una 
ferma  scienza.  E che  questo  sia  vero,  ce 
lo  mostra  Tito  Livio  con  lo  essempio 
di  Publio  Decio;  il  quale  essendo  Tri- 
buno de’  soldati  nello  esercito  che  Cor- 
nelio consolo  conduceva  contro  ai  San- 
niti, ed  essendosi  il  Consolo  ridotto  in 
una  valle,  dove  l’ esercito  dei  Romani 
poteva  dai  Sanniti  esser  rinchiuso,  e 
vedendosi  in  tanto  pericolo,  disse  al  Con- 
solo : Vtdes  tuj  Aule  Corneli,  cacume» 


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LIBRO  TERZO.  ‘V3 

iilud  supra  hostcm ? arx  ilici  est  spei 
salutisquc  nostra,  si  eam  fquoniam  caa 
rcliquerc  SamnitesJ  impigre  capimus.  Ed 
innanzi  a queste  parole  dette  da  Decio, 
Tito  Livio  dice:  Publtus  Dcctus,  tribù - 
nus  militimi , unum  editum  in  saltu  col - 
lenij  immincnteni  hostium  castns , adilu 
arduum  impedito  agmini,  expeditis  haud 
difficilcm.  Donde,  essendo  stato  mandato 
sopra  esso  dal  Consolo  con  tremila  soldati, 
ed  avendo  salvo  l’esercito  romano  j e dise- 
gnando, venendo  la  notte,  di  partirsi  e sal- 
vare ancora  sè  ed  i suoi  soldati,  gii  fa  dire 
queste  parole:  Ite  niecum,  ut  dum  lucis 
aliquid  superest,  quibus  locts  hostes 
prcesidia ponant,  qua  palcat  hinc  exitus, 
exploremus.  Hcec  ornnta  sagulo  militari 
amiclus,  ne  ducem  circuire  hostes  no- 
larentj  perlustrarli.  Chi  considererà, 
adunque,  tutto  questo  testo,  vedrà  quanto 
sia  utile  e necessario  ad  un  capitano 
sapere  la  natura  de’ paesi:  perché  se 
Decio  non  gli  avesse  saputi  e conosciuti, 
non  arebbe  potuto  giudicare  qual  utile 


756 


DEI  DISCORSI 


faceva  pigliare  quel  colle  allo  esercito 
romano;  uè  arebbe  potuto  conoscere  di 
discosto,  se  quel  colle  era  accessibile  o 
no  ; e condotto  che  si  fu  poi  sopra  esso, 
volendosene  partire  per  ritornare  al  Con- 
solo, avendo  i nimici  intorno,  non  arebbe 
dal  discosto  potuto  speculare  le  vie  dello 
andarsene,  e li  luoghi  guardati  dai  ni- 
mici. Tanto  che,  di  necessità  conveniva, 
che  Decio  avesse  tale  cognizione  per- 
fetta: la  qual  fece  che  con  il  pigliare 
quel  colle,  ei  salvò  l’esercito  romano; 
dipoi  seppe,  scndo  assedialo,  trovare  la 
via  a salvare  sè  e quelli  che  erano  stati 
seco. 

Cap.  XL.  — Come,  usare  la  fraude 
nel  maneggiare  la  guerra  è cosa  gloriosa. 

Ancoraché  usare  la  fraude  in  ogni 
azione  sia  detestabile,  nondimanco  nel 
maneggiar  la  guerra  è cosa  laudabile  e 
gloriosa;  e parimente  è laudato  colui 
che  con  fraude  supera  il  nimico,  come 


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LIBRO  TERZO. 


757 


quello  che  M supera  con  le  forze.  E ve- 
desi  questo  pei*  il  giudizio  che  ne  fanno 
coloro  che  scrivono  le  vite  degli  uomini 
grandi,  i quali  lodano  Annibaie  e gli 
* altri  che  sono  stati  notabilissimi  in  si- 
mili modi  di  procedere.  Di  che  per  leg- 
gersi assai  essempi,  non  ne  replicherò 
alcuno.  Dirò  solo  questo,  che  io  non 
intendo  quella  fraudo  essere  gloriosa, 
che  ti  fa  rompere  la  fede  data  ed  i patti 
fatti;  perchè  questa,  ancora  che  la  ti 
acquisti  qualche  volta  stalo  e regno,  co- 
me di  sopra  si  discorse,  la  non  ti  acqui- 
sterà mai  gloria.  Ma  parlo  di  quella  fraudo 
che  si  usa  con  quel  nimico  che  non  si 
fida  di  te,  e che  consiste  proprio  nel 
maneggiare  la  guerra  : come  fu  quella 
d’Annibale,  quando  in  sul  lago  di  Peru- 
gia simulò  la  fuga  per  rinchiudere  il 
Consolo  e lo  esercito  romano;  e quando, 
per  uscire  di  mano  di  Pabio  Massimo, 
accese  le  corna  dello  armento  suo.  Alle 
quali  fraudi  fu  simile  questa  che  usò 
Ponzio  capitano  dei  Sanniti,  per  rin- 


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758  DEI  DISCORSI 

chiudere  1’  esercito  romano  dentro  alle 
forche  Caudine-.  i(  quale  avendo  messo 
lo  esercito  suo  a' ridosso  dei  monti,  mandò 
più  suoi  soldati  sotto  vesti  di  pastori  con 
assai  armento  per  il  piano;  i quali  sen-- 
do  presi  dai  Romani,  e domandati  dove 
era  l’esercito  dei  Sanniti,  convennero 
tutti,  secondo  1’  ordine  dato  da  Ponzio, 
a dire  come  egli  era  allo  assedio  di  No- 
terà. La  qual  cosa  creduta  dai  Consoli, 
fece  eh’  ei  si  rinchiusero  dentro  ai  balzi 
caudini;  dove  entrati,  furono  subito  as- 
sediati dai  Sanniti.  E sarebbe  stata  que- 
sta vittoria,  avuta  per  fraude,  glorio- 
sissima a Ponzio,  se  egli  avesse  seguitati 
i consigli  del  padre  ; il  quale  voleva  che 
i Romani  o si  salvassino  liberamente,  o 
si  ammazzassino  tutti,  e che  non  si  pi- 
gliasse la  via  del  mezzo,  qu ce  neque  ami- 
co* parai , ncque  inimicos  tollil.  La  qual 
via  fu  sempre  perniziosa  nelle  cose  di 
Stato;  come  di  sopra  in  altro  luogo  si 
discorse. 


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LIBRO  TERZO. 


759 


C*p.  XLi.  — Che  la  patria  si  debbo  di- 
fendere o con  ignominia  o con  glo- 
ria; ed  in  qualunque  modo  è ben  di- 
fesa. 

Era,  come  di  sopra  s’è  dello,  il  Con- 
solo e l’esercito  romano  assedialo  dai 
Sanniti:  i quali  avendo  proposto  ai  Ro- 
mani condizioni  ignominiosissime;  come 
era,  volergli  mettere  sotto  il  giogo,  e 
disarmati  mandargli  a Roma:  e per  que- 
sto stando  i Consoli  come  attoniti,  e tutto 
l’esercito  disperato;  Lucio  Lentolo  le- 
gato romano  disse,  che  non  gli  pareva 
che  fusse  da  fuggire  qualunque  partito 
per  salvare  la  patria:  perchè,  consisten- 
do la  vita  di  Roma  nella  vita  di  quello 
esercito,  gli  pareva  da  salvarlo  in  ogni 
modo;  e che  la  patria  è ben  difesa  in 
qualunque  modo  la  si  difende,  o con 
ignominia,  o con  gloria  : perchè  salvandosi 
quello  esercito,  Roma  era  a tempo  a cancel- 
lare l’ignominia:  non  si  salvando,  ancora 


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760 


DEI  DISCORSI 


che  gloriosamente  morisse,  era  perduta 
Koma  e la  libertà  sua.  E così  fu  segui- 
tato il  suo  consiglio.  La  qual  cosa  me- 
rita d’  esser  notata  ed  osservata  da  qua- 
lunque cittadino  si  truova  a consigliare 
la  patria  sua:  perchè  dove  si  dilibera 
al  tutto  della  salute  della  patria,  non 
vi  debbe  cadere  alcuna  considerazione 
nè  di  giusto  nè  di  ingiusto,  nè  di  pie- 
toso, nè  di  crudele,  nè  di  laudabile,  nè 
di  ignominioso;  anzi,  posposto  ogni  al- 
tro rispetto,  seguire  al  tutto  quel  par- 
tito che  li  salvi  la  vita,  e mantenghile  la 
libertà.  La  qualcosa  è imitata  con  i detti  e 
con  i fatti  dai  Franciosi,  per  difendere  la 
maestà  del  loro  re  e la  potenza  del  loro 
regno;  perchè  nessuna  voce  odono  più 
impazientemente  che  quella  che  dicesse: 
il  tal  partito  è ignominioso  per  il  re; 
perchè  dicono  che  il  loro  re  non  può 
patire  vergogna  in  qualunque  sua  dili- 
berazione, o in  buona  o in  avversa  for- 
tuna: perchè  se  perde  o se  vince,  tutto 
dicono  esser  cosa  da  re. 


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LIBRO  TERZO. 


761 


Cap.  XLII.  — Che  le  promesse  fatte 
per  forza  non  si  debbono  osservare. 

♦ » 

Tornati  i Consoli  con  1’  esercito  di- 
sarmato e con  la  ricevuta  ignominia  a 
Roma,  il  primo  che  in  Senato  disse 
che  la  pace  fatta  a Cuudo  non  si  do- 
veva osservare,  fu  il  consolo  Spurio  Po- 
stumio;  dicendo,  come  il  Popolo  romano 
non  era  obbligato,  ma  eh’  egli  era  bene 
obbligato  esso,  e gli  altri  che  avevano 
promesso  la  pace  : e però  il  Popolo  vo- 
lendosi liberare  da  ogni  obbligo,  aveva 
a dar  prigione  nelle  mani  dei  Sanniti 
lui  e tutti  gli  altri  che  V avevano  pro- 
messa. E con  tanta  ostinazione  tenne  que- 
sta conclusione,  che  il  Senato  ne  fu  con- 
tento; e mandando  prigioni  lui  e gli 
altri  in  Sannio,  protestarono  ai  Sanniti, 
la  pace  non  valere.  E tanto  fu  in  que- 
sto caso  a Postumio  favorevole  la  for- 
tuna, che  i Sanniti  non  lo  ritennero;  e 
ritornato  in  Roma,  fu  Postumio  appresso 


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762 


DEI  DISCORSI 


.ai  Romani  più  glorioso  per  avere  per- 
duto, che  non  fu  l’onzio  appresso  ai  San- 
niti per  aver  vinto.  Dove  sono  da  no- 
tare due  cose  ; 1*  una,  che  in  qualunque 
azione  si  può  acquistar  gloria,  perchè 
nella  vittoria  s’  acquista  ordinariamente; 
nella  perdita  s’  acquista  o col  mostrare 
tal  perdita,  non  esser  venuta  per  tua 
colpa,  o per  far  subito  qualche  azione 
virtuosa  che  la  cancelli  : 1’  altra  è,  che 
non  è vergognoso  non  osservare  quelle 
promesse  che  ti  sono  state  fatte  pro- 
mettere per  forza  ; e sempre  le  promesse 
forzate  che  riguardano  il  pubblico,  quan- 
do e’  manchi  la  forza,  si  romperanno, 
e fia  senza  vergogna  di  chi  le  rompe. 
Di  che  si  leggono  in  tutte  l’ istorie  vari 
essempi,  e ciascuno  dì  ne’  presenti  tempi 
se  ne  veggono.  E non  solamente  non  si 
osservano  intra  i principi  le  promesse 
forzate,  quando  e*  manca  la  forza  ; ma 
non  si  osservano  ancora  tutte  \*  altre 
promesse,  quando  e’  mancano  le  cagioni 
che  le  fanno  promettere.  Il  che  se  è cosa 


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LIBRO  TERZO. 


763 

laudabile  o no,  o se  da  un  principe  si 
debbono  osservare  simili  modi  o no, 
largamente  è disputato  da  noi  nel  no- 
stro trattato  del  Principe;  però  al  pre- 
sente lo  taceremo. 

Cap.  XLIII.  — Che  gli  uomini  che  nasco- 
no in  una  provincia , osservano  per 
lutti  i tempi  quasi  quella  medesima 
natura. 

Sogliono  dire  gli  uomini  prudenti,  e 
non  a caso  nè  immeritamente,  che  cbi 
vuol  veder  quello  che  ha  ad  essere,  con- 
sideri quello  che  è stato;  perchè  tutte  le 
cose  del  mondo,  in  ogni  tempo,  hanno 
il  proprio  riscontro  con  gli  antichi  tem- 
pi. Il  che  nasce  perchè  essendo  quelle 
operate  dagli  uomini  che  hanno  ed  eb- 
bero sempre  le  medesime  passioni,  con- 
viene di  necessità  che  le  sortischino  il 
medesimo  effetto.  Vero  è,  che  le  sono 
P opere  loro  ora  in  questa  provincia  più 
virtuose  che  in  quella,  ed  in  quella  più 


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DEI  DISCORSI 


764 

che  in  questa,  secondo  la  forma  delia 
educazione  nella  quale  quelli  popoli  hanno 
preso  il  modo  del  viver  loro.  Fa  ancora 
facilità  il  conoscere  le  cose  future  per 
le  passate;  vedere  una  nazione  lungo 
tempo  tenere  i medesimi  costumi,  essendo 
o continovamente  avara, o continovamen- 
te  fraudolenta,  o avere  alcun  altro  si* 
mile  vizio  o virtù.  E chi  leggerà  le  cose 
passale  della  nostra  città  di  Firenze,  e 
considererà  ancora  quelle  che  sono  ne* 
prossimi  tempi  occorse,  troverà  i popoli 
tedeschi  e franciosi  pieni  d’ avarizia,  di 
superbia,  di  ferocia  e di  infcdelità;  per- 
chè tutte  queste  quattro  cose  in  diversi 
tempi  hanno  offeso  molto  la  nostra  città. 
E quanto  alla  poca  fede,  ognuno  sa  quante 
volte  si  dette  danari  al  re  Carlo  Vili,  ed 
egli  prometteva  rendere  le  fortezze  di 
Pisa,  c non  mai  le  rendè.  In  che  quel 
re  mostrò  la  poca  fede,  e la  assai  ava- 
rizia sua.  Ma  lasciamo  andare  queste 
cose  fresche.  Ciascuno  può  avere  inteso 
quello  che  segui  nella  guerra  che  fece 


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LIBRO  TERZO. 


765 


il  popolo  fiorentino  contea  ai  Visconti 
duchi  di  Milano;  che  essendo  Firenze 
privo  degli  altri  espedienti,  pensò  di 
condurre  T iroperadore  in  Italia,  il  quale 
con  la  riputazione  e forze  sue  assaltasse 
la  Lombardia.  Promise  l’ imperadore  ve- 
nire con  assai  gente,  e far  quella  guerra 
contra  ai  Visconti,  e difendere  Firenze 
dalla  potenza  loro,  quando  i Fiorentini 
gli  dessino  centomila  ducati  per  levarsi, 
e centomila  poi  che  fusse  in  Italia.  Ai 
quali  patti  consentirono  i Fiorentini;  e 
pagatogli  i primi  danari,  e dipoi  i secon- 
di, giunto  che  fu  a Verona,  se  ne  tornò 
indietro  senza  operare  alcuna  cosa,  cau- 
sando esser  restato  da  quelli  che  non 
avevano  osservato  le  convenzioni  erano 
fra  loro.  In  modo  che,  se  Firenze  non 
fusse  stata  o constretla  dalla  necessità 
o vinta  dalla  passione,  ed  avesse  letti  e 
conosciuti  gli  antichi  costumi  de’borbari, 
non  sarebbe  stata  nè  questa  nè  molte 
altre  volte  ingannata  da  loro;  essendo 
loro  stati  sempre  a un  modo,  ed  avendo 


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760 


DEI  DISCORSI 


in  ogni  parte  e con  ognuno  usati  i me- 
desimi termini.  Come  e' si  vede  eh’ e’ fe- 
cero anticamente  ai  Toscani  ; i quali 
essendo  oppressi  dui  Romani,  per  essere 
stati  da  loro  più  volte  messi  in  fuga  e 
rotti;  e veggendo  mediami  le  loì*  forze 
non  poter  resistere  aìr  impeto  di  quelli; 
convennero  con  i Franciosi  che  di  qua 
dall'  Alpi  abitavano  in  Italia,  di  dar  loro 
somma  di  danari,  e che  fussino  obbli- 
gati congiugnere  gli  eserciti  con  loro, 
ed  andare  contea  ai  Romani:  donde  ne 
seguì  che  i Franciosi,  presi  i danari, 
non  volleno  dipoi  pigliare  l’ arme  per 
loro,  dicendo  averli  avuti  non  per  far 
guerra  coi  loro  nimici,  ma  perchè  s’aste- 
nessino  di  predare  il  paese  toscano.  E 
così  i popoli  toscani,  per  l’ avarizia  e 
poca  fede  dei  Franciosi,  rimasono  ad  un 
tratto  privi  de'  loro  danari,  e degli  aiuti 
che  gli  speravano  da  quelli.  Talché  si 
vede  per  questo  essempio  dei  Toscani 
antichi,  e per  quello  de’  Fiorentini,  i 
Franciosi  avere  usati  i medesimi  termi- 


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L!BRO  TERZO. 


767 


ni;  e per  questo  facilmente  si  può  con- 
ielturare,  quanto  i principi  si  possono 
fidare  di  loro. 

Cap.  XLIV.  — E'  si  ottiene  con  V impeto 
c con  lJ  audacia  molte  volte  quello  che 
con  modi  ordinari  non  si  otterrebbe 
mai. 

Essendo  i Sanniti  assaltati  dallo  eser- 
cito di  Roma,  e non  polendo  con  l’eser- 
cito loro  stare  alla  campagna  a petto 
ai  Romani,  diliberarono,  lasciate  guar- 
date le  terre  in  Sannio,  di  passare  con 
tutto  V esercito  loro  in  Toscana,  la  quale 
era  in  triegua  coi  Romani;  e vedere  per 
tal  passata,  se  ei  potevano  con  la  pre- 
senza dello  esercito  loro  indurre  i To- 
scani a ripigliar  1’  arme  ; il  che  avevano 
fregato  ai  loro  ambasciadori.  E nel  par- 
lare che  feeiono  i Sanniti  ai  Toscani, 
nel  mostrar,  massime,  qual  cagione  gli 
aveva  indotti  a pigliar  1*  arme,  usarono 
un  termine  notabile,  dove  dissono  : Re- 


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768 


DEI  DISCORSI 


bollasse j quod  pax  sci'vicnlibus  gravior t 
quam  liboris  bcllum  esset.  E cosi,  parie 
con  le  persuasioni,  parte  con  la  pre- 
senza dello  esercito  loro,  gli  indussono 
a pigliar  1*  arme.  Dove  è da  notare,  che 
quando  un  principe  disidera  d’ ottenere 
una  cosa  da  un  altro,  debbe,  se  l’ oc- 
casione lo  patisce,  non  gli  dare  spazio 
a diliberarsi,  e fare  in  modo  ch’ei  vegga 
la  necessità  della  presta  diliberazione: 
la  quale  è quando  colui  che  è doman- 
dato vede  che  dal  negare  o dal  differire 
ne  nasca  una  subita  e pericolosa  inde- 
gnazione.  Questo  termine  s’  è veduto 
bene  usare  nei  nostri  tempi  da  papa 
lulio  con  i Franciosi,  e da  monsignor 
di  Fois  capitano  del  re  di  Francia  col 
marchese  di  Mantova  : perchè  papa  lulio 
volendo  cacciare  i Bentivogli  di  Bologna, 
e giudicando  per  questo  aver  bisogno 
delle  forze  franciose,  e che  i Yiniziani 
stessino  neutrali  j ed  uvendone  ricerco 
F uno  e I’  altro,  e traendo  da  loro  ri- 
sposta dubbia  e varia  j diliberò  col  non 


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LIBRO  TERZO. 


769 


dare  lor  tempo  far  venire  I’  uno  e l’al- 
tro nella  sentenza  sua  : e,  partitosi  da 
Roma  con  quelle  tante  genti  cli’ei  potò 
raccozzare,  n’  andò  verso  Bologna,  ed 
a’Viniziani  inandò  a dire  che  stessino 
neutrali,  ed  ai  re  di  Francia  che  gli 
mandasse  le  forze.  Talché,  rimanendo 
tutti  ristretti  dal  poco  spazio  di  tempo, 
e veggeudo  come  nel  papa  doveva  na- 
scere una  manifesta  indegnazione  difle- 
rendo  o negando,  cederono  alle  voglie 
sue;  ed  il  re  gli  mandò  aiuto,  ed  i Vi* 
uiziani  si  steltono  neutrali.  Monsignor 
di  Fois,  ancora,  essendo  con  l’esercito 
ili  Bologna,  ed  avendo  intesa  la  ribel- 
lione di  Brescia,  e volendo  ire  alla  ri- 
cuperazione di  quella,  aveva  due  vie  ; 
F una  per  il  dominio  del  re,  lunga  e 
tediosa;  l’altra  brievc  per  il  dominio 
di  Mantova:  e non  solamente  era  neces- 
sitato passare  per  il  dominio  di  quel 
marchese,  ina  gli  conveniva  entrare  per 
certe  chiuse  intra  paludi  e laghi,  di  che 
è piena  quella  regione,  le  quali  con  for- 
II  acuì  avelli,  Discorsi.  — 1.  49 


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770 


DF.I  DISCORSI 


lezzo  cd  altri  modi  erano  serrate  c guar- 
dale da  lui.  Onde  che  Pois,  diliberalo 
d*  andare  }>er  la  più  corta,  e per  vin- 
cere ogni  di  (Tic  ulta  nè  dar  tempo  al  mar- 
chese a diliberarsi,  ad  un  tratto  mosse 
le  sue  genti  per  quella  via,  cd  al  mar- 
chese significò  gli  mandasse  le  chiavi  di 
quel  passo.  Talché  il  marchese,  occu- 
pato da  questa  subita  diliberazione,  gli 
mandò  le  chiavi:  le  quali  mai  gli  arebbe 
mandate  se  Pois  più  lepidamente  si  fussc 
governato,  essendo  quel  marchese  in  lega 
eoi  papa  e coi  Viniziani,  ed  avendo  uu 
suo  figliuolo  nelle  mani  del  papa;  le 
quali  cose  gli  davano  molte  oneste  scuse 
a negarle.  Ma  assaltato  dal  subito  par- 
tito, per  le  cagioni  che  di  sopra  si  di- 
cono, le  concesse.  Cosi  feciono  i Toscani 
eoi  Sanniti,  avendo  per  la  presenza  del- 
T esercito  di  Sannio  preso  quelle  arme 
che  gli  avevano  negato  per  altri  tempi 
pigliare. 


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LIBRO  TERZO. 


77 1 


Cap.  XLV.  — Qual  sia  miglior  partito 
nelle  giornale , o sostenere  lf  impeto 
de*  nimicij  c sostenuto  urtargli  ; ov- 
vero dapprima  con  furia  assaltargli. 

Erano  Decio  e Fabio,  consoli  romani, 
con  due  eserciti  all’  incontro  degli  eser- 
citi dei  Sanniti  e dei  Toscani;  e venendo 
alla  zuffa  ed  alla  giornata  insieme,  è da 
notare  in  tal  fazione,  quale  di  due  di- 
versi modi  di  procedere  tenuti  dai  due 
Consoli  sia  migliore.  Perchè  Decio  con 
ogni  impeto  e cor»  ogni  suo  sforzo  as- 
saltò il  nimico;  Fabio  solamente  lo  so- 
stenne, giudicando  V assalto  lento  es- 
sere più  utile,  riserbando  l' impeto  suo 
nell’  ultimo,  quando  il  nimico  avesse 
perduto  il  primo  ardore  del  combat- 
tere, e come  noi  diciamo,  la  sua  foga. 
Dove  si  vede,  per  il  successo  della  eosa, 
che  a Fabio  riuscì  molto  meglio  il  di- 
segno che  a Decio  : il  quale  si  straccò 
nei  primi  impeti  ; in  modo  che,  veden- 


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772 


DEI  DISCORSI 


do  la  banda  sua  piuttosto  in  volta  die 
altrimenti,  per  acquistare  con  la  morte 
quella  gloria  alla  quale  con  la  vittoria 
non  aveva  potuto  aggiungere,  ad  imita- 
zione del  padre  sacrificò  sè  stesso  per 
le  romane  legioni.  La  qual  cosa  intesa 
da  Fabio,  per  non  acquistare  manco  ono- 
re vivendo,  che  s’avesse  il  suo  collega 
acquistato  morendo,  spinse  innanzi  tutte 
quelle  forze  che  s’  aveva  a tale  necessità 
riservate  ; donde  ne  riportò  una  felicis- 
sima vittoria.  Di  qui  si  vede  che  ’l  modo 
del  procedere  di  Fubio  è più  sicuro  e 
più  imitabile. 

Cap.  XLVI.  — Donde  nasce  che  una  fa- 
mìglia iìi  una  città  tiene  un  tempo  i 
medesimi  costumi. 

E’  pare  clic  non  solamente  1’  una  città 
dall*  altra  abbi  certi  modi  ed  instituti 
diversi,  e procrei  uomini  o più  duri  o 
più  effeminati;  ma  nella  medesima  città 
si  vede  tal  differenza  esser  nelle  fumi- 


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LIBRO  TERZO. 


773 


glie  I’  una  dall’  altra.  H che  si  riscontra 
essere  vero  in  ogni  città,  e nella  città 
ili  Roma  se  ne  leggono  assai  essempi  : 
perché  e’  si  vede  i Manlii  essere  stati 
duri  ed  ostinati,  i Pubi icoli  uomini  be- 
nigni ed  amatori  del  popolo,  gli  Appii 
ambiziosi  e ni  mici  della  Plebe:  e cosi 
molte  altre  famiglie  avere  avute  ciascuna 
le  qualità  sue  spartite  dall’  altre.  La  qual 
cosa  non  può  nascere  solamente  dal  san- 
gue, perchè  e’ conviene  eh’ ei  varii  me- 
diante la  diversità  dei  matrimoni;  ma 
è necessario  venga  dalla  diversa  educa- 
zione che  ha  una  famiglia  dall’  altra. 
Perchè  gl’  importa  assai  che  un  giova- 
netto dai  teneri  anni  cominci  a sentir 
dire  bene  o male  di  una  cosa;  perchè 
conviene  che  di  necessità  ne  faccia  im- 
pressione, e da  quella  poi  regoli  il  modo 
del  procedere  in  tutti  i tempi  della  vita 
sua.  E se  questo  non  fosse,  sarebbe  im- 
possibile che  tutti  gli  Appii  avessino 
avuta  la  medesima  voglia,  c Rissino  stati 
agitati  dalle  medesime  passioni,  come 


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774 


DF.I  DISCORSI* 


nota  Tilo  Livio  in  molti  di  loro:  e per 
ultimo,  essendo  uno  di  loro  fatto  Cen- 
sore, ed  avendo  il  suo  collega  alla  fine 
de*  diciotto  mesi,  come  ne  disponeva  la 
legge,  deposto  il  magistrato,  Àppio  non 
lo  volle  deporre,  dicendo  che  lo  poteva 
tenere  cinque  anni  secondo  la  prima 
legge  ordinata  dai  Censori.  E benché 
sopra  questo  se  ne  facessero  assai  con- 
cioni, e se  ne  generassino  assai  tumulti, 
non  pertanto  ci'  fu  mai  rimedio  che  vo- 
lesse deporlo,  conira  alla  volontà  del 
Popolo  e della  maggior  parte  del  Senato. 
E chi  leggerà  P orazione  che  gli  fece 
contro  Publio  Sempronio  tribuno  della 
plebe,  vi  noterà  tutte  l’ insolenze  oppiane, 
e tulle  le  bontà  ed  umanità  usale  da  in- 
finiti cittadini  per  ubbidire  alle  leggi  ed 
agli  auspicii  della  loro  patria. 


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LIBRO  TERZO.  775 

Cap.  XLVII.  < — Che  un  buon  cittadino 
per  amore  della  patria  debbo  dimen- 
ticare l*  ingiurie  private. 

Era  Manlio  consolo  con  l’esercito  con- 
ira ai  Sanniti*  ed  essendo  stato  in  una 
zuffa  ferito,  e per  questo  portando  le 
genti  sue  pericolo,  giudicò  il  Senato  es- 
ser necessario  mandarvi  Papirio  Cur- 
sore dittatore,  per  sopplire  ai  difetti  del 
Consolo.  Ed  essendo  necessario  che  ’l 
Dittatore  fusse  nominato  da  Fabio,  il 
quale  era  con  gli  eserciti  in  Toscana;  e 
dubitando,  per  essergli  nimico,  che  non 
volesse  nominarlo;  gli  mandarono  i Se- 
natori due  ambasciadori  a pregarlo,  che, 
posti  da  parte  gli  privati  odii,  dovesse 
per  benefìzio  pubblico  nominarlo.  Il  che 
Fabio  fece,  mosso  dalla  carità  della  pa- 
tria; ancora  che  col  tacere  e con  mol- 
ti altri  modi  facesse  segno  che  tale 
nominazione  gli  premesse.  Dal  quale 
debbono  pigliare  essempio  tutti  quelli, 


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776  DEI  DISCORSI 

che  cercano  d*  essere  tenuti  buoni  cit- 
tadini. 

Cap.  XLVJII.  — Quando  si  vede  fare 
uno  errore  grande  ad  un  nimico , 
si  debbe  credere  che  vi  sia  sono  in- 
ganno. 

Essendo  rintaso  Fulvio  Legato  nello 
esercito  che  i Romani  avevano  in  To- 
scana, per  esser  ito  il  Consolo  per  al- 
cune cerimonie  a Roma;  i Toscani,  per 
vedere  se  potevano  avere  quello  alla 
tratta,  posono  un  aguato  propinquo  ai 
campi  romani,  e mandarono  alcuni  sol- 
dati con  veste  di  pastori  con  assai  ar- 
mento, e gli  feciono  venire  alla  vista 
dello  esercito  romano:  i quali  così  tra- 
vestiti si  accostarono  allo  steccato  del 
campo;  onde  il  Legato  meravigliandosi 
di  questa  loro  presunzione,  non  gli  pa- 
tendo ragionevole,  tenne  modo  ch’egli 
scoperse  la  fraude;  e cosi  restò  il  di* 
>igno  de  Toscani  rotto.  Qui  si  può  co- 


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LIBRO  TERZO. 


777 


moramente  notare,  che  un  capitano  di 
eserciti  non  debbe  prestar  fede  ad  uno 
errore  che  evidentemente  si  vegga  fare 
al  nimico:  perchè  sempre  vi  sarà  sotto 
fronde,  non  sendo  ragionevole  che  gli 
uomini  siano  tanto  incauti.  Ma  spesso  il 
disiderio  del  vincere  acceca  gli  animi 
degli  uomini,  che  non  veggono  altro  che 
quello  pare  facci  per  loro.  I Franciosi 
avendo  vinti  i Romani  ad  Allia,  e ve- 
nendo a Roma,  e trovando  le  porte  aperte 
e senza  guardia,  stettero  tutto  quel  giorno 
e la  notte  senza  entrarvi,  temendo  di 
fraude,  e non  potendo  credere  clic  fusse 
tanta  viltà  c tanto  poco  consiglio  ne’ 
petti  romani,  che  gli  nbbandonassino  la 
patria.  Quando  nel  4508  s’andò  per  gli 
Fiorentini  a Risa  a campo,  Alfonso  del 
Mutolo,  cittadino  pisano,  si  trovava  pri- 
gione dei  Fiorentini,  e promise  che  s’egli 
era  libero,  darebbe  una  porta  di  Pisa 
all’esercito  fiorentino.  Fu  costui  libero. 
Dipoi,  per  praticare  la  cosa,  venne  molte 
volte  a parlare  coi  mandati  dc’commis- 


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778 


DEI  DISCORSI 


sari;  e veniva  non  di  nascosto,  ma  sco- 
perto, ed  accompagnato  da’ Pisani;  i 
quali  lasciava  da  parte,  quando  parlava 
eoi  Fiorentini.  Talmentechè  si  poteva 
conietturare  il  suo  animo  doppio  ; per- 
chè non  era  ragionevole,  se  la  pratica 
fussc  stata  fedele,  eh’  egli  1’  avesse  trat- 
tata sì  alla  scoperta.  .Ma  il  disiderio  che 
s*  aveva  d’  aver  Pisa,  accecò  in  modo  i 
Fiorentini,  che  condottisi  con  l’ ordine 
suo  alla  porta  a Lucca,  vi  lasciarono 
più  loro  capi  ed  .altre  genti  con  diso- 
nore loro,  per  il  tradimento  doppio  che 
fece  detto  Alfonso. 

Cap.  XLIX.  — Una  repubblica,  a volerla 
mantenere  libera,  ha  ciascuno  di  bi- 
sogno di  nuovi  provvedimenti  ; e per 
guali  meriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato 
Massimo. 

. E di  necessità,  come  altre  volte  s’  è 
«letto,  che  ciascuno  dì  in  una  città  grande 
'taschino'  accidenti  che  abbino  bisogno 


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LIBRO  TERZO. 


779 


elei  medico  ; e secondo  che  gli  importano 
più,  conviene  trovare  il  medico  più  savio. 
E se  in  alcune  città  nacquero  mai  si- 
mili accidenti,  nacquero  in  t\oma  e strani 
ed  insperati;  come  fu  quello  quando  e’ 
parve  cha  tutte  le  donne  romane  aves- 
sino congiurato  contra  ai  loro  mariti 
d’  ammazzargli  : tante  se  ne  trovò  clic 
gli  avevano  avvelenati,  e tante  eh’  ave- 
vano preparato  il  veleno  per  avvelenar- 
gli. Come  fu  ancora  quella  congiura  de’ 
Baccanali,  clic  si  scopri  nel  tempo  della 
guerra  macedonica,  dove  erano  già  in- 
viluppati molti  migliaia  d’  uomini  e di 
donne;  e se  la  non  si  scopriva,  sarebbe 
stata  pericolosa  per  quella  città  ; o sep- 
pure i Romani  non  fussino  stati  con- 
sueti a gasligare  le  muititudiui  degli  uo- 
mini erranti:  perchè,  quando  e’  non  si 
vedesse  per  altri  infiniti  segni  la  gran- 
dezza di  quella  Repubblica,  e la  potenza 
delle  esecuzioni  sue,  si  vede  per  la  qua- 
lità della  pena  che  la  imponeva  a chi 
errava.  Nè  dubitò  far  morire  per  via  di 


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DEI  DISCORSI 


780 

giustizia  una  legione  intera  per  volta, 
ed  una  città  tutta;  e di  confinare  otto 
o diecimila  uomini  con  condizioni  straor- 
dinarie, da  non  essere  osservate  da  un 
solo,  non  che  da  tanti:  come  intervenne 
a quelli  soldati  che  infelicemente  ave- 
vano combattuto  a Canne,  i quali  con- 
finò in  Sicilia,  c impose  loro  che  non 
alkergassino  in  terre,  e che  mangias- 
sino  ritti.  Ma  di  tutte  1’  altre  esecuzioni 
era  terribile  il  decimare  gli  eserciti,  dove 
a scorte  da  tutto  uno  esercito  era  morto 
d’ogni  dieci  uno.  Nè  si  poteva,  a gasli- 
gare  una  multit udine,  trovare  più  spa- 
ventevole punizione  di  questa.  Perchè 
quando  una  moltitudine  erra,  dove  non 
sia  1’  autore  certo,  tutti  non  si  possono 
gastigare,  per  esser  troppi;  punirne 
parte  e parte  lasciare  impuniti,  si  fa- 
rebbe torto  a quelli  che  si  punissino,  e 
gli  impuniti  arebbono  animo  di  errare 
un’  altra  volta.  Ma  ammazzare  la  decima 
parte  a sorte,  quando  lutti  la  meritano, 
0,1  ' è punito  si  duole  della  sorte;  ehi 


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LIBRO  TERZO. 


781 


non  è punito,  ha  paura  che  un’  altra 
volta  non  tocchi  a lui,  c guardasi  di  er- 
rare. Furono  punite,  adunque,  le  vene- 
fiche e le  baccanali  secondo  che  meri- 
tavano i peccali  loro.  K. benché  questi 
morbi  in  una  repubblica  faccino  cattivi 
effetti,  non  sono  a morte,  perchè  sempre 
quasi  s’  ha  tempo  a correggerli  : ma  non 
s’  ha  già  tempo  in  quelli  che  riguardano 
lo  Stato,  i quali  se  non  sono  da  un  pru- 
dente corretti,  rovinano  la  città.  Erano 
in  Roma,  per  la  liberalità  che  i Romani 
usavano  di  donare  la  civilità  a’ forestieri, 
nate  tante  genti  nuove,  che  le  comin- 
ciavano avere  tanta  parte  ne’ suffragi, 
che  ’l  governo  cominciava  a variare,  e 
partivasi  da  quelle  cose  e da  quelli  uo- 
mini dove  era  consueto  andare.  Di  che 
accorgendosi  Quinto  Fabio  che  era  Cen- 
sore, messe  tutte  queste  genti  nuove 
da  chi  dipendeva  questo  disordine  sot- 
to quattro  Tribù,  acciocché  non  po- 
tessino,  ridotte  in  si  piccioli  spazi, 
corrompere  tutta  Roma.  Fu  questa  cosa 


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7S2  DEI  DISCORSI  — LIBRO  TERZO. 

ben  conosciuta  da  Fabio,  e postovi  sen* 
za  alterazione  conveniente  rimedio;  il 
quale  fu  tanto  accetto  a quella  civi- 
lità,  che  meritò  d’esser  chiamato  Mas* 
sirno. 


F I .v  E. 


962472 


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INDICE. 


Niccolò  Machiavelli  a Zanobi  Buondel- 
monti  e Cosimo  Rucellai  salute.  Pag.  1 

Libro  Primo.  . 

I.  Quali  siano  stati  universalmente  i 

principii  di  qualunque  città,  e quale 
fosse  quello  di  Roma 9 

II.  Di  quanto  spezie  sono  le  repubbliche, 

e di  quale  fu  la  Repubblica  Romana.  1$ 

III.  Quali  accidenti  facessino  creare  in 
Roma  i Tribuni  della  plebe;  il  che 
fece  la  Repubblica  più  perfetta  ...  30 

IY.  Che  la  disunione  della  Plebe  e del 
Senato  romano'  fece  libera  e potente 
quella  Repubblica ; . . . 33 

Y.  Dove  più  securamente  si  ponga  la 
guardia  della  libertà,  o nel  Popolo  o 
ne’ Grandi;  e quali  hanno  maggiore 
cagione  di  tumultuare,  o chi  vuole 
acquistare  o chi  vuole  mantenere.  . . 37 

VI.  Se  in  Roma  si  poteva  ordinare  uno 
Stato  che  togliesse  via  le  inimicizie 
intra  il  Popolo  ed  il  Senato 43 


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SS  .$®P 


784  INDICE, 

VII.  Quanto  siano  necessarie  in  una  Re- 
pubblica le  accuse  per  mantenere  la 
libertà Pag.  53 

Vili.  Quanto  lo  accuse  sono  utili  alle 
repubbliche,  tanto  sono  perniziose  le 
calunnie.  hi 

IX.  Come  egli  è necessario  esser  solo 

a volere  ordinare  una  repubblica  di 
nuovo,  o al  tutto  fuori  delli  antichi 
suoi  ordini  riformarla 68 

X.  Quanto  sono  laudabili  i fondatori 

d’una  repubblica  o d’uno  regno,  tanto 
quelli  d’ una  tirannide  sono  vitupera- 
bili  74 

XI.  Della  religione  de’  Romani 8*2 

XII.  Di  quanta  importanza  sia  tenero 

conto  della  religione,  e come  la  Italia 
per  esserne  mancata  mediante  la  Chie- 
sa romana,  è rovinata 89 

XIII.  Come  i Romani  si  servirono  della 

religione  per  ordinare  la  città,  e per 
seguire  le  loro  imprese  e fermare  i 
tumulti . . 9.~> 

XIV.  I Romani  interpretavano  gli  au- 
spicii  secondo  la  necessità,  o con  la 
prudenza  mostravano  di  osservare  la 
religione,  quando  forzati  non  1‘  osser- 


vavano; e se  alcuno  temerariamente 
la  dispregiava,  lo  punivano 100 


dio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsono 
alla  religione ~104 


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INDICE. 


7s: 


XVI.  Un  popolo  USO  a vivere  sotto  un 
principe,  se  per  qualche  accidente  di- 
venta libero,  con  difficult-à  mantiene 

la  libertà.  . ^ag.  ^ 

XVII.  Uno  popolo  corrotto,  venuto  in  li- 

bertà, si  può  con  dit'ticnltà  grandis- 
sima mantenere  libero LLH 

XVIII.  In  che  modo  nelle  città  corrotte 
si  potesse  mantenere  uno  Stato  libero, 
essendovi;  o non  essendovi,  ordinar- 
velo 


XIX. Dopo  uno  eccellente  principe  si  può 
mantenere  un  principe  debole;  ma 
dopo  un  debole,  non  si  può  con  un 
altro  debole  mantenere  alcun  regno.  1*20 


XX.  Due  continove  successioni  di  prin- 

cipi virtuosi  fanno  grandi  effettive 
come  le  repubbliche  bene  ordinate 
hanno  di  necessità  virtuose  succes- 
sioni: e però  gli  acquisti  ed  augu- 
menti  loro  sono  grandi ~ • 

XXI.  Quanto  biasimo  meriti  quel  prin- 

cipe e quella  repubblica  che  manca 
d"armi  proprie 

XXII.  Quello  che  sia  da  notare  nel  caso 

dei  tre  Orazi  romani,  e dei  tre  Curiazi 
albani 


133 


1M 

131 


XXIII.  Che  non  si  debbe  mettere  a pe- 
ricolo tutta  la  fortuna  e non  tutte 
le  forze;  e per  questo,  spesso  il  guar- 
dare i passi  è dannoso 

XXIV.  Le  repubbliche  bene  ordinate 
Machiavelli,  Discorsi.  — 1.  SO 


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786 


INDICE. 


costituiscono  premii  e pene  a'  loro 
cittadini,  nè  compensano  mai  P uno 
con  r altro Pag.  143 

XXV.  Chi  mole  riformare  nno  Stato 
antico  in  una  città  libera,  ritenga  al- 
meno V ombra  desmodi  antichi  . . . . HI 

XXVI.  Un  principe  nnoro,  in  nna  città 
o provincia  presa  da  Ini,  debbo  faro 


ogni  cosa  nnova  ♦ . 14y 

XXVII.  Sanno  rarissime  volte  gli  nomi- 
ni essere  al  tutto  tristi  o al  tatto 
buoni.  Ini 

XXVIII.  Per  qual  cagione  i Romani  fu- 
rono meno  ingrati  agli  loro  cittadini 
che  gli  Ateniesi 153 

XXIX.  Quale  sia  più  ingrato,  o un  po- 
polo, o un  principe 15<* 

XXX.  Quali  modi  debbe  usare  un  prìn- 


cipe o nna  repubblica  per  fuggirò  que- 
sto vizio  della  ingratitudine;  e qnali 
quel  capitano  o quel  cittadino  per  non 
essere  oppresso  da  quella 163 

XXXI.  Che  i capitani  romani  per  errore 
commesso  non  furono  mai  istraordi- 
nariamente  puniti;  nè  furono  inai  an- 
cora puniti  quando,  per  la  ignoranza 
loro  o tristi  partiti  presi  da  loro»  ne 
fussino  seguiti  danni  alla  repubblica,  lfil 

XXXII.  Una  repubblica  o nno  principe 
non  dobbe  differire  a beneficare  gli 
uomini  nelle  sue  necessitati.  . . . . . ITI 

XXXIII.  Quando  uno  inconveniente  è 


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INDICE. 


787 


cresciuto  o in  uno  Stato  o contra  ad 
uno  Stato,  è più  salutifero  partito  tem- 
poreggiarlo che  urtarlo P&g» 

XXXIV.  L'autorità  dittatoria  fece  tene, 
e non  danno,  alla  repubblica  romana  : 
o come  lo  autorità  che  i cittadini  si  toP 
gono,  non  quelle  che  sono  loro  dai 
suffragi  liberi  date,  sono  alla-  vita  ci^ 
vile  perniciose 

XXXV.  La  cagione  perchè  in  Roma  la 
creazione  del  decemvirato  fu  nociva 
alla  libertà  di  quella  repubblica,  non 
ostante  che  fosse  creato  per  suffragi 
pubblichi  e liberi 

XXXVI.  Non  debbono  i cittadini  che 
hanno  avuti  i maggiori  onori,  sdegnarsi 
de'  minori 


113 


ISO 


186 

139 


XXXVII.  Quali  scandali  partorì  in  Ro- 
ma la  legge  agraria:  e come  fare  una 
legge  in  una  repubblica  che  risguardi 
assai  indietro,  e sia  contra  ad  una 
consuetudine  antica  della  città,  è 
scandolosissimo 


XXXVIII.  Le  repubbliche  deboli  sono 
male  risolute,  e non  si  sanno  delibe- 
rare; e se  le  pigliano  mai  alcuno  par- 
tito, nasce  più  da  necessità  che  da 
elezione 

XXXIX.  In  diversi  popoli  si  veggono 
spesso  i medesimi  accidenti . . rrr~.  m 

XL.  La  creazione  del  decemvirato  in 
Roma,  e quello  che  in  essa  è da  no- 


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788  IXD1CE. 

tare:  dove  si  considera,  intra  molte 
altre  cose,  come  si  può  salvare  per 
simile  accidente,  o oppressare  una  re- 
pubblica  Pag.  200 

XLI.  Saltare  dalla  urailità  alla  superbia, 
dalla  pietà  alla  crudeltà,  senza  debiti 
mezzi,  è cosa  imprudente  ed  inutile.  221 

XLII.  Quanto  gli  uomini  facilmente  si 
possono  corrompere . * 222 

XLIII.  Quelli  che  combattono  per  la  glo- 
ria propria,  sono  buoni  e fedeli  soldati  223 

XL1Y.  Una  moltitudine  senza  capo  è 
inutile:  e non  si  debbe  minacciare 
prima,  e poi  chiedere  P autorità  . . . 225 

XLY.  È cosa  di  malo  esempio  non  os- 
servare una  legge  fatta,  e massime 
dallo  autore  d'essa:  e rinfrescare  ogni 
dì  nuove  ingiurie  in  una  città,  è a 


chi  la  governa  dannosissimo 227 

XLYI.  Gli  uomini  salgono  da  un'  ambi- 
zione ad  un'altra;  e prima  si  cerca 
non  essere  offeso,  dipoi  di  offendere 
altrui 231 

XLVII.  Gli  uomini,  ancora  che  si  ingan- 
nino ne’ generali,  nei  particolari  non 
si  ingannano 235 


XLYIII.  Chi  vuolo  che  uno  magistrato 
non  sia  dato  ad  un  vile  o ad  un  tri- 
sto, lo  facci  domandare  o ad  un 
troppo  vile  e troppo  tristo,  o ad  uno 
troppo  nobile  e troppo  buono 242 

XLIX.  Se  quelle  città  che  hanno  avuto 


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INDICE. 


789 


il  principio  libero,  come  Roma,  hanno 
difficoltà  a trovare  leggi  che  le  man- 
tenghino;  quelle  che  lo  hanno  im- 
mediate servo,  ne  hanno  quasi  una 
impossibilita Pag.  2411 

L.  Non  debbo  uno  consiglio  o uno  ma- 
gistrato potere  fermare  le  azioni  della 
città 249 

LT.  Una  repubblica  o uno  principe  debbo 
mostrare  di  fare  per  liberalità  quello 
a che  la  necessità  lo  constringe  ...  251 

LII.  A reprimere  la  insolenza  di  uno 
che  sorga  in  una  repubblica  potente, 
non  vi  è piu  securo  e meno  scando- 
loso  modo,  che  preoccuparli  quelle  vie 
per  lo  quali  o’vieno  a quella  potenza.  253 

LIII.  Il  popolo  molte  volto  desidera  la 
rovina  sua,  ingannato  da  una  falsa 
spezie  di  bene  : e come  le  grandi  spe- 
ranze e gagliardo  promesse  facilmente 
lo  muovono 25S 


LIV.  Quanta  autorità  abbia  uno  uomo 
grande  a frenare  una  moltitudine 


2fìfi 


LY.  Quanto  facilmente  si  conduchino  le 
cose  in  quella  città  dove  la  moltitu- 
dine non  è corrotta:  e che  dove  è 
eqnalità,  non  si  può  faro  principato; 
e dove  la  non  è,  non  si  può  far  re- 
pubblica   26S 

LVI.  Innanzi  che  seguino  i grandi  acci- 
denti in  una  città  o in  una  provin- 


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700 


ÌNDICE. 


eia,  vengono  segui  che  gli  pronosti- 
cano, o Domini  che  gli  predicono.  Pag.  279 

LV1I.  La  plebe  insieme  è gagliarda;  di 
per  se  è debole 260 

LVIII.  La  moltitudine  è più  savia  e più 
costante  che  un  principe 283 


altri  si  può  più  fidare;  o di  quella 
fatta  con  una  repubblica,  o di  quella 
fatta  con  nno  principe 294 

LX.  Come  il  consolato  o qualunque  al- 
tro magistrato  in  Roma  si  dava  senza 
rispetto  di  età 299 


Libro  Secondo. 

I.  Quale  fu  più  cagione  dello  imperio 
che  acquistorono  i Romani,  o la  virtù, 

o la  fortuna 310  . 

II.  Con  quali  popoli  i Romani  ebbero  a 
combattere,  e come  ostinatamente 
quelli  difendevano  la  loro  libertà.  . . 31S 

III.  Roma  divenne  grande  città  rovi- 

nando le  città  circonvicine,  e rice- 
vendo i forestieri  facilmente  a'  suoi 
onori 333 

IV.  Le  repubbliche  hanno  tenuti  tre  modi 

circa  lo  ampliare 335 


lingue,  insieme  con  1~ accidente  de-1  di- 
luvi o delle  pesti,  spegno  la  memo- 
ria dello  cose,  . 34.r> 


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IXD'.CE.  791 

VI.  Come  i Romani  procedevano  nel  fare 

la  guerra Pag.  350 

VII.  Quanto  terreno  i Romani  davano 

per  colono 355 

Vili.  La  cagione  perchè  i popoli  si  par- 
tono da’ luoghi  patrii,  ed  inondano  il 
paose  altrui 356 

IX.  Quali  cagioni  comunemente  faccino 


X.  I danari non sono  il  nervo  della 

guerra,  secondo  elio  è la  comune  op- 
pinone  367 

XI.  Non  è partito  prudento  fare  amici- 

zia con  un  principe  che  abbia  più 
oppinione  che  forze 374 


assaltato,  inferire,  o aspettare  la 
guerra 37fi 

XIII.  Che  si  viene  (li  bassa  a gran  for- 

tuna più  con  la  fraude,  che  con  la 
forza t 385 

XIV.  Ingannansi  molte  volto  gli  uomini, 

credendo  con  la  nmilità  vincere  la  su- 
perbia   389 

XV.  Gli  Stati  deboli  sempre  fieno  ambi- 

gui nel  risolversi:  e sempre  le  deli- 
berazioni lente  sono  nocive 392 

XVI.  Quanto  i soldati  ne’  nostri  tempi 

si  disformino  dalli  antichi  ordini  . 398 

XVII.  Quanto  si  debbino  stimare  dagli 
eserciti  ne’  presenti  tempi  le  artiglie- 


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702  IKDlCE. 

rie  ; e se  quella  oppinione  che  se  ne 
ha  in  universale,  è vera Pag.  iiLZ 

XYIII.  Come  per  I’  autorità  de*  Romani, 
e per  lo  essempio  della  antica  mili- 
zia, si  debbe  stimare  più  le  fanterie 
che  i cavagli . 421 

XIX.  Che  gli  acquisti  nelle  repubbli- 
che non  bene  ordinate  e che  secondo 
la  romana  virtù  non  procedono,  sono 

a rovina,  non  a esaltazione  di  esse  . 431 

XX.  Quale  pericolo  porti  quel  principe 
o quella  repubblica  che  si  vale  della 
milizia  ausiliare  a mercenaria  . . . . 441 

XXI.  Il  primo  Pretore  che  i Romani 
mandarono  in  alcun  luogo,  fu  a Capo- 
va,  dopo  quattrocento  anni  che  co- 


minciarono a far  guerra 445 

XXII.  Quanto  siano  false  molte  volte  le 
oppinioni  degli  uomini  nel  giudicare 
le  cose  grandi 450 

XXIII.  Quanto  i Romani  nel  giudicare 
i sudditi  per  alcuno  accidente  che  ne- 
cessitasse tal  giudizio,  fuggivano  la 
via  del  mezzo  455 


XXIY.  Le  fortezze  generalmente  sono 
molto  più  dannose  che  utili 464 

XXV.  Che  Io  assaltare  una  città  disu- 
nita,  per  occuparla  mediante  la  sua 


disunione,  è partito  contrario.  . . . .479 

XVI.  Il  vilipendio  e l’improperio  ge- 
nera odio  contra  a coloro  che  l’usa- 
no, senza  alcuna  loro  utilità 482 


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INDICE. 


793 


XXVII.  Ai  principi  e repubbliche  pru- 
denti debbe  bastare  vincere  ; perchè  il 
più  delle  volte,  quando  non  basti,  si 
perde  Pag.  4S0* 

XXVIII.  Quanto  sia  pericoloso  ad  una 
repubblica  o ad  uno  principe  non  ven- 
dicare una  ingiuria  fatta  contra  al 
pubblico  o contra  al  privato 492 

XXIX.  La  fortuna  accieca  gli  animi  de- 
gli uomini,  quando  la  non  vuole  che 
quelli  si  opponghino  a’  disegni  suoi . 49(5 

XXX.  Le  repubbliche  e gli  principi  ve- 
ramente potenti  non  comperano  l' ami- 
cizie con  danari,  ma  con  la  virtù  e 
con  la  riputazione  delle  forzo  ....  502 

XXXI.  Quanto  sia  pericoloso  credere  agli 

sbanditi 509 


XXXII.  In  quanti  modi  i Romani  occu- 
pavano le  terre 512 

XXXIII.  Come  i Romani  davano  agli 
loro  capitani  degli  eserciti  le  commis- 
sioni libere 519 


Libro  Terzo. 

I.  A volere  che  una  setta  o una  repub- 
blica viva  lungamente,  è necessario 
ritirarla  spesso  verso  il  suo  principio.  524 

II.  Come  gli  è cosa  sapientissima  simu- 
lare in  tempo  la  pazzia 535 

III.  Come  egli  è necessario,  a voler 
mantenere  una  libertà  acquistata  di 


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79-1  INDICE. 

nuovo,  ammazzare  i figliuoli  di  Bru- 
to   Pag-  538 


IV.  Non  vive  sicuro  un  principe  in  un 
principato,  mentre  vivono  coloro  che 

ne  sono  stati  spogliati 541 

V.  Quello  che  fa  perdere  uno  regno  ad 
uno  re  che  sia  ereditario  di  quello  . 544 


VI.  Delle  congiure 547 

VII.  Donde  nasce  che  le  mutazioni  dalla 

libertà  alla  servitù,  e dalla  servitù 
alla  libertà,  alcuna  n1  è senza  sangue, 
alcuna  n"  è piena 595 

Vili.  Chi  vuole  alterare  una  repubbli- 
ca, debbo  considerare  il  soggetto  di 
quella 591 


IX.  Come  conviene  variare  coi  tempi, 
volendo  sempre  aver  buona  fortuna  . 603 

X.  Che  uu  capitano  non  può  fuggire  la 

giornata,  quando  1’  avversario  la  vuol 
fare  in  ogni  modo 608 

XI.  Che  chi  ha  a fare  con  assai,  an- 
cora Che  sia  inferiore,  purché  possa 
sostenere  i primi  impeti,  vince.  . . . 617 

XTI.  Come  un  capitano  prudente  debbo 
imporre  ogni  necessità  di  combattere 
ai  suoi  soldati,  e a quelli  delli  minici 
torla gol 

P0Ye  8*a  Più  confidare,  o in 
nuo  buono  capitano  che  abbia  l;eser- 
cp°  debole,  o in  uno  buono  esercito 
che  abbia  il  capitano  debole  . , . , . 629 


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INDICE. 


795 


XIV  Le  invenzioni  nuove  che  appari- 
scono nel  mezzo  della  zuffa,  e le  voci 
nuove  che  si  odono,  quali  effetti  fac- 
cino   Pag.  633 

XV.  Come  uno  e non  molti  siano  pre- 

posti ad  uno  esercito,  o come  i più 
comandatori  offendono 630 

XVI.  Che  la  vera  virtù  si  va  ne' tempi 

difficili  a trovare;  e ne*  tempi  facili 
non  gli  uomini  virtuosi,  ma  quelli 
che  per  ricchezze  o per  parentado  pre- 
vagliono,  hanno  più  grazia 642 

XVII  Che  non  si  offenda  uno,  e poi 
quel  medesimo  si  mandi  in  ammini- 
strazione e governo  d’ importanza  . . 648 

XVIII.  Nessuna  cosa  è più  degna  d' un 
capitano,  che  presentire  i partiti  del 
nimico 650 


XIX.  Se  a reggere  una  moltitudine  è 
più  necessario  lo  ossequio  che  la  pena.  656 


XX.  Uno  essempio  d'umanità  appresso 

ai  Falisci  potette  più  d' ogni  forza 

romana 

XXI.  Donde  nacque  che  Annibaie  con 

diverso  modo  di  procedere  da  Sci  pio- 

ne,  fece  quelli  medesimi  effetti  in 

Italia  che  quello  in  Ispagna 

662 

XXII.  Come  la  durezza  di  Manlio  Tor- 
quato e l’umanità  di  Valerio  Corvino 
acquistò  a ciascuno  la  medesima 
gloria.  . 669 


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796  indice. 

XXIII.  Per  quale  cagione  Cammillo  fnsse 
cacciato  di  Roma  .......  Pag^  679 

XXIV.  La  prolungazione  degl1  imperi 

fece  serva  Roma  . ....  . 7 681 

XXV.  Della  povertà  di  Cincinnato,  e di 

molti  cittadini  romani 681 

XXVI.  Come  per  cagione  di  femmine  si 

rovina  uno  Stato  . 689 

XXVII.  Come  e'  si  ha  a nnire  una  città 
divisa;  e come  quella  oppinione  non 
è vera,  che  a tenere  le  città  bisogna 
tenerle  disunite 691 

XXVIII.  Che  si  debbe  por  mente  alle 
opere  de’  cittadini,  perchè  molte  volte 
sotto  un’opera  pia  si  nasconde  un  prin- 
cipio di  tirannide 697 

XXIX.  Che  gli  peccati  dei  popoli  na- 
scono dai  principi.  109 

XXX.  Ad  uno  cittadino  che  voglia  nella 
sua  repubblica  far  di  sua  autorità  al- 
cuna opera  buona,  è necessario  prima 
spegnere  T invidia:  e come,  venendo 
il  nimico,  s’ha  a ordinare  la  difesa 

d’  una  città 708 

XXXI.  Le  repubbliche  forti  o gli  uo- 

mini eccellenti  ritengono  in  ogni  for- 
tuna il  medesimo  animo  e la  loro  me- 
desima dignità  710 

XXXII.  Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni 
a turbare  una  paco 718 

XXXIII.  Egli  è necessario,  a voler  vin- 
cere una  giornata,  fare  T esercito  con- 


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13  DICE . 


71)7 


Attente  ed  infra  loro,  e con  il  capi-  _ 
tano  Pag*  '-1 


XXXIV.  Quale  fama  o voce  o oppinione 
fa  che  il  popolo  comincia  a favorire 
un  cittadino:  e se  ei  distribuisce  i 
magistrati  con  maggior  prudenza  che 
un  principe 72o 

XXXV.  Quali  pericoli  si  portino  nel  farsi 
capo  a consigliare  una  cosa  ; e quanto 
ella  ha  più  dello  straordinario,  mag- 
giori pericoli  vi  si  corrono  . . . . ...  733 

XXXVI.  La  cagione  perchè  i Franciosi 
sono  stati  e sono  ancora  giudicati 
nelle  zuffe  da  principio  più  che  uomi- 
ni, e dipoi  meno  che  femmine  ....  738 

XXXVII.  Se  le  piccolo  battaglie  innanzi 
alla  giornata  sono  necessarie,  e come 
si  debbo  fare  a conoscere  un  nimico 
nuovo,  volendo  fuggire  quelle  ....  742 


XXXVIII.  Come  debbe  esser  fatto  un  ca- 
pitano nel  quale  1’  esercito  suo  possa 
confidare 749 


XXXIX.  Che  un  capitano  debbe  esser 
conoscitore  dei  siti 752 

XL.  Come  usare  la  fraudo  nel  maneg- 
giare la  guerra  è cosa  gloriosa.  . . . 756 

XLI.  Che  la  patria  si  debbe  difendere 
o con  ignominia  o con  gloria;  ed  in 
qualunque  modo  è ben  difesa 759 

XLII.  Che  le  promesse  fatte  per  forza 
non  si  debbono  osservare 761 


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798 


INDICE. 


XLIII.  Clie  gli  uomini  che  nascono  in 
una  provincia,  osservano  per  tutti  i 
tempi  quasi  quella  medesima  na- 
tura  Pag.  763 

XL1Y.  E’  si  ottiene  con  l'impeto  e con 
1’  audacia  molte  volte  quello  che  con 
modi  ordinari  non  si  otterrebbe  mai . 767 

XLV . Qual  sia  miglior  partito  nelle  gior- 
nate, o sostenere  l'impeto  de'  nimici, 
e sostenuto  urtargli;  ovvero  dappri- 
ma con  furia  assaltargli  ......  771 

XLVI.  Donde  nasce  che  una  famiglia  in 


una  città  tiene  un  tempo  i medesimi 
costumi 772 

XLYII.  Che  un  buon  cittadino  per  amore 
della  patria  debbe  dimenticare  P in- 
giurie private  775 


XLVIII.  Quando  si  vede  fare  uno  errore  , 
grande  ad  un  nimico,  si  debbe  credere 
die  vi  sia  sotto  inganno  776 

XLIX.  Una  repubblica,  a volerla  man- 
tenere libera,  ha  ciascuno  di  bisogno 
di  nuovi  provvedimenti;  e per  quali 
meriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato  Mas- 
simo   778 


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