Thursday, May 30, 2024

Grice e Vera

 Nel 1863 Stanislao Gatti, per far meglio conoscere ai lettori della sua Rivista napoletana Augusto Vera, il pensatore illustre che insegnava già da due anni nell'Università di Napoli, ma non pare godesse la riputa-zione e la simpatia di altri professori aderenti alla stessa scuola filosofica e assai men noti fuori d'Italia, pubblicava due inediti frammenti di filosofia hegeliana del

Vera: e si accingeva quindi a voltare in italiano e a divulgare in elegante opuscolo una discussione dell'empirismo inglese, dall'autore già pubblicata a Londra nel 1856 %.

Gli pareva che le questioni toccatevi fossero cosi fondamentali e riguardassero cosi da vicino l'essenza stessa del sapere filosofico da poter giovare all'Italia non meno che all'Inghilterra, aiutando gli studi nostri ad orientarsi verso un concetto esatto della filosofia come scienza dell'assoluto, da conseguire con un metodo adeguato al suo oggetto, ossia parimenti assoluto: che era la tesi propugnata dal Vera dal punto di vista dello hegelismo, che è a come a dire l'ultima parola della scienza». Giac-ché la reazione sorta in Germania, in quegli anni, contro questa filosofia, era, agli occhi del nostro Gatti, fallita, non essendo riuscita ad opporre allo hegelismo e un altro sistema della medesima comprensione, il quale abbia potuto come quello impadronirsi di tutto il sapere e penetrarne tutte le parti». E intanto il Gatti vedeva che non c'era campo di studi che il pensiero hegeliano non avesse fecondato, « e le scienze naturali e le filologiche e le istoriche son tutte piene del suo spirito. Prova indu-bitata che quel sistema rappresenta la general maniera di pensare e le esigenze del pensiero contemporaneo e che ha le sue radici, come ogni altra filosofia le ha avute, nelle intime condizioni dello spirito stesso del secolo», Le proteste individuali erano state sopraffatte dall'energia del pensiero; e lo spirito della filosofia combattuta aveva, senza che essi lo sapessero, soggiogato i suoi stessi avver-sari, « riducendoli, quasi direi, a muoversi nella sua atmo-sfera, a respirarne l'aria, a guardare attraverso di essa le cose e i fatti e le loro relazioni e trasformazioni ».

Questa filosofia con sforzi perseveranti e con ricchezza non comune di sapere il Vera s'era studiato di diffondere, di renderla accessibile al maggior numero in Francia, «d' inocularla colle sue genuine fattezze in Italia » e d'ini-ziarvi anche l'Inghilterra. Di questa vasta filosofia il Gatti non conosceva « né più intero interprete, né più ardente propagatore, né più libero e insieme più fedel seguace; e ne tesseva l'elogio con evidente intenzione di contrapporlo a un altro interprete della stessa filosofia, che insegnava allora nella Università di Napoli accanto al Vera, e che molti pel rigore e la profondità del pensiero come pel libero atteggiamento verso l'autore del sistema propendevano a mettere al di sopra del Vera. « Con una conoscenza profonda del sistema che ha accettato, con una persuasione intima che fuori di quello non sia salvezza per la filosofia, il Vera è lontano da quella pedan-teria che fa consistere la profondità o la sostanza di un sistema in certe astruserie di formole, le quali spesso perdono il significato passando di una lingua in un'altra.

Né meno è lontano da quella affettazione d' indipendenza per la quale i discepoli più pedissequi si credono talora ambiziosamente obbligati a cercare un punto in cui si possano mostrare in disaccordo col maestro». Dove par di udire l'eco di certi giudizi privati dello stesso Vera, che, come vedremo, fu di proposito e per forza il più ortodosso degli hegeliani. Non v'ha dubbio d'altronde che egli, in perfetto accordo col Gatti, fosse convinto che la sua perfetta ortodossia non stesse per nulla a scapito della sua originalità: « Francamente e compiutamente hegeliano ha invece tutta quell'aria di originalità che viene dall'intera padronanza di una dottrina divenuta propria x 1.

2. — Pure questo franco e compiuto hegeliano, questo geniale e originale espositore di Hegel in un paese cosi ben preparato a ricevere un insegnamento di filosofia hegeliana, come forse nessun altro in Europa, insegnò a Napoli per circa un quarto di secolo senza quasi lasciarvi traccia della sua opera. E il suo nome, se vivo ancora in Francia e altrove come quello del traduttore francese dell' Enciclopedia e di parte della Filosofia della religione di Hegel, è presso che dimenticato in Italia, dove Hegel ora si può leggere in traduzioni italiane migliori e s'è spenta la fievole eco de suoi scritti. Il discepolo, l'unico discepolo del Vera, fu Raffaele Mariano che, a furia di dilucidare in prolisse elucubrazioni quei profondi concetti che gli pareva d'aver imparato a intendere alla scuoladel suo maestro, fini col non raccapezzarne più nulla 1.

E anche lui non mancò mai di fare le proteste del Gatti intorno all'originalità del maestro, sciogliendole bensi nel suo stile lungo e nella sua più libera logica. La mente dell' Hegel, disse egli, una volta, tessendo l'elogio del

Vera, «appunto per la novità, e ancora più per la vastità sintetica ed organica, era apparsa pressoché impene-trabile. Non solo fuori della Germania, ma quivi stesso la forma astrusa ed inviluppata aveva fatto intoppo

agli stessi discepoli immediati di lui, i quali in molti, e forse nei punti più essenziali, non giunsero ad affer-rarla». Ma quel che non giunsero ad afferrare gli scolari immediati, l'afferrò, miracolosamente, il Vera, che mai non vide l' Hegel; e con sapiente accorgimento poté comunicarlo a chiunque poi ne avesse voglia. * A renderla universalmente accessibile e intelligibile, era necessario spezzarne il rigido involucro formalistico, schiuderne e rivelarne lo spirito e le intime e recondite potenze. E tale è lo scopo a cui il Vera ha mirato». Egli non riprodusse, non ripeté le cose da colui insegnate; ma vi aggiunse la spontaneità ed originalità del proprio pensiero ». Come si possa aggiungere alle cose un'originalità e spontaneità di pensiero, lasciando le cose quelle cose che erano, il Mariano naturalmente non può dirci se non ripetendo, alla sua volta, la metafora del viluppo formalistico che il Vera spezzò, per assicurarci che « passando attraverso la mente di lui, l' Hegel esce rifatto, rinnovato, compiuto; non è più l'Hegel, che, nel primo intuire e manifestare i suoi nuovi e profondi concetti rimane incompreso e riesce in molta parte incomprensibile; ma è l' Hegel che, a dir così, s'è ripiegato sopra di sé, è ritornato suiconcetti suoi, e, pel ripetuto lavorio riflessivo e cogita-tivo, vi ha acquistato consapevolezza perspicua e piena ».

L'originalità non consiste « nell'avere e nel propalare una dottrina di nostro capo». La dottrina del Vera è quella di Hegel: tal quale. Ma l'essenziale dell'originalità consiste, a giudizio del Mariano, nel contribuire a mantener viva, svolgendola ed allargandola, la tradizione filosofica (anzi «la continuità» di questa tradizione):

consiste nel concorrere « a spingere, a condurre il pensiero e la ragione ad una più intima, ad una più consapevole comprensione di sé e dell'universo». O che volete che il Vera inventasse? L'invenzione non è affar della filosofia (ciò che proverebbe troppo, perché bisognerebbe allora indurne o che Hegel non ha trovato nulla di nuovo, o che quel che ha trovato, non ha che fare con la filosofia).

« Più dell'escogitare e porre nuove questioni, vale a gran pezza il dare alle antiche questioni soluzioni soluzioni più adeguate, più determinate e concrete che penetrino più addentro nella natura di quelle»* In-

somma, il Vera fu più originale di Hegel!

3. - Ma se l'originalità è stata per solito messa in dubbio, la fedeltà, invece, agl' insegnamenti dell' Hegel, la schiettezza e rigorosità dell' hegelismo da lui professato sono state sempre riconosciute universalmente; e perfino hegeliani tedeschi come il Rosenkranz lo proclamarono tra i più autorevoli e felici interpreti della dottrinaOnde spesso nei paesi di lingua latina è accaduto che detti e modi del Vera passassero per detti e modi di Hegel, e che i più trovassero comodo di cercare l'immagine del

filosofo tedesco nel suo traduttore e manipolatore italo-francese, fattosi l'apostolo ispirato e il privilegiato maestro del suo verbot. Hegel e Vera furono per molti anni due nomi inseparabili. Lo stesso Vera, rinato nello spirito hegeliano, non serbò quasi più nessuna memoria della sua vita precedente e dovette finire col persuadersi di non essere mai stato altro che illuminato da quella su-periore luce, che fu per lui l'hegelismo. Non pare che il suo scolaro e intimo amico, che se ne fece biografo, cono-

scesse direttamente i primi scritti di lui; né si può spie-gare se non come un'eco di conversazioni dello stesso Vera quel che racconta dell'esame pel dottorato sostenuto dal Vera alla Sorbona: dove gia egli si

sarebbe

presentato, nel 1845, paladino dell'idealismo assoluto.

Fu questo il momento, racconta il Mariano, in cui gli screzi già latenti tra lui e il Cousin si fecero mani-festi. L'appoggio da costui prestatogli non era valso a far velo alla mente del Vera. Le dottrine e un po' anche

il carattere, tutt'altro che schietto e sincero, dell'uomo gli avevano ispirato sin dal principio forte ripugnanza.

Ora che nella filosofia di Hegel s'era addentrato e ne aveva misurato davvero l'intimo e profondo valore,gli faceva sopra tutto nausea la guerra sleale da colui mossale, dopo averla sfruttata». Guerra che avrebbe fatto tremare un candidato meno del Vera coraggiosamente risoluto a scendere in campo per le proprie idee.

Questi invece, irremovibile nelle sue convinzioni, deciso ad affermate a viso aperto, facendo tacere considerazioni e rispetti umani e mondani, quella che egli reputava la verità, non esitò un istante a presentare due tesi pel dottorato, il Problème de la certitude e il Pla-tonis, Aristotelis et Hegeli de medio termino doctrina, delle quali il Cousin non voleva affatto sentir parlare..

Fortuna che, se il Cousin fu fieramente avverso (argo-mentando, ci assicura il Mariano, contro quelle tesi a in modo poco degno, nonché per un filosofo, ma per un uomo serio*), tutti gli altri membri della commissione furono unanimi nel dire che « da un pezzo alla Sorbona non s'era avuto un esame si splendido»; e uno di essi, il Saint-Marc-Girardin, « discutendo sull'essere e non essere, fece una specie di professione di fede hegeliana i con grande sorpresa del Saisset che lo sapeva solito ad andare a messa tutte le domeniche. Ma il Mariano lascia credere che dopo quell'esame si sarebbe voltata in Francia pel Vera la ruota della Fortuna, che vi aveva percorso piuttosto rapidamente la carriera dell'insegnamento.

Sicché il filosofo italiano avrebbe incominciato fin d'al-lora, a proprie spese, il suo apostolato, durato fin presso alla morte, incoltagli nella solitudine e nell'abbandono, a Napoli, in mezzo alla quasi indifferenza d'una nazione incapace d'apprezzare l'alto valore scientifico e morale della dottrina e dell'uomo che se n'era fatto campione.imparare da giovinetto l'inglese. Compiuti gli studi letterari nei seminari di Amelia, Spello, Todi, era passato a studiar leggi nella Università di Roma; ma non pare venisse a capo di nulla. E nell'inverno 1835 cedé agl' inviti d'un suo parente, archeologo e antiquario, che dimorava in Francia; e si recò a Parigi. Dove conobbe alcuni scrittori illustri; frequentò la Sorbona; e il 1837 poté ottenere il posto d'insegnante di latino e letteratura francese nell'Istituto di Hofwyl, presso Berna, diretto dal Fellenberg, discepolo del Pestalozzi. Vi rimase un anno, e vi studio il tedesco e la filosofia germanica, specialmente Kant; ma alla fine di quell'anno gli convenne dimettersi a causa delle sue opinioni religiose non cosi rigidamente cristiane come le avrebbe volute il direttore dell'Istituto, quantunque il Vera allora riconoscesse la divinità di Cristo. Passò in un altro istituto, a Champel, vicino a Ginevra 1; e vi comincio a insegnareanche filosofia. A Champel un suo collega hegeliano l'introdusse nella conoscenza della filosofia di Hegel.

Ma nel 1839 era tornato a Parigi, dove il Cousin cono-sciutolo e avuto con lui un colloquio intorno alle condizioni degli studi filosofici, gli avrebbe chiesto: Voules-vous vous enrôler sous ma bannière? E di li a pochi giorni gli avrebbe recato a casa egli stesso il diploma (Io settembre 1839) di professore di filosofia nel collegio comunale di Mont-de-Marsan, L'anno dopo il Cousin, ministro dell'istruzione, lo promoveva a Tolone. Donde il Vera, che intanto s'era fornito dei necessari gradi accademici, era nel 43 trasferito a Lilla. Di qui nel novembre 1845 a Limoges: dove rimase fin al 48, quando per un anno suppli il Franck in un liceo di Parigi. Da Limoges nell'aprile 49 passò a Rouen, e quindi nel settembre 1850 a Strasburgo. Che fu l'ultima tappa del suo insegnamento in Francia. Dopo il colpo di Stato, non si sa perché, lasciò questa sua seconda patria; e si recò in Inghilterra. Dove sperò da principio di ottenere una cattedra filosofica nell'Università di Londra; ma dovette contentarsi di vivere de' magri proventi di conferenze private e lavori letterari. Alla fine del 1859 torno in Italia, e nel gennaio del 1860 il Mamiani lo nominava alla cattedra di Storia della filosofia nell'Accademia scientifico-letteraria di Mi-

lano; donde il 24 ottobre dell'anno successivo il ministro

De Sanctis lo tramutava, insieme con Bertrando Spa-venta, all' Università di Napoli. E qui rimase tutto il resto della vita; e mori il 13 luglio 1885.5. - Quandera a Tolone nel maggio 1843, secondo il Mariano, egli avrebbe pubblicato nella Revue du Lyon-

nais «il suo primo scritto filosofico»: Philosophie alle-mande: Doctrine de Hégel, che dovette essere un breve articolo informativo. " Rapido schizzo», e' informa lo stesso Mariano, « della filosofia germanica da Kant ad

Hegel »: e continua:

Certo, come primo scritto, si risente dell' insufficienza degli studi. Il pensiero non vi è per anco profondo né appieno sicuro e maturo: pure, er ungue leonem: ci è uno sguardo a dir cosi fatidico sulla seconda maniera della filosofia di Schelling, che allora insegnava a Berlino. Quel che essa propriamente fosse, il Vera non mostra saperlo in modo chiaro e preciso; e, nondimeno, in una nota osserva che non potrebbe aggiungere nulla di nuovo al pensiero filosofico tedesco, il quale con Hegel aveva toccato al più alto punto di svolgimento, e che con le sue nuove speculazioni lo Schelling.

lungi di accrescersi gloria, se la sarebbe

diminuita 1

Checché ne sia di questo scritto (che io non ho potuto vedere), a leggere il giudizio che del sistema di Hegel il Vera faceva anche due anni dopo, si stenta a credere che questo sistema potesse nel '43 esser detto da lui il più alto punto di svolgimento della speculazione germa-nica. Certo, non fu quello il primo scritto di carattere filosofico pubblicato dal Vera. Nel Museo scientifico, letterario ed artistico, che si pubblicava a Torino sotto la direzione del poeta estemporaneo Luigi Cicconi (che il Vera conobbe in Francia e fu da lui presentato a Mme Louise Colet, presso la quale ebbe frequente occasione d'incontrarsi col Cousin) 3, egli aveva già inserito il 16 febbraio 1839 un articolo sulla Filosofia della storiadel Ballanche, annunziando il proposito di « scrivere alcun cenno sui più famosi sistemi che governano il movimento delle idee de tempi nostri, in Francia e in Ale-magna, al fine di « spargere in Italia alcun soffio della vita intellettuale che si vive», egli diceva, al di qua de' monti». Egli avrebbe fatto soltanto la parte dell'espo-sitore, lasciando al lettore quella del critico e riserbandosi intatta la propria opinione. Ma non cela le sue idee a tal punto da non lasciare scorgere che il Ballanche, che fu uno dei primi scrittori francesi che egli personalmente conobbe e coi quali strinse relazioni amichevoli, un forte influsso aveva esercitato sulla sua mente giovanile, Per spiegare infatti il vivo interesse cosi largamente diffuso nel periodo della restaurazione per gli studi di filosofia della storia, il Vera rappresenta coi colori proprii dei tradizionalisti cattolici del tempo il senso di sgomento onde fu presa la società in seguito all'opera demolitrice delle dottrine del sec. XVIII. Le quali avevano distrutto, anche secondo il giovane scrittore umbro, « l'edificio sociale, senza poterlo ristorare. e abbandonata

«l'umanità come perduta in una vasta solitudine senza religione, senza costumi, senza leggi ».

Il turbine della rivoluzione, dopo aver solcato il suolo di Francia e dell'Europa, dopo aver scosso e scompaginato i troni e gli altari, e offerto dappertutto olocausti di sangue umano colpevole e innocente, andava a spegnersi sulle spiaggie lontane e deserte dell'Africa. La ragione gemette allora sui suoi travia-menti, gittò uno sguardo pieno d'ansia e di dolore sul passato e sul terribile avvenire, e non vide ovunque che ruite, nazioniin aspro travaglio, credenze affievolite o spente, l'uomo avvolto nel fango del senso, dimentico di sé, di Dio e dell'alto fine a cui è creato. Ma in mezzo a questo trambusto d'opinioni.... vi furono degli uomini generosi e santi, che custodirono puro ed intatto il sacro deposito della verità e della scienza, e lo condussero a salvamento a traverso gli incendi e le ruine, e lo mostrarono qual segno di salute all' Europa attonita e sfiduciata. Si nobile officio adempirono l'illustre autore del Genio del Cristianesimo, il conte De Maistre, De Bonald e Ballanche.

Dopo la Rivoluzione, la società dovette pensare al proprio avvenire per rialzare quanto era stato demolito; e per questo bisogno sarebbe sorta questa profonda riflessione di tanti pensatori sull'andamento delle cose umane e sulle leggi che governano il corso della storia.

*Noi rigettiamo a tutta possa le dottrine del XVIII se-colo, e gli effetti che ne sono derivati. Saremmo però ingiusti e irragionevoli se ricusassimo loro il beneficio di aver risvegliato una novella energia nella società ». Anche nel 1839 dunque dopo la prima conoscenza dell' hege-lismo fatta già in Svizzera, egli era dominato dallo spirito tradizionalista e aspirava anche lui alla ristaurazione nella religione; e se inneggiava alla novella energia della ragione risvegliatasi in Francia e in Germania, (e doveva ignorare quel che intanto, più profondamente, aveva fatto in Italia il Rosmini, e già s'apprestava a fare con maggior forza il Gioberti), questa energia non gli appariva ancora nella forma più possente dell'idealismo assoluto; quantunque gli studi che in quel torno continuava sugli scrittori tedeschi gli facessero intravvedere di là dal Reno una gran luce nuova.

Caratteristico, sotto questo riguardo, l'esordio di un articolo su Koerner pubblicato nello stesso giornale, nell'aprile dell'anno dopo. In esso, ricordata la Germania di Tacito, scritta con la speranza che al paragone i concittadini avrebbero provato onta della propria degradazione e si sarebbero indotti a ristorare le vecchie e cadenti istituzioni della patria, protestava:Io non ho né la forte penna, né l'autorità dell'austero patrizio di Roma, ma ho ugual affetto pel mio paese, ugual sentimento della grandezza e dignità dell'uomo, e mi stimerei ben fortunato se questi scritti invogliassero i miei concittadini a comprendere e studiar il movimento della scienza e letteratura tedesca.

Allorché Tacito scrivea, era ben lungi dal prevedere ciò che segui.

Il settentrione fece irruzione sul mezzodi, e il giovin sangue germano scese a rinvigorire le razze vecchie e spossate degl' itali.

Ora l'umanità è più ricca d'esperienza e di previsione; e chi può e sa esaminare lo stato della società e della scienza, vede chiaramente che avvenimenti analoghi si preparano; ma ora i popoli non si rinnovellano per dir cosi fisicamente, per mezzo d'emigrazione e di grandi catastrofi, ma spiritualmente. per virtù e commercio delle idee e della scienza. E questa si e una delle più grandi, e forse la più gran differenza tra il vecchio e il nuovo mondo.

Idea non mantenuta poi interamente, dopo che ebbe meglio conosciuto Hegel; ma che già era attinta a quella stessa corrente del romanticismo tedesco, da cui era sorto il pensiero hegeliano, e che, meglio determinata più tardi in conformità delle opinioni espresse da Hegel, segnatamente nella Filosofia della storia, resterà uno degli articoli più saldi del credo del Vera.

6. - Gli articoli, che tra il 40 e il '45 dovette venite scrivendo in vari giornali, da lui stesso poi dimenticati (o rifiutati), ci aiuterebbero forse a illuminare questo periodo di formazione della sua mente, e a determinare quindi meglio il carattere del suo posteriore sviluppo.

Ma siamo costretti a saltare alla tesi francese e alla tesi latina del 45, che lo stesso Vera citò sempre nelle sue opere degli anni più tardi come contenenti dottrine hege-liane; e invece serbano alla nostra curiosità la inaspet-tata scoperta di un Vera (del più vecchio Vera, non destinato presumibilmente a sparire del tutto nel nuovo !) antihegeliano.

Vera antihegeliano! Si direbbe una contradictio in adiecto. Eppure in questi due scritti il Vera non solo combatte Hegel, dandogli battaglia sul terreno stesso della sua logica, e come nella piazza forte della sua dot-trina; ma si inspira a tutta una concezione recisamente avversa allo spirito hegeliano.

Ci sia permesso di studiare con qualche cura questo

Vera antihegeliano, nella speranza che la conoscenza di esso ci giovi ad intendere meglio il Vera di dopo, e fors'anco a darci la soluzione di quel problema storico, in cui ci siamo di sopra incontrati: di un cosi poderoso hegeliano, che per molti anni insegnò e scrisse liberamente con l'autorità di un ufficio universalmente tenuto in grande estimazione e reverenza, e in un paese già pregno di spirito hegeliano, senza lasciar quasi

nessuna

traccia dell'opera propria.

7. - Sedici pagine della tesi francese 1 contengono una rapida esposizione e una critica dei principii fondamentali della logica hegeliana; ma delle sedici, l'esposizione ne ha sole quattro. Dove si dice che, secondo Hegel, l'essere e la conoscenza, l'esistenza e la verità fanno uno: sono due forme d'una stessa unità, percorrono gli stessi gradi, si sviluppano e finiscono simultaneamente. L'essenza delle cose è la ragione, e la ragione è il pensiero puro, perché il pensiero non ha altro oggetto che se stesso, cioè la nozione o l'idea. Porre con un processo d'analisi ciò che è essenzialmente contenuto nell'idea, sviluppare

L'idea sotto tutte le sue forme, seguirla e, per cosi dire,ritrovarla ne' diversi gradi dell'esistenza, questo il compito della filosofia. Ed ecco spuntare un' interpretazione dello hegelismo, che si può certamente difendere sotto il riguardo storico, ma che può anche condurre a una radicale falsificazione del significato storico di questa filosofia. Giacché altro è dire che l'essere e la conoscenza, il reale e l'idea sono uno, altro che siano due forme, due facce di un'unità, tra loro perfettamente parallele.

Nel primo caso siamo sulla via dell'idealismo assoluto; e nel secondo siamo nello spinozismo e potremmo finire addirittura nel platonismo accentuando, come fa il Vera, l'organismo dell'idea come unico oggetto della filosofia.

L'idea, secondo il Vera, è da prima, nel suo stato astratto e assoluto, separata da ogni esistenza concreta e da ogni oggetto. Come tale si sviluppa in una serie di termini, il cui insieme costituisce la logica. Questo sviluppo ha luogo in virtù d'un movimento proprio e interno alla stessa Idea, prodotto dalla dialettica dell'Idea, ossia da una necessità inerente a questa, per cui l'Idea si nega e passa nel suo contrario, e annulla quindi l'opposizione in un terzo termine che ci dà l'unità e la conciliazione dei due primi. Con questo processo l'Idea attraversa tutte le forme logiche fino all'ultima, che è l'Idea asso-luta: con la quale si compie la logica che è «l' Idea allo stato astratto», ossia: una realtà, una forza infinita, ma una realtà, una forza che ignora se stessa ». Essa deve realizzare l'idea della sua infinità, deve acquistare la coscienza di sé: deve, per dir cosi, manifestarsi a se medesima, ponendo un oggetto alla propria attività ..

Evidentemente, qui il Vera concepisce il passaggio dall'Idea alla Natura, o dall'astratto, com'egli dice, all'esi-

stenza, come un'aggiunta anzi che

come uno sviluppo.

L'oggetto che l'Idea si dà nella natura, non par che ei lo concepisca come la stessa Idea. E vero, che chiarendo poi l'antinomia di Logica e Natura, dice: «l'Idée, DE-VENUE NATURE, se sépare en quelque sorte d'elle même»; ma, poco dopo, definisce lo Spirito (il tetzo termine in cui concilia Logica e Natura) «un idéal où l'Idée a acquis la conscience d'elle même, où, APRÈS AVOIR, pour ainsi dire, FAÇONNÉ SON OBJET el s'être retrouvée en lui, elle rentre dans son absolue antén.

Ma, e questo è più notevole, pel Vera, lo Spirito, come mediatore dell'Idea logica e della Natura, non è, logi-camente, dopo la Natura; bensi nella stessa Natura, quantunque non vi si possa realizzare. V' è dentro, ed esso (come finalità) la muove da dentro. Onde la triade vien capovolta. Non è la dialettica dell'Idea che crea il mondo. La dialettica dell'Idea hegeliana, al pari della pigra dialettica delle idee platoniche, non genera nulla, non vive, non si muove. « L'Idée ne devient pas, à pro-prement parler; car elle est éternelle et infinie.. E lo Spirito farebbe proprio le parti del demiurgo del Timeo. * Son oeurre consiste à faire descendre l'Idée dans la Nature, et puis à vamener la Nature à l'Idée par un acte pur et simple de la pensée». E cosi col divenire dello Spirito l'Idea spiegherebbe tutta la ricchezza delle sue forme, penetrando nella Natura ed entrando in possesso della sua esistenza assoluta. Per se stessa, adunque, la Logica potrebbe restare un arsenale di armi arrugginite.

Ma non è meraviglia se qui il Vera non penetrasse nell'intimo del sistema hegeliano, poiché protestava che esso «donne lieu à des graves objections», pur giudicandolo una delle più vaste e profonde concezioni della filosofia moderna. I due elementi, egli notava, di questo sistema, sono 1' Idea e il movimento dialettico, Gravi difficoltà s'affollano intorno ad entrambi. L'Idea è da principio essere puro, che trova la sua negazione nel puro niente, e la conciliazione con questo nel divenire. Ma, dice il futuro hegeliano: è proprio vero che l'essere puro contiene il niente? «L'essere puro, dice Hegel, richiama [appelle)il niente, perché non c'è in esso nessun segno, nessun carattere, e niente si può pensare né affermare di esso ».

Questa spiegazione dell'identità essere - niente più tardi apparirà anche a lui ineccepibile: qui invece non riesce a rendersene conto. L'essere, egli dice, o è, o non è. Se non è, allora tanto vale cominciare dal niente, quanto dall'essere. Se è, ci sarà soltanto l'essere, e non si vedrà il suo contrario.

Così, in due parole, la prima proposizione della Logica è bella e spacciata. Non monta che Hegel inviti a considerare che proprio lo stesso concetto dell'essere che è, puramente e semplicemente, s' identifica col non-essere, da se medesimo (e che insomma richiami l'attenzione sulla impossibilità di tener separati i due concetti di essere e non-essere). Il Vera non sa vedere altro essere che l'essere di Parmenide (l'idea stessa platonica): e però sentenzia che «l'idea del niente è qui aggiunta all'essere da un pensiero finito, anzi che esser dedotta dall'analisi pura dell'idea stessa dell'essere». E così anche il Vera, almeno qui, resta tra le corna di quello stesso dilemma, in cui si impiglio, come vedemmo, il Passerini *. E come era da prevedere, non riesce quindi a capacitarsi del terzo termine della triade: il divenire. Questo termine non si può, egli dice, dedurre legittimamente dai primi due.

Infatti, se di fronte all'essere puro c'è il puro niente, il niente annullerà l'essere, e non ci sarà punto divenire. Inoltre: di ciò che diviene si può dire che i o che non è, ma non che è e non è a un tempo; perché, se ciò che diviene è realmente a un dato momento del suo divenire, non si potrà dire di esso se non che

¿, e il niente sarà avanti o dopo di esso. Che se al contrario si concepisce ciò che diviene come tale che in ogni momento del suo divenire non sia, tutto quello che se ne potrà dire, è che non i, e non che diviene. Ancora: da quale dei due termini il divenire è dedotto? O dall'essere o dal niente divisi, o dall'esseree dal niente congiunti. Ma non può esser dedotto dal niente, perché il niente, non essendo, non può divenire. Né dall'essere, perché l'essere è, e non diviene. Né dall'essere e dal niente presi insieme, perché, quel che non possono separati, non potranno neppure congiunti. E del resto, chi li congiunge? il divenire ? ma allora il divenire non sarà dedotto dalla loro combinazione.

Ovvero sono riuniti prima di divenire? ma allora non si vede più quale sia l'ufficio [le vôle] del divenire.

Sofismi dello stesso genere di quelli di Zenone, di Gor-gia, dei Megarici; e che avevano un grandissimo valore quando la logica era la logica degli Eleati, dell'essere che non può essere altro che essere: la logica che con Platone e Aristotele si fisso e s' irrigidi come logica dell'idea astratta; ma che dopo Hegel giova conoscere soltanto come documento dell'educazione mentale del Vera trentaduenne, indugiantesi tuttavia agli antipodi della nuova concezione dialettica hegeliana.

Procedendo, l'oscurità si addensa, com'è ovvio, al passaggio dalla Idea logica alla Natura. « Questo passaggio non è spiegato». Si dice che l'Idea nella natura si dà l'oggetto, per conoscersi poi nello spirito. Dunque, nella logica non si conosce. E come da questa idea senza oggetto e ignara di sé può ricavarsi la realtà e la cono-scenza? E se non ha un oggetto in cui conoscersi, come va che la meta di tutto lo sviluppo è la conoscenza appunto dell'Idea nella sua pura idealità logica? - Voi volete dedurre da questa Idea logica la natura e lo spirito.

Ma, quantunque sia difficile vedere come si possa, con una deduzione pura

l'intervento dell'esperienza,

cavare

l'idea della natura dall'idea logica, ad ogni modo non si potrà tirare altro da un essere logico che un essete egualmente logico: e cosi non si avrà più una natura reale, ma una natura ideale:

non si avrà esseri organizzati, qualità e una materia concrete, ma esseri organizzati, qualità e una materia astratte. E in fine sarà sempre l'Idea logica. Solamente,

I'Idea-natura espri-

merá altra cosa dell'Idea-logica, ma, in quanto Idea,non ci sarà tra loro nessuna differenza. E lo stesso si dica dello spirito, Giacché, con una simile deduzione, si avrà uno spirito ideale e non uno spirito reale e personale.

Obbiezioni, senza dubbio, tutt'altro che lievi, ma che provano appunto che egli aveva inteso la dottrina di Hegel come una nuova edizione non corretta, in verità, né riveduta della platonica: l'Idea fuori del mondo, e non come lo stesso principio interno e assoluto del mondo. La Idea hegeliana, non essendo natura né spi-rito, è astratta, pel Vera, e cioè non reale. E invece per Hegel è la stessa realtà. Onde lo sforzo maggiore che egli dovrà fare per entrare nell' hegelismo, e quasi la breccia che gli dovrà aprire il varco per introdursi in questa filosofia, consisterà proprio in questo punto: d'intendere l'idea come realtà, e fin da principio l'es-sere, non come l'idea dell'essere, ma l'essere dell'Idea.

8. - Quanto allo Spirito, ci sono altre gravi ripu-gnanze, O l'Idea, egli dice, pensa fin da principio, nello stato d'Idea logica, o pensa quando diviene Spirito.

Ma nel primo caso l'edifizio hegeliano crolla; ed Hegel infatti esclude questa alternativa. Per pensare, adunque, deve farsi Spirito. E allora o la facoltà di pensare c'era nell'Idea fin da principio, o le si viene ad aggiungere quando si trasforma in Spirito, Ma, se l'Idea come tale avesse già la facoltà di pensare, non potrebbe non pensarsi, almeno come Idea. Se questo pensiero le si aggiunge, allora il pensiero sarà altra cosa dall'Idea, e dovrà avere un'altra origine. E poiché il pensiero, non derivando dall' Idea, conterrebbe in sé l'Idea e la rea-lizzerebbe, sarebbe un principio superiore all'Idea, la quale non si potrebbe più dire essenza di tutte le cose. - Obbiezione anche questa assai grave, ma fondata sulla falsa concezione dell'Idea hegeliana come contenuto-oggetto di pensiero, e non, qual'è, forma assoluta e cioèassoluto soggetto,

sich wissende Wahrheit, come dice

Hegel: onde, se si distingue uno Spirito da un Logo, anche questo, per Hegel, è pensiero.

Se si nega, insiste il Vera, la successione di Idea, Natura e Spirito, facendone tre termini inseparabili e simultanei di un'unità, che è la pienezza dell'esistenza e la vita del mondo, viene a mancare il movimento: tutto è, e nulla diviene. Il divenire nel sistema hegeliano non è nell'Idea in sé. « Si elle devient, c'est-à-dire si elle se ma-nifeste, c'est par l'action successive de l'esprit qui la pense».

Bisogna dunque ammettere una successività, che importa nello spirito qualche cosa che non è nell'Idea: bisogna concepire questo Spirito non come l'idea dello Spirito, bensi come pensiero di un soggetto uno e indivisibile, che genera le idee e comunica loro attività e vita.

Cosi a questa unità dell'essere e del conoscere, che si pretende realizzare nell'unità dell'Idea, sfugge, e la molteplicità degli elementi riapparisce ». Anche ammesso che il pensiero possa ricavarsi dall' Idea, esso penserebbe bensi insieme i due contrari, ma distinguendoli, non unificandoli. Essere e non-essere, idea e natura, bene e male, giustizia e crimine restano nel pensiero opposti.

E del resto « lors même que la pensée pourrait effacer l'op-position des contraires, il ne suivrait pas de là nécessai-rement que l'opposition aurait disparu dans la réalité », Ora che l'opposizione non possa esser cancellata dal pensiero, si è visto per le due categorie di essere e non-

essere: ma si può dimostrare in un modo più generale «en signalant un vice qui atteint el ruine, suivant nous,

tout le système d' Hégel».

9. - Quest'ultima critica è il suggello dell'incapacità del Vera a superare, con tutto l'aiuto di Hegel, la posizione platonica. In questo sistema, egli dice, la verità e l'essere non sono principii, ma risultati. La natura e ilpensiero non sono mossi da un principio posto fuori del mondo, e in possesso della pienezza dell'essere e della verità. L'essere da sé non si muove, né muove. Il non-

essere piuttosto sollecita l'essere; e come essere e non-

essere si uniscono nel divenire, il principio non è l'essere ma il divenire. E lo stesso si dica della triade maggiore

Idea-Natura-Spirito. L'Idea in sé è morta, e non si moverebbe mai. Dev'esser negata nella Natura, perché abbia luogo la vita dello Spirito. Se mai, la Natura, non l'Idea, dovrebbe considerarsi come principio dello Spi-rito, svegliando in certo modo l'Idea e comunicandole con la sua negazione una certa energia. Ma il vero principio è lo Spirito, in cui si concilia l'opposizione di Idea e Natura; e che trascinerà nel flusso del suo divenire l'essere e il non-essere dell'Idea, ossia Idea e Natura.

E insomma: o nulla diviene facendosi l'Idea principio di una Natura come Idea-natura e di uno Spirito che è Idea-spirito; che sarebbe il partito della logica; o tutto diviene, facendosi lo Spirito principio di tutto; che sarebbe il partito dell'esperienza. Nel primo caso si hanno tre idee pure ed immobili, e non si ha il mondo, Nel secondo si ha il divenire dello Spirito, e quindi della Natura e della stessa Idea, ma non si ha più principii, né asso-luto: e lo stesso spirito del mondo, di cui parla Hegel, non sarà, in fondo, se non una generalizzazione dell'esperienza e degli spiriti finiti.

In conclusione, la principale esigenza della critica del Vera è il concetto dell'assoluto estramondano; e la legge del suo pensiero il principio astratto d'identità.

10. - Nella tesi latina (dove la dottrina hegeliana confrontata a quella platonica e a quella aristotelica del termine medio è appunto la dialettica, la cui sintesi vien considerata come termine medio tra tesi e antitesi) il Vera ripete in parte la critica che abbiamoesposta della sua tesi francese, ma formula pure la prima: e capitale obbiezione nella più schietta forma teistica, che giova a determinare nettamente la sua posizione mentale. Dice qui presupposto gratuito quello di Hegel quando ideas aeternas rerum causas el principia esse contendit!. Le idee possono aver questo valore, oppone il Vera, si cui vi, vel menti, insint, quod sensit Plato. Ciò che non è storicamente esatto, ma serve a dirci in che modo il Vera intendesse il platonismo da cui era do-minato.

E accumula contro le prime categorie altre difficoltà.

Hegel vede il niente nell'essere come una sua determinazione (o nota), perché dell'essere non si può dire se non che è. Ma questo è piuttosto una ragione perché l'essere respinga da sé il nulla. Affinché infatti si possa dire che l'essere è, non occorre che in esso ci sia determinazione di sorta: e il niente vi sarebbe se l'essere fosse in qualche modo determinato: - Poi, se tutto deve cominciare con l'essere e niente ci dev'esser prima del-

l'essere, nec vor, nec res, nec cognitio, allora prima dell'essere non ci sarà altro che il niente; e dal niente si dovrebbe cominciare piuttosto che dall'essere. Ancora: per Hegel l'essere diviene; e niente è. Ma, affinché qualche cosa divenga, bisogna che qualcosa sia, e non divenga.

Giacché se a prima vista pare che quel che diviene sia e non sia insieme, in realtà, chi consideri con più diligenza, esso non è, solamente. Giacché quel che ora diviene,dev'essere stato e non divenuto; e poiché era, diviene. - Inoltre, essere e niente son cose; il divenire, invece, è stato o proprietà d'una cosa; e non può quindi congiungere l'essere e il niente. Hae enim verum proprietatibus virtus inesse nequit. - La verità e la potenza che e è nel divenire, deve ricavarsi da quel che era e che è. Sicché l'essere dovrebbe essere alcunché di più perfetto di quel che ne deriva, realtà o cognizione. Laddove Hegel muove da un essere, che non è il primo essere, ma un essere, per così dire, passato attraverso il niente. Onde il processo va dal meno al più, dall' imperfetto al per-

fetto; il divenire invece è incremento di perfezione.

Verum haec rationi repugnant.

E c'è altro. O c'è un principio delle cose, o no. Se c'è, qualunque sia, o una forza (vis quaedam), o solo una idea (ens logicum), deve preceder tutto, rispetto alla forza, al tempo, al moto, al vero. Hegel muove dall'essere: ebbene da quest'essere, se forza, dovrà ricavarsi la forza di tutto; se idea, tutte le idee. E non si uscirà mai quindi dall'essere; il principio sarà sempre l'essere. - Che se la conclusione dovesse essere il divenire, il divenire non cessa mai, non è mai un atto esaurito: e il processo del reale e del conoscere andrebbe all'infinito. - E guardando ai rapporti non più intelligibili dell'Idea con la Natura e con lo Spirito, la tesi latina, con qualche variante dalla tesi francese, trae questo colpo finale contro la dottrina di Hegel: « Infine, se lo spirito sta di mezzo tra la natura e la idea e per ciò stesso va innanzi alle idee, le idee non sono i principii. E ammesso che siano principii, poiché lo spirito diviene, e le idee sono inerenti allo spirito, è necessario che divengano anch'esse.

Se

non che quel che diviene, non è, ma sarà; né intende, ma intenderà; sicché né spirito né idea avranno coscienza di sé, né ci sarà un fine nel mondo, ma il tutto andrà soggetto alla cieca necessità delle idee».11. - Dei quali errori tutti il Vera trova la prima origine in due cause principali. L'una, che Hegel torse la dialettica dal suo vero ufficio, che è di respingere il falso, alla scoperta e dimostrazione del vero: pretendendo di edificare con uno strumento di demolizione. L'altra, che ben vide doversi cercare nell'infinito la ragione del suo rapporto col finito, ma errò presumendo di rendersi conto del modo di questo rapporto, onde fu costretto a cercare il finito nella stessa natura necessaria dell' in-

finito: ponendo un infinito semplice che si dirompe suapte natura e quodam necessario impetu nelle cose finites, e non potendovi poi restare si sforza di tornare a sé e ri-staurare certo infinito composto, con un circolo che Hegel per altro non riesce a chiudere, perché l'infinito, una volta mescolatosi alle cose finite, non può più tornare infinito.

Egli è, insomma, che Hegel vide il vero problema della scienza; mai però appunto andò più lungi dal segno (sed ob ipsum forsan longius a vero provectum). Perché il Vera è convinto che tale problema è troppo più grave che non possa sostenere l'omero mortale. Funzione del termine medio, fulero d'ogni dimostrazione, è unire il finito con l'infinito. Ma come questa unione avvenga né Aristotele, né Hegel, né lo stesso Platone, quantunque la sua dottrina sia la più soddisfacente, han potuto ad-ditare, perché il rapporto muove dall'infinito, la cui natura sfugge alla mente umana. Si enim intelligeremus (dice il Vera riecheggiando un motivo della filosofia ales-sandrina, già accolto dal Ficino, e tornato in onore nel De antiquissima Italorum sapientia del Vico) *, Si enim intelligeremus (infiniti naturam], non solum rerum ratio, sed el quomodo res perficiuntur nobis innotesceret, neque id tantum, sed el res ipsas quodammodo perficere nobisconcessum esset. Qui enim verum vim naturamque pentus

agnoscit,

his recte uti ad res ipsas conficiendas valebit.

Isque absolute demonstrat qui non modo res intelligit, sed et intelligendo conficit. Quemadmodum summus is est artifex qui opus non modo in mente revolvit, sed et conficit et confi-ciendo sibi et aliis mentem suam patejacit et demonstrat 1.

12. - Di questo scetticismo teistico il Vera tratto di proposito nel Problème de la certitude. Dove, è superfluo dirlo, non solo Hegel, ma anche Kant è assai bistrattato.

Basti per un esempio la prima obbiezione che il Vera muove contro la Critica; ed è che la distinzione di senso, intelletto e ragione è più artificiale che reale; perché né la sensazione è altro che un giudizio, né la categoria ha caratteri diversi dalle idee. « Che l'atto intellettuale non venga ad aggiungersi [sic] all'impressione esterna, e la sensazione non avrà luogo. Essa è dunque un giudizio sollecitato da una causa esterna, ma che, come ogni altro giudizio, non può aver luogo senza l'intervento dell'in-telletto. Sicché senso e intelletto non sono due facoltà distinte; ciò che Kant stesso confessa implicitamente, allorché attribuisce certe categorie al senso non meno che all'intelletto. Infatti, il tempo e lo spazio sono concetti puri dell'intelligenza, né più né meno della causa, della sostanza, ecc., e quelli non sono meno di queste condizioni essenziali di ogni pensiero. Non si vede dunque in che differiscano queste due facoltà, poiché sono sede di nozioni della stessa natura»?. E con osservazioni della stessa forza continua a dimostrare che non c'è modo di distinguere per davvero le categorie dalle idee, fino a far sospettare che il Vera non avesse mai letto la Critica (per la quale infatti rinvia 3 alle lezioni del Cousin).In tutta la storia della filosofia non vede se non sforzi vani per superare lo scetticismo; e il suo lavoro vuol essere un nuovo saggio di teoria della conoscenza. Ogni conoscenza riguarda i fatti o i principii. Fatti sono le esistenze e le qualità fenomeniche; principii, le cause delle une e delle altre. La causa d'un fenomeno non è il fenomeno che lo precede, ma il principio interno, la natura dell'essere che si manifesta nel fenomeno: l'es-senza. Altro è la sostanza, sostrato o soggetto delle qualità; altro l'essenza, forma intelligibile della stessa sostanza. Ed è chiaro che il pensiero non può mirare di là dell'essenza alla sostanza; perché di questa che altro potrebbe cercare che l'essenza? La vera cognizione, che non si arresti al puro fenomeno, s' indirizza all'essenza. Ma l'essenza non è conoscibile, per ragioni derivanti in parte dalla natura sua, in parte dalla costituzione della nostra intelligenza.

L'essenza è una; e intanto è uopo che si moltiplichi negl' individui. Che è il problema della creazione, inespli-cabile, Si ammetterà un'essenza per le cose periture e una per le eterne? Ma quale sarà il loro rapporto? e quale la loro differenza se, come essenze, saranno pure entrambe eterne ed infinite? Si ammetteranno soltanto essenze individuali (atomismo): e allora l'essenza in sé sarà una semplice astrazione. - O si ammetterà una sola essenza; e allora tutti gli individui diverranno fenomeni transitori e apparenze. - E poi è necessario ridurre tutte le essenze a un solo principio, e che questo esista; perché quando ve ne fossero molte, dovrebbero sempre essere tra loro in un rapporto; e questo importerebbe un principio superiore, il quale sarebbe perciò il vero principio e unico. E che sarà questo principio? Gli si possono attribuire, come s'è fatto in tutti i sistemi, tanti caratteri; ma questi caratteri non ci faranno mai vedere l'intimo del principio e la sua propria natura.La natura poi della nostra mente ci toglie la possibilità di montare all'unità assoluta; perché niente possiamo pensare che non si presenti alla nostra coscienza come suo oggetto e che, sia esso Io o non-lo, non si ponga pel fatto stesso d'esser pensato come non-lo di contro al nostro Io. Né giova la pretesa intuizione intellettuale di Schelling. Perché o in essa il pensiero conserva la coscienza di sé, e allora permane la dualità: o smarrisce questa coscienza, e assorbendosi nell'oggetto, non sarà più pensiero, ma il niente del pensiero.

Ignorando l'essenza, non si possono spiegare i rapporti.

Si conoscono le esistenze e si conoscono i rapporti degli esseri; ma dal che non si passa al come. Non si può contestare che io sia, e che siano i prodotti della mia attività interna e del mio pensiero e gli oggetti e fenomeni del mondo esterno. Saranno tutti fenomeni, apparenze fugaci; ma non si potrà negar loro un certo essere e dire che non siano, almeno nel momento in cui sono. Chi si provasse a farlo, si contraddirebbe. Ma se vi sono esistenze che cominciano, che sono e non erano, e, insomma, effetti, questi effetti devono avere una causa. La quale causa o bisognerà cercarla tra le cose finite, o sarà la collezione delle cose finite, o la sostanza infinita di cui le sostanze finite siano emanazioni, o infine un principio separato dal mondo e avente esistenza propria e indivi-

duale. Le prime tre ipotesi sono da escludere.

a) E evidente che non può esser causa del finito un fini-to, che come tale è effetto, e richiede esso stesso una causa.

6) La collezione dei finiti non aggiunge ai finiti se non una unità artificiale ed astratta, esistente solo nel soggetto che la pensa. Quindi non può contenere più dei finiti, né essere altro che finita: cioè un effetto, anch'essa.

Senza dire che la collezione è risultato e non principio, e suppone una causa radunatrice degli elementi e quindi costitutiva di essa collezione.c) La sostanza che producesse eternamente le cose, effondendosi in esse senza potersene distinguere, anzi facendone parte, potrebbe essere o un Io, o una causa meccanica. Un lo, di cui le coscienze individuali fossero parti integranti, sarebbe tanto causa di queste, quanto queste di esso. Giacché in un tutto essenziale alle parti come le parti al tutto, non ci può essere efficienza o causalità vera, ma solo una causalitá logica. Che se l'Io assoluto si concepisca come una forza infinita manifestantesi negli individui, si potrà chiedere: e perché si manifesta o sviluppa? per darsi così una coscienza più chiara e più larga? ovvero per passare dalla potenza all'atto? In un caso e nell'altro l'effetto conterrebbe qualche cosa di più che la causa, e questo di più resterebbe senza causa. - O sarà la sostanza una causa cieca e meccanica? Ma la sola vera causa è la libertà. Se un corpo in movimento ne mette in moto un altro, noi diciamo impropriamente il primo causa del movimento del secondo; laddove ne è solo la condizione. Infatti esso non può non muovere il corpo, e non può non muoverlo con la velocità e la direzione con cui lo muove perché non è esso stesso la causa del proprio movimento, né quindi del movimento che ha comunicato. La vera causa del movimento non dev'esser mossa, ma deve muovere da sé: esser libera.

Sicché la causa assoluta dev'essere separata dal finito, libera, persona assoluta. Libera, in quanto indipendente dal suo effetto; ma legata bensi alla legge della sua es-senza. Questo già vede il Vera: che la necessità interna non è incompatibile con la libertà, almeno quando si tratti della causa assoluta. Perché nell'uomo, che non s'è dato il suo essere, il Vera crede bene che la necessità interna sia anche esterna; quantunque anche l'uomo che fa il bene, se fare il bene si concepisce come legge della sua natura, debba dirsi libero. La necessità, invece, della causa assoluta le è, per dir così, più intimamente interna.Il Vera, in questa tesi, non ammette nessuna reciprocità tra la causa e l'effetto. Questo richiama quella: ma «l'idea di causa, lungi dal contenere quella dell'effetto, l'esclude pel fatto stesso che è causa», Insomma, dualismo assoluto.

La causa assoluta, essendo libera, è intelligente, perché non è libertà senza intelligenza. E semplice e indivisibile; perché se il suo atto non fosse uno, e si risolvesse p. e. in due parti, una di queste agirebbe sull'altra, e la causa non sarebbe causa, e le due azioni causali, esercitandosi successivamente, darebbero luogo ad effetti a un dato istante sottratti alla causa, che cesserebbe perciò di essere assoluta causa. E l'atto uno suppone la sostanza una.

E già una sostanza composta sarebbe materiale, e non sarebbe più libera. Né occorre dire che, per essere asso-luta, la causa dev'essere universale.

La causalità conferisce realtà all'idea di sostanza, concepita come principio del finito, e conferisce realtà ugualmente a tutte le idee effettrici delle esistenze finite: al bene assoluto, causa del bene relativo, alla verità assoluta, alla bellezza assoluta, e via discorrendo. Con la sola categoria di sostanza potremo avere l'idea di Hegel, l'essere puro, come una « concezione logica ».

La causa ci fa fermare il piede nel reale; e la certezza del fenomeno si fonda sull'intuizione della causalità reale supposta dal fenomeno. * Il pensiero non comincia con l'affermazione d'una causalità astratta, ma d'una causalità reale. Il sentimento della mia finità è inseparabile dalla mia esistenza, e col primo sentimento della vita si produce a un tempo il sentimento del mio niente e d'un principio che mi ha fatto passare dal niente all'es-sere. Ecco già l'idea di causa che si manifesta a me insieme con la mia esistenza. E non è una causa astratta e possibile, ma una causa reale e attuale come il suo ef-fetto; non è una causa che deduco da un principio, mauna causa che colgo con un' intuizione semplice e imme-diata, con un atto analogo a quello col quale affermo me stesso». Nel libro non è citato mai il Gioberti; ma questa dottrina coincide a capello con quella della formola ideale, che cinque anni prima il Gioberti aveva propugnata nell'Introduzione allo studio della f-losofia.

Immediatezza della cognizione, inconoscibilità dell'es-senza, e quindi misticismo scettico; opposizione assoluta tra essere e pensiero, Dio estramondano e quindi negazione della libertà e della verità dello spirito come della spiritualità del vero; concezione conseguente della verità o idea come contenuto trascendente del pensiero, retto quindi dalla legge dell'identità, e della dialettica come funzione meramente negativa del pensiero soggettivo: tutta la somma delle dottrine essenziali alla vecchia intuizione platonica del mondo, contro le quali da secoli e secoli combatteva la filosofia moderna, e che furono definitivamente superate dal principio hegeliano, faceva intoppo nella mente del Vera all'intelligenza dello hege-lismo. La folla incomposta delle difficoltà che egli vi in-

contrava, attesta chiaramente la refrattarietà del suo spirito agli incitamenti e alle suggestioni della nuova filosofia, cosi rudemente paradossale a chi non sia preparato da un vivo affiatamento con tutta la storia del pensiero moderno (e si può dire anche del pensiero cri-stiano, in opposizione al greco) a guardare il mondo con gli occhi nuovi dello spirito conscio della sua vita assoluta.

Come fece il Vera negli anni seguenti a liberarsi dalla grave mora de vecchi pregiudizi, per rifarsi con nuovo e fresco vigore intorno allo hegelismo, romperne la dura scorza, e penetrarne l'intimo spirito? Rifece egli più metodicamente il cammino percorso dal pensiero speculativo da Cartesio a Hegel13. - Dopo il 1845, i primi lavori del Vera sono quattro articoli del 1848, scritti per una rivista La liberté de penser, fondata a Parigi dopo la rivoluzione di febbraio da alcuni giovani professori, come il Simon, il

Saisset, il Jacques e lo stesso Vera. E in essi il demolitore della logica e di tutto il sistema di Hegel ci si presenta in veste di hegeliano. Nessun documento illumina la crisi antecedente del suo pensiero; e bisogna contentarsi di osservare in questi articoli il suo primo atteggiamento nel nuovo indirizzo.

Il primo (La Religion et l'Etat) fu scritto a proposito delle discussioni dell'Assemblea Nazionale per definire i rapporti tra Stato e Chiesa; e combatte l'idea della se-

parazione. Sarà più tardi, come vedremo, uno degli argomenti su cui più si travaglierà il pensiero del Vera, senza riuscire mai a dar nettamente la soluzione del pro-blema. In questo primo saggio, forse perché lo scrittore non sente ancora tutta la difficoltà della questione, il suo pensiero tocca il massimo della chiarezza, che abbia mai raggiunto. Vede il progresso storico dei rapporti tra Chiesa e Stato indirizzato verso la libertà di coscienza; e giudica la Riforma protestante, malgrado la sua proclamazione del libero esame, inferiore a cotesto principio, per cui la ragione umana può sottrarsi alla tutela dell'autorità sacerdotale; perché la Riforma non proclamò insieme l'abolizione delle religioni di Stato. E religione di Stato significa autorità che è compressione della li-bertà, in quanto non è l'autorità della ragione invisibile e universale, conciliatrice della regola con la libertà, della disciplina col movimento, ma quell'autorità visibile e materiale, che, come imprigionata nel fatto e nella

lettera della legge, colpisce d'immobilità il pensiero, contrasta ogni espansione nuova dello spirito e riesce alla violenza e all'asservimento delle coscienze. La Rivoluzione francese ha compiuto l'opera della Riforma,ispirandosi a un principio superiore: il principio dei diritti dell'uomo in generale, onde la libertà nuova da lei proclamata non è più quella di una società particolare, ma del mondo. E abolisce la religione di Stato, presupponendo quella religione ideale e assoluta - scoperta dalla filosofia, di cui la Rivoluzione è figlia ed erede - la quale si sviluppa e manifesta successivamente nella coscienza dei popoli, domina e abbraccia tutte le religioni positive e compone ad armonia nella propria unità le credenze parziali del genere umano: la religione, in-

somma, naturale o razionale. Ma né la Francia né l'Europa eran preparate alla riforma religiosa, che questi principii, rigorosamente applicati, avrebbero richiesta: e ad essi occorre tuttavia far capo per gettare le basi della nuova carta religiosa.

In un articolo successivo, ma dello stesso anno, il Vera, accintosi ad esporre la filosofia della religione di Hegel, giudicherà con lui e rifiuterà, come idealismo ordinario, cotesto deismo prevalso nel sec. XVIII, il quale astrattamente foggiava la religione ideale e filosofica, che giace in germe nel fondo d'ogni intelligenza »1, Ma, pure appigliandosi per qualche altro particolare alla dottrina di Hegel, è fermo nella convinzione che basti svolgere razionalmente il principio posto dalla rivoluzione francese, fondato, come s'è visto, sulla dottrina della religione naturale. Segno che egli non era ancor giunto a possedere un concetto determinato della religione, né, comunque, a impadronirsi di quello di

Hegel.

Svolgere il principio della Rivoluzione, della libertà di coscienza, non era ciò che dal Lamennais in poi venivano chiedendo in Francia i cattolici, e avevano finito con invocare gli stessi gesuiti? Ecco, dice il Vera: « nellapresente questione, come nella maggior parte delle questioni sociali, la difficoltà consiste nel conciliare l'ordine e la libertà. Se si sopprime una di queste due condizioni, s' incorrerà nell' inevitabile alternativa, o di tornare all'autorità e alle religioni ufficiali, o di rinunziare a ogni azione normale ed efficace sugli spiriti ", Temeva il Vera. che se l'Impero, la Ristaurazione e la Monarchia di Luglio avevano piegato dal lato della tradizione e del-l'autorità, ora si piegasse dal lato opposto, esagerando il principio della libertà. Si preoccupava degli effetti di una libertà assoluta, che avrebbe portato all'anarchia delle coscienze, all'impossibilità di ogni governo morale e quindi d'ogni governo politico. Se la pigliava con la stessa espressione di libertà illimitata, che non può essere, diceva, se non una figura rettorica lusingatrice degli orecchi e del gusto del pubblico, non potendosi concepire potere che non sia limite della libertà. Né pertanto è ammissibile la separazione. I sostenitori della quale si rappresentano la società come una sorta di d'ag-gregato di parti unite insieme da legami estrinseci: laddove la storia e la teoria ci mettono innanzi un'unità sociale organica, in cui tutto è concatenato e la vita di una parte va di conserva con quella del tutto, e un'unità invisibile vi circola dentro. Perciò Hegel disse che le rivoluzioni politiche e religiose sono inseparabili; e un popolo che ne fa una e non fa l'altra, ha lasciato a mezzo la sua opera, mantenendo un antagonismo, che dovrà rimuovere, se non vuol soccombere. E questo basta qui al Vera per concludere che Chiesa e Stato sono insepara-bili. Quantungue non sia difficile vedere che il suo argomento supponga provato quel che è da provare: l'imma-nenza dell'elemento religioso, anzi della Chiesa, nell'organismo dello Stato.

La separazione è voluta da coloro che dividono con un taglio netto la sfera religiosa da quella del diritto:nella prima delle quali lo spirito umano si solleva all'eterno e all'infinito, laddove nella seconda l'uomo rimane stretto ai suoi bisogni passeggeri e terreni, e quindi implicato negli interessi, nelle passioni, nelle lotte, da cui si libera affatto mercé la religione. In questo argomento il Vera riconosce, a primo aspetto, un'apparenza di verità. Ma gli studi che in quel torno ei doveva fare della filosofia hegeliana, gliene additano il difetto. « Au fond, il repose sur une notion incomplète de la vie religieuse, et il se rat-tache à cette métaphysique qui ne saisit qu'un seul élément dans les êtres, el qui, en négligeant l'élément contraire, n' aboutit qu'à des abstractions ou à des inconséquences... E vero che Dio, comunque si concepisca, trascende ogni limite, ed è termine immutabile e infinito. Ma Dio è un termine solo del rapporto religioso, onde Dio si manifesta, e l'altro è l'uomo con le sue condizioni sensibili e finite. Né la religione è un fatto isolato, chiuso nella coscienza del-l'individuo, ma un'istituzione sociale, la quale ha per iscopo l'istruzione e la guida delle anime; e pertanto non può sorgere, conservarsi e svolgersi senza determinate condizioni materiali ed esterne, insegnamento orale e simbolico, associazione, disciplina, mezzi finanziari ecc.:

tutte cose che rannodano la Chiesa con lo Stato,

Ebbene, esclusa la separazione (lo stesso Vera si pro-pone, come sarà sempre suo costume, l'obbiezione), come sfuggire all'alternativa dell'oppressione della Chiesa sullo Stato, o dello Stato sulla Chiesa? Ma (come sarà pur sempre suo costume) se n'esce pel rotto della cuffia, perché non si spinge fino a una rigorosa definizione dei concetti che adopera. La soluzione qui la trova in quella astratta filosofia della religione, che ha accettata dal secolo XVIII, e che è pure quella dottrina eclettica della verità relativa di tutte le religioni positive nell'assolutaverità della religione naturale, che, nei nostri filosofi della Rinascenza (Bruno e sopra tutto Campanella, che ne è il vero fondatore, a lui, molto probabilmente, essendosi inspirato Herbert di Cherbury) ' portava logicamente alla religione di Stato. Lo Stato, pel Vera, deve sanzionare la libertà di coscienza: ma in questo stesso postulato è implicata l'attribuzione allo Stato di legiferare in materia religiosa, riconoscendo a tutte le religioni positive quella legittimità che è loro conferita dalla religione ideale in cui tutte sono comprese. Se lo Stato non s'incontrasse nella religione, non potrebbe né anche riconoscerne e garentirne la libertà. Lo Stato s' investe in questo suo atto di un principio filosofico, e la filosofia gli conferisce la potenza e il diritto di dettar legge in re-ligione. La filosofia che è « la fonte della vera libertà, perché essa sola proclama ed assicura quell'alta libertà dello spirito che è il principio di ogni libertà, e perché essa solleva continuamente l'umanità al di sopra di se medesima, e delle cose periture e finite, alla regione dell'eterno e dell'infinito». E però nell'alleanza dello Stato con la filosofia è il fondamento di ogni libertà: alleanza tutt'altro che facile, di certo, anzi, sotto certi aspetti. né possibile né desiderabile: ma perciò appunto fornita del carattere di ogni ideale, che genera il progresso in quanto meta inattingibile. «Tout progrès possible repose

sur un principe impossiblen 3.

E un altro punto, in cui il Vera non si solleva fino allo hegelismo, restando al dover essere (Sollen) kantiano, messo in derisione dal pensatore di Stoccarda. E la coscienza dell' irrealità dell'ideale limita l'astrattezza, tutta platonica, di questo Stato filosofico, in cui si rifugia ilVera, assai imbarazzato poi quando si tratta di tornare fuori, per rimettersi in rapporto con la realtà storica.

Se Stato e Chiesa sono inseparabili, il prete è, pel

Vera, un funzionario dello Stato. Dacché un culto è legalmente ammesso, esso diventa una funzione di Stato.

Funzione varia, diversa, molteplice, perché lo Stato ammette tutti i culti, quantunque non s' immedesimi con nessuna religione. E lo Stato perciò retribuirà i ministri di tutti i culti. - Ma proprio tutti? - Sì certamente, perché « tutti i culti, quali che siano le dottrine che professano e la parte di verità che contengono, devon o incontrarsi in un pensiero e in un'opera comune, dovendo tutti, sotto una forma o un'altra, per vie e gradi differenti, disciplinare le anime non soltanto a salvarsi, ma ad adempiere i loro doveri civili». Devono in - contrarsi: ma s'incontrano realmente? Lo Stato solo può giudicare se e in quel misura una dottrina religiosa soddisfi questa condizione. Che se si contesta allo Stato questa facoltà, bisognerà contestargli anche quella di concedere la libertà dei culti: poiché la libertà dei culti, ripeto, suppone questo criterio: suppone che lo Stato abbia saputo riconoscere che la verità non è prerogativa d'un solo culto, e che saprà anche distinguere, fra le dottrine nuove, quelle che bisognerà ammettere o rigettare ».

Ossia, in conclusione, saranno ammessi tutti i culti, che lo Stato con la sua filosofia approverà, poiché pare ce ne possano anche essere di quelli che non siano compatibili coi fini essenziali dello Stato. E allora? Noi crediamo, conchiude il Vera, che « nello stato presente del mondo, appartenga ai poteri civili e alla civiltà laica l'iniziativa della riforma religiosa, e che questa riforma debba essere imposta alla Chiesa nell'interesse della libertà e della Chiesa stessa ».

Ma allora abbiamo lo Stato teologo e la religione di Stato! - Parola più speciosa che vera», risponde l'au-tore. « Noi pretendiamo che lo Stato, quale l'abbiamo definito, quale l'han reso la filosofia e la Rivoluzione, sia perfettamente competente nella questione religiosa.

Lo Stato, bensì, non fa della teologia scolastica, non disserta sulla grazia, il peccato originale e la trinità.

Lascia queste dispute ai teologi e ai filosofi. Ma può dire fino a che punto una religione risponda ai bisogni della società, e studiando seriamente questi bisogni, giovandosi dei lumi della filosofia e della libera discussione, ha il diritto e il potere di imprendere la riforma delle istituzioni religiose, modificarle e ringiovanirle, facendovi penetrare i germi di verità nuova na

14. - Come possa lo Stato riformare una religione senza entrare nella teologia; come giovarsi della filosofia, senza intendere la filosofia stessa, e quindi filosofare: come proclamare la libertà dei culti e riconoscere a tutti i culti un valore, dovendone pure eventualmente respingere qualcuno con un criterio suo; come imporre una riforma alla Chiesa, rispettando il principio della libertà: sono tutti certamente punti molto oscuri, e non i soli, della soluzione caldeggiata dal Vera. Ma qui giova soltanto fermare l'attenzione sul carattere permanente di questa filosofia del Vera, malgrado il giudizio sulla Rivoluzione francese, cosi diverso da quello enunciato otto anni prima, e malgrado gli spunti hegeliani contro le astrazioni dell'intelletto. Essa evidentemente è ancora una filosofia non compenetrata dal concetto della razionalità del reale e della realtà del razionale: una filosofia di una ragione concepita come sovrapposta alla vita, alla storia, al reale. L'infinito si vuole congiunto essenzialmente col finito (e però la Chiesa con lo Stato). Ma l'infinito è infinito, e il finito è finito. Lo Stato non hainfinità (non ha valore), se non gli viene comunicata dalla Chiesa; né

esso può acquistarsela da sé, incorpo-

randosi e risolvendo in sé la Chiesa: a fine di stabilire i suoi rapporti con la Chiesa deve ricorrere alla filosofia, che non è nello Stato, e non è perciò lo Stato. Tutta la storia, come progresso compiuto in virtù d'un principio impossibile, ha il proprio valore fuori di sé: ossia, non ha valore. Questo non era il nuovo mondo di Hegel.

15. - Segui la prima parte dello studio sulla Philo-sophie de la religion de Hégel, non continuato, perché la Liberté de penser cessò di pubblicarsi. E in questo scritto il Vera espose il punto di vista di Hegel in questa parte del suo sistema e il suo concetto in generale della filosofia con manifesti segni di adesione, sebbene qui ancora non s'incontrino quell' iperbolici elogi della filosofia hegeliana che poi diverranno frequentissimi nei suoi libri. Tornò ad esporre brevemente il concetto della filosofia hegeliana col metodo stesso adoperato nelle tesi di tre anni prima, quantunque le difficoltà formidabili intorno ai punti fondamentali e preliminari che tre anni prima gli sbarravano l'adito al sistema, pare siano già come per incanto sparite: quel metodo, il quale consiste nel saltar dentro a una filosofia, dopo averla distaccata dal complesso della storia, in cui essa sorse e visse, e nel muovervisi dentro come altri può percorrere una galleria di quadri che non sappia come e donde raccolti. Il metodo più antihegeliano che ci sia. E cosi ora, così sempre: anche quando egli diventerà assai più esperto hegeliano e più fervido propugnatore di questa filosofia, Hegel sarà un filosofo, pel Vera, tutto chiuso in sé, che si lascia indietro, a mille miglia di distanza, non pure la filosofia prekantiana, ma Kant, Fichte e lo stesso Schelling: e se qualche riscontro potrà consentire, richiamerà Platone e Aristotele (che sono poi gli antesignani dell'oppostaconcezione del mondo). Per ora, non una parola di altri filosofi, e le determinazioni della filosofia hegeliana, strappate dal loro terreno storico, si presentano, com'è na-turale, in un aspetto equivoco ed incerto.

16. - La filosofia ricerca l'universale, l'infinito, l'assoluto in tutte le sfere sulle quali si esercita l'attività del pensiero»›, Definizione, che, se non è detto quale sia la natura di questo universale, eterno, infinito, può competere tanto alla filosofia di Hegel, quanto a qualunque altra. « Secondo Hegel, l'oggetto della filosofia è la conoscenza dell'Idea». Anche questo è troppo poco.

E tutto quello che segue non giova a differenziare 1 he-gelismo dal platonismo: « L'assoluto è lIdea, la quale si divide e si specifica in una serie di determinazioni, di cui ciascuna costituisce un modo della Idea, nonché un grado e una faccia dell'esistenza. Questa Idea e questa serie di idee non si producono a caso e secondo rapporti arbitrari ed esteriori, ma sono legate da rapporti necessari ed eterni, e formano un organismo interno, e come una trama indistruttibile su cui sono fondate l'unità e la vita del mondo»2. Lo stesso Vera sa che così c' è una profonda differenza tra l'idealismo « ordinario» e l'idea-lismo « assoluto » di Hegel. L'idea di quello è astratta, e l'idea di questo è concreta. Cioè? - Le idee del primo sono poste meccanicamente l'una accanto all'altra:

quelle del secondo hanno un concatenamento e una necessità interna. - Distinzione così, sulle generali, ille-gittima: perché non c'è filosofia idealistica che non miri appunto a questo intimo concatenamento delle sue idee; e in questo senso le idee di tutti gli idealisti sono state concrete. La concretezza hegeliana non consiste tantonella concatenazione delle idee, che, tutte concatenate, possono essere nondimeno tutte fisse, immobili: quanto nell'atto stesso del concatenamento, per cui l'idea non è legata più a un'altra idea, ma è l'altra; è, e non è se stessa; si muove, e movendosi, divenendo, è un'idea ed è un'altra idea. Sicché non più catena, ma medesi-mezza, coincidenza di opposti. E se non si guarda a questa concretezza, l'idealismo hegeliano smarrisce la sua fiso-nomia, e si confonde con l'antico idealismo.

17. - Il Vera nota che l'idea concreta è una triade: nè prima se stessa, poi il suo contrario, e infine la loro unità»; dove il 'prima', il 'poi' e l'infine', possono già dar luogo ad equivoci grossi. « Cosi il vero non è né nel-

Tessere, nénel non-essere, né nella causa, nénell'effetto, nénel tempo, né nello spazio ecc.

L'essere e il non-essere, la causa e l'effetto, il tempo e lo spazio sono elementi essenziali del vero, ma questo non è se non nella loro identificazione in un terzo termine: nel divenire, nel movimento ecc. essi attingono la loro completa realtà. Qui la cosa è diventata chiaris-sima, e le critiche di tre anni prima contro le prime categorie della logica hegeliana sono cose dimenticate.

Capi l'autore che egli mal si era apposto, cercando come il non-essere possa uscire dall'essere, ed essere e non-essere, messi insieme, produrre il divenire? Intende egli ora il processo logico come superamento dell'astrattezza nella realtà della sintesi? Parrebbe ora la sua interpre-tazione. Ma anche qui può risorgere il malinteso, assai più pericoloso, perché chi non se n'accorga, crederà d'essere già dentro l' hegelismo, e non sarà giunto invece né anche a Platone. Se l'essere e il non-essere sono elementi del vero, e il vero completo, la realtà è nel dive-nire, unità concreta dei due elementi, il passaggio del-l'astratto al concreto si può intendere in doppio modo:come passaggio dello stesso astratto alla propria con-

cretezza; ovvero come passaggio del pensiero che pensa la realtà e che, dopo averla pensata astrattamente ne' suoi elementi, si sforza di pensarla in concreto nella sua unità. Nel primo caso si tratta di un passaggio oggettivo, che è in fondo un passaggio soggettivo; nel secondo, di un semplice passaggio soggettivo, che importa un oggettivo non-passaggio. Giacché nel primo caso si muove, realizza od invera l'oggetto, la stessa realtà; che in tanto si muove, realizza od invera in quanto la stessa realtà è pensiero, Nel secondo invece è il pensiero, postosi di fronte alla realtà, o foggiatasi una realtà opposta a sé, che si muove nello sforzo di adeguarsi alla realtà stessa: segno che, se vi si adegua o quando vi si adegua, non avrà più bisogno di muoversi perché la realtà è immobile.

La strada eraclitea che è la stessa strada nelle opposte direzioni in su e in giù (ádóc ava váTo pía xai duTi)

dà luogo a una contrarietà e a un movimento appartenenti soltanto al soggetto: ma in sé è una, immutabile e immobile, come l'essere eleatico. L'idea (dell'essere elea-tico o del divenire eracliteo) si può concepire in due modi: o come una cogitatio (modus cogitandi, ipsum intelligere) come profondamente voleva Spinoza, o come un quid mutum instar picturae in tabula. Anche il fiume eracliteo infatti può esser dipinto! E allora non scorre, quantunque noi vi scorriamo sopra con la fantasia. Questo è stato il problema secolare del concetto del divenire, che non poteva risolversi se non nella filosofia moderna dopo il cogito (ergo sum) di Cartesio, e quell'idea che è l'ipsum intelligere di Spinoza, e il nuovo concetto leib-niziano della monade, e la sintesi di Kant, e l'Io di Fichte e l'Identità di Schelling- Se lo stesso divenire è visto come esterno al pensiero, si ferma e sta, come pictura in tabula. Il divenire è vero divenire del reale quando il reale non è di fronte al pensiero che lo pensa (movendosi

  • lui, o illudendosi di far muovere il reale), ma dentro il pensiero, lo stesso pensiero che pensando diviene e genera

appunto quella realtà che esso è. Qui è il punto. E la costruzione difficile dell' hegelismo è cosiffatta, che molti han potuto, prima e dopo il Vera, scambiare l'Idea lo-gica hegeliana con l'Idea platonica, oggetto del pensiero solo considerando la posizione di essa di fronte alla na-

importante ed essenziale, che si la natura come lo spirito (fin allo spirito assoluto, e alla stessa filosofia del filosofo

che sta filosofando) sono la realizzazione dell' Idea stessa, e cioe la stessa Idea nel processo autonomo del suo

svolgimento.

18. - Come l'intende il Vera in questo suo primo saggio di filosofia hegeliana? Dice:

Tout le travail de la pensée consiste à poser un élément de l'idée, - moment immédiat, — à saisir dans cet élément un élément contraire, — moment de médiation, analyse — et à trouver un troisième terme qui concilie et unit les deux pre-miers, - synthèse — puis à dégager de ce troisième terme une nouvelle détermination qui enveloppe les précédentes, et qui, à son tour, engendre une détermination opposée, laquelle se trouve conciliée avec la première dans une troisième, et ainsi de suite, jusqu'à ce qu'on s'élève à une esistence, à une idée suprême qui efface et absorbe tous les moments, toutes les contradictions précédentes dans son unité. C'est là la vie et le mouvement éternels de la pensée, et, partant, la vie et le mouvement éternels de la réalité ! 1.

Il pensiero, di cui qui si narrano le gesta, è il pensiero in sé, lo stesso reale, o il pensiero che intende il reale, il pensiero del filosofo che tesse la faticosa tela della lo-gica? Nel primo caso il pensiero sarebbe la stessa idea;e la maniera in cui il Vera si esprime, facendo del pensiero l'artefice e dell'idea la materia del suo lavoro, sarebbe per lo meno molto fantastica e metaforica. Non che queste espressioni siano illegittime; ma qui dan luogo al ragionevole sospetto che l'autore abbia veramente inteso il rapporto del pensiero con l'idea in senso dua-listico, in guisa che la conchiusione (c'est là la vie et le mouvement éternels de la pénsée, et, partant, la vie et le mouvement étérnels de la réalité) non possa avere altro significato che di una dommatica inferenza, contraria del tutto allo spirito dello hegelismo. Giacché quel partant. in astratto, potrebbe avere due significati ben diversi: o dire che il processo logico è il processo della realtà, perché la realtà è pensiero (identita); o dire che il processo logico è anche il processo della realtà, perché la forma della realtà è intelligibile come pensiero, il pensie-ro si attua nella realtà, e (nella forma più rigorosa di questa concezione) ordo et connexio verum idem est ac ordo et con-nexio idearum (parallelismo, e, in fondo, duali-smo). Ma nel nostro caso l'interpretazione dualistica é confortata dalla più ovvia interpretazione dei periodi prece-denti, dove è evidente che l'autore non avrebbe mancato di richiamare esplicitamente l'attenzione sul vero e proprio rapporto del pensiero con l'idea, se egli ne fosse stato

nettamente consapevole.18. - Ed è anche confermata dal modo in cui il Vera passa ad esporre la triade Idea-Natura-Spirito, L'Idea, egli dice, è da prima in uno stato « d' indeterminazione e semplice virtualità», quando è idea logica, e contiene le determinazioni più generali degli esseri. Giunta al limite estremo della sua evoluzione logica, l'Idea e esce da questa esistenza formale e indeterminata, e si dà per sua virtù propria, e come spinta da una necessità interna, una esistenza oggettiva e determinata nella natura n.

L'Idea infatti genera la Natura; ma in questa non esiste nella sua forma logica, generale ed assoluta, nella purezza perfetta delle sue determinazioni: diviene esterna a se stessa, si spezza in prodotti particolari esposti alla contingenza e al caso. Questa contraddizione è superata in una terza forma dell'esistenza, superiore alle due prime e che le involge nella sua unità: lo Spirito, il pensiero, dove l'idea concreta e determinata, risolleva la natura all'unità ed universalità ed acquista coscienza di sé nella libertà. - Orbene: il processo nello stesso Hegel è tutt'altro che facile; e lo vedremo a suo tempo; ma ha un carattere determinato, che a chi sia penetrato, secondo le osservazioni già fatte, nello spirito dello hegelismo, non può sfuggire. Dev'essere tutto un processo logico: una via che il pensiero pensando deve necessariamente percorrere. Ora il Vera non si mette per questa via. Egli è appunto come lo spettatore della pictura in tabula: vede uscire dall'Idea la Natura, o l'Idea generare o farsi la Natura, e non sa né può sapere per quale interna necessità: non si prova nemmeno a fare (egli che è pen-siero, quella stessa idea) quel medesimo che vede fare all'idea: non si prova a pensarlo. E come potrebbe pen-sarlo, dopo aver definito il logo una semplice vir-tualità? Posta l'assolutezza del logo, se s'intende la virtualità al modo di Leibniz (ossia nel modo più fa-vorevole), donde la ragion sufficiente ?I9. — Ma il senso di questa virtualità della idea logica ci può essere svelato da scritti posteriori del Vera, il quale, sia detto qui subito, rimase fermo a questo con-cetto. Apriamo l'Introduction à la philosophie de Hégel

(1855), che è il suo lavoro più organico su Hegel, ed ebbe molta fortuna in Francia e in Italia come autorevole esposizione della filosofia hegeliana: che i più si contentarono di non conoscere altrimenti 1. In questo libro si legge che nella sfera della logica, Dio è la possibilità e la forma assoluta; è l'essere anteriore a ogni cosa creata, e che contiene perciò stesso, virtualmente, tutte le cose » 3: dove possibilità non significa altro che pensabilità, Infatti l'autore è stato trascinato innanzi a svelare e confessare quel suo segreto concetto della logica, come non la storia eterna, la gesta eterna, dell'idea, ma come la semplice scienza dell'idea, poiché intanto era germogliato il seme da noi sospettato nel saggio del 1848. Qual è, ora egli si chiede, l'oggetto della logica? La logica è « la scienza delle forme universali e assolute del pensiero e dell'esi-stenza»: forme, bensi, che non sono semplici forme, perché queste forme si compenetrano col con-

tenuto, sono le forme del contenuto, che è l'idea stessa nella serie delle sue determinazioni. Come tale, la logica è il fondamento di tutte le scienze.

La Nature et 1 Esprit costituent, il est vrai, des états, des sphères plus concrétes et plus réelles de l'Idée, et, a cet égard la Logique peut être considérée comme une science formelleou comme la science de la méthode, mais comme la science de la forme et de la méthode absolues, comme le type, le modèle intérieur, sur lequel la Nature et l'Esprit doivent se développer et s'organiser, comme la forme, en un mot, sous laquelle l'être et la vérité existent 5.

Dove si può bensi distinguere tra logica e idea, di cui la prima è la scienza; ma è chiaro che quel che il Vera dice tipo e modello della natura e dello spirito è appunto la logica e non l'idea. Non già che egli finisca nel concetto della categoria kantianamente intesa come

condizione soggettiva della costituzione dell'esperienza, e però della natura fenomenica, quale si trova nella nostra esperienza. Il Vera rimane molto più indietro di Kant.

Oscillando tra la sua ingenua interpretazione soggetti-vistica e la lettera degli scritti di Hegel, dove l'Idea é lo stesso assoluto, egli, se da una parte non sa concepire la logica se non come una elaborazione scientifica della mente contemplatrice della verità e della mente che pensa di fatto questa verità per le idee dell'essere, della qualità, della quantità, della causa ecc., dall'altra non riesce a conferire altrimenti valore oggettivo

a siffatte

condizioni della pensabilità del reale se non ipostatiz-zandole platonicamente come tipo e modello della natura e dello spirito: ai quali l'Idea fornisce - egli dice espli-cito - una parte del loro contenuto: (e chi darà il resto ?). Su questo punto il Vera si spiega chiaramente, notando che si potrebbe dire la Logica, cosi concepita, la scienza delle possibilità assolute, non nel senso che le idee logiche siano possibilitàe non realtà, ma in questo senso che niente non e possibile né può esser pensato se non per queste idee .1.

E ricorda Kant, che aveva riconosciuto le idee logiche

come « condizione necessaria di ogni esistenza e verità »; ma le aveva concepite come condizioni negative, indotto in errore dal termine stesso di condizione; laddove 1' idea

¿ condizione come elemento integrante

e costitutivo

delle cose. La possibilità insomma, di cui parla il Vera,

¿ possibilità rispetto alla natura e allo spirito: in sé e reale e principio di realtà. La possibilità, egli dice in fine, non può toccare i principii; perché i principii o sono o non sono. Possibile è questo individuo, questo triangolo, ma non l'essenza dell' individuo e del triangolo. I concetti universali, realizzati; ecco la logica di Hegel, pel Vera: che e per l'appunto, sostanzialmente, il mondo ideale di Platone, con la sua impossibilità di risolversi

nel mondo dell'esperienza :.

Ma nel saggio hegeliano del 1848 la conchiusione è che « la logica, la natura e lo spirito formano una triade indivisibile; sono tre termini consustanziali di cui l'idea è il fondo comune, ed è l'azione reciproca e la fusione eterna di queste tre sostanze che fanno l'unità e la vita del mondo«3. Dove quel che si vede è la tri-plicità delle sostanze, e quel che si dice di vedere l'unità

dell' idea.

Insomma, abbiamo fin qui un hegeliano che vuol esser tale, perché ha studiato Hegel e ha creduto d'intravve-dere il vasto mondo della sua filosofia, assai più sícuro rifugio dallo scetticismo del Problème de la certitude, chenon fosse quella ragnatela di teismo intuizionistico in cui dapprima gli parve di poter riparare. Ma il segreto di quella filosofia rimane ancora per lui un segreto; e il suo spirito continua a gravitare verso la trascendenza platonica.

20. - Nel terzo articolo Un mot sur la philosophie el la Revolation française, il Vera, prendendo le mosse dal giudizio dato da Hegel nella Filosofia della Storia sulla Rivoluzione, come opera del pensiero, ritorna sul tema del primo scritto, sulla libertà di coscienza che lo Stato deve garentire ispirandosi alla filosofia. Ma veniamo all'ultimo La souveraineté du peuple, che, come il Vera ci fa sapere, la direzione della Liberté de penser, all'in-domani della rivoluzione di febbraio, non credette op-portuno pubblicare perché « il aurait trop heurté les opinions du moment». Vi era infatti combattuta la sovranità del popolo e il suffragio universale, sostenendo che la vera autorità è l'autorità della ragione; che la ragione non raggiunge lo stesso grado di forza, di chiarezza in tutte le intelligenze, qui restando latente e oscura, li ma-nifestandosi in una maniera incompleta, e in pochi rag-

giungendo il maggiore sviluppo; e che pertanto l'autorità spetta alla minoranza. E guardando questo lato solo della verità che egli vedeva, difende la sua tesi con quel calore d'entusiasmo, che fu con la facilità della forma una delle cause più efficaci della riputazione conquista-tasi dallo scrittore:

Si toute vérité a son origine dans l'esprit, elle est d'abord à l'état théorique et idéal avant de revêtir une forme matérielle et de passer dans les faits. Dans cet état, elle se trouve en face de la réalité matérielle, il faut qu'elle lutte contre des intéréts et des croyances séculaires, contre des habitudes invétérées; contre les préjugés et l'ignorance. C'est cette vue antérieure et prophétique de la vérité, c'est ce combat pour le triomphe d'une idée, qui constitue l'héroisme et le génie. Or les massesne sauraient s'élever à la conception de l'idéal; car l'idéal ne se révéle qu'à la contemplation solitaire et réfléchie, il demande une culture speciale, une organisation d'élite, et cette

inspira-

tion, qui a sa source dans les profondeurs cachées de l'ame, et qui ne s'éveille que sous l'action paisible et soutenue de l'intelligence et de la volonté. Les masses sont comme emprisonnées dans la réalité visible, et par le gente de leurs travaux, par leurs goûts, leurs habitudes, et par la nécessité où elles sont de pour-voir a leurs besoins matériels, elle ne peuvent franchir les limites du fait et de l'ordre actuel des choses, ni discerner le vrai et le faux, le possibile et l'impossibile 1.

Il vero uomo di Stato non si confonde infatti col po-polo, non se ne fa strumento - che sarebbe interdirsi ogni azione durevole e salutare su di esso; non abdica alla propria individualità, ma la fa servire al bene del paese. Ebbene, se la luce nella società e perciò l'autorità, non sale ma scende dall'alto, al sommo della vita sociale ci sono tre sfere d'attività che riassumono e dominano tutte le altre: la politica la religione e la filosofia. In quale di esse risiederà l'autorità suprema? Nell'uomo politico, nel prete, o nel filosofo? Il Vera rinvia la ricerca a un altro studio; ma la risposta è implicita nel suo scritto e nel primo di questi articoli: il potere cioè spetta all'uomo politico, che prende voce e norma dal filosofo. - Con tutto l' hegelismo del Vera, siamo ancora, almeno fino a questo punto, al concetto della repubblica di Platone!

21. - L' hegelismo tuttavia, a poco per volta, divenne un credo fermissimo pel Vera; e la storia della filosofia fini con l'esser messa da parte. Non abbiamo certo Coup d'oeil sur l'Idéalismes, che dovette esser pubblicato prima che il Vera passasse in Inghilterra. E di anterioreall'Introduction à la philosophie de Hégel non ci resta che l'opuscolo inglese del 18554, scritto in proposito di

una

Teorica dell' infinito del filosofo scozzese Calder-wood (contro Hamilton) e delle Istituzioni di metafisica del Ferrier: libri che parvero notevoli al Vera perché

questi autori

si sollevavano al di sopra del solito empi-

rismo inglese e della filosofia del senso comune. Il giudizio del Ferrier su Hegel (che a guisa di gigantesco serpente boa avrebbe stretto nelle spire delle sue dottrine impenetrabili come diamante tutti gli errori correnti)

dava qui occasione al Vera di dichiarare che « ci ha nella filosofia dell' Hegel una certa natural direzione, certi tratti cosi determinati e certe principali conseguenze che non possono sfuggire a chiunque vi si sia accostato, e che formeranno d'oggi innanzi il criterio e la norma direttiva di ogni ricerca filosofica; e di accennare quindi questi punti fondamentali della filosofia hegeliana. In questi punti, evidentemente, si condensa l' hegelismo del

Vera.

In primo luogo: la filosofia è la scienza dell'assoluto: postulato indimostrabile, perché ogni dimostrazione 1o presuppone, non essendovi intendere che non sia intendimento dell'assoluto. Quindi l'assurdità di tutte le dottrine che cominciano dal negare o mettere in dubbio il valore della conoscenza.

In secondo luogo: chi dice scienza dell'assoluto, dice scienza delle idee, perché tutto si conosce per mezzo delle idee», né possiamo conoscer nulla di là dai limiti del mondo delle idee: onde, se diciamo che l'anima non è un'idea, ma una forza, una causa, una sostanza, che è semplice, immateriale ecc., anche allora, senza riflettervi « noi usiamo delle idee, e descriviamo l'oggetto come unaggregato di quelli stessi elementi che abbiamo respinti sotto un'altra forma ».

In terzo luogo: il metodo filosofico è il metodo proprio della conoscenza dell'assoluto, o delle idee: metodo as-soluto, non essendo altro che la forma dello stesso as-soluto, o la forma in cui le cose esistono e sono cono-sciute: ossia il sistema, nel suo ordinamento dialettico.

In quarto luogo: il sistema importa l'unità e la molte-plicità, elementi identici e contradittori. Il metodo assoluto o speculativo si distingue appunto per questa sua conciliazione dei contrari, onde gli elementi discordi si compongono in armonia.

Con questi concetti Hegel ha dato corpo a uno de' più comprensivi e profondi sistemi che mai vennero fuori della mente umana, il quale abbraccia tutte le parti del sapere, la logica, la filosofia dello spirito, la filosofia della natura, la politica, la filosofia dell'istoria, l'estetica, la religione. Anzi, strettamente parlando, si può dire che nell'istoria della scienza il suo sia il primo e vero sistema, imperocché né Platone, né Ari-stotele, né alcun moderno filosofo hanno avuto un cosi vasto concetto della scienza, e così abbracciato e legato insieme i diversi anelli dell'aurea catena a cui l'universo è sospeso. E uno de' tratti principali di questo maraviglioso filosofo si è che le sue più alte speculazioni hanno un carattere tutto istorico, e un risultamento positivo e una pratica applicazione. Cosi potente e cosi comprensiva era la sua mente, cosi profondo lo sguardo che egli getta nella natura delle cose 1,

E il primo inno cantato dal Vera al suo autore, che tornerà a dire nella sua prolusione napoletana (16 dicembre 1861): « quella mente prodigiosa e sovrana, che i nostri tempi hanno prodotta, e che, non esito a procla-marlo, per la profondità, per la vastità delle cognizioni, e anzitutto per la mente speculativa e sistematizzatrice tutte le altre ha vinte, ma le ha vinte in sé riepilogandolee concentrandole»*; e altrove: « le plus grand génie dont s'honore l'humanité»=; colui nella cui filosofia e' è tutto, e c'è « comme il doit y être, par là qu' il y est dans

SON existence systématique»3; e la cui

Enciclopedia si

compiacerà di considerare come una nuova Bibbia, « la Bibbia dell' hegelismo • 4, Ed è altresì la prima volta che egli enuncia come titolo singolarissimo della filosofia hegeliana questa sua prerogativa, che poi non si stancherà mai di esibire: la sua sistematicità, parendogli pregio altissimo questo di Hegel di aver trattato ex projesso tutte le parti del sistema della sua filosofia, ed esteso il suo sguardo a tutti i rami del sapere, legandoli fortemente tra loro e creando un vero sistemas: non considerando che non c'è filosofia, né pensiero mai, che non abbia la sua perfetta sistematicità; e che il sistema non consiste nella configurazione esteriore delle parti (al qual patto Wolff è più sistematico assai di Leibniz, e ogni pedante espositore dell'autore esposto), sibbene nella universalità del principio e nella profondità dell'intuizione originaria. Egli superficialmente si contentava della forma estrinseca e non cercava più in là, lasciandosi sfuggire i titoli più autentici del genio di

Hegel.22. -— Ma, tornando ai quattro punti essenziali che gli pareva di scorgere, quando già meditava la sua Intro-duzione, nella filosofia hegeliana, non occortono commenti ad assodare che il suo hegelismo era tuttavia un hegelismo abbastanza platonico; e platonico di quel platonismo della decadenza della filosofia greca, in cui, sorto già lo scetticismo contro la primitiva posizione platonica, la fede nelle idee era ristaurata con nuova e peggior forma di dommatismo. Che sono infatti quelle idee, in cui si risolvono tutte le categorie della realtà, così come il Vera ce le presenta, se non le stesse idee vuote della vecchia metafisica wolfiana, riduzione ideale evanescente del mondo, onde tutto si pensa senza nulla fare? quella specie d'oro di Mida, in cui si converte tutto il mondo del povero re, esposto alla dura sorte di morirsi di fame e di sete ?

Questa concezione rimase fitta nella mente del Vera.

Il quale, nella sua prolusione di Milano Amore e filosofia (11 novembre 186t), uno degli scritti, di cui più egli si compiacque!, ripetendo il ritornello che la filosofia è la scienza dell'assoluto, che l'assoluto è l'idea, in cui si concentrano e unificano la molteplicità e le diffe-renze, sostenne che perciò « la filosofia e la scienza delle scienze e, rigorosamente parlando, la sola scienza, e che tutte le scienze e tutte le filosofie, che lo vogliano o non lo vogliano, che lo sappiano o l'ignorino, sono parti di una sola scienza e di una sola filosofia»: o, come dirà altrove :, tutti gli uomini sono hegeliani senza saperlo. Poiché pensare e intendere è pensare e intendere idee, e non e' è altra filosofia o scienza che l'idealismo assoluto 3. Sicché il materialista, che non pensa « la materia, la forza, la na-tura senza le idee di forza, di materia e di natura», è anche lui a suo marcio dispetto dentro l'idealismo, e non se n'accorge. E come il materialista, lo scienziato, il fisico e il matematico sono idealisti senza saperlo; perché tutti maneggiano le idee; e non potrebbero fare altrimenti. E nella già citata prolusione della fine dello stesso anno ripeté le stesse cose ponendo in forma più ingenua l' inconsapevole dualismo e il conseguente dom-matismo in cui egli restava sempre impigliato. « Nella stessa guisa che non si può pensare il triangolo, o il bene, o la giustizia, o la luce, o il tempo, o lo spazio, o un altro ente qualsiasi senza l'idea che ad essi corrisponde, così non si può pensar l'assoluto senza l'idea dell'assoluto » 1.

Non si potrebbe più chiaramente confessare che questo assoluto, il quale deve generare non solo l'essere ma la cognizione dell'essere, non si sa d'altra parte concepire se non come l'obbietto della mente, in sé, perciò, estraneo alla mentalità, e l'idea della mente come altro dall'assoluto a cui deve corrispondere. E come corrispondere ?

23. - Il Vera non ebbe mai un orientamento storico degno di una filosofia come la hegeliana, che concepisce tutte le filosofie precedenti come suoi momenti. Chiusosi nello hegelismo, ei fu subito tratto instintivamente dal suo cattivo genio a tagliare i ponti con tutti gli altri sistemi e principii filosofici, di cui avrebbe invece dovuto cercare i rispettivi gradi di verità. Nelle Ricerche sulla scienza speculativa e sperimentale, combattendo l'empi-rismo inglese, si rifà dalla dottrina baconiana dell'indu-zione, e giudica a questo proposito Bacone. E lo giudica cercando se nel Novum Organum ci sia un principio nuovo.

L'induzione? Ma negli Analitici di Aristotele la natura di questo metodo, le sue leggi, i suoi limiti, le sue rela-zioni con la conoscenza oggettiva

Sono

State descritte

con quella maniera concisa ma sostanziale che è propria del filosofo greco. Né Bacone vi ha fatto alcuna giunta essenziale. Peggio: Bacone non aveva un concetto esatto della natura della scienza e delle sue esigenze, e però né anche della stessa induzione, come è dimostrato dalla sua pretesa che la scienza non si possa ottenere se non induttivamente. Bacone, troppo poco versato nella flo-soha greca, non vide che le sue novità erano vecchie: i suoi contemporanei « non meglio istruiti di lui sulle fonti originali e sul vero valore delle teoriche aristoteliche, accettarono leggermente le sue opinioni., Insomma, tutta la fama di Bacone è una fama scroccata, fondata su errori di fatto, cui basterebbe a correggere il solo voltare la pagina di un libro».

E con questi profondi criteri storici scrisse in inglese nel 57 uno studio su Bacone, in certo giornale, Emporio italiano, che egli stesso dirigeva:: dove le stesse considerazioni delle Ricerche sono svolte e confortate dall'analisi di alcune dottrine baconiane per conchiudere egualmente, che si può cancellare dalla storia del pensiero speculativo un così importante momento qual è, per chi l'intenda, questa prima affermazione, nell'età moderna, della storicità del sapere o del momento della certezza.

Il saggio finisce con una sentenza che potrebbe esser profonda, ma è piuttosto superficiale: « La scienza, anziché essere la esatta riproduzione e la copia fedele del-l'esperienza, dev'esser in certo senso l'opposto dell'espe-rienza; e quindi voler fondare la scienza sulla esperienza è andare a ritroso della scienza stessa ». Frase che, ristampando il saggio nel 1883, l'autore stesso senti il bisogno di commentare con autocorrection.cancel lunga nota, poiché gli si affac-ciò il sospetto che una volta che c'è il mondo dell'esperienza e dell'induzione, il mondo fenomenale debb'avere anch'esso la sua ragion d'essere e contenere la verità; sicché esagera negando alla cognizione empirica ogni ragione ed ogni verità». E si scusava adducendo che il suo scritto aveva carattere popolare, e che egli vi s'era proposto di mettere sopra tutto in rilievo il lato vulnerabile del-l'empirismo, e che infine la verità della cognizione empirica è una « verità subordinata, una verità, cioè, che non rinchiude in se stessa la ragione del suo essere, e suppone quindi una più alta verità; e che perciò quando l'empirismo pretende di essere il solo e vero organo della verità, «esso sconvolge l'ordine delle cose e nel fatto nega ogni verità e cognizione. Scuse troppo magre, perché queste ragioni potevano limitare, non negare il valore di Bacone.

24. - E in realtà quale sia la verità dell'empirismo né allora né poi il Vera volle mai dire 1. Nelle Ricerche, postosi sullo stesso terreno dell'empirista, l'esperienza la concepisce, per rigettarla, allo stesso modo di chi ne fa l'unica fonte della conoscenza quasi sbocco nel pensiero, di una realtà esterna. E contro Locke sostiene che tutte le idee sono innate, perché non c'è sensazione che possa essere avvertita, e cioè pensata, come una sensazionesenza un idea corrispondente; che il non esserne mai consapevoli non prova, come credette il Locke, che non esistano, come non si può dire « che non vi siano leggi che regolano le operazioni organiche del corpo perché

da prima camminiamo, mangiamo, digeriamo senza es-serne consci, ed ignorandole». L'empirista, intento ad osservare e raccoglier fatti, non s'accorge di adoperare una quantità di principii, che pur « debbono preesistere nella sua mente, e dee la sua mente concepirli, ancorché oscuramente e sotto un' incerta e confusa luce.. - Dove parrebbe di scorgere una prova che ancora il Vera non si fosse dato la pena di studiare la Critica della ragion pura, né i Nuovi Saggi sull' intelletto umano.

Di Leibniz si occupò nel 186r nella sua polemica col

Saisset e col Janet ‹, poiché il primo di questi, parlando

insieme di Leibniz e di Hegel, aveva accennato a met-tere il filosofo della Teodicea al di sopra di quello della Fenomenologia: e il nome del Leibniz, grazie all' interesse per gli studi storici suscitato e nudrito dall' impulso del Cousin, era salito in auge in Francia, e Foucher de Careil aveva dato i due volumi del carteggio di Leibniz con Bossuet, e l'Accademia aveva messo a concorso un tema sulla filosofia leibniziana, ottenendo due lavori degni del premio, uno dello stesso Foucher de Careil e l'altro del Nourrisson. Il Vera, che gia insegnava storia della filosofia, e si professava hegeliano, dice a questo pro-posito in tono tra l'ironico e lo stizzito:

J'ai moi aussi le culte des morts, qui est une religion, on l'a dit, je crois, et qui, comme toute religion, est utile aux vivants.

Aussi l'Acadentie mettrait-elle au concours la vie et les gestes de Confucius, ou de Menou qu'il faudrait lui en savoir gré. A plus forte raison, faut-il lui en savoir, lorsqu'elle fait de son mieux pour entourer d'une nouvelle auréole un nom comme celui deLeibriz. Jusque là c'est très-bien. Mais ce qui est moins bien, ce que du moins je ne puis approuver, et ce qui pourrait même au besoin m'indigner et me révolter, c'est qu'on fasse du bruit autour d'un mort pour étouffer la voix des vivants, c'est qu'on veuille donner à une ombre des proportions gigantesques pour couvrir et effacer un véritable géant.

E alzando sempre più il tono:

Voilà ce que je ne veux point, et ce que je combattrai de toutes mes forces, eusse-je devant moi l'ombre de Platon ou d'Aristote. Et, en combattant ainsi, je croirai combattre, non sculement pour la vérité et la justice, mais pour la dignité de mon siècle, et de la nature humaine.

E pare credesse sul serio che si « esumasse » Leibniz, e si « facesse chiasso» intorno a questo nome per dirci che l'epoca dei giganti è passata e siamo a quella dei

pigmei; sicché oggi « per colpire Hegel» ci serviamo di

Leibniz; domani si potrà esumare Plotino, Giamblico, per mostrare, come diceva il Saisset, che la dottrina di Hegel è quella del vecchio panteismo: et nous reculerons ainsi, s'il le faut, jusqu'au paradis terrestre1 Onde ridu-ceva la questione a questi termini:

Ainsi donc, vous nous dites, Leibniz est un grand personnage, et Hégel n'est pas un grand personnage, car c'est là, au fond, la pensée qui domine dans l'écrit de M. Saisset. À cela je repon-drai sans hésiter, si Leibniz est grand, Hégel est plus grand encore.

passi. Ma il Vera, per rendere, com'egli dice, più preciso e più sensibile il proprio pensiero, aggiunge che «se Leibniz non fosse esistito, la catena della scienza non sarebbe punto spezzata, perché noi avremmo Newton a prendere il posto lasciato da Leibniz», che è un gran matematico, ma un mediocre filosofo e un diplomatico: diplomatico non solo nelle controversie religiose, ma nella stessa filosofia. « La sua filosofia è la filosofia degli espe-dienti, delle parole e delle apparenze. Quando non intende la cosa, mette una parola al suo posto; quando una difficoltà lo stringe, non vi si sottrae attaccandola sinceramente e di fronte, ma per l'uscio di dietro ».

E della sua critica concreta basti un esempio. Che è la monade di Leibniz? Questi parte dal principio che ogni essere o ogni sostanza composta, in quanto tale, deve risolversi negli elementi componenti semplici e indivi-sibili; che sono appunto le monadi. - Ora che metodo è questo? Decomporre un tutto nelle sue parti: il metodo che aveva prodotto l'atomismo: metodo volgare, arbi-trario, che non si preoccupa niente niente di giustificarsi.

Perché si decompone? a qual fine? che si cerca? Nessuna risposta. E si può decomporre un tutto? Ma se certi elementi sono uniti in un tutto, il loro essere dipende anche dalla loro unione, e separarli è distruggerli.

Donde poi le escogitazioni puramente verbali dell'armonia prestabilita e delle fulgurazioni della monade delle mo-nadi, necessarie per ricostruire alla meglio quell'unità malamente infranta. - Critica, che è vera certamente ed hegeliana: ma ha il gravissimo difetto (e difetto tutt'altro che hegeliano!) di essere soltanto negativa, e non saper vedere il pregio grandissimo della monade leibni-ziana, come la prima concezione, nella storia del pensiero umano, dell'autonomia assoluta dello spirito.

25. - Né più penetrazione e simpatia storica ebbe per l'altro grande filosofo prussiano, E. Kant, malgrado la sua capitale importanza nella genesi dell' hegelismo.

Ogni volta che ne scrisse 1, ne disconobbe affatto il va-lore, guardando solo al lato negativo della filosofia critica,e sconvolgendo co'

suoi giudizi tutta la storia che la pre-

para. Non può intendere Kant, chi non intenda Cartesio.

E che è Cartesio pel Vera? Uno scettico, da dar dei punti a Carneade. E vero che la dottrina della versimiglianza è per l'accademico il risultato della scienza; e il dubbio è, invece, per Cartesio un punto di partenza e il mezzo di purificare la mente che deve accingersi alla ricerca della verità. « Tuttavia, questa differenza fra le sue dottrine è più apparente che reale. Imperocché ogni qual volta si fa del dubbio una condizione o un elemento essenziale della cognizione, ch'egli si mostri al punto d'arrivo...

o al punto di partenza.... il risultato è lo stesso: si colpi-sce, cioè, la scienza nella sua essenza, che è l'affermazione, e la si rende impossibile »1. E non riesce a scorgere mai né la ragione metodica del dubbio cartesiano, dimostrazione di quel carattere essenziale della conoscenza, che è la certezza, o presenza del soggetto nella verità; né della necessità di quel dubbio, per giungere all'affermazione tutta cartesiana del cogito; né il significato di questo

cogito 326. - Scettico Cartesio, due volte scettico Kant.

Contro il quale il Vera non si stancò mai di ripetere la critica hegeliana (che in Hegel ha un valore affatto in-cidentale) della assurdità di una ricerca sul valore della cognizione come necessario preliminare all'uso della cognizione stessa. Critica, sulla quale non giova insistere troppo contro Kant, che dal bisogno di una preliminare teorica della conoscenza non parte per giungere allo scet-ticismo, ma alla giustificazione di una sua positiva filo-sofia; essendo questa la natura propria di ogni filosofia, ossia della filosofia, di essere un circolo, in cui non si può muovere da un punto senza volgere le spalle a tutto il resto del cerchio che si ha da percorrere. Ma, a parte questo punto, che non fu chiaro nemmeno a Hegel, del Vera è tutta la scoperta (in un suo articolo del '60) che uno dei risultati» dell'analisi kantiana dell'intelligenza « fu, com' è noto, la discoperta di un doppio elemento in ogni atto o operazione del pensiero, di un elemento estrinseco, cioè contingente e variabile, il feno-meno, e d'un elemento intrinseco, necessario e inva-riabile, il noumeno: il quale venne da Kant suddiviso in categorie e idee:!. Confusione tra noumeno e categorie o idee (ossia di ciò che vi ha di più opposto per Kant), che non impedisce al Vera di identificare poi il noumeno con la cosa in sé, mediante l'equazione del noumeno con « Dio, l'idea, l'assoluto». Onde la sua critica di Kant culmina in quest'accusa, che in realtà, la sensazione costituisce il criterio della filosofia critica, e tutti i suoi ragionamenti vertono intorno a questo principio: l'assoluto, il noumeno, la cosa in sé (Ding an sich), come Kant la chiama, non possono esser conosciuti ed affermati, perché non possono essere sentiti e imaginati ». Così non v'ha dubbio che Kant stesso (quellosopra tutto dalla seconda edizione della Critica) si sarebbe visto camuffato da scettico!

Il Vera dovette più tardi, io credo, leggere l'opera maggiore di Kant, e della sua dottrina tornò a discorrere un po' distesamente all'Accademia delle scienze morali e politiche di Napoli nel 1882. Dopo la solita accusa di scetticismo larvato, prese ad esporte umoristicamente la teoria kantiana dell'esperienza, accennando la decomposizione dell'atto dell' intendimento in forma a priori e contenuto a posteriori, o categoria e dato sensibile. Due elementi, che non sono separati, ma uniti indivisibil-mente.

Come, adunque, S'incontrano e si uniscono? Nulla di più semplice. Quando il mondo esterno, la natura, viene col concorso della sensibilità a bussare alla porta della intelligenza, questa sorge dal suo letargo, trae fuori dal suo arsenale le categorie, e risponde alla chiamata battezzando e imponendo un nome al-l'obbietto, e impartendo con ciò a se stessa una esistenza e una realtà obbiettiva. Quindi l'esperienza è un battesimo in cui il neonato, l'obbietto esterno, riceve un nome, una forma razionale che lo trasforma in un qualché d' intelligibile 1.

E dopo questa caricatura, eccolo a far la voce seria e a rimproverare Kant di aver diviso i due elementi del-l'esperienza: chiudendo gli occhi, malgrado i magistrali lavori dello Spaventa, che c'erano stati in Italia, e malgrado le profonde interpretazioni di Schultze e di Beck prima, e poi di Fichte (che il Vera non avrebbe dovuto ignorare), su tutta l'attività creatrice dello spirito, che plasma e governa l'esperienza di Kant.

Qui, se non confonde più categorie e noumeni, continua a ritenere sinonimi nel linguaggio kantiano noumeni, cosa in sé e idee, e la ragione chiama • facoltà dei nou-

meni, cioè delle idee propriamente detten e dalla semi-passività delle categorie, la cui funzione è subordinata al concorso dell'oggetto esterno, argomenta:

Se gli elementi, o principii che costituiscono l'esperienza, sono limitati, subordinati e passivi, ne siegue ch'essi presuppongono un principio attivo che li domina, che è il loro comune prin-cipio, la loro unità, e di cui sono le differenze, i momenti. La cosa in sé, il noumeno, l'idea di Kant altro non può essere che siffatto principio. Il noumeno è principio del fenomeno, vale a dire della categoria e dell'obbietto sensibile, come anche del loro rapporto, della loro unione, cioé, nell'atto sperimentale, nel fe-

nomeno.

E cosi, per intendere la sintesi a priori guarda all'estremo opposto di quello, a cui la storia della filosofia già, continuando Kant, aveva guardato.

Eppure, nell' Introduction à la philosophie de Hégel il Vera riconobbe che accanto ai risultati negativi della critica, vi son pure in quella filosofia « des germes si fé-conds, des vues si larges et si riches, et une intuition si profonde de la science, qu'elle était destinée à susciter un grand et nouveau monvement» t. Ma li dall' indirizzo stesso della sua ricerca, in cui si proponeva di sbozzare in qualche modo il risorgimento dell'idealismo fino al suo culminare in Hegel, era stimolato a cercare in Kant l'addentellato della filosotia posteriore. Ma anche li, quali sono pel Vera i meriti di Kant? Tutto si riduce a questo: che Kant, pel primo nei tempi moderni, ha ricondotto l'idealismo sul terreno dell'ontologia, provocando cosi, dopo Platone, una nuova ricerca sulla natura delle idee.

Infatti, « movendo dal principio che ogni conoscenza si fonda su una forma primitiva del pensiero, fu condotto a seguire il pensiero in tutte le sue applicazioni e in tutte le sfere della sua attività, e a fissare per ciascuna d'esse l'elemento essenziale che la regge e determina. Dondenumerose ricerche concernenti la cerchia intera delle cognizioni, la metafisica, la morale, la natura, la religione, il diritto, l'arte, . dove Kant si sforza sempre di cogliere le leggi invariabili e assolute dell'intelligenza ». Sicché il pregio dell'idealismo kantiano consisterebbe nell'esempio dato di una indagine universale governata da unità di principii: l'unità della scienza e del metodo: « voilà le côté posilij el vraiment fécond de la philosophie de Kant, et c'est par ce côté qu'elle se rattache au monvement ulté-rieur de la philosophie allemande». Concetto che non gli potrebbe servire a una qualunque ricostruzione di questa filosofia; se egli (messo, forse, sulla strada dalla fonte di cui si doveva servire) non passasse poi a determinarlo altrimenti, facendo consistere l'unità di principio, portata da Kant in tutta la scienza, nell'idea considerata come condizione assoluta della conoscenza, e il processo speculativo da Kant ad Hegel nel passaggio dell'idea stessa da condizione della conoscenza a principio assoluto delle cose. Quel che segue infatti, dove passa a mostrare che i germi di questa trasformazione erano già in Kant, non può essere pensiero del Vera, il quale non se ne ricordo mai, in séguito, nei suoi giudizi sul criticismo. Il passaggio da Kant a Hegel era per lui oscuro, e chi sa donde è attinta questa giustissima osservazione, dove per altro talune espressioni incerte e poco esatte tradiscono una conoscenza indiretta: che « nella filosofia kantiana, quantunque essa faccia una larga parte all'esperienza, considerata come condizione all'esercizio dell'intelletto e il solo mezzo di verificare il valore oggettivo delle sue leggi, il pensiero conserva la sua superiorità sull'esperienza, e, anzi che ricevere da essa le sue leggi, gliele impone in guisa che esso foggia (jaçonne] e si assimila i fenomeni, i quali non possono giungere a lui se non attraverso le sue forme e le sue leggi»; e quest'altra idea, più profonda, che «l'atto trascendente e sintetico della coscienza, iopenso, vi è presentato come la condizione essenziale e, per dir cosi, il substratam di ogni conoscenza, e costituente l'unità della coscienza e di tutti i suoi elementi, delle sue appercezioni interne o esterne, delle categorie e delle idee come dei materiali forniti dall'esperienza ».

27. - Anche il passaggio da Kant a Fichte (il Vera pare non sappia nulla dei minori kantiani che spianano la via a Fichte) è bene rappresentato, almeno in appa-renza: osservandosi che le leggi del pensiero non sono poi elementi vuoti e inerti, ma potenze, forze che producono i fenomeni; e che il loro centro è in quell'unità profonda dell'Io («la cui forma più elevata è l'atto sintetico del pensiero i); e però dall'Io scaturisce ogni attività dell'intelletto, e quindi questo mondo esterno e oggettivo, su cui l'intelletto si esercita. Donde Fichte, che pone nell'Io l'unità delle cose. Ma le poche pagine dedicate al pensiero di Fichte sono seguite da critiche, che dimostrano la scarsa familiarità del Vera con quel pensiero in relazione ai principii più profondi della Cri-tica, e la sua incapacità di apprezzare storicamente questi punti capitali della preparazione allo hegelismo.

Tutto il progresso di Fichte è raccolto in queste tre osservazioni, superficiali o del tutto erronee: 1) che Fichte ristabili l'unità della intelligenza, che Kant aveva spezzata con la sua divisione della ragione, in pratica e spe-culativa; 2) dedusse con metodo rigoroso l'una dall'altra le varie parti della conoscenza, facendo così sentire sempre di più il bisogno e mostrando insieme la possibilità di organizzare la scienza secondo i rapporti interni delle sue parti; 3) facendo dell'Io il principio del pensiero e dell'essere, «provocava ricerche più profonde sulla natura e le leggi del pensiero e i loro rapporti con le cose, e preparava la via alla filosofia dello spirito di Hegel ».

Ma la parte negativa, al solito, supera di gran lunga lapositiva; e le censure si accumulano l'una sull'altra con una desolante inintelligenza. Eccone qualche esempio.

Le deduzioni di Fichte non penetrano gran che nella natura delle cose, di modo che non si vede né perché né come si producano le opposizioni e come si passi da un termine all'altro. — Il non-io è contenuto bensi nell'Io (anzi, dice il Vera, dans la notion même du moi) ma questo punto non è dimostrato; perché Fichte non s'era elevato a quel metodo che ricava dal concetto di una cosa la sua differenza e la sua unità. Il suo metodo era ancora accidentale ed estrinseco; e però egli ridusse tutte le opposizioni a quelle di lo e non-Io, laddove la contradizione c'è anche nel non-lo preso separatamente (bel gusto, invero, a prenderlo separatamente, dopo Fichte!). - E poi l'Io è un concetto o una forza? (domanda, che è una rivelazione o una confessione rispetto alla posizione del Vera nell'intendere la natura del movimento del pensiero nella logica hegeliana). - Ancora: I' Io di Fichte, se è un lo relativo, contingente e finito, si lascia sfuggire l'assoluto e l'infinito della scienza; se è l'Io assoluto, allora la sua tendenza, il suo sforzo infinito per attingere l'assoluto è inesplicabile. E via di questo passo, o con questi salti. Ma il più curioso è che il Vera infine dice: «Telles (0 sont les lacunes que présent la doctri-ne de Fichle et que Schelling s'efforça de faire dispa-

raitre ".

28. - E sorte non migliore, per iscarsa o nessuna conoscenza diretta e per divergenza di punto di vista, capita quindi a Schelling, di cui il Vera, non occorre dirlo, non sospetta nemmeno il reale motivo speculativo e il progresso vero su Fichte: e il cui sistema giudica, a un tratto, come « plutot une oeuvre d'arl qu'ane ocuore waiment scientifique,.. plutôt le produit de la jeunesse que de la maturité de la pensée d'une vive et riche imagi-nation que de celle intuition profonde et réféchie, qui est le résultat des procédés sevères de la sciencent.

29. - Se cosi giudicava i maggiori filosofi tedeschi, che non fossero Hegel, qual meraviglia che non tenesse in nessun conto tutti i filosofi italiani? Quanto più d' ingegno e di dottrina spiegava il suo collega napoletano

B. Spaventa a mettere, come si dice, in valore la filosofia italiana, dimostrando con le sue penetranti investigazioni i tesori di pensiero che si celavano nelle sue viscere, tanto più il Vera, la cui cultura s'era formata fuori d'Italia, e che, scrivendo in Francia, aveva finito col non dire più

'i francesi ' ma 'noi'=; e imbevutosi dell' hegelismo, non aveva più saputo guardare all'Italia con altri occhi, che quelli onde, in generale, tutti i romantici tedeschi vi guardarono commiserando 3; tanto più, il Vera, per cuidunque non esisteva il problema dello Spaventa, di edificare sulle fondamenta, e svolgere il pensiero italiano,

movendosi dentro di esso e movendosi con esso, più s' impuntava, assai poco hegelianamente, ad asserire che in Italia non s'era mai filosofato, e che bisognava rifarsi da capo. Una eccezione parve talora farla pel Bruno, celebrato da Hegel come » nobile anima, che sente in sé l' immanenza dello spirito e intende l'unità della sua essenza e dell'essenza universale come tutta la vita del pensiero 7. Nella sua prolusione a Napoli, la occasione stessa l'obbligò quasi a ricordare i due grandi nomi na-poletani: Bruno e Vico. E il primo mise al di sopra del secondo, quantunque manchi a quello « sopratutto il punto di vista, o concetto istorico, concetto importantissimo e che è il segno caratteristico, e dirò come il trionfo della filosofia moderna»: e l'abbia invece il Vico, e sia anzi la sua originalità. Pure, «Bruno è un profondo me-tafisico, a tal segno ch' è come l'eco dell'antica filosofia e il precursore della moderna». Ma non andò (né credo potesse con la cognizione che doveva averne) oltre tali e simili generalità. A cui si attenne anche lo scolaro

Raffaele Mariano in quel suo pamphlet sulla filosofia contemporanea italiana, in cui si fece, come già in altri scritti, organo del pensiero del Vera. Tra Bruno e Vico il Vera non vedeva che tenebre. Di Campanella mai una parola, che io sappia. Vico è lodato caldamente in un articoletto (L'esegesi), scritto in Inghilterra, nel 1857% con qualche accento di italianità: lodato come « genio profondo e originale», « uno dei primi, per non dire il primo, ad entrar nella carrieran in cui andarono poi tanto innanzi i tedeschi, della critica erudita e della filologia: come quegli che nel De antiquissima Italorum sapientia « ha poste le basi della critica filosofica delle lingue», nel De unico principio et fine tris (sic) « ha poste le basi della critica del diritto e nella Scienza nuova ha fondato la filosofia della storia, e quindi i principii della critica storica. e con la sua teoria sul « vero Omero » va considerato «come il punto di partenza e il motore di tutte le ricerche posteriori sulla questione omerica..

Giudizio molto modificato più tardi:, in parte corretto (in ciò che concerne il De antiquissima ne aveva bisogno), in parte peggiorato e ravvolto in un apprezzamento complessivo superficialissimo. « Vico è un mediocre me-tafisico. Trasportando l'idea platonica, e anzitutto l'idea della repubblica di Platone nella storia comprese che avervi una storia ideale. Questo intese, ma mal comprese; e mal comprese ed attuò, perché alla verità e altezza del concetto non aggiunse una facoltà vera-mente speculativa». Non seppe addentrarsi nella cognizione dell'idea, «sia con uno studio profondo delle dottrine platoniche e aristoteliche, sia con indagini proprie e veramente originali». Avrebbe dovuto costruire prima l'idea della storia, e indi desumere il fatto o storia reale delle nazioni. E invece mosse dal fatto, la storia di Roma, e però non poté intendere l'Oriente, la Grecia, il Cristianesimo e le nazioni e la storia moderna (che sono, come ognun vede dall'indice della Filosofia della Storia di Hegel, le altre parti della trattazione hegeliana, oltre la storia romana). Più tardi disse che Vico intravvide, non vide la vera idea della storia!. Viceversa, discorrendone più di proposito nella Introduzione alla filosofia della Storia :, tornava ad asserire che « il gran pregio di Vico, che niuno potrà rapirgli, sta in questo, nell'aver pel primo riconosciuto che l'idea è il principio della storia». Ma, con l'usata deplorevole confusione,

accettava l'inter-

pretazione platonica che il Vico stesso fa delle sue idee, parendogli chiaro che «studiando la teorica platonica delle idee, comprendendo, cioè, l'importanza e la funzione dell'idea dell'universo, si giunge naturalmente al punto di vista di Vico». E d'altra parte, guardando poi all'applicazione che il Vico aveva fatto della sua dottrina alla scoperta del vero Omero, dove il Vico non avrebbe inteso che l'idea non si manifesta se non incarnandosi in certi individui, non dubitava di arguirne che

*Vico non intese la vera natura dell'idea, né quella del suo rapporto con la storia e con l'individuo ».

E dopo Vico? «Vico», risponde per lui il Mariano, « è un'apparizione che non ha antecedenti e non lascia tradizione »3. E poiché Vico non ebbe coscienza della me-tafisica richiesta dal suo concetto storico della scienza, si può dire che « il pensiero italiano chiuda il suo ciclo storico con Bruno, e s'estingua, se cosi può dirsi, sul suo rogo». Doloroso a dirsi: l'Italia moderna non esiste nella storia, se esistere nella storia significa rappresentare un'idea; o esiste pel suo papato. Dall'alto di questo giudicatorio universale, che diventavano quei pigmei di un Galluppi, di un Rosmini, di un Gioberti, di cui faceva tanto caso lo Spaventa? Il Mariano risponde:

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« A nostro avviso, i filosofi italiani degli ultimi tempi non hanno contribuito in nessuna maniera con le loro dottrine al movimento e allo sviluppo del pensiero filo-sofico; poiché, oltre a venire quando tutto lo sviluppo di questo pensiero era già compiuto, essi si chiudono in punti di vista esclusivi e subordinati. Le loro dottrine non sono siste-matiche, nascono non si potrebbe dire donde né come,

senza aver nemmeno una coscienza chiara di se stesse, né della filosofia in generale; e infine segnano un regresso e una decadenza del pensiero. La tesi dello Spa-venta, che non intendeva si potesse trapiantare in Italia una filosofia la quale non avesse nessun appiglio nella tradizione del suo pensiero, e che andava orgoglioso di aver dimostrato che tutti i nostri più grandi pensatori da Bruno a Campanella al Gioberti s'erano mossi nello stesso circolo del moderno pensiero europeo, pareva al Mariano e al Vera « falsasse il concetto della filosofia, del suo oggetto e della sua storia», uno di quei « tours de force intellettuali, che non sono rari, che sono anzi disgraziatamente troppo comuni, e consistono nel mettere in una dottrina quel che è nel nostro proprio pensiero e nel pensiero d'un altro».

Bella testa davvero quello Spaventa, che veniva a dire 'a questi asini papalini degl' Italiani, che alla fine la filosofia di Hegel non era poi l'ultima parola dello spirito speculativo, e non si doveva ripetere e commentare meccanicamente le sue deduzioni come tante formole sacramentali. « Parole sonore, ma vuote. L'essenziale è intendere quelle deduzioni e quelle formole, come piace allo Spaventa di chiamarle. Ma lo Spaventa le intende ?

Par di no, dacché identifica [e non era vero] Gioberti e Hegel. Poi che il pensiero di Hegel possa essere ulteriormente svolto e compiuto entro certi limiti, nessuno hegeliano, noi crediamo, si rifiuterà di ammetterlo. Ma se lo Spaventa avesse inteso la storia della filosofia e l'hegelismo, avrebbe visto che non sono possibili svolgimenti ulteriori deviando o uscendo dal pensiero hegeliano, e in questo senso può dirsi che la filosofia di Hegel sia per l'appunto l'ultima parola dello spirito speculativo ...

Che poteva essere magari la convinzione dello Spaventa, ove si dia a questa frase un significato rigoroso, che non era disposto di certo a darle né il Mariano né il Vera, quando questi scriveva p. e, che « la filosofia di Hegel chiude, quanto alle parti costitutive, il ciclo storico della filosofia; quantunque non vogliamo negar con ciò la possibilità di altri svolgimenti, ma sempre di un ordine particolare e subordinato, che il pensiero filosofico potrà ammettere »3. - Uomo pericoloso quello Spaventa, infido hegeliano! Quei suoi Principii di filosofia, cominciati a pubblicare nel 1867! Sempre quel suo fare d'uomo che dice e non dice (les mêmes allures contournées et de-tournées !), quell'ambiguità di linguaggio, quell' hegelismo che non è punto hegelismo: « una logica hegeliana che si dà delle arie di non sappiamo qual'altra logica: infine, una filosofia nuova, ma stranamente nuova, prima perchévi si dà per nuovo quel che Hegel stesso e dopo Hegel alcuni de suoi discepoli hanno esplicitamente e da lungo tempo insegnato, e poi, sopra tutto, perché non si potrebbe dire che cosa è, donde viene e dove va, e perché non può avere altro risultato che di creare o perpetuare l'equivoco, la confusione e l'indisciplina degli spiriti».

Cosi dal Vera aveva imparato a giudicare dello Spaventa, uno scrittorello, che, tanto per accreditare la filosofia hegeliana, rifaceva in quattro e quattr'otto e tenendosi sempre sulle generali, senza analisi di testi, né discussione di punti controversi, la storia della filosofia italiana della prima metà del sec. XIX, e sentenziava che quella specie di eclettismo del Galluppi era un « fenomeno isolato e accidentale, che non s'era accorto di venire al mondo quando il movimento filosofico tedesco con Hegel era « achevé, lorsque l'idéalisme étail une doctrine constituée» (povero Galluppi!). Il pensiero del Rosmini è più vasto e completo, ma è un vano sforzo • di risuscitare la filosofia scolastica, e, per questo rispetto, un regresso. Gioberti poi « non soltanto un'apparizione inutile nell'ordine del pensiero come in quello della storia, ma la negazione della storia e della scienza " 5

Lo Spaventa ne aveva fatto la satira anticipata. A proposito di costoro che non vedevano nulla di nulla in Italia, e la filosofia morta da due o trecento anni, e si scalmanavano a raccomandare l'idea, a rifarsi dalla idea, e sopra tutto a far come loro (e guardate a noi, fate come facciamo noi, e dite come diciamo noi: uno, due, tre; e ritornerete vivi, sani e salvi; e sarete felici »)

aveva ricordato « un tale, bravomo del resto; il quale un giorno, di pien meriggio, nel mese di luglio, non sapendo che fare e avendo accolto in casa, nel suo gabi-netto, numerosi amici, chiuse ermeticamente le impostedelle finestre e l'uscio, e all'oscuro accese subitamente un suo lumicino, e fattosi in mezzo, non per gioco, ma col maggior senno del mondo, esclamò: - Non temete; ecco, io vi riporto la luce!* E la satira conchiudeva: « Mi fu detto poi, che il brav'omo fini i suoi giorni al mani-comio, e non parlava d'altro che del lume spento e del suo lumicino » 1.

30. - Quando nel 1855 imprese la sua volgarizzazione della filosofia hegeliana, Augusto Vera non s'era proposto se non di tradurre in francese la piccola Enciclopedia di Hegel, come già erano state tradotte le opere principali di Kant, Fichte, Schelling, l' Estetica dello stesso Hegel e una parte della Logica. Ma estremamente prolisso com'era, e com'è degli scrittori che non approfondiscono il pensiero e scivolano sulle difficoltà, postosi a scrivere un proemio introduttivo alla traduzione, la materia gli crebbe ben presto tra mani fino ad imporgli la necessità di pubblicare questo scritto a parte, come formante da solo un tutto « indipendente, sotto certi aspetti, dal sistema di Hegel», le cui tre parti pensò quindi di dare poi in tre volumi distinti. Se non che, nel 1859, quando poté cominciare a pubblicare la sua traduzione, penso che se a tutta l'Enciclopedia aveva mandato innanzi una introduzione generale, una speciale per la Logica, ossia per la prima parte, da cui gli toccava di cominciare, sarebbe stata pure opportuna.

E cosi per la sola Logica occorsero già due volumi 3;come tre gliene occorsero poi per la Filosofia della natura 5

infarcita di lunghissime note, oltre la solita vasta introduzione; e due infine per la F'ilosofia dello spiritos, ma grossi: perché, pubblicato a tre anni di distanza dal primo, il secondo gli parve che non potesse andar privo di una nuova speciale introduzione. E tra introduzioni prime e seconde, avant-propos e avertissements premessi agli avant-propos, commenti perpetui, appendici, pole-miche, si esauri tutta la sua attività letteraria non impiegata nel tradurre il testo. Tutta, o quasi tutta. Quando parve proporsi un tema di trattazione originale, come il Cavour (1871) e il Problema dell'Assoluto (1872-82), in fatto continuò egualmente a discettare intorno all'uno o all'altro punto di dottrina hegeliana; e quando, come nel Problema dell Assoluto, doveva pure levar l'ala pervoglia di volare, finiva tosto per fare come il cicognino dantesco, che

non s'attenta

D'abbandonar lo nido, e giù la cala.

E lasciava interrotto il lavoro.

L'opuscolo sulla Pena di morte (1863) 1, che, per il vivo interesse che suscitava allora la questione in Italia, fu degli scritti più noti, più letti e discussi del Vera 3, è anch'esso un commento a un'opinione dell' Hegel.

L'Introduzione alla filosofia della storia (1869) sono corsi di lezioni raccolte da uno scolaro, le quali non hanno nessuna pretesa d'originalità scientifica. Lo Strauss, l'ancienne et la nouvelle foi (1873) si propone di chiarire e confermare la filosofia della religione di Hegel contro il radicalismo teologico dello Strauss. Si può dire pertanto che tutta l'opera del Vera si riduca alla traduzione e al commento dell' Enciclopedia di Hegel con speciale insistenza sulla parte che riguarda la filosofia della religione.

Opera certamente assai benemerita pei vantaggi arrecati alla cultura delle nazioni latine, principalmente della Francia e dell'Italia, in un tempo in cui la filosofia di Hegel era venuta in discredito, le sue opere apparivano in conseguenza assai più difficili che in realtà non siano, e facevano torcere il muso agli studiosi, i quali non avrebbero forse letto nulla di lui, se non avessero avuto a portata di mano quell' Hegel volgare (come avrebbero dettoi nostri antichi), così agevolmente accessibile nello sciolto francese in cui il Vera lo dilavò, e cosi largamente illustrato da chi non dubitava di parlare come l'autentico interprete dello hegelismo. Soltanto in questi ultimi anni le sue traduzioni sono state, nel rinnovato studio di Hegel, riscontrate accuratamente con l'originale; e trovate malfide. Se nella prima traduzione della Logica gli errori d'interpretazione erano frequenti, i lettori non lo seppero forse prima che ne li avvertisse lo stesso Vera quando li corresse nella seconda?. Lo stile discorsivo, senza muscoli e senza nervi, del traduttore non somigliava punto a quello di Hegel: ma chi se n'accorgeva ?

I punti più delicati ed essenziali dello hegelismo nelle interpretazioni veriane andavano alterati. Il colorito generale e il carattere fondamentale di questa filosofia attraverso quelle interpretazioni eran cancellati o apparivano troppo sbiaditi. E questo era certamente difetto ingente per la fortuna del pensiero hegeliano e il progresso speculativo. Ma non è per altro da credere che una più schietta traduzione e una interpretazione più rigorosa del pensiero hegeliano sarebbe bastato in quel ventennio tra il 186o e l'8o in cui cadde l'opera del Vera, a dare una direzione diversa allo spirito filosofico, preso com'era dalla brama dei fatti e dal disgusto d'ogni speculazione.

E d'altra parte, c'è in ogni grande filosofo e in ogni grande scrittore una folla di verità particolari, frammenti e scheggie luminose di pensiero, di cui giova pure arricchire ed accade sempre provvidenzialmente che venga arricchito il patrimonio generale della cultura, e impinguato quello che si può dire il terreno spirituale, da cui germogliano, maturate che siano le stagioni opportune,i nuovi pensieri, e da cui pur continuamente traggono il loro succo vitale tutte le forme dell'attività umana.

Chi potrebbe dire, da questo aspetto, quanto sia il be-nefizio arrecato alla cultura dalle fatiche del Vera ?

3L. - Questa fu la sua parte: la parte del commen-tatore, che si chiude nel pensiero del suo autore, quasi in un cerchio di Orbilio, e non vede come sia più possibile uscirne. Il « Commentatore» per antonomasia del medio evo disse di Aristotele, che egli era stato la regola della natura e come un modello in cui essa aveva cercato di esprimere il tipo dell'ultima perfezione; posto al più alto grado dell'eccellenza umana, cui nessun uomo mai aveva saputo pervenire: disse la sua dottrina « la verità sovrana: perché il suo intelletto è stato il limite dell'intelletto umano, sicché di lui possa a ragione dirsi esserci stato dalla Provvidenza dato per imparare tutto ciò che è possibile sapere»; e che insomma egli « è il principio di ogni filosofia: non si può differire se non nell'interpretazione delle sue parole e nelle conseguenze da ricavarne». E le stesse cose, su per giù, ripete di Hegel, come già in parte abbiamo visto, il Vera, lieto di potersi dire «un hégélien pur, un hégélien à outrance n3; pronto a protestare che gli anni e la riflessione non facevano che fortificare la sua convinzione che la philosophie de Hégel est la sente philosophie véritable, la philosophie absolue »3; che sempre Hégel a raison contre tous4, perché egli è non pure uno dei più potenti pensatori, ma il più potente forse che sia mai esistito s. Nella Introduction del 1855 riconosceva ancora un qualche valore al concetto (hegelianeggiante) *di Leibniz della philosophia perennis; ma nel 1873. polemizzando con lo Strauss « in nome della filosofia » teneva a dichiarare com'egli la intendesse. « Per me, lo confesso, quando sento parlare di una filosofia in generale, di quella filosofia che Leibniz e altri sulle sue tracce chiamano col nome sonoro di philosophia perennis, chiudo gli occhi e gli orecchi, e preferisco non vedere né sentire, che sentire e vedere mercé d'una tale filosofia». E si appellava al principio, hegeliano senza dubbio, che la filosofia non può essere che una determinata filosofia; ma continuava, distruggendo ipso facto il valore di quel principio: « E questa filosofia non mi stancherò di ripeterlo, e, per quanto è in me di dimostrarlo, è la filosofia hegeliana » *; laddove una delle determinazioni essenziali della filosofia hegeliana era appunto questa di adeguarsi alla storia della filosofia o, se si vuole, alla philosophia pe-rennis, in cui tutte le determinate filosofie sono la filosofia veramente determinata.

E da quest'angusta e in certo senso materialistica concezione della filosofia hegeliana, tutta chiusa in una individualità semifantastica, sorretta dalla rappresentazione di certi libri e di certe parole o di una certa persona vissuta in certi tempi e luoghi, il Vera era trascinato a perpetrare un vero tradimento di Hegel: da lui disarmato e consegnato, legato mani e piedi, al primo venuto dei suoi avversari. Poiché, una volta concepito un sistema filosofico come chiuso in sé, senza rapporti con gli altri sistemi, prodotto di una speciale visione del mondo, che non ha che fare con gli altri possibili punti di vista, quasi spettacolo che si goda in una stanza, e di cui non sia dato saper nulla a chi non vi entri, cotesto sistema non si può più dimostrare a chi non sia già persuaso della sua verità; perde cioè la sua universalità,la sua verità, il suo valore di pensiero, che non è mai atto di uno senza esser atto di tutti: perde la vita del pensiero che è espansione e forza invadente, conquistatrice e trionfatrice; per diventare una cosa, che sta dove la mettete, in eterno, ignara di sé, inerte, esposta al libito di chi vi si abbatta! Concezione strana, umiliante, ad accettar la quale, coraggiosamente, il Vera fu anche spinto da un profondo concetto hegeliano, da lui inteso a metà: che la verità di un sistema sta dentro il sistema e in tutto il sistema. Ma Hegel stesso andava subito incontro al pericolo d'una possibile interpretazione materialistica di questa proposizione, per cui il suo pensiero sarebbe rimasto disteso sovra un'altura inacces-sibile, concependo dapprima come una prima parte del sistema una

Fenomenologia dello spirito come autoaf-

fermazione della propria filosofia attraverso tutte le posizioni storiche e ideali del pensiero, e premettendo poi all' Enciclopedia un'introduzione critica e polemica destinata a giustificare il proprio punto di vista di fronte a quelli inferiori. Talché, se pure era nella sua dottrina,

quale si venne scolasticamente consolidando attraverso le varie redazioni dell' Enciclopedia (nata per la scuola), la tendenza a fare del sistema un dato circolo chiuso, nel quale bisognasse penetrare per non so quale grazia sovrannaturale o luce illuminante ogni privilegiato hege-liano; questa tendenza era spontaneamente frenata e corretta dalla possente vita del genio investito dalla forza della verità. Ed era intanto punto capitale della sua dottrina, che la critica di un sistema filosofico - e quindi il passaggio a un sistema superiore - non è critica soggettiva che altri possa fare movendo da principii di sistemi diversi, ma critica interna, autonoma, sgorgante dalle viscere dello stesso sistema; sicché non si sale slanciandosi in alto per aggrapparsi con la punta delle dita alla proda delle balze superiori, ma fermando bene ilpiede sul grado già raggiunto, e di li sforzandosi di salire, costretti dallo stesso disagio della via erta ed arta, - per tornare ancora una volta alle immagini dantesche. Sicchè la vera dottrina di Hegel è che la verità della sua filosofia, se, come sistema, vive nel circolo del suo pensiero siste-matico, si conquista attraverso tutte le filosofie, e si pone percio per motivi di verità che giacciono in tutti i sistemi. L' hegelismo che si chiude gli occhi e gli orec-chi, e, come la Notte di Michelangelo, vuole « non veder, non sentir, non è quell'originale hegelismo che figge per tutto il suo occhio sereno, certo che tutto che è reale è anche razionale, ma un hegelismo veriano, alquanto adulterato.

E cosi accadeva al Vera, malgrado tutta la forza del

suo hegelismo, di trovarsi come chi, in paese straniero di cui ignori la lingua, abbia bisogno di far valere le proprie ragioni, e non trovi né anche un interprete. Non sapeva parlar altro che l'« hegeliano » 1 Nella introdu-zione alla Filosofia dello spirito, dopo avere intravvedute ben sei gravi obbiezioni contro il concetto da lui esposto del sistema hegeliano, dovendo ribatterle, si ricordò della

sua

teoria dell'hegelismo chiuso, gia spiattellata tre anni prima nella nuova prefazione all' Introduction à la philosophie de Hégel, a proposito delle critiche del Foucher de Careil e del Trendelenburg; e si senti in dovere di fare questa confessione:

Nous commencerons par avouer que ces objections

nOuS

embarassent très-fort, et que nous ne voyons pas comment nous pourrions y répondre d'une manière satisfaisante, d'une manière, voulons-nous dire, qui satisfasse complètement celui qui nous les adresse. Car ce n'est pas nous autres hégéliens, bien entendu [l]. qui nous faisons ces objections, ou si nous nous les faisons, nous en trouvons aussi la solution. Seulement cette solution est valable pour nous, mais elle ne l'est pas, len général, pour les au-tres, c'est-à-dire pour les non-hégéliens (!).Et la raison en est bien simple. C'est que la solution est dans le système, et que par suite elle ne saurait être entendue et acceptée qu'autant qu'on est dans le système. Par conséquent, celui qui fait des objections, qui les fait hors du système, c'est-à-dire en se plaçant au point de vue de l'opinion, de la conscience vulgaire et irréfléchie du sens commun comme on l'appelle, et même de la philosophie de l'entendement, et qui, avant d'entrer dans le système, demande qu'on lui réponde d'une façon qui leve complètement ses doutes, demande ce qu'en réalité il n'est pas raisonnable de nous demander. Car ces doutes viennent précisément de ce qu'il demeure hors du système, et que sa pensée est impuissante à saisir la vérité systématique. Par con-séquent, tant qu'il n'aura pas franchi cette limite, et qu'il ne sera pas entré dans le système, toutes nos réponses et toutes nos explications devront nécessairement lui paraitre insuffisantes, par la même que sa pensée et notre pensée ne sont pas la même pensée 1.

Non era questo un disarmare Hegel e consegnarlo

agli avversari? Tommaso d'Aquino, convinto che oltre gli articuli fidei, ci siano anche i preambula ad articulos, aveva potuto scrivere una somma de veritate catholicae fidei contra gentiles; ma contro i gentili dell' hegelismo il nuovo apostolis gentium non vedeva come un povero diavolo d'apostolo se la potesse cavare: e badava a ri-petere il motto di Anselmo: fides quaerens intellectum,

ma senza ottemperare troppo alacremente al maggior detto dello stesso Anselmo (Cur Deus homo, c. 2): « Ne-

gligentiae mihi esse videtur, si postquam confirmali sumus in fide, non studemus, quod credimus intelligere! ». Il mo-mento della fede, come vedremo più chiaramente, era l'essenziale per lui. Questo infatti gli bastava a reggere l'opera sua di paladino di Hegel. Non confessó quel tale, che moriva in duello pel Tasso contro l'Ariosto, di non aver letto nessuno dei due ?I libri di Hegel il Vera certamente li aveva letti e ri-letti. Non tutti, forse, quando scese in campo per lui con l'Introduction, né tutti poi con la stessa attenzione e diligenza. Il Janet • notò che in quella Introduzione manca ogni menzione della Fenomenologia; e la critica che già ne abbiamo rilevata contro lo Schelling autorizza a crede che ei non avesse ancor letta la prefazione di quell'opera di Hegel. Doveva allora conoscere l'Enciclopedia e, in parte, la Filosofia della religione: in parte anche la Scienza della logica; ma così male, da non essersi ancora reso conto ben chiaro della redazione di queste opere. Cosi allora dimostrava di sconoscere che le appendici (Zusätze) ai singoli paragrafi dell' Enciclopedia non furono aggiunte da Hegel stesso, bensi dagli scolari (Henning, Mi-chelet e Boumann) che ne curarono l'edizione postuma e si giovarono di appunti del maestro e di quaderni di scuola:

Anzi, confondendo con tali appendici le osservazioni che Hegel infatti aggiunse per la prima volta nel 1827 ai singoli paragrafi, - che da soli formavano il testo della prima edizione (1817), - asseri 3 che Hegel nella seconda edizione credette di aggiungere co-teste appendici, per rendere il suo pensiero meno astratto e più accessibile. E questo errore ripeté nel '59 nell'avvertenza premessa alla Logica, aggravandolo di un'altra inesattezza che potrebbe far credere non aver egli allora col secondo e col terzo volume dell' Enciclopedia postuma (detta ordinariamente Grande Enciclopedia, per distinguerla dalla Piccola, cui mancano quelle appendici) la familiarità che dovevaaver acquistato col primo contenente la Logica: perché dice che nel 1827 Hegel non diede propriamente una seconda edizione di tutta l'Enciclopedia accresciuta delle appendici, ma della sola Logica: « Par les deux autres parties de la Grande Encyclopédie n'ont paru qu'après la mort de Hégel dans Védition complète de ses oeuvres qui a été publiée par le soin de ses disciples et de ses amis » 1.

Apparse dopo la morte di Hegel: ma già redatte da lui stesso, comprese le appendici, come il Vera tornò a dire chiaramente nell'avvertenza al primo volume della Filosofia della natura *.

Confusionis che potrebbero anche ascriversi a sbadataggine di studioso inesperto d'ogni buona usanza filologica: ma che, se in parte son pure indizio di scarsa familiarità coi testi hegeliani, in questo caso son pure da riportarsi all'indole del suo spirito, di cui abbiamo già cominciato a intendere alcuni tratti essenziali. Il Vera era cominciato mistico: scettico verso i metodi razionalisti, aveva asserito l' inconoscibilità delle essenze, e certa intuitiva rivelazione originaria di Dio, alla Jacobi.

Il mistico non può essere idealista che a mo' di Platone: per cui la verità non è processo, ma conoscenza immediata e miracolosa, presenza dell'oggetto, in cui si prescinde dal soggetto o in cui perciò il pensiero tende a risolvere e seppellire la propria soggettività. L'idea a chi cerchi una tale verità si presenta e impone da sé; è se stessa; e non può farsi, ancorché definita come processo (diventa allora idea del processo, e, come idea, immobile). In quanto sistema, diventa sistema in sé, che non forma la mente, ma è innanzi alla mente; e non è svolgimento;ma un tutto perfetto, in sé, senza passaggio da altro a esso, né da esso ad altro. E filosofia che non è la filosofia, ma una filosofia, che ha fuori di sé le altre, il pensiero volgare, l'opinione, la filosofia intellettualistica, senza un ponte da queste forme mentali a essa. - O tutto, o niente; o scetticismo, o cognizione assoluta (idest, il sistema di Hegel), come badava a ripetere il Vera. E che cosa era per lui la mente fuori dell' hegelismo? Se la verità era tutta dall'altra parte, di qua non ci restava nulla. La sua pertanto era una concezione mistica del-

1' hegelismo, per cui il rapporto dello spirito con la vera filosofia, o illuminazione mentale, veniva concepito come una unione soprarazionale, di là dalla quale si sarebbe instaurata la razionalità dello spirito. E questa tendenza mistica del Vera, se io non m' inganno, gli faceva prendere in mano i libri di Hegel e non guardare attentamente alle prefazioni, non cercare le varie edizioni, non studiare la storia dei testi: giacché in ogni tempo la misticità è stata nimica mortale di tutte le questioni concernenti la lettera, come ad esse piace di dire, e non lo spirito, quali son quelle di filologia. Pericolosissima china; giacché se questa tendenza nel Vera col dispregio della filologia portò l'impossibilità di una vera dottrina storico-filosofica, nel discepolo Mariano, che avrebbe dovuto essere di professione uno storico del cristianesimo, frutto tutta una boriosa e vuota teorica di metodo storico, che è una delle più solenni e funeste falsificazioni della dottrina hegeliana, cioè della prima filosofia venuta in luce dacché il pensiero prosegue la sua eterna fatica, a giustificare non solo, ma ad esaltare ogni forma di storia; e nella scuola del Vera, tra i suoi insegnamenti di storia della filosofia e di filosofia della storia, fu piegata goffamente a significare un pensiero rispettoso bensi a parole della storia, dello svolgimento, della determinatezza, ma, nei fatti, di una tracotante svalutazione d'ogni sincera ricerca dellastoria, ossia dei particolari più determinati, in cui pur consiste il concreto svolgimento del reale.

32. — Della quale tendenza, mistica e però antisto-rica, della mente del Vera si potrebbero raccogliere ne' suoi scritti molte manifestazioni. Il Janet, in un suo articolo sul primo volume della Filosofia della religione notava finemente che il Vera, nella lunghissima introduzione che mise di suo in quel volume per ragionare dei rapporti tra filosofia e religione, «est encore ici fort dans la discussion, vague et obscur dans la conclusion. Il ré-sume très-bien toutes les manières de se rapresenter le rap-port de la religion et de la philosophie. Mais on ne vort trop quelle est la vaie». E nel '73 lo stesso Vera contro Strauss osservava che la posizione da costui assunta era très-nette. E, soggiungeva «les positions très-nettes sont souvent, surtout dans la science, très-fausses, par la raison même qu'elles sont très-nettes, par la raison, veux-je dire, qu'elles mutilent les problèmes, et qu'en les simplifiant les faussent». Ragione hegeliana e piena di verità; ma pretesto, pel Vera, e conforto a non trarsi fuori da quel-

l'oscuro, da quel vago che il Janet gli rimproverava, e a restare irresoluto tra il sì e il no. Giacché sarebbe invero assai volgare insolenza asserire di Hegel, nuovo e pit rigoroso assertore della dialettica del sic et non, che ei si tenesse perciò di qua dalle soluzioni très-nettes! Ché se rifiutava, e metteva in satira anche lui, le soluzioni semplicistiche dell' intelletto astratto, poneva nettissime, per suo conto, quelle della ragione. E non era il Vera che potesse in nome della dialettica accamparsi contro il semplicismo e l'astrattismo dei semplificatori; egli chenon sapeva entrare nella realtà se non armato di astratte definizioni; e si scalmanava contro chi nella realtà vedeva si quei concetti, ma limitati e commisti ai loro contrari; e lo Stato reale, p. e., essere e non essere Stato: la Chiesa essere e non essere Chiesa; e l'esercito essere e non essere esercito; e cosi ogni cosa, non in quanto considerata nel mondo intelligibile, a cui egli platonicamente guardava, ma in quello reale, in cui, con tanto poco gusto (a quel che pare), era pur costretto a vivere.

Egli è piuttosto che, com'è proprio dei mistici, il Vera, da una parte, doveva dilettarsi di cotesto mondo di puri intelligibili, che appunto perché tali sono estranei alla vita dell'intelligenza e non si pongono se non per negazione o una mera affermazione immediata dell'in-telligenza, e poteva d'altra parte riuscir più nella critica e demolizione che nell'affermazione e nella dimostrazione.

Giacché questo è uno dei caratteri del misticismo: che non rifugge bensi dalla filosofia, ma si pasce di una filosofia negativa che ha per conchiusione, com' è facile scorgere nella storia della mistica, una dotta ignoranza: hoc unum scio. Così nel Problème de la certitude, della età giovanile, il verbo della speculazione veriana era stato lo scetticismo: la sua affermazione dommatica un timido e vago tentativo di filosofia dell'intuizione immediata di Dio, conosciuto come che, ma non come quale: postu-lato, non propriamente conosciuto. Quella stessa menta-lità, abbattutasi quindi a una conoscenza meno superficiale dello hegelismo, presa di ammirazione per quella

vasta sistemazione del mondo contemplato sub specie aeterni, cambiò forma, non sostanza; e sotto il nuovo abito rimase presso che immutato il vecchio Vera. L'oggetto del suo mistico intuito (conoscenza immediata, senza processo) era prima quel Dio inconoscibile e indi-

mostrabile, di cui non si poteva fare a meno; ora è il sistema hegeliano, cioè, non propriamente una filosolia,ma un xóguo vontós, e insomma Dio stesso, quello di prima, egualmente indimostrabile e irraggiungibile con un processo di pensiero.

33. — E pure nell' Introduction volle scrivere anche lui, come già tanti altri mistici, il suo itinerario della mente a Dio: o come egli disse, mettere sotto gli occhi del lettore «les recherches qui nous ont conduit nous-mêmes à l'intelligence de la philosophie hégélienne»t, Ma, posto quel concetto del sistema chiuso, che per allora covava nel profondo della sua mente, che itinerario poteva essere il suo? Sarebbe facile dimostrare che questa specie di itinerario procede, non altrimenti da tutti gli scritti consimili, per presupposizione, fin da principio, del punto d'arrivo, e per conseguente critica e negazione delle posizioni diverse: non muove da queste, e non dimostra realmente il punto a cui vuol pervenire; non è insomma

un processo.

E già noi vedemmo a che si riduca pel Vera il movimento da Kant a Hegel. Dopo un brevissimo capitolo (di tre pagine) sulla « fisonomia generale della filosofia di Hegel», in cui si coglie, ma assai estrinsecamente, un tratto senza dubbio essenziale di essa, qual è quello della storicità sua, oggettiva e soggettiva, in quanto essa concepisce il suo oggetto come manifestantesi attraverso il movimento storico e sé stessa in intima e necessaria relazione con la propria storia 1, il Vera passa subito a dimostrare quella sua tesi, che già conosciamo, tutti ifilosofi essere idealisti senza saperlo: poiché, nell'antichità e nei tempi moderni, tutti, compresi i materialisti, han sempre mirato all'idea; poiché nessun filosofo mai ha potuto fare a meno dei principii che sono al di là dell'esperienza. Basta pel Vera esser metafisico per

CS-

sere idealista; e in questo senso egli pensa che in ogni filosofia sia un germe di verità, che si deve svolgere e compiere, e non si può negare. Vale a dire, all'esclusi-vismo dei vari sistemi che ricorrono a una o più idee, bisogna sostituire una filosofia comprensiva che le accolga tutte e le organizzi; fare insomma quel che aveva fatto Platone, quantunque ora si possa fare un po' meglio.

Sicché l'oggetto della filosofia, quale egli lo concepisce, non è diverso da quello che aveva dato vita all'idealismo platonico; né egli sapeva concepire altra filosofia che sul tipo di quell'idealismo, e quasi frammento di esso. Quindi tutto il resto della sua Introduzione, prima di quel rapidissimo schizzo dell'Enciclopedia hegeliana che forma la seconda parte del volume, è tutta una polemica per determinare il concetto della filosofia, come scienza delle idee, e il metodo di essa, che all'organismo delle idee non può adeguarsi se non mercé la dialettica. Tutto 1' itine-rario, adunque, consiste nel mettersi dentro alla verità, fin da principio, e difenderla contro gli errori.

34. — Ma se la filosofia per Platone e pel mistico era pura contemplazione, parrebbe che il Vera ne avesse un concetto assai più profondo e nuovo, dove sostiene che essa è non solo una spiegazione della realtà (inten-dendo per spiegazione la contemplazione appunto di tutto il reale in idea), ma « anche e per ciò stesso, una

crea -

zione":

e una creazione, com'egli dice, nel solo e

vero senso del termine»!. Ma dal detto al fatto corre8ran

tratto; e quando deve realmente concepire questa creazione che dice di concepire, la cosa non gli riesce; perché tutto si riduce a dire che le essenze, l'assoluto, le idee sono eterne, e che di creato e generato non v'è se non i fenomeni, le esistenze particolari e finite; le quali sono create appunto, dall'assoluto, che ne è la ragion d'essere; e che la filosofia, se ha per oggetto l'assoluto, deve non solo sapere come l'assoluto genera le esistenze particolari e finite, ma deve in certo modo (d'une certaine façon»!) generarle essa stessa, perché, se non si vuol negare la scienza, bisogna ammettere «qu' il y a un point où la connaissance et l'être, la pensée et son objet coincident et se confondenti. Bisogna ammettere; ma è questo il punto: hoc opus! E il Vera si sente tanto poco di superate questo punto, che passa subito a intendere la creazione in un altro modo: nel senso cioè che la scienza, elevandosi all'assoluto e cogliendo la natura intima degli esseri, elle refait et dédouble en quelque sorte leur existence».

Sicché, «d'une certaine façon » prima, e «en quelque sorte » poi: e la creazione vera e propria «nell'unico senso del ter-mine» non si vede e non si tocca mai. Giacché, se c' è duplicità tra il processo dall'assoluto al relativo e il processo dalla conoscenza dello assoluto alla conoscenza del relativo, il due non è uno, e non solo si rinunzia alla creazione delle cose per tenersi soltanto alla cognizione delle cose, ma pare anche si abbia una certa voglia di tinunziare altresi a quell'unità del sapere e dell'essere, senza di cui pur s'intravvede non essere vero sapere.

Conchiusione innanzi alla quale si ritira sgomento il pensiero del nuovo hegeliano. Egli infatti, a questo punto, per garentire il carattere creativo della cognizione assoluta sottraendola a quell'ombra che sarebbe per lei quel doppio, contorce e trae a un significato improprio la dottrina hegeliana del rapporto della natura con lo spi-rito. La vera creazione, egli dice, non è quella che dal-l'assoluto va al particolare delle esistenze finite. Perché la natura, considerata in se stessa e indipendentemente dallo spirito, è un'esistenza morta, priva di coscienza e di pensiero, un aggregato di elementi e forze individuali e isolate, che non hanno in se stesse il loro legame, il loro principio e il loro fine; e lo spirito stesso ne' suoi gradi inferiori, per cui è a contatto della natura, in quella sua vita oscura e irriflessa in cui s'ignora e mescola e confonde tutto, e si lascia avvolgere nell'infinita varietà dei fenomeni e delle sensazioni, ha un'esistenza imperfetta, « che non risponde né all'idea della scienza, né a quella dell'assoluto». Ora questa imperfezione sparisce per opera della scienza, la quale « completa e rifa l'esistenza della natura e dello spirito, elevandoli, con la riflessione e col pensiero, fino al loro principio, dando loro la coscienza di se medesimi e ordinandoli secondo la ragione. 1.

Se non che, questo processo dall' imperfetto al perfetto, dalla natura allo spirito, e dai gradi inferiori di questo ai gradi superiori, in Hegel è, e non può essere altro che un processo ontologico, il processo dall'assoluto alla coscienza dell'assoluto, o dalla idea logica allo spirito as-soluto. Ma, per intendere qui la creatività di questa scienza che rifà, noi dovremmo ritornare sul processo stesso e ripercorrerlo, secondo la concezione del Vera. Chi gli garentisce che il secondo viaggio non sia inutile, e serva anch'esso a creare qualche cosa? Perché il processo gnoseologico creasse davvero, non dovrebbe rifare l'ontologico, mettendosi fuori di esso, come altro da esso, ma fare, semplicemente, continuando quell'identico processo; e la scienza non dovrebbe guardarsi indietro.

Il Vera non ha quest'orientamento. Il suo assoluto è dietro le sue spalle; ed è necessario che egli si rivolti.Con la scienza si corregge il fatto e la realtà materiale, con una specie di creazione continua, « per cui l'assoluto entra più profondamente nella vita del mondo per imprimervi una impronta sempre più visibile di se stesso, e farlo sempre più a sua immagine». Egli è persuaso che « sans doute, l'absolu et le monde, l'idée et le fail, la pensée et sa réalisation matérielle demeureront fowjours distinels, et même, dans une certaine mesure, opposés » 1, L'Assoluto è prima del mondo, che deve rassomigliarvisi; deve e non può, pei limiti della materia, al di sopra della quale lo spirito si solleva, per riunirsi alla sua origine ideale.

E la vecchia posizione platonica.

35. - L'essenza, inconoscibile nel Problème de la cer-titude, ora per definizione è conoscibile. E un progresso questo? Quella scepsi conteneva un bisogno e un'affer-mazione: quel bisogno e quell'affermazione che minavano da secoli l'universale astratto della filosofia greca, e che dopo Hume dovevano far nascere la critica di Kant: la realtà non si coglie con idee astratte; cento talleri si possono pensare benissimo senza che perciò esistano.

Che cosa manca loro? Cartesio aveva trovata la via: cogito ergo sum: un ergo che non è sillogismo, che non muove da idee, da quegli universali, in cui ancora il Vera faceva consistere l'assoluto. E si domandava: se di ogni essere c'è un'idea corrispondente, ne segue che quella idea sia la sua essenza? O c'è, oltre l'idea, « un'esistenza più alta e più profonda di cui l'idea non sarebbe se non la forma, una forza di cui la natura intima ci sfugge, e che avrebbe la sua radice nell'essenza divina, o che, per dir meglio, non sarebbe altro che quest'essenza stessa?». Questa era la dottrina sua del 1845. - Ora la sua risposta suona il contrario; e la ragione che gliha fatto cangiare avviso è questa: che ove si ammetta un'essenza di là dall'idea, quest'altro quid non è pensabile se non per mezzo di idee. Ma la verità è che, non avendo egli prima approfondito, attraverso Kant (che non aveva letto), il significato della esigenza a cui obbediva il suo scetticismo, ora è di troppo facile contenta-tura; togliendosi per essenza appunto quello che come mera idea gli appariva una volta ben altra cosa dall'es-senza, e rinunziando di fatto all'essenza più preziosa, che allora desiderava. E che? dice ora per consolarsi, facendo il verso al Socrate di Platone: « quando studiamo l'anima, non tale anima in particolare, ma l'anima in generale noi vogliamo conoscere, né crediamo di possedere la scienza dell'anima se non quando possediamo cotesta conoscenza»*: come se con l'anima in generale ci fosse, o ci potesse essere un'anima! Giacché il destino curioso di questo hegelismo veriano, come del platonismo, è proprio questo: che queste idee che son tutto, poi non sono niente: e pel Vera rimangono come abbiamo visto assolute possibilità o virtualità.

Ma come con un tal concetto dell'idea, che non è Thathandlung dell' Io (per usare la gran parola di Fichte), ma termine esterno o eterno presupposto del pensiero, può egli ammettere una dialettica nel senso hegeliano?

Sorvoliamo sui rapporti che il Vera vede tra la dialettica di Hegel e quella di Platone; e tocchiamo brevissimamente del suo modo d' intendere la prima nell'Introduction e nelle opere posteriori. Qui è il centro del suo hegelismo.

In tutti i suoi seritti, se si paragonano a quell'articolo del 48, che abbiamo altra volta analizzato, non c'è pro-gresso, ma sempre un medesimo concetto che torna su se stesso, si rafferma sempre maggiormente e si ribadisce.

Li egli saltò il fosso, sembratogli già abisso invalicabile,affermando, come vedemmo, la posizione, innanzi al pensiero, non dei contrari singolarmente presi in astratto, ma della loro unità. Nella Introduction dice che, se i membri della contraddizione presi separatamente sono incompleti e falsi, si contraddicono in quanto sono in rapporto tra loro mediante un terzo termine, che « non è nessuno di essi presi sia separatamente sia congiunta-mente, ma è tutto insieme se stesso e i due termini che esso involgen 1, sicché « l'essere e il non-essere si trovano identici nel divenire n. Posti cosi l'essere e il non-essere, e in generale tesi e antitesi, non come momenti, ma come elementi della sintesi, ci può essere quel movimento soggettivo, che già illustrammo: ma oggettivamente c' è la sintesi, stabile e fissa, identica a se stessa. Dei tre termini, idea logica, natura e spirito, la realtà appartiene al terzo termine, che contiene nel suo seno fin dal principio gli altri due: e dentro lo spirito ogni triade non avendo mai una tesi, da cui sia da sviluppare un'anti-tesi, è come un fiume dipinto, la cui acqua non scorre.

Tutto il congegno del movimento è arrestato da un pensiero intuitivo che impietra l'oggetto suo.

36. — Quasi tutti gli hegeliani s'erano travagliati e si travagliavano nell'intelligenza del dialettismo dell'idea hegeliana. Vedremo quali sforzi costasse questo punto a Bertrando Spaventa. Al Vera, quand'ebbe pensato che essere e non essere fanno uno nel divenire, il passaggio dall'uno all'altro apparve cosi ovvio, così semplice, che nulla più (infatti era un passaggio che non passava!).

A proposito delle critiche del Janet: « Il fant voir », diceva tutto meravigliato, «dans quel dédale inestricable de rai-sonnements M. Janet s'engage à cet égard, sans se rendre compte ni du point de départ ni du point d'arrivée».era dimenticato, a quel che pare, del suo labirinto del

1845). L'essere, che è il termine più astratto, da cui il pensiero possa muovere, non è se non l'essere: e tutto ciò che si può dire di esso è, che esso è. E anche dicendo questo, non si rappresenta il suo concetto secondo verità;

perché il pronome e la terza persona vi aggiungono elementi e gli danno una forma che gli sono estranei, e appartengono a determinazioni ulteriori dell'idea. Peggio poi se vi s' introduce il concetto del vuoto, come ha fatto l'Erdmann, o pure il pensiero, come ha fatto Kuno

Fischera. Qui noi siamo nella sfera della scienza, e l'essere è colto dal pensiero tal quale è nel suo concetto.

L'essere è nel pensiero, è l'essere pensato, ma il pensiero, per coglierlo nel suo vero concetto, deve pensarlo qui come essere e non come pensiero, perché, pensandolo come essere pensato, vi aggiunge un elemento o una proprietà, che esso, in quanto essere, non ha. Con quest'aggiunta si facilita la dimostrazione, ma non si ha più la vera dimostrazione. L'essere non è altro che l'es-sere, l'essere assolutamente indeterminato, e però non si può dire neanche che esso è, e per ciò stesso non è, o è il non-essere. Ora l'essere che non è, o che è il non-

essere, è anche il non-essere che è, ossia è il divenire.

* E la dimostrazione più semplice, più diretta e più vera del passaggio dall'essere al non essere nella loro unità, il divenire »3. Dimostrazione, la cui ingenuità salta agli (Si —occhi; perché mentre si dice che all'essere non si deve aggiungere il pensiero, si fa divenire l'essere mettendoci dentro questo pensiero: che non si possa né anche dire che esso sia, - Nella introduzione alla Logica * (1859) aveva detto: « L'essere puro è l'essere, ma l'essere che non è se non l'essere, e che, per questo fatto che non è se non l'essere, richiama il non-essere, o il non-essere dell'essere, o, se si vuole, ciò che l'essere non e.... In altri termini, i due concetti di essere e non-essere sono inse-parabili: dato l'uno, è dato anche l'altro, e quel che è uno, è l'altro. Formano, per conseguenza, un solo e stesso concetto, e questo concetto è il divenire ». Dove di chiaro non c'è se non l'unità del divenire; ma quell'essere che si tira dietro il non-essere, anch'esso, come l'altro di prima, non può farlo se non aiutato dal pensiero, che lo mette in rapporto con quel che esso non è. - In una nota al § 87 della Logica in altra forma ripete lo stesso.

« L'essere che non è se non l'essere, è l'essere assolutamente indeterminato, e per quanto è permesso di far intervenire qui la possibilità e la cosa, si potrebbe dire che esso è la possibilità assoluta di tutte le cose, ma che non è nessuna cosa, non è niente; e che quindi è il niente, il non-essere », Se non che qui ha un vago sentore di certe difficoltà; ma non le affisa di fronte, e se ne lascia sfuggire tutto il valore. In primo luogo egli si obbietta: Altro è dire che l'essere non è niente, altro dire che è il niente.

Cioè la prima volta si nega dell'essere ogni determinazione; la seconda lo stesso essere indeterminato. Ma il Vera non intende la cosa con tutto questo rigore, perché risponde che « qui si tratta del niente assolutamente astratto, o, se si vuole, del niente assoluto; di guisa che dire l'es-sere non è niente, torna lo stesso che dire: l'essere è niente o il niente. Il che non è vero, evidentemente. L'assolu-

tamente astratto, il niente, di cui si parla qui, è il non -

determinato, non già il non-indetermi-nato!. - In secondo luogo: questo niente, questa negazione prima e assolutamente astratta non

Viene qui

ad aggiungersi all'essere, dal di fuori? - E anche qui una risposta insufficiente: « Il niente non è se non il niente dell'essere: il non essere. E l'essere che si nega egli stesso ».

La risposta può avere un significato solo a un patto: che s'intenda il non-essere come non-essere dell'essere, in quanto il concetto dell'essere non può prescindere (come fu detto nell' Introduction) dal concetto del non-

essere; e che cioè il divenire è prima dell'essere e del non-essere 3. - L'essere, insisteva contro il Trendelen-burg, passa nel non-essere perché non è altro che essere, per la sua assoluta indeterminatezza e astrattezza: e nella massima astrattezza dell'essere e della sua negazione sta la difficoltà del passaggio. « Via via che si procede nell'evoluzione dell'idea, si coglie più facilmente il passaggio reciproco dei termini, perché si hanno termini più concreti, come lo stesso e l'altro, l'uno e il più, la causa e l'effetto, ecc., tra i quali si trova più facilmente un rapporto, laddove al principio non si ha se non l'essere ».

37. - Questa è certamente la via da battere per afferrare il senso segreto della dialettica hegeliana: la quale, ormai è chiaro, malgrado le proteste dei semplicisti alla maniera del Vera 3, non pervenne in Hegel alla chiaracoscienza della propria natura, come è dimostrato dal ginepraio, in cui si son trovati involti i suoi seguaci. Ma quella è una via che non spunta, o meglio riconduce alla vecchia filosofia da cui si crede di allontanarsi, se non si bada bene a considerare che non è via già bella e fatta innanzi al pensiero, e che al pensiero non resti se non di percorrere, ma è la via del pensiero, la via che esso si apre e che prolunga in eterno. Essere e non-essere sono identici (e differenti) nel divenire; ma il divenire non è niente più dell'essere che si pretende di superare, se esso stesso rimane di fronte al pensiero, e non è appunto esso il pensiero che ha negato l'essere. Perché il divenire non ha da essere giustapposizione de due momenti, ma compenetrazione e unità intima: la quale non è cosa, ma atto: non è termine di pensiero, ma pensiero; non è punto a cui il pensiero pervenga e da cui poi debba muovere, ma lo stesso movimento del pensiero; non è limite, ma posizione di limite, e opera dell' illimitato. Se il divenire si vuol concepire come l'organismo, di cui essere e non-es-sere siano le membra indivisibili, ebbene, si badi che l'organismo non è il corpo che la vita debba investire o con cui debba accoppiarsi: l'organismo in tale astrattezza esanime non vale né più né meno di un membro avulso dal resto: è la morte. L'organismo è organizzazione continua e attualità, è anima, che crea gli organi. E così il divenire, se dev'essere la risoluzione vera degli opposti, dev'essere pure l'energia creatrice di essi: cioè, come di-

cevo, il pensiero.Non basta perciò dire rapporto, anteriore ai termini: bisogna concepire questo rapporto come rapporto vivo.

E dalla logica movendo, come fa il Vera, per la natura allo spirito, non basta dire, com'egli dice, coerentemente alla sua intuizione del mondo hegeliano che a c'est l'esprit lui-même, ou l'idée en tant qu'esprit, qui pose la logique et la nature»t; e che «la pensée (= l'esprit) est l' idée active et creatrice»; e che questa attività non è l'activité qui crée accidentellement, ni l'activité qui crée hors d'elle-même un monde antre qu'elle-même, mais L'activité qui crée au dedans d'elle-même, qui crée un monde qui n'est pas autre qu'elle-même, mais l'autre d'elle-même, si l'on peut ainsi s'exprimer, et qui crée pour être elle-même, c'est-á-dire pour être dans la plénitude de sa nature et de sa réalité»: bisogna che questo non sia soltanto il pensiero in sé, il pensiero che pensa se stesso, di cui parla Aristotele, il pensiero divino: ma appunto il nostro stesso pensiero, tanto più divino quanto più nostro, colto nella realtà massima della nostra intima soggettività e indivi-dualità, dove più vibra l'attualità del mondo. E perché questo pensiero sia davvero il pensiero vivo, esso appunto bisogna che divenga, e si muova, e viva insomma, e vibri, e in esso vibri il mondo: e che non rappresenti il termine fisso d'ogni desio, la morta gora ove precipiti ogni acqua corrente dell'universo. Che se col Vera si dice

"tout devient hormis la pensée, et tout devient parce qu' il n'est pas la pensée, et pour devenir pensée, el exister en tant que pensée»3, questo pensiero diventa qualche cosa di trascendente il pensiero storico e il mondo, e però assolutamente trascendente; e quindi il suo stesso processo ideale (posizione e negazione del logo e della naturaper la posizione di se medesimo) diventa tutto un processo trascendente, come la processione dello spirito nella teologia cristiana; e tutto l' immanentismo di Hegel sfuma, e la sua dialettica s'irrigidisce nel mondo ideale, di là da ogni reale accadimento, e concepito ancora una volta, alla maniera del vecchio Platone, come natura (ancorché ideale) e non più come spirito. Il Vera vi dirà in tanti modi diversi, perché messo sull'avviso da tante esigenze interne dell' hegelismo, che «ce qui devient n'est pas étranger à la pensée» e che « il faut même dire que c'est la pensée qui pose son devenir, et que, s' il devient, c'est précisément que la pensée est en lui». Ma distinguerà allora tra pensiero in potenza e pensiero in attor e il pensiero immanente nel mondo lo portà come pensiero virtuale («sculement la pensée n'est en lui que virtuellements).

Tal quale è concepito il pensiero da Aristotele. « Tout se ment en vue de la pensée, et tout est má par la pensée». Il pensiero è il motore immoto. Perché il pensiero « atto assoluto» è unità d'intelligenza e intelligibile, come totalità dell'idea una e sistematica.

Due, dunque, i difetti capitalissimi di questa dialet-tica, a cui si solleva il Vera: 1) che il pensiero, e nel pensiero tutto il processo del reale nelle sue forme ideali o intelligibili che aristotelicamente il Vera è costretto a inchiudere nel pensiero stesso, è un pensiero trascendente, il cui processo pertanto è egualmente trascendente;

2) che, come trascendente, cotesto processo è un processo ideale senza essere un processo reale; non è un vero pro-cesso. Due difetti che sono un solo: la negazione pura e semplice della dialettica hegeliana, sfuggita dal mondo, di sopra alla testa del filosofo.38. - Situazione disperante per una filosofia che avesse mirato alla comprensione della realtà determinata, attuale, storica, del sistema, insomma, in cui è il soggetto artefice della filosofia, anzi dello stesso mondo nel sistema di esso soggetto; ma il più comodo dei piani inclinati in cui potesse scivolare un temperamento mistico, portato perciò stesso alla negazione di ogni determinatezza e della propria concreta individualità. E allora s' intende da una parte il vuoto di tutte le discussioni di Augusto

Vera intorno ai problemi storici e concreti: esempi solenni le sue lezioni di filosofia della storia, uno dei libri più flosci e vacui, che si siano mai pubblicati, pur essendovi gettati dentro, come in un sacco, taluni dei più forti pensieri che siano stati mai pensati, ma tolti dal sistema e dall'anima che li regge nella mente poderosa di Hegel; nonché quella lunga filatessa che reca il titolo di Cavour e libera Chiesa in libero Stato (1877), con annessa prefazione, apparsa la prima volta nella traduzione francese, la più strana discussione che si possa immagi-nare: rivolta a combattere il pensiero d'un uomo e un uomo e un sistema e tutta la storia d'un popolo, il tutto speculato dentro una formola (libera Chiesa ecc.), quando il più elementare buon senso richiedeva che si

cercasse

com'era nata quella formula, nel pensiero dell'uomo, nelle circostanze e dottrine che all'uomo l'avevan sug-gerita, e quali problemi, dentro quali limiti, essa mirava a risolvere, e insomma quale ne era il proprio e genuino e determinato significato. Perché egli è chiaro che l'intelligenza del Vera era la più antistorica e antibegeliana che ci potesse essere. E s'intende d'altra parte il segreto motivo della preminente importanza da lui attribuita alla questione religiosa e quel suo perpetuo bisogno di rifarsi da essa, quantunque la filosofia che aveva alle mani non gli desse modo di ottenerne una soluzione per lui molto soddisfacente.Egli è che al Vera, come a tutti i mistici, il mondo restava scisso in due mondi: uno dei quali non era il suo, e (ahimé!) era tutto. In fondo alla lunga introduzione premessa al primo volume della Filosofia della religione, dopo centocinquanta pagine di schiarimenti, sentiva che gli si sarebbe potuto opporre: - Voi dite che il pensiero è l'assoluto, e che come tale è il principio supremo e ge-neratore delle cose. Sicché, tutte le cose saranno pensieri.

Intanto, riconoscete anche voi che c'è qualche altra cosa oltre i pensieri, poiché parlate di rappresentazione, fenomeno, natura e spirito finito. Questa qualche altra cosa, avrà essa un altro principio? E com' è che l'asso-luto non basta a se stesso? E come conciliate l'idea o il pensiero con la storia? « La storia è moto, sviluppo, trasformazione, laddove l'idea, il pensiero, l'assoluto è l'assoluto precisamente perché esclude ogni trasformazione ogni cangiamento, ogni divenire. Infine voi dite che l'idea è insieme forma e contenuto. E sta bene. Ma l'idea sarà sempre un contenuto ideale, laddove il contenuto che la storia sviluppa e aggiunge incessantemente a se stessa è un contenuto sensibile, fenomenico, reale. Cosi ci sono

due mondi....». Obbiezioni che colpivano in pieno petto.

Ebbene, risponde il Vera, noi in parte abbiamo risposto

a queste obbiezioni; ma le ripiglieremo e le esamineremo nei volumi seguenti, che trattano più specialmente delle questioni a cui queste obbiezioni si riferiscono, e che si possono in generale designare come il problema storico. - Ma nel secondo volume il problema è appena accennato; gli altri volumi non vennero più; e li dove il problema è accennato, la soluzione non è una soluzione, e lascia intatto il problema.

Nous disons que si l'absolu est le devenir, il n'y a ni histoire ni absolu, si l'histoire n'est pas un moment de l'absolu lui-même.

Par consequent notre thèse est que l'histoire est un moment de l'absolu, mais qu'elle n'est qu'un moment, et qu'ainsi pendant que d'un côté, l'absolu crée et engendre l'histoire, et qu'il est lui-même dans la création et l'histoire, il s'élève, de l'autre, au-dessus de l'histoire, la nie, il est la negativité absolue......

Dove l'unico senso possibile è quello aristotelico già indicato, che è in realtà la negazione della storia: per cui cioe l'atto assoluto del pensiero è di là dalla storia.

E però ogni volta che risorgeva questo problema storico, che il Vera pur sapeva essere il segreto dell' hegelismo, era un tormento pel suo povero cervello, rimasto in pre-senza di quel Dio pronto, peggio che Saturno, a divo-rate le sue creature.

39. — Suo vero problema non era quello storico, bensi il religioso. Il suo hegelismo era cominciato, come s'e visto, con uno studio sulla Filosofia della religione di Hegel, quando non gli pareva possibile concepire altri-menti lo Stato che subordinato al divino della religione professata nella Chiesa 3, E quando con la Filosofia dello spirito ebbe condotta a termine la versione dell' Enci-clopedia, le ultime pagine di questa Filosofia lo ricon-dussero a meditare il problema religioso secondo la filo-sofia hegeliana 3 (1870). E allora scrisse il Cavour, lo Strauss, e la prefazione all'edizione francese del Cavour

(1871); e si accinse a lavorare attorno alla Filosofia della religione di Hegel, che, pubblicandone nel 1876 il primo volume, annunziava di voler accompagnare de plusieures introductions. Poiché qui si imbatteva in un arduo pro-blema: in cui egli disse di veder chiaro, ma di cui parlò tanto da dimostrare che non ci vedeva poi tutta quellachiarezza che diceva: il problema dei rapporti tra religione e filosofia: «un des problèmes les plus difficiles », come protesto una volta con tutta franchezza, « peut-être même le problème le plus difficile que l'intelligence trouve devant elle, ou, pour mieux dire, en elle-même et dans les profondeurs de sa nature ».

La soluzione hegeliana, infatti, si presenta tutt'altro che facile. Dire che la religione e la filosofia hanno lo stesso contenuto (conoscenza dell'assoluto) ma in una forma diversa (conoscendo l'una per rappresentazioni, miti, simboli, e l'altra per concetti) è porre anzi che risolvere un problema per una filosofia che non concepisce forma separabile dal contenuto, e non può porre perciò un contenuto in due forme. Questo bensi non è un problema speciale in seno allo hegelismo: ma sempre quello stesso problema che s'incontra già sulla soglia, dell'unità di identità e differenza implicita nel concetto del dive-nire. La forma della religione hegeliana non è una veste soggettiva, onde nell'anima degl' ignoranti si rivesta Iddio: è una forma dello stesso Dio. Il Dio dello spirito assoluto, che è religione, diviene il Dio dello spirito assoluto che è filosofia. Il rapporto tra religione e filosofia è il rapporto tra questi due momenti di Dio o dello spirito assoluto. Come si passa da un momento all'altro ?

O, in generale, come si passa? Ecco il problema. E il povero Vera che non era venuto a capo di questo pro-blema, se lo ritrovava avanti in fondo all'Enciclopedia; e per pronto che fosse a sobbarcarsi a svelare altrui l'enigma, badava a ripetere: « Sans donte, déterminer, saisir l'idée de la religion, et la saisir à la fois en elle-même, et dans son rapport avec l'idée de la philosophie, c'est le problème le plus ardu peut-être qui s'ofre à notre intelligence». E dopo le molte pagine spese attorno a questa difficoltà nel primo volume della Filosofia della religione, passandosi una mano sul petto, confessava:C'est celle difficulté que je me suis appliqué à lever....

L'ai-je complètement levée? Eh non! je le sais». Gli si affacciava alla mente, a confortarlo, quella bella e comoda idea che non si può ai non-hegeliani togliere le difficoltà di Hegel. E accennava anche ciò; ma soggiungeva subito con una osservazione che è una rivelazione intima: « On peut même dire qu'il est impossible de la lever [cette diffi-culté] complètement dans un livre. Un livre est toujours une ouvre imparfaite. C'est plus ou moins la lettre, ce n'est pas l'esprit. Un livre a toujours besoin d'être complété et vivifié.... 1. Osservazione, che è forse anche una reminiscenza dell'immortale discorso di Socrate nel Fedros ma è pure la sincera confessione del personal sentimento dello autore analogo a quello del poeta:

Ahi, fu una nota del poema eterno

Quel ch'io sentiva, e picciol verso or e:

quel sentimento appunto del mistico che non vede proporzione tra il picciol verso e il poema eterno, e questo gli suona dentro come ineffabile; e se gli apparisce sotto forma di problema, è un problema senza soluzione. Se la filosofia, infatti, è pensiero assoluto, se questo è di là dal divenire, qual uomo mortale che ad ora ad ora viene imparando a meglio pensare avrà la tracotanza di pre-tendersi in possesso di quel sistema dentro il quale sarebbe la soluzione? Ora è chiaro che in questa situazione di spirito la filosofia, in quanto filosofia negativa o dimostrazione dell'impossibilità di raggiungere l'assoluta cono-scenza, non può menare ad altra soluzione del problema religioso che a quella direttamente opposta professata da Hegel. Di tale soluzione, non occorre dirlo, il Vera non farà mai esplicita asserzione, non essendo tale il suo atteggiamento mentale verso la dottrina di Hegelda permettergli di questi aperti dissensi; ma non perciò essa sarà meno la base di tutti i suoi ragionamenti intorno alla questione religiosa, e il centro della sua vita spirituale.

Particolarmente significativa in questo proposito l'ultima lettera da lui scritta al suo diletto Mariano, prima di morire:

Se al vostro ritorno [gli scriveva] la Parca fatale avrà troncato il filo della mia vita, io me ne sarò andato col dolce pensiero che la mia immagine, e piú della mia immagine, il mio insegnamento mai non si cancellerà dalla vostra memoria. Perché credo che il mio insegnamento sia la vera e genuina esposizione della dottrina hegeliana. E la filosofia hegeliana è la sola e vera filosofia; e lo è anzitutto, perché è essenzialmente reli-giosa, e religiosa nel senso profondo della dottrina cristiana.

Ed è questo tratto saliente che la distingue da tutte le altre filosofie, che a lei mi attiro sin dai primi passi della mia carriera filosofica, come ne fa fede uno scritto pubblicato, se ben ricordo, il 1844 5, nella Liberté de penser. Ed anche il Cavour non ha altra origine. Perché io sono, e sono sempre stato, e per indole e per riflessione, un uomo religioso. E la religione io ho sempre considerata come uno dei più alti privilegi della natura nostra. Senza di essa l'uomo è un essere degradato e miserabile. E la dottrina hegeliana insegna ad amare ed adorare Iddio col cuore e con la mente, due cose che in una anima bene equilibrata non si esclu-dono, anzi si compiono a vicenda. E da questa via, caro Mariano, non vi scostate. Solo in essa troverete e conforto e la forza per traversare questa vita si ripiena di disinganni e di amarezze.

Perché Iddio é il sommo e il solo bene, onde, vivendo col cuore e con la mente e con tutto l'esser nostro con lui e in lui, diventiamo partecipi delle sue eterne ed immortali perfezioni 3.

Ora la filosofia hegeliana è sì una filosofia essenzialmente religiosa, ma appunto in quanto risolve in sé la religione, ed è religione: si concepisce come la rivela-zione, anzi realizzazione di Dio; e nella unità sua di sapere e saputo, concepisce tutto il suo mondo, in tutti isuoi gradi, come rivelazione o realizzazione di Dio: onde, mediando Dio, supera l'immediatezza propria della religione come tale (insufficiente coscienza che lo spirito, secondo la dottrina hegeliana, avrebbe della propria natura, e però del reale assoluto), e non lascia posto per lei, in quanto religione pura (in quanto non fi-losofia) in nessuna parte del suo mondo. Il mondo hegeliano, d'altra parte, non è soltanto il mondo della filosofia, in cui tutti i gradi anteriori siano già risoluti.

Una tale filosofia sarebbe astratta e trascendente. La sua concretezza importa, quel che il Vera non poté vedere, il suo eterno divenire, ossia l'eterno risolversi degli altri gradi in questo grado supremo del processo dialettico della realtà. Di guisa che la filosofia hegeliana è portata a concepire tutto ciò che non è filosofia e la stessa religione come momento necessario di se medesima: e in questo senso, a concepire razionale tutto il reale. La religione come tale è conservata dallo hegelismo, ma dichiarata momento della filosofia, e quindi subordinata, nella filo-sofia, a questa. Sit viva, dum non sit diva. Pertanto il filosofo hegeliano: 1) ha la sua religione nella sua filosofia;

2) riconosce che ognuno, di qua dallo hegelismo, ha la propria religione nella sua filosofia, o la filosofia nella propria religione.

40. - Le questioni adunque in cui si travagliò il Vera, se nella vita delle nazioni ci sia nulla che possa sostituire la religione (ed egli era d'avviso che non ci fosse nulla, né la scienza, né la filosofia) *: se la Chiesa debba essere subordinata allo Stato, o lo Stato alla Chiesa, o se debbano separarsi (ed egli inclinava alla seconda ipotesi, benché non sapesse poi concepire il come della subordi-nazione, né determinare la Chiesa a cui lo Stato si sarebbedovuto subordinare) *; queste e simili questioni sono questioni suscettibili, nello hegelismo, di una sola solu-zione, che è quella derivante dal concetto filosofico hegeliano della manifestazione mediata di Dio in tutto il reale e in sommo grado nella filosofia; ma anche di infinite soluzioni per tutti coloro, che non essendo hegeliani aspirano soltanto, secondo l'hegelismo, a esser tali, quantunque non lo sappiano. Ma è pur chiaro che se la verità dell' hegelismo deve valere per lui come la sola verità, egli non potrà non combattere le soluzioni diverse dalla sua, ossia tutte le altre filosofie in quanto vogliano passare per filosofia, e dominare. Il filosofo hegeliano non solo rispetterà tutte le credenze religiose, ma avrà interesse ad alimentarle come quel terreno da cui soltanto essa potrà germogliare; così come entra negli interessi dello spirito, secondo la sua filosofia, la cura della salute fisica.

Le soluzioni del Vera erano invece non per il dominio od autonomia della filosofia e di tutte le forme spirituali che entrano nel mondo della filosofia, ma per la soggezione di tutto alla religione: come di chi non ha la propria religione nella filosofia, ma la propria filosofia nella religione. Egli, insomma, per usare il linguaggio hegeliano, non si sollevò mai veramente dalla sfera della rappresentazione a quella del concetto nello spirito assoluto.

4I. - Non si poteva sollevare, pel suo radicale misti-

cismo. Al quale non mi pare contrasti la tesi presa a sostenere nella Introduction contro l'immortalità dell'anima:

onde la sua autorità d'interprete consumato dello hege-lismo era opposta poi alla Florenzi Waddington, solatra gli hegeliani d'Italia a propugnare il concetto dell'immortalità dell'anima. Giacché non è vero quello che Kant e tutti i filosofi della religione naturale sosten-gono, che la credenza nella immortalità sia un principio essenziale dello spirito religioso. Che anzi la più profonda radice della religione, nel senso più stretto del misticismo, è riposta nel senso della vanità e nullità dell'individuo, nella nichiltade cantata così fervidamente da Jacopone, nell'aspirazione al nirvana bud-distico, nell'affermazione della divinità sola; e non si capisce l'anima immortale se non si concepisce la sostanzialità assoluta dell'io individuale, senza riconoscere l'infinito nello stesso finito e insomma superare, come fa il cristianesimo, l'astrattezza della religione imme-diata. Che anzi nella incertezza del Vera nella Intro-duction circa l'interpretazione di questo punto di dottrina in conseguenza dei principii hegeliani=, la sua pro-pensione verso la tesi negativa non credo si possa altrimenti spiegare che con la sua tendenza generale a negare il finito nell'infinito, e il pensiero dell'uomo e lo spirito individuale nel divino.

42. - Alla stessa tendenza riporterei anche l'interesse da lui posto nella questione dell'abolizione della pena di morte, che a lui non si presentava tanto, come ad Hegel, come una conseguenza ferrea della dialettica della legge, che non si può volere disvolendola, e da accettare virilmente come il taglio del chirurgo che arreca la vita, quanto una delle parti più belle e più sante della filosofia della morte: poiché gli piacque considerarla più come un diritto dello Stato sull'individuo colpevole che come un logico momento del diritto, in cui si realizza la vita dello Stato insieme e dello stesso individuo, che ne è parte. E però ricondusse la legittimità della pena di morte a una questione più generale: della razionalità della morte inflitta dallo Stato; passando quindi a quella del diritto che lo Stato ha di far guerra. E scioglieva appassionati inni alla guerra, che fa sentire ai popoli quel che valgono e quel che possono operare, dà loro la coscienza dei propri diritti, sveglia tutte le energie dello spirito, è stromento di civiltà e di progresso: alla guerra, dove l'uomo non muore per sé, ma per la patria e per l'umanità, e la morte adempie a un più alto ufficio e raggiunge più alti fini della semplice morte naturale: poiché in essaL'individuo si sacrifica non ai fini naturali della specie, sì a quelli morali della civiltà. E in generale, sempre, « la morte è un bene, ora per l'individuo, ora per l'uma-nità; per l'individuo anche se tutto egli perisce con la morte: perché se la morte lo colpisce nella vecchiaia, lo colpisce quando la sua vita non ha più pregio né per lui né per gli altri; e se lo coglie nel vigor degli anni, essa lo eleva nello stesso istante al più alto grado della libertà e dell'amore. Ma sopra tutto per l'umanità la morte è un bene, sempre un bene. Infatti, la gioventù, la bellezza, la potenza, l'espansione dello Spirito suppongono la morte: dell'individuo, come dei popoli: giacché lo Spirito non si conserva, non si rafforza, non cresce che per la morte. L'individuo, per potenti che siano le sue facoltà, è uno spirito limitato pel solo fatto che vive in organi limitati; ond'è che, dopo aver con-tribuito, per la sua parte, allo svolgimento e alla vita dello Spirito, non pure ei diviene un ostacolo a nuovi svolgimenti, ma s'abbandona egli stesso, se può dirsi cosi: ciò che v' ha di profondo e di eterno nel suo pensiero gli sfugge, e cade come colpito d'atonia e d'impotenza.

E quel che è vero per l'individuo, è vero altresi per i po-poli. Cosi la Grecia e Roma, dopo aver elevato il mondo antico alla più alta civiltà, diventano un ostacolo alla civiltà nuova. - Bisogna dunque che la morte, affrancando lo Spirito dai lacci della Natura, gli permetta di vivere una vita sempre giovane e sempre nuova, e d'in-nestare sull'antico lo spirito nuovo. Cosi si spiega perché l'individuo cresce dopo la morte nella coscienza dell'u-manità, e perché la morte è considerata come la consacrazione dell'amore e il segno della riconciliazione dello spirito. E infatti come la pace, che viene dopo la guerra e la termina, la pace che è il risultato dell'esercizio di tutte le potenze della vita, val meglio, checché se ne dica, di quella pace artificiale che snerva e ammollisce il corpoe l'anima; così la morte, liberando lo spirito dalle sue pastoie, fa brillare la verità eterna di cui egli era l'organo d'un più vivo splendore, la rende più visibile agli altri spiriti, la propaga e la fortifica con la loro adesione e trionfa così della natura » 1.

Quest'argomento faceva il Vera eloquente, come corda che risuonava dal profondo del suo animo. E altrove, cantando l'amore, a mo' di Platone, come l'aspirazione allo Assoluto o filosofia, si riscaldava all' ispirazione leo-pardiana di Amore e morte, facendo della morte « il segno, la consacrazione e il trionfo dell'amore.:. E nella morte inflitta dallo Stato, vindice dell'eterna giustizia dello Spirito, egli vedeva pertanto l'olocausto dell'individuo sull'altare dello Spirito: poiché nell'individuo vedeva, come testé ci ha detto, l'organo dello Spirito, ma non lo Spirito stesso, che come tale non è individualità finita.

43. - Non era questa l'interpretazione della filosofia hegeliana, che potesse concorrere al progresso del pensiero speculativo. Ma è indubitabile che essa pure traeva

alimento da uno di quei forti amori dell'eterno e del divino, senza i quali lo spirito umano non sarebbe a volta a volta distratto dagl' interessi mondani e spinto alla ricerca filosofica. E per questo verso il Vera fu uno degli scrittori più vigorosi, più sinceri, più alacri che ci siano stati in Italia negli ultimi tempi; e non possiamo passare innanzi a lui senza inchinarci.

Il suo fu un vano sforzo di impadronirsi di quell'ideale di sistema, unità di religione e di filosofia, che Hegel gli fece balenare alla mente: vano sopra tutto per mancato orientamento nella storia della filosofia, dacui l' hegelismo aveva con stretta possente voluto spremere il succo vitale. Perciò una costante meditazione di trent'anni non valse a fargli superare definitivamente il punto di vista, da cui nel 1845 nelle sue tesi di dottorato aveva cominciato a combattere Hegel. Nell'ultimo suo scritto Dio secondo Platone, Aristotele ed Hegel sentiva egli stesso di « tornare ai primi e quindi vecchi amori, poiché l'argomento» che vi esaminava « non differisce in fondo da quello trattato nell'opuscolo Platonis, Aristotelis el Hegeli de medio termino doctrina», e prendeva di nuovo a studiarlo e svolgendo ed allargando la prima tratta-zione, chiarendone e correggendone alcuni punti, e in tal senso compiendola». Ma le correzioni non toccavano, in verità, la sostanza delle sue giovanili speculazioni.

Poiché egli ancora, come nel 1845, toglieva a difendere la tesi che la filosofia muove da una fede; dalla fede dell'intelligenza in se stessa; dalla fede nella conoscenza; nella conoscenza della verità; cioè dell'Assoluto o di Dio:

dalla fede dell' Efesio: ady pi huntoy auniatow oin

EfEupnGEL, aveEepeivntoy Eoy xoi aopov. E se ora bensi

diceva, che questa fede è l'alfa della scienza e la sola possibilità di essa, la scienza, pur troppo, non seguiva.

Lo scritto, condotto innanzi fino al punto in cui ancora una volta il filosofo stanco si ritrovava innanzi al problema della differenza tra religione e filosofia, si arre-

stava, troncato dalla morte.

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