Thursday, May 30, 2024

Grice e Vernia

 

Esaminiamo in prima quali sieno le sue cose stampate, le quali sono poco conosciute, si perché si trovano inserite in altre opere, si perché scritte con caratteri molto fitti, danno pena all'occhio anche molto paziente. La dissertazione più conosciuta é l'ultima, contro l' unità dell'intelletto di Averroe; tanto è vero, che nella seconda iscrizione apposta al monumento trasportato dalla chiesa di S. Bartoloneo all'oratorio dell'ospedale civile di Vi-cenza, è precisamente questo ultimo scritto ricordato. Del Vernia sono stampate sei dissertazioni. La prima porta la data del 1480 (') ed è: quuestio un ens mobile sit toliusphilosopine nuturalis siljectum ('); essa si trova nel commento sul de general. et corrupt. di Aristotele, di Egidio Romano, di Marsilio Ingnen, e di Alberto di Sassonia.

La seconda é collegata colla terza, e tratta della partizione della filosofia; è una prolusione ad un corso di un anno intorno alla fisica di Aristotele. La terza è: utrum medicina jure civili sit nobilior: è come una conclusione della seconda (°); tutte e due sono nella fisica di Burleo, e sono precedute da una lettera a Sebastiano Baduario, censore di Vicenza (3), nella quale ricorda il Vernia la grandezza della di lui famiglia, di cui i capitani sono scolpiti nelle immagini del Palazzo Ducale di Venezia. Il Badua-rio fu discepolo, come il Vernia, di Paolo della Pergola, ed addivenne illustre scotista. In sua casa fu educato il compaesano del Vernia, Nicola Manupello, di Chieti, che fu fisico e medico. E qui soggiunge, che essendo stato pregato dagli stampatori di emendare il libro sulla fisica di Burleo che era corrotto e che doveva leggere agli scolari, volle premettere la divisione della filosofia e l'ampia questione de inchoatione formaruin da lui trattita, ed al Baduario dedicata. Questa ultima questione è andata perduta; almeno finora non la rinvenni. La partizione della filosofia e l'altra sulla medicina portano la data della fine di febbraro 1482 (*). La quarta dissertazione è sul

de gracibns et lucciles, dedicata a Berardo Bolderio filosofo e medico veronese; tratta se i gravi ed i leggeri inanimati si muovano da se stessi o da altro, quando sia rimosso ogni impedimento. Essa si trova nello scritto sull'intelletto contro Averroe. La data non ci è veramente segnata; ma siccome essa é citata nella quinta dis-sertazione, e non nelle altre prevedenti, è da dirsi essere la quarta. La quinta dissertazione é: questio an denter unicersalin realia, ed é premessa al commento sulla fisica di Urbano Servita, Averroista. Il Renan seguendo l'Hain, ha creduto che sia una prefazione ('); invece è una questione a se, che la poca relazione propriamente culla fisica. Antonio Alabante scrive al Vernia di leggere ed esaminare il manoscritto di Urbano Servita, e di vedere se ne sia stato l'autore Giovanni Marcanova, ovvero Ur-bano. Il Vernia risponde che il manoscritto nel primo esemplare è di Urbano: Marcanova lo copiò e fu trovato nei libro di costui senza indice: che è degno di essere stampato, jerche Urbano supera moltissimi averroisti, e non islugge le questioni le più difficili della fisica. Corrisponde alla gentilezza e stima di Alabante di Bologna con pari condutta, mandandogli la dissertazione sugli uni-versali, perché la legga e gli dica se può essere stanpata.

La lettera di accompagnamento porta la data del giugno 1492 da Padova; e la dissertazione è stata terininita nel 17 febbraio 1492 (*). Sino a questo tempo il Vernia è un pretto averroista, mostrando nei suoi scritti unlampo di razionalitá e di liberta di filosofare pregevole e rarissima a quei tempi.

Ma alla sorveglianza del Vescovo di Padova e alla • pietá di un uomo dottissimo quale era il Barozzi non poteva sfuggire il libero pensiero del Vernia. Imperocche il Barozzi nel 4 maggio 1489 aveva emanata la scomunica lutae sententiae a tutti quelli che disputavano pubblicamente quoris quaesito colore, sull'unità dell' intelletto.

Il Vernia con tutto ciò si mantiene ancora fermo ai suoi principii; sperava che essi fossero mantenuti illesi colla pubblicazione delle sue dottrine, affidata alla protezione di uomo colto ed autorevole che l'aveva accolta.

Cio non basto a salvarlo: una più severa minaccia di seo-munica direttamente al Vernia dovette venire, la quale l'obbligava a ritrattarsi. Non si puù spiegare diversamente la vicinanza delle due date, della quarta e della sesta dissertazione, nella quale ultima il Vernia si ritratta interamente del suo averroismo. La questione degli universali porta la data del 17 febbraio. La lettera poi di accompagnamento di questa dissertazione diretta ad Antonio Alabante porta la data di giugno 1492; mentre quella contro l'unità dell'intelletto è del 18 settembre, dello stesso anno, 1192.

Non dustrente ophtelmia quae me tune molestant, soggiunge il Vernia in fine: una circostanza tuti'altro favorevole a fare scrittura. Argomento da ciò, che il Vernia la dovuto affrettarsi a fare questa ritrattazione. Che la dissertazione sesta sia un po' affrettata ed un poco anche confusi, é in qualcle parte evidente. Che rimanga il dubbio di avere abbandonato l' averroismo perfettamente, e evidentissimo; ed il Barozi se n'era già accorto. Epperò non possiamo noi accettare come veridica la sua confessione, cioé, che solo per disputare e per aguzzare l'ingegno tentò di corroborare con argonenti l'opinione di Averroe intorno all'unico intelletto.

Contro tale dichiarazione sta non solo la dissertazione precedente dello stesso anno sugh universali, in cui si professa pu-ru averroista, ma anche un'altra che è sparita, intorno al-1180 nella prina questione preliminare intorno al soggetto della fisica (').

Ma la vita di insegnante per 33 anni nell' università di Padova sarebbe stata troppo scarsa di frutti intellettivi, se il Vernia si fosse limitato a queste sole sei dissertil-zioni. Giá abbiamo visto che egli emendo la fisica di Bur-leo. Anche ai tempi di Pomponazzi il Burleo godeva all-cora grande autoritá nella scienza. Ed alcune opere di lui erano già andate perdute (°). Un altro lavoro di cur-rezione di edizione lo fece intorno al de caelo et murulo del Gianduno. Il Pellenegra di Troja che insegno filosofia morale a Padova, ci da notizia di avere più accuratamente stampate le questioni del Giandono che furono emendate dal Vernia ('). Noto questa notizia molto rilevan-Imperocché sono di credere che molti hanno pubblicato dei lavori del Vernia, non originali però, ma intorno ai commenti di Aristotele, appropriandosi in tutto e per tutto gli scritti del filosofo chietino. Che il Vernia non abbia perduto il tempo sulla cattedra, si rileva dalle sue stesse parole nelle quali dice che essendo stato professore per 33 anni a Padova, credeva essere poco decoroso, se non avesse pubblicato ció che avea raccolto con diligenza per tanti anni dagli autori greci e latini. Egli non cessava tutti i giorni di forbire e ritrallare i commenti che aveva fatto su tutti i libri di Aristotele, perché potessero meritare di essere pubblicati ('). Ma mandava alla stampa in prima l'opuscolo sulla immortalità secondo la fede cattolica, aí-finché fosse esso come il conduttiero delle altre opere.

Prega inoltre Domenico Grimani di accettare questo dono durante il tempo, che egli da un'aitra mano ai coinmenti di Aristotele. Se la lettera dedicatoria è scritta nel 1499, nella quale confessa che egli ha già pronti questi commenti, ma non li pubblica perché hanno bisogno di essere ricor-secondo il tenore del suo opuscolo, cioè contraria ad Averroe, di cui era stato per tanti anni fautore. Quindi si può supporre, o che egli non li abbia pubblicati prima per la minaccia del Barozzi, ovvero che dal 1499 egli siasi messo a ritrattare tutti i commenti in senso anti-averroistico, e che non li abbia finiti per gli acciacchi della sua età. Pochissimo é stato anche il tempo dalla pubblicazione dell'opuscolo alla sua morte; quindi si può ritenere che i suoi scritti sieno andati nelle mani degli altri.

Una caratteristica quasi costante si può notare negli scritti del Vernia, la quale è duplice, materiale e formale.

Il Vernia è molto ordinato nel suo scrivere: quasi tutte le sue dissertazioni sono divise in tre parti: la prima espone tutti coloro che hanno deviato da Aristotele e dal suo commentatore, Averroe; la seconda, che cosi al buno sentito entrambi intorno al quesito proposto, e la terza contuta le opposizioni addotte dagli avversari. Questo tenore di dividere in tre parti l'argomento era però comune a tutti i tomisti e scotisti. Ciò riguarda la materia dei suoi argomenti. Circa la sua opinione, a quale cioé, dei filosofi più si accostava, è da dire in genere, che egli sebbene averroista, era piu veramente un albertista. Tomista non mai periettanente. Il suo storzo è di mostrare che l'opinione di Averroe poco differisce da quella di Al-berto. Lo dice finanche nella sua sesta questione contro l'unità dell'intelletto. Sebbene in quest'ultima sia stato costretto ad essere tonista, per avvalorare la sua ritratta-zione.

Il Vernia insegnava propriamente li tisica nell'Università di Padova ('), e non poteva sottrarsi all'esameseguace, di S. Tommaso, o di Alberto ('). Tale questione era, se l'oggetto della filosofia naturale era l'ens mobile, come disse S. Tommaso, ovvero il corpres mobile, come opinó Alberto. Osserva che Egidio Romano combatté l'o-pinione di S. Tommaso, perché la scienza naturale non è subalterna della metafisica; poiché tre sono gli abiti speculativi, il metafisico, il matematico, ed il naturale. E se la mobilità è un' accidentalità, questa non deriva punto dall' essere, in quanto questo è obbietto della metafisica.

La scienza naturale non é parte della metafisica, ma que-sta e quelle sono diverse parti della filosofia. Di S. Tom-maso la la più buona opinione, dicendolo il migliore espo-sitore tra i latini; ma pure non solo in questa, ma in altre questioni gli é spesso contrario. Lo Scoto volevi invece clie l'oggetto dalla fisica fosse la sostanza naturale, che é soggetto del moto e di altre aflezioni. Ma se per naturale s' intende il sensibile, soggiunge il Vernia, esso

è il soggetto che é principio di moto e di quiete.

Sostiene perció che il corpo mobile sia il soggetto della fisica (°). Otto sono le condizioni requisite per un subbietto di una scienza: che sia reale, uno almeno per unitá analogica, universale, adeguato, primo noto in quanto alla sua ragion formale, che abbia parti, che abbia affe-zioni, che abbia principii. Ora l'errore di Antonio Andrea è di aver posto l'essere come comune a Dio ed alla crea-tura. Queste otto condizioni si trovano nel corpo mobile,l'ammettere il noto come soggetto di scienza, risponde che quell'accidente solo non entra nella scienza, il quale non ha causa.

Due difficoltá considerevoli s'incontravano in tale de-finizione della fisica. Se il corjo mobile é il subbietto della fisica, gli angeli sono mobili, ma non sono corpi: inoltre, il cielo non é composto di materia e forma, e quindi cone può essere l'obbietto della fisica? La questione dell'an-

gelo intorbidava la liberta di filosofare nella scienza na-turale. Intorno alle specie ci era quella della plurabilita,

o moltiplicabilità dell'angelo, che non era ammessa da S.

Tommaso, perché ogni angelo rappresentava la specie tutta. Per l'anima umana invece si doveva sostenere la plu-

rabilita, altrimenti si cadeva nell'averroismo, e si ri-conosceva l'unita dell'intelletto umano. Il Vernia confessa che egli intende di parlare secondo la ragion na-turale in tale questione: e dice che gli angeli non si possono muovere con una velocita infinita, perché la ve-locita dura un certo tempo: il loro moto locale, se fosse veloce infinitamente, dovrebbe avere uno spazio infinito ; locché non conviene all'angelo. Esso é dunque una so-stanza semplice ricettiva di luogo, e quindi di moto. Era giá il primo indizio, con cui egli si dipartiva dalle veritá di fede e della teologia ('). I teologi invero volevano con-cedere all'angelo il moto infinitamente veloce, ovrero

l'ubiquità, negandogli il luogo. Locché e contraddittorrio per il Vernia (3). E se con S. Tommaso ammetteva che l'angelo rappresentando tutta la specie, era impluri-ficabile, lo stesso sosteneva rispetto all'intelletto umano (').

Ma si riserva di trattare tale questione in quella dell'in-telletto.

Se questo scritto sia stato pubblicato, non si sa: forse dovette sparire dietro la persecuzione del Barozzi; non credo però che gli fu impedito di pubblicarlo. Il Nifo pare che lo accenni. Imperocché e chiaro che la citazione sui concorda perfettamente colla dottrina che espone e che pol Il Nito combatte. Cioé, che per sostenere l' unità dell'in-telletto, disse un nuoro espositore, che una stessa forma spirituale informa subbiettivamente la fantasia e l'intel-letto. Imperocché la forma spirituale può essere una di numero in diversi soggetti, come il colore nell'acqua e nell'aria. L'intelletto in se come uno in atto informa il nostro intelletto, ed é la specie intelligibile; informa an-clie la fantasia, ed è il fantasma (*).

La seconda difficolta era: se

Averroe aveva ammes-

so che il cielo non è coinposto di materia e foria, perché é ingenerabile e pur tuttavolta è mobile, come poteva abbracciare l'idea del corpo mobile il cielo e le cose terre-stri? Il Vernia risponde che la sostanza mobile è cio che è soggetto alla triplice dimensione. Pare accostarsi per ciò all'opinione di Egidio romano che poneva identici natura nel cielo e nella terra. Ma pure non é veramente cosi; perché confessa altrove che il cielo è atto, e non si da in esso passaggio dall' essere al non essere.

Il punto di vista interessante per caratterizzare fin da ora il chietino filosofo è questo nel primo suo lavoro, di-chiarare, cioè, la fisica indipendente della metafisica: sottrarre la natura, per quanto poteva, dall'influenza della teologia. Fin di ora i fisici non stunno in accordo coi metafisici. E una linea di condotta che è troppo costante

nel Vernia.

La seconda dissertazione intorno alla partizione delli filosofia è una prolusione che fece in un anno del suo insegnamento; nel quale dovendo esporre la filosofia na-turale, esamina quali sieno le relazioni delle varie parti del sapere al tutto.

La filosofia, dice il Vernia, è la perfezione del sapere; essa è prattica, speculativa e razionale; e riducendo, è reale e razionale. Questa ultima è la logca; dando a questa il solo valore razionale e non reale, il Vernia si dichiara vero occamista: non tomista, né scotista. In tal guisa seguiva la tradizione patavina cirça la logi-ca, la quale, non solo di Nicoletto Veneto e da Nicola della Pergola era stata ritenuta come speculativa secondo Alberto, il differenza di alcuni tomisti che la dissero pratica, ma anche di valore nominale; e cio era la massima distinzione degli occanisti moderni dai logici antichi che erano o tomisti, o scotisti ('). Siccome tre sono gli atti di ragione in eni jo siano errare, tre sono le parti della logica che servono a dirigerci alla verita.

Le Categorie che Aristotele e Platone ricevettero da Archita Tarentino, servono a non attribuire id una cosa uni qualitá che conviene ad un'altra. Il libro de interpretalione tratta delle enunciazioni singole, in cui vi è la composizione, o la divisione dell'intelletto. Il terzo atto é il sillogino pertetto: ed è questa l'arte nuova che fu da Aristotele ritrovata. Questa parte é divisa nell'inventiva e nella giudicativa: quindi la topica e la sofistica. Lia giudicativa è l'analitica, di cui la prima tratta del sillogismo comune in cui si risolve la conclusione nella preinessa;la seconda é quella che riduce gli elletti alle loro cause.

La risolucione prima é relativa alla seconda ; perché quella é comune ad ogni sillogismo, questa é speciale al sillogismo che versa intorno alle cose necessarie.

Al libro dei primi analitici viene quello dei topici; e poi quello dei secondi analitici, e finalmente quello degli elen-chi. Doyo, la rettorica e la pratica.

La scienza reale poi é divisa in prattica e speculativa.

Quella in fattiva come la medicina, ed in attiva clie com-prende l'etica, l'economica e la politica. Questa com-pren Je la naturale, la matematica e la divina. La consi-derazione intorno al mobile in se è della fisica, che è pri-una tra le parti della filosofia naturale: se si considera il solo moto locale, ecco la trattzione del cielo; se verso la forina, ecco il libro della generazione; se verso il mi-sto, si la il libro dei meteorologici, e quello dei minerali : se é animato, questo o è in genere ed ecco il libro de

parcis naturalibus, o é specitico, ed e il de planlis et de animalibus.

La scienza dell' anima contiene tre parti : la prima il trattato deila vita e della morte, poi quello de respirationo e il de jucentute et seneclule, de causis

lougitulinis et bieritatzs citae, de sunate et acgrie-dine el de nutrimento, i quali due ultimi libri non ci pervennero. La seconda ciò che riguarda il motivo, de cresis motes animalium et de pingresse animalium.

La terra cio che è propriamente del sensitivo, quindi de sense et sensat), de memoria et reminiscentia, de sonno et vigiliu. Ma perché dai sinili si procede al dissimile, per-ció dopo il libro dell'anima in genere, vien quello del senso, del sonno e della veglia. L'intelletto non a. endo concretez/a nel corjo, é delle sostance separate che ap-partengono alla metatisica. Sbagliano perciò coloro che dicono soggetto del libro dell'anima il corpo animato e che l'anima sia sostanca del corpo. Perché il corpo ani-mato secondo le operazioni comuni a tutti i corpi animati,è soggetto del libro perenni animalinm: considerato poi secondo le operazioni specifiche è il soggetto dei libri de animalibus et plantis.

Il Vernia è nella dottrina dell'anima in armonia colla dottrina del cielo. L'anima è propriamente l'intelligenza, così nel cielo, come nell'uomo L'intelligenza è sostanza separata; eppero non appartiene veramente alle cose né celesti, né umane. L'anima come senso, come fantasia, appartiene alla natura, siccome la forma e la materia del cielo danno il cielo nella sua pienezza. Questa dottrina del 1482 è in pieno accordo colla dissertazione inedita del 1491, se il cielo é animato.

Di qui è chiaro l'ordine delle arti liberali: cioé, prima apprendiamo la grammatica, indi la logica e la parola, poi la filosofia naturale e la matenatica: da ultimo la divina sapienza.

Da questa seconda dissertazione non comparisce per noi nulla di notevole, salvo una mente abbastanza ordinata in mezzo a tutto il ginepraio dei trattati aristotelici. Si può ritenere che il Vernia gia si era dichiarato per l'unità dell'intelletto fin dal 1482, perché dichiara l'intelletto non avere concreteria nel corpo, essendo una potenza separata. Una dottrina che aveva per conseguenza la mortalitá dell'anima. Imperocché egli confessa che non solo la sensazione, ma anche la memoria appartengono alla vita sensitiva. Il senso non è che una specie dell'anima.

L'intelletto come unico appartiene alla metafisica. Non sappiamo se a quest'ora avesse gia pubblicato il suo traltato de unitute intellectus. Forse no: ma questa dichiarazione è già abbastanza, oltre quella che si trova nella prima dis-sertazione, per dichiararlo rigido averroista.

La terza dissertazione, se sia jiù nobile la professione della medicina o quella del dritto civile ('), ha qualcheche di spiritoso. Nissuno si deve meravigliare che il Ver-nia abbia preso a trattare quest'argomento; poichè era egli un medico e filosofo. Difatti, distingue in questo lavoro la medicina come scienza di cui parla, dalla medicina come arte, la quale dipende da quella. I medici artisti sono quelli che discreditano la nostra medicina, dice lui:

e dovrebbero essere espulsi dalle città (').

Dopo avere esposto alcuni argomenti in contrario, tra cui, che il fine del dritto è fare l'uomo virtuoso, quello della medicina conservarlo nel suo essere solamente, che con questa si sana il corpo, con quello si sana l'anima, ragiona cosi per la parte vera. La medicina riguarda la conservazione dell'individuo, che è come la sostanza migliore di ogni accidente. Il dritto si appoggia sull'autorità dei dottori, la medicina dá una certezza dimostrativa.

Essa veramente dipende immediatamente dalla filosofia na-turale. Senza di quella nulla si conoscerebbe: ed in essa consiste la felicità, anzi che nella convivenza, che è una certa felicita. Dimostra a lungo la felicità consistere nella speculazione; e gli pare clie il giurista sia più lontano dall'ultimo fine che attinge il naturalista. La medicina fu sempre avuta più in onore, epperò fu bene ricompensata.

Qui non gli mancano vari esempi dalla storia. Una scienza indeterminata e variabile non può mai essere davvero scientifica. Tale è la legge degli atti umani, in cui è impossibile dire universalmente un vero: anzi è utile in certi casi particolari osservare l'opposto di una legge (°).

I forestieri che entrano nella cittá, sono puniti: ma se questa è assediata, ed entrano per liberarla, sono degnidi premio. Cne leges cariantui secundum locorum commoditutes et ad libitum hominum. Leges enim Ju-stiniani in Gallia nihil culent. Aristotele nel V dell'etica le rassomiglia alle misure del vino e del frumento. Simi-liter non naturalia et lumana justa non eadem ubi-que. Dopo aver distinto la inedicina come scienza da quella come arte, osserva che gli scicnziati medici non solo fanno gli esperimenti, ma ricercano le cause di essi dalle cose naturali. E se ad Esculapio gli Ateniesi, ad Antonio

Musso i Romani per avere sanato Ottavio Augusto ere:-sero una statua di bronzo, che cosa dovremmo fare noi a Gerardo Bolderio di Verona, principe tra i moderni

medici? (').

Osserva clie i legislatori dei suoi tempi sono privi di cultura e li disprezza, perclé non conoscono le scienze morali, nè quelle dell'anima. Tali non furono gli antichi legislatori, come Solone ed Aristotele, che erano periti nella scienza naturale. Dopo aver riferita l'autorità di (icerone nella pro Murena, in cui dice che se Servio Sulpicio aprese dritto civile, non perciò trova aperta la via al consolato, mette in ridicolo alcune glosse che si trovano nel codice giustinianeo (*).

Fra le risoluzioni delle difficoltà poste nella prima parte della discussione, noto questa. Sebbene la virtú siapreferibile alla vita nel genere dei costumi, perchè la morte è preferibile alla vita turpe, perché è più lodevole chi muore per virti di chi vive ozioso; pure nel genere della natura non è cosi, anzi è l'opposto, essendo preferibile l'essere alla virtú. E siccome, più essenziale è il genere di natura di quello del costume, è meglio vivere cle è il fine della medicina, che essere virtuoso che è il fine della legge. Acuta riflessione! Questa dissertazione mi è apparsa la più originale tra tutte, perché, oltre che è lasciata interamente la forma scolastica, essendo scritta in maniera molto spigliata e libera, è piena di osservazioni punto, sprezzabili ('). Né si dica che era usuale a quei tempi l'invettiva dei professori di vari studi contro i legisti, i quali erano decaduti nella stima jer l'aridità delle loro dottrine (*). Imperocchè il Vernia si mostra jiuttosto inspirato ad un altissimo concetto che è vero : cioè, che la scienza della natura è la sola che ci procaccia una felicita per le verità conosciute, le quali non sono variabili come le leggi umane. Comprendo che da essa risulta pure evidente lo stato di decadimento della giuri-sprudenza a quei tempi. Ma il Vernia indica pure il modo come rinsanguare quegli studi coll' estendere la coltura a quelle sorgenti, da cui puó fluire la vita del pensiero che era rimasta assiderata nella forma e nella parola.

La questione de paritus et lecilus è di poca impor-tanza: tratta se i gravi e leggieri inanimati, rimosso l'impedimento, si muovono localmente da se, o da altro.

Espone secondo il solito, le opinioni devianti da Aristotele e le confuta, quella di Averroe che é la stessa di Ari-stotele, e finalmente risponde alle obbiezioni. Platone che pose l'anima e le cose inanimate muoversi da se, è in opposizione ad Aristotele, che volle nissuna cosa poter muovere se stessa. Alberto disse muoversi per accidente; e che non ci è bisogno del movente nel moto naturale, ma solo nel violento: e questo è l'aria. Ma osserva che ogni moto ricerca per se il movente, e tali sono i gravi. Contro S. Tommaso che disse i gravi fin-maliter si muovono da se, ed effectire dal movente, dice che per il moto in atto ci è bisogno del movente in atto.

Neppure l'opinione di Gianduno che disse il movente essere la forma, e la materia la cosa mossa, sta benc, perché allora la forma sarebbe movente e mossi, perché il moto in atto è distinto dal motore. Alcuni teologi separarono la gravità dalla sostanza; e dissero clie l'ostia consacrata cade in giù come gravità, non come sostanza.

Ma questa opinione non è naturale: e non ne parla perciò ('). Egli dice che i gravi e leggieri, dopo che sono ge-nerati, si muovono da se, rimosso l'ostacolo, ai loghi naturali propri, e fuori di essi sono mossi dall'aria per l'impeto dato dal morente violento. I proiettili sono mossi dall'aria secondo Averroe, la quale è causa della velocita.

Imperocché il mobile in fine è più veloce, perché maggiore quantità d'aria lo segue nel fine, che nel principio.Lo stesso succede per l'acqua, perché aria ed acqua sono corpi interminati, indifferenti a qualunque figura, come non é dei solidi. Cosi si spiega, perché la balista percuote più a certa distanza che vicino, perché i raggi si uniscono nello specchio a certa distanza. E curioso che si mantiene più fedele ad Averroe che ad Alberto, il quale secondo lui non ha detto bene che i gravi sono mossi dal-l'impeto ad essi dato e non dall'aria e dall'acqua, perché i gravi misti terminati non sono nati a ricevere tali vio-lenze. Altrimenti un uomo getterebbe a maggiore distanza una piuma che un pezzo di ferro; locché è contro l'e-sperienza. E se il maestro Gaetano risponde, che avendo il ferro più materia, riceve più impeto e va quindi a may-giore distanza, gli osserva il Vernia che, data una pietra ed un pezzo di ferro della stessa quantita, il ferro dovrebbe andare a maggiore distanza. Cio proviene perché la mano si applica meglio alla pietra, che alla piuma (').

Questa dissertazione fa troppo desiderare la venuta di Galileo per isciogliere questo quesito della fisica che arri-luppo nel buio le povere menti aristoteliche (*).

Nella quinta dissertazione, un dentur unirersalia vea-lia, il Vernia è ancora pretto averroista, cioè sino algiugno del 1492. Espone secondo il solito le opinioni devianti da Aristotele e dal commentatore, poi quella di questi due, e finalmente risolve un numero immenso di obbiezioni. Dice che gli universali o sono concetti puri secondo Occam, ovvero sono reali secondo Burleo nel prologo della fisica; oppure ci è la via media in quanto sono reali nella cosa singolare e formali nell'intenzione.

Il Vernia prende lo stato della questione non dai primordi della discussione, ma dalle ultine forme che aveva assunte nella scienza ('). Perché il Burleo discepolo di Occam stando alla pura questione filosofica, aseva guardato più alla parte fisica dei generi e delle specie, ed Occam aveva ridotto la soluzione al puro nominalismo. Non crede dover fare lunga discussione sugli universali ante rem, parendogli fuori proposito pei tempi della scienza. Noi che camminiamo nella via media, dice lui, affermiamo che l'essenza di ogni cosa si può considerare doppiamente, cioè in se, e nella materia, in quanto è quell'aptitudo realis che nou è particolare, perche è una essenza non di unitá di numero, ma l'unità secondo l'aptiludinem communicabilitatis. È una comunità non di materia, ma di forma. Ed é appunto questa inchoulio formae che é reale. Cosi nello sperma non cessa mai la forma umana, fin tanto chie l'nomo si perfeziona. Altrimenti la forma sarebbe creata dal niente di se. Il Vernia è un fisico, e non può trattare la questione degli universali, se non dal lato della sua scienza. Essa si può dire che si identiticacon quella dei germi della vita, sino ad un certo punto.

Occam aveva sciolto la questione degli universali negando ogni esistenza astratta e tutto riducendo il loro valore al puro termine. Ma la specie non ha valore in se? Ecco il Burleo che ammette quest' universale nella specie : il Vernia lo chiama unita di forma che é increata, eterna, appunto per negare la creazione temporanea della specie.

La difficoltà era per l'anima intellettiva, ritenendosi che essa è creata prima e poi infusa nel corpo. Sebbene ciò, dice il Vernia, é secondo la mente dei sacri teologi, non è però secondo la mente di Aristotele ('). Poichè secondo Averroe nel settimo della metafisica non può uno stesso effelto essere prodotto da due agenti che non sono subordinati nell'operare, e che non concorrono aggiustata-mente allo stesso effetto. Cosi sarebbe di Dio e di un particolare agente nella generazione di Socrate. Epperó egli é di opinione clie la dottrina di Alberto a questo punto poco differisca da quella di Averroe. Il quale volle tutte le forme prodotte ed emanate dalla potenza della materia e non per creazione, la quale credette essere impossibile (°). Quindi l'anima intellettiva non è creata, maché la volle creata. Ma cio che ha esistenza preesistente, è al aeterno.

Il Vernia nella questione dell'anima vede la cosa secondo il fatto. L'uomo genera l'uomo per l'apretito naturale clie non può essere indarno. L'agente fa la

mil-

tazione, trasmutando la materia dalla potenza all'atto, non congregando due cose jer fare l'unità di un effetto: cosi si approssima alla creazione. La forma non si crei, ma si produce per generazione. La creazione de noco non gli va. La generazione non é per trasferimento secondo Anassagora, nè per le idee secondo Platone. Per Averroe quando succede la generazione, vi è qualche cosa che si completa: la forma è il termine di essa. La forma particolare è distinta dalla essenza che la include; jercio essa non si crea, ma si genera. Se Alberto dice che è creata dal niente di se stessa, rispondo che è jer accidente ge-nerata. E se soggiunge che incomincia ad essere de noco, rispondo anche dicendo non dal niente di se stessa, ma da qualche clie di se, cioè dalla essenza che è l'incoazio-ne ed il seme nella stessa specie. E coloro che non intendono queste cose, non hanno il cervello abilitato al bene, e non sono atti a filosofare secondo i principi di Aristotele ('), il cui assioma è dal niente niente farsi. La quale dottrina fu accolta da tutti quelli che parlano na-turalmente. Ottima confessione !

Ma osserva ancora che la forma della specie non è distinta da quella dell'individuo; perché nell'uomo vi è una forma particolare che si dice l'anima cogitativa. Nello sperma da cui si ha l'uomo, non si distruggono le parti di esso, ma si generano successivamente le forme dell'uono, finchè si perfeziona la forma umana. L'incoa-tivo sene non è una potenza subbiettiva, ma potenza formale, distinta dalla materia ('). Da ciò segue darsi gli universali reali. Anzi arriva a dire che tutte le specie rimangono in ogni ora, altrimenti tutto sarebbe corrutti-bile, locché appartiene al solo singolare. Perfino il concetto di finalità nella natura non lo ammette; poiché il fine è ens rationis, il quale è ben diverso dal processo naturale, che non dipende dall'anima nostra. L'incoazio-

ne è reale, dice più prima, é nella materia, non è nell'intuizione delle cause agenti (*). Segue una immensità di obbiezioni che tralascio per brevità: qualcuna solo voglio menzionare. Con questa teoria in ogni uomo vi sarebbe qualche che dell' asino; risponde : in potenza vi é questa indifferenza della specie, in atto no. (3) Essendo questi universali separati dall'individuo, non vi sarebbe la necessita dell'intelletto agente. Risponde: questo essere necessario a produrre nell'intelletto jossibile mediante i fantasmi le intenzioni dell'intelletto in atto. Nota poi con Alberto che questi universali incorporei sono sempliciquiddità ulique eristentes, come la quantità indetermi-nata. Infine a Burleo che nega gli universali nella mente, altrimenti si andrebbe all'infinito nei concetti comuni, e cosi non vi sarebbero principi primi della scienza, rispon-de, che il concetto dell' essenza in ratione entis è singo-lare, in ratione signi è comunissimo. Un uomo e un uomo sono lo stesso rutione signi, ma differiscono mate-rialiter. Per questa dottrina egli si avvicina di molto ad Occam che è un puro terminista; ritiene con lui gli universali nella mente rutione signi, e combatte Burleo clie li negó nella mente: ma ritiene con costui la realtà degli universali come enti obbiettivi, che nego l'Occan.

In questa dissertazione vi è del buono, vi è del fal-so. Ad ogni modo è la ultima manifestazione del suo averroismo. Il Vernia nega la creazione perché riconosce in natura la sola generazione: ed arriva sino a toccare la questione nebulosa della generazione spontanea colla dottrina della indifferenza dei generi. Non fa eccezione per l'uomo e neinmeno per l'anima cogitativa, dicendola una specie non diversa dall'individuo, un' accidentalità della natura, per cui non ci è bisogno della creazione de noco. Nega l'infondersi dell'anima nel corpo umano secondo S. Tommaso, reputando sufficiente la generazione per l'appetito naturale inerente all'uomo. Questo è il lato più vero dell'arerroismo professato dal Vernia. E se ritiene gli universali separati dai singolari in quanto sono in se, non è meraviglia che sia costretto ad ammettere anche l'intelletto agente che completa nell'uomo la cognizione. Il Vernia mi pare proprio sospeso tra il cielo e la terra, tra la scolastica antica a cui non può dare un totale addio, e la nuova dottrina della realtá della natura di cui ne ha qualche presagio. E certo peró, che se altro scritto mancasse a conoscere qualche valore negli studi naturali, questa quinta dissertazione è la più valida prova del suo talento negli studi filosofici. Con questa dissertazione quinta preceduta dall'altra, se il cielo èanimato, inedita, il Vernia chiude il suo averroismo il più deciso. E si noti che è una dissertazione pubblicata dopo il 1479 in cui fu minacciato della scomunica; cioé nel giugno del 1402 ovvero tre mesi prima della sua ritrattazione, due mesi prima del trattato de intellecte del Nifo, che ne era il preludio.

Nel 26 ¡gosto (') e nel 18 settembre (°) dello stesso anno, 1492, arviene, che discepolo e maestro, cioe il Nifo prima e poi il Vernia scrivono due trattatelli contro l'unità dell'intelletto di Averroe.

Il trattato de intellectu del Nifo è molto più lungo: maci sostara e quine di io iu pablicato nel 1503, cosi quello del Vernia vidde la luce nel 1499. Il Naude ha detto che il de intellecte di Nifo fu prima di quello de unitrle del Vernia (3). É vero, perché nella dedica del libro a Sebastiano Baduario, patrizio Veneto, dice che gli avevabe procurato di stamparla, se non ci fossero stati gli invidiosi che lo accusavano di eresia. Da ció si è argomentato che nel 1491 il Nifo aveva giá fatto il trattato; e che avendo diteso il Vernia, si attirò sopra di lui accuse di eresia; epperò fu costretto a pubblicarlo nell'anno dopo, avendolo prima del tutto emendato (').

E questo ha potuto essere sino al Giugno del 1492, quando il Vernia era ancora averroista. Ma mutatosi d'opinione il maestro, si muto anche lo scolaro (%). Ki-mane la difficoltà rispetto al Vernia, che è maggiore di quella del Nifo, come dopo più di due mesi soltanto cambio opinione, cive da averroista addivenne antiaveroista col trattato de unitute intellectus contro Averroe. Di cosi subitanea mutazione la causa dovette essere la scomunica del Barozzi fattasi sentire un po' più efficacemente.

Che il Nifo ricerette dal Vernia l'indirizzo fondamentale dalla sua ritrattazione, risulta non solo dall'andamento del libro de intellecte nel tutto insieme, ma anche da un'al-tra circostanza che c' induce a credere cosi. Il Nifo confessa nella dedica del commento de anima (') al Giulio cardinale dei Medici, che tutte le cose raccolte sul de anima da lui fin da quasi fanciullo gli furono rubate e stampate a sua insaputa e col suo nome, acciocché la cosa fosse più verosimile (). Si capisce che queste cose raccolte furono sotto scuola del Vernia. E se il de intellectu a confessione del Nifo si intende per il commento de anima, e deve succedere a questo, ed è giudicato il primo parto suo giovanile, è ragionevole supporre che l'un e l'altro libro sieno stati inspirati dal suo maestro nei punti principali della ritrat-tazione.

Percorriamo ora brevemente la sesta dissertazione, per vederne il contenuto. Dice che Anassagora, Esiodo, Senofane, Melisso e Parmenide convengono nel porre che sia lo stesso Dio e l'anima intellettiva: unico Dio, unico intelletto. Di qui nacque l'errore di Averroe e di altri peripatetici che dicono uno essere l'intelletto in tutti.

Democrito e Leucippo non facendo differenza tra senso ed intelletto, ammisero l'anima fatta di atomi. Empedocle volle l'anima composta degli stessi principii delle cose, perché conosce queste cose. Costoro dunque ammettono l'anima generabile. Riferisce l'opinione di Pitagora che pose l'anima immortale per la metempsicosi, e di Platone che disse l'anima da Dio creata, infusa nei corpi. Ma Ori-gene secondo S. Tommaso volle l'anima creata de noronon eterna, rinchiusa nel corpo pel peccato originale.

Avicenna che ammise l'immortalità, disse le specie non causate dai fantasmi per l'agente intelletto, ma clie questi dispongano l'anima a ricevere le specie. Dopo ciò, magna discordia inter peripateticos, perché in Aristotele non si trova sciolta né la prima ne la seconda questione, cioe an anima intellection sit forina substantiulis humani corporis, utrunce sit in eo felicitabilis.

Alessandro ammise l'anima intellettiva essere eterna, e pose l'intelletto agente e possibile come eterni. Averroe non avendo conosciuto il horo dell'anima di Aristotele, disse l'intelletto possibile corruttibile, ed intese per intelletto possibile l'anima cogitativa. Ma se è immortale l'agente, tale è anche il possibile. La sua attitudine a tutto ricevere è in consonanza colla libertà. Qui ci è una esposizione delle ragioni per cui Averroe ammise l'unita dell'intelletto; perché è impossibile l'infinita moltitudine d'intelletti, perché non non vi è moltitudine nella stessa specie se non per la materia, perché è impossibile la creazione. E subito dopo una imprecazione ad Arerroe.

Conchiude coi peripatetici più famosi che tra Platone ed Aristotele non ci è discordia, se non nelle parole, e che l' anima sia sostanziale dans esse forinaliter corpori hurano, moltiplicata in singulis hominibus, ab acteï-no creata a deo et corporibus infusa. E ciò secundum sacrosanctam Rom. Ecclesiam et veritatem. Ma ci è qualche cosa di più: sostiene che queste cose non solo bisogna credere ex fide, sei philosoplice, non dicendo nulla di contrario ai principii di Aristotele. Arriva ad ascrivere ad Aristotele anche la creazione: locché é la cosa più strana per il Vernia, che a questo profosito si era cosi decisanente espresso cessario cambiarne altre con quella connesse. Ritiene perciò che all'anima non conviene mutazione per l'acquisto della scienza. Per l'unione ai fantasmi è l'universale co-

nosciuto. Ma il singolare non può essere conosciuto prima dall'intelletto, ma solo dal senso in cui vi è mutazione.

Nega quindi al Gianduno che l'intelletto per conoscere l'universale abbia prima bisogno della conoscenza del par-ticolare; altrimenti vi sarebbe mutazione nella scienza, e quindi alterazione nell'intelletto. Cosi spiega che l'inten-dere è per reminiscenza. Similmente circa la indivisibilità dell'anima, il cui opposto ammise Averroe, Osserva che se l'anima non fosse tale, l'uomo non sarebbe lo stesso da mane a sera. Un altro inciampo era, come l'anima intellettiva dá l'essere al corpo umano. Crede una stoltezza l'affermare col Gianduno che non può avvenire se non jer miracolo, che una forma inestesa dia l'estensione.

Qui intanto anche lui si rifugia alla fede, ut fideles po-nunt. Finalmente ne dimostra la immortalità: ciò che é indebilitabile per la esistenza dell'oggetto, è immortale.

L'intelletto è tale: è eterno, come gli universali, non è organico, jerché la sua operazione non è corporea. Un argomento spesso riprodotto dal Pomponazzi, è questo : non si va da un estremo all'altro senza un mezzo. Tri la forma astratta e la nateriale ci è la media che dá l'essere alla materiale: e jer questo conviene colla be-stia, ed è incorrutibile come la celeste natura. In mezzo a tante difficoltà che tratta, egli è però convinto che lasoluzione si trova nella fede: e e Platone si accostò alla verità, non la vidde completamente. Sei soluin ficiles inspirationis lemine fidei illuminati ceritatem attingere complete, et soli complete salisfuciunt omnies poesi-

tis in his difficultatibies.

Da questa dissertazione si vede che il Vernia mostra di aver perduto ogni vigoria speculativa, ed ogni connes sione stretta di pensare. Ed essa si può piuttosto accettare come una confessione di fede, anzi che come una vera tesi scientifica. Il rifugio nella scienza era S. Tommaso, od un Platonismo cristiano. Tale era l'intonazione che aveva dato il Bessarione venendo in Italia: e questa si seguito piuttosto a Firenze, che a Padova. E nissnn dubbio che questo indirizzo lo segue il Vernia. E credo che gli faceva coin-modo per levarsi dagli impicci che gli dava il Baroz-zi, e perché desiderava il canonicato di Aquileia, al quale avrebbe trovato ajerta la via con tale pubblica con-tessione. Ma, siccome è troppo difficile abbandonare quelle idee che sono state il nutrimento di un giovane intelletto; cosi anche qui si vede in mezzo alle imprecazioni ad Averroe ed alle eccessive dottrine di fede, una tendenza a mitigare l'averroismo, cioè a con-temperarlo colle dottrine della chiesa. Ed il Barorzi gli dice nella lettera di risposta che lui la fatto bene di fare questo opuscolo, sia che senta cosi, sia che no, perché la sua autorità è grandissima. E lo paragona a S. Paolo con-

vertito; ma pure il sospetto sulla sua fede non cessó to-talmente. Epperò egli replica la sua confessione dopo pochi mesi dalla pubblicazione del suo opuscolo nel suo testamento.

Il Nifo nella età giovane imito in tutto il suo mae.tro nella tarda etá colla sua barcollante fede nell' arerroi-smo. Cosa che il Pomponazzi gli osservò bene nel de-fensorium. Che autorità ha quest'uomo (ei dice) che mentre ora segue l'unita dell'intelletto che noi diciano essere di Averroe, prima l'ha condannata! Allude appunto al trat-se il sistema secondo il Bessarione, di non avere nissun criterio proprio. E nella prefazione al de Anima egli professa col Bessarione (') che né Platone ne Aristotele arrivarono perfettamente alla fede ortodossa; ma in loro si osserva una parvenza della nostra religione, che poi il creatore per mezzo della dottrina del suo figlio rivelò più manife-stamente. Le sentenze perció di Platone e di Aristotele si debbono accomodare a quella di Cristo. Tale fu il Ver-nia nell'eta decrepita, e tale il Nifo nella gioventi.

Il sistema era molto commodo non solo a non avere disturbi quali ebbe il Vernia, ma anche ad aprirsi una via sicura agli onori che la chiesa impartiva. Era il tempo della simonia allora: una fede anche larvata ci voleva semj re, come scala alle lucrose onorificenze.

Noi non ci meraviglieremo delia confessione del Ver-nia, o meglio della sua ritrattazione, perclé ancle il povero Pomponari fu obbligato a confessare che gli argomenti del Padre Crisostomo, dell'ordine dei predicatori, contro il suo trattato de immortalitale erano fuori ogni dubbio. E si obbliga che il suo libro non puù esser venduto senza quella aggiunzione! Solo ci possiamo meravigliare del suo discejolo che seppe imitare a proprio vantaggio ció che fu un tratto di deboleza senile del suo maestro, senza aver mai dato in tutte le sue 44 opere un lampo di ingegno un po' libero e meno servile alla chiesa.

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