Wednesday, May 29, 2024

Grice e Vigna

 1. Bisognerebbe oggi parlare piuttosto di metafisica del male comune… Siamo infatti

dinanzi ad un certo tramonto del politico, almeno nell’Occidente post-industriale: lo siamo

nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito in sé ciò che una volta era,

almeno in parte, contenuto della sfera politica; ma lo siamo soprattutto nel senso che il

compito politico sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti non di rado tradito da

coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una sorta di processo di disseminazio-

ne di progettualità creativa in seno alla società civile sembra corrispondere una sorta di di-

scredito e di scetticismo quanto alla sfera politica. La sfera politica sembra non riuscire più

ad occuparsi della cosa comune ed essere diventata, piuttosto, il luogo di una distribuzione

corporativa delle risorse. Quando non si giunge, come ad esempio in Italia (ma certo non

soltanto in Italia), a forme molto gravi di corruzione e di spreco. Il cittadino medio tende

perciò a ritrarsi dalla politica o semplicemente cerca di profittarne.

2. ��������������������������������������������������������������������������������������������� Di fronte all’ingestibilità della progettualità politica, e pure di fronte al discredito del-

la politica, si capisce perché vi sia un generale movimento di conversione dai fini ai fondamenti

della comune convivenza. Ma questa conversione a me pare, in realtà, non tanto una con-

versione dalla progettualità politica all’amministrazione della società civile, quanto una

qualche conversione dalla politica all’etica.

3. Ci si è convertiti all’etica, quasi per esaurimento della sfera politica: questo ho appena

suggerito. Ma l’etica non pare offrire uno spettacolo diverso dalla politica, nonostante oggi

la si chiami fuori, l’etica, per dirimere, quasi giudice supremo, i conflitti tra il politico, il so-

ciale e il privato; anche l’etica, infatti, ha i suoi problemi, né suscita consensi facili, quando

si va a determinare caso per caso che cosa può dirsi garantito dall’etica. Sono note ad es. le

polemiche sulla bioetica, tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche per le

sue immediate ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque mettere sul conto della

nostra quotidianità una eclisse anche dell’accordo sulle convinzioni etiche? Così pare. E il

multiculturalismo spinge nello stesso senso. Fino a qualche decennio fa la trasgressione

prendeva di mira la legge politica (si ricordi la temperie sessantottina); oggi quel tipo di

trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto, presa di mira anche l’etica. Cito solo un

sintomo, ma vistoso: ciò che si discute con sempre maggiore frequenza è la possibilità di

stabilire regole per tutti che siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche

sul piano “etico”. L’area anglosassone, più sperimentata in fatto di multiculturalismo, ha

avanzato non poche proposte in tal senso. Ma bisogna pur dire che ogni formalismo con-

venzionalistico contiene in sé il difetto radicale di valere tanto per le cose buone quanto per

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Carmelo Vigna

quelle malvagie (anche una organizzazione mafiosa rispetta una serie di convenzioni...),

sicché serve solo a scansare il problema fondamentale, anzi che a risolverlo. Ed è qui che

il bisogno di stare al sostanziale tende alla compensazione dell’etica, lmeno nel senso di

ricorrere ad elementi o frammenti di rimandi all’etica, per ottenere coesione e consenso.

Una certa fiducia nell’universale rispetto dell’essere umano e un certo rimando ad una fede

paiono non di rado un collante più potente di qualsiasi considerazione ideologica, visto

anche il discredito su larga scala patito dalle ideologie novecentesche.

4. Eppure, dell’etica e della politica, in realtà, nessuno può fare a meno. L’etica e la

politica, come tutte le cose “necessarie” per la vita degli uomini, si raccomandano da sole.

Come tutte le cose “necessarie”, l’etica e la politica ricompaiono e persino dominano anche

là dove le si vuole a tutti i costi esorcizzare. Solo che tutte queste cose prendono vesti di-

verse da quelle di una volta: tendono a frantumarsi in molti rivoli o assumono andamenti

carsici. Per esempio, l’etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura o

riscatto del femminile, lotta per l’integrazione delle etnie o sostegno per gli emigranti e gli

emarginati. Comunque, quando e a misura che appaiono onorate, queste dimensioni del

senso della vita umana sembrano rendere possibile la convivenza, perché esse si presenta-

no come custodi di ciò che accomuna gli esseri umani nel profondo. Più di quanto accada

alla semplice fattualità dell’ethos. L’etica e la politica sembrano qualcosa di infinitamente

più prezioso dell’ethos. Sono in effetti il giudizio sull’ethos a partire dalla verità del desi-

derio umano, se intendiamo per ethos ciò che appare come la realizzazione storico-fattuale

di tale desiderio.

5. Abbiamo evocato la “verità” a proposito del desiderio umano. In realtà, l’etica e la

politica, sono solitamente intese come il luogo del riferimento all’”oggettività” normativa.

Ma l’”oggettività” qui che cos’è, se non la “verità” di quel che il desiderio del singolo o

della collettività desidera? Una certa eclisse dell’etica e della politica, in particolare, sem-

bra l’eclisse della consapevolezza di questo legame originario con la verità dell’esistenza.

E allora? Come far fronte a questa “sfida” paradossale del nostro tempo, che vorrebbe fare

a meno dell’universale verità, proprio mentre la invoca per governare la frammentazione

delle esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando non poco, io azzarderei questo tipo

di risposta. Un codice universale di natura semplicemente teorica, cioè veritativa, sembra

diventato di fatto improponibile. Questo non significa che sia impossibile. Significa sempli-

cemente che la cultura dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca e

non lo vuole. In fondo, ne dispera. Eppure, tenta di rimediare a questo fallimento epocale

mediante la ricerca di un codice pratico. È degna di rilievo la circostanza che gli “ultimi fuo-

chi” della “fondazione” di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale, di tipo etico-

pratico (cfr. ad es. le proposte di Apel). Ma anche la fondazione dell’eticità, purtroppo, è…

un che di teorico. Perciò non funziona più di tanto. Ossia: anche l’etica e la filosofia della

politica dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout court, forse perché nella

pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La pratica è “reale”, si pensa, o

è almeno la riconduzione del pensiero alla realtà (laddove la teoria è la riconduzione della

realtà al pensiero e quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione soggettiva).

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Per una metafisica del bene comune

Ma non ci si illude anche da questa parte? È possibile. E tuttavia la pratica, come alter-

nativo terreno di intesa, sembra più efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale

tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più di quanto non

accada alla teoria, che soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione.

6. ����������������������������������������������������������������������������� Ma una maggiore approssimazione al nostro obbiettivo richiede una manovra ag-

giuntiva. Noi dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono praticamente convenire,

ossia ciò che li può praticamente accomunare. Orbene, ciò che tutti desideriamo è almeno

questo: d’essere riconosciuti e onorati nella nostra umana soggettività. Detto in altri ter-

mini, ogni soggettività umana chiede d’essere riconosciuta come un orizzonte di senso

inoltrepassabile, cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via del logos che la

informa. Ma le soggettività sono molte. E come è possibile che più orizzonti intenzional-

mente infiniti coesistano? Non si riesce facilmente a capire proprio questo. Sulle prime, più

infinità, per quanto semplicemente intenzionali, sembrano incompossibili. L’una sembra

togliere all’altra proprio tale carattere (Sartre). Di qui l’impulso al conflitto e quindi alla po-

tenziale esterminazione dell’altro. E in effetti l’esito è inevitabile, se ogni soggettività viene

innanzi esigendo, anzitutto, dall’altra il riconoscimento della propria trascendentalità. Cioè

imponendolo. L’altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così entrambe le soggettività

finiranno per lottare per la vita e per la morte. Non così, se ogni soggetto, anziché esigere

d’essere riconosciuto nella sua trascendentalità, viene innanzi offrendo, anzitutto, il proprio

riconoscimento della trascendentalità dell’altro. Non così, se l’altro, riconosciuto, viene in-

nanzi riconoscendo a sua volta la trascendentalità del primo. Poiché la trascendentalità in

tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta, accade che ognuna delle due coscienze

sia riconosciuta dall’altra. E poiché ognuna liberamente riconosce, resta nella propria tra-

scendentalità anche quando lascia essere l’altra allo ste4sso modo. Due trascendentalità,

così chiasmaticamente incrociate, non sono più incompossibili, anzi si sostengono e si ali-

mentano a vicenda. L’inciampo dell’ostilità reciproca è qui tolto in via di principio.

7. �������������������������������������������������������������������������������������� Il primo codice universale e il più efficace è dunque il principio del reciproco rico-

noscimento. In effetti, il principio del reciproco riconoscimento è il codice universale più

praticabile: un gesto di riconoscimento può esser fatto da chiunque lo voglia.

8. ����������������������������������������������������������������������������������� La sequenza che ho sinora esposto si può riassumere così: possiamo tornare alla po-

litica solo se transitiamo per un’etica del riconoscimento reciproco. Ma il riconoscimento

reciproco implica inevitabilmente trattare ogni essere umano come fine in sé. Cioè come

qualcosa di inoltrepassabile. Cioè come libero dall’ambiguità delle relazioni di dominio.

La vita umana non può che abitare questo luogo, se andiamo alla sua regola secondo ve-

rità. Ma come in concreto si struttura la salvaguardia della vita umana nella società civile?

Credo che si possa agevolmente rispondere a questa domanda riproponendo nel giusto

ordine tre grandi convinzioni che da tempo immemorabile gli esseri umani hanno tentato

in un modo o nell’altro di onorare: la libertà del gesto, che fa dell’azione una azione umana

nella sua dignità, la mira del bene, che riscatta la libertà da possibili ambiguità, la giustizia

del gesto che fa della mira del bene una questione non solo della vita del singolo, ma an-

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Carmelo Vigna

che della vita di tutti. Vediamo partitamente queste tre convinzioni, che rendono possibile

l’umana convivenza come società civile e che devono essere protette dall’umana convivenza

come società politica.

9. Il primo breve discorso che vorrei fare è quello sul bene1, perché sono convinto del

fatto che dal bene cominci propriamente la possibilità di una determinazione equilibrata

delle altre due parole: la libertà e la giustizia e perché il bene custodisce in sommo grado

la natura sacro-santa della vita umana. La vulgata precedenza della libertà sul bene e sulla

giustizia è in realtà un capovolgimento della vera sequenza teorica. Dobbiamo tale errata

precedenza alla modernità. Essa compare con solennità epocale per la prima volta nelle

parole d’ordine della rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, fraternità. Da allora in poi

ha fatto, purtroppo, molta strada. Dico “purtroppo”, perché sono dell’avviso che, comin-

ciando dalla libertà si onora un essere umano, ma solo cominciando dal bene lo si orienta

in modo conveniente nei suoi propositi di vita, singolare o collettiva. E un essere umano è

libero soprattutto per questo, per confrontarsi col bene. Il bene è infatti il fine d’ogni azione

e nella vita pratica tutto prende senso dal fine.

10. ��������������������������������������������������������������������������������� Ma lasciamo i discorsi formali e veniamo a qualche considerazione un po’ più con-

tenutistica. Chiediamoci, anzitutto, perché nel corso della modernità il bene è stato gra-

dualmente messo da parte (il grande discrimine è il Kant della Critica della ragion pratica).

La risposta a questo interrogativo è nota ai metafisici – solo la richiamo – ed è duplice.

Prima parte: il tema del bene è stato accantonato, perché strettamente legato all’ontologia

metafisica, da Kant in poi (v. Critica della ragion pura), per comune convinzione, considerata

impossibile. L’ontologia metafisica, veicolata, specialmente da Wolff in avanti, come un

sapere sistematico, con l’aura dell’assolutezza, era simbolicamente accostata, in termini

politici, a qualcosa come la monarchia assoluta e/o il papato. Ma questo, in molti spiriti

liberi, significava inevitabilmente dispotismo, autoritarismo, inquisizione e simili. La mo-

dernità è rappresentabile, da questo punto di vista, come la rivolta della soggettività contro

un simile apparato, in nome d’un nuovo fondamento di senso: la soggettività medesima,

cui appartiene essenzialmente l’attributo trascendentale della libertà. Il cogito cartesiano

inaugura questa stagione, anche se l’emergenza della figura della libertà è da addebitare

alla stagione illuministica.

11. Ma vediamo l’altra parte. Nella modernità il riferimento al divino, cui il bene era da

molti secoli, in ultima istanza, rapportato, si attenua fortemente e gradualmente; dall’Uma-

nesimo in avanti, viene innanzi, e anche occupa per intero lo scenario, l’essere umano con

il suo mondo. Il contenuto del bene diventa proprio questo. Non è, il bene, sparito dalla

circolazione delle idee: ha solo mutato nome. E del resto non poteva sparire, perché fa parte

del modo in cui necessariamente viviamo. Dunque, il bene della soggettività moderna in rivol-

ta è la soggettività medesima: in versione singolare o in versione comunitaria. Troviamo l’espres-

sione più netta della rotazione di senso nella prima e nella terza parola della sequenza della

1 Mi permetto rimandare al vol. da me curato, AA. Vari, La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998 e spec. al

mio saggio su Bene e male. Una riconsiderazione, ivi, pp. 55-80.

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Per una metafisica del bene comune

rivoluzione francese: la “libertà” e la “fraternità”. A seconda che si propenda per il primato

dell’una o dell’altra parola, si avrà nel seguito il liberalismo o il collettivismo. Da allora, a

mio avviso, non è cambiato molto su questo terreno. Tutti i pensatori etico-politici moderni

e molti dei pensatori contemporanei si schierano tendenzialmente da una parte o dall’altra.

12. Direi che questa “vulgata” ha per ora pochi avversari. Ma a breve le cose potrebbero

cambiare. Timidamente si fa innanzi presso alcuni post-moderni (ad es. Foucault) e presso

alcuni esponenti radicali del pensiero verde (v. Bateson, ad es.) l’oltrepassamento della cen-

tralità del soggetto e dei soggetti, in direzione di un paganesimo cosmicizzante. Nietzsche

è il piccolo padre anche di questa nuova ondata. La cosa era forse in certo modo prevedibile.

Una volta eliminato il Dio della metafisica e della religione, il piccone della critica si è anda-

to esercitando, anzi si è andato accanendo sulla portata trascendentale della soggettività, e

ne ha decretato la fine. E allora, cosa può diventare riferimento ultimo del senso, messo da

parte Dio e l’uomo, se non il cosmo, che è poi la terza della grandi parole della metafisica,

ancora presenti nella critica kantiana come indicazioni sistematiche ideali?

13. Questa recente direzione di marcia lavora sulla fine della soggettività trascendentale

forse anche a partire da un certo fascino indotto dalla vita materiale: la durezza delle di-

namiche economiche, apparentemente incontrollabili; il trionfo della tecnologia, dilatabile,

si opina, senza limiti; il fascino della biosfera, che fa sognare una sorta di unità mistica

quanto alle forme di vita, compresa la vita umana; la rete mediatica che influisce poten-

temente sui costumi e produce condotte eteronome di massa, l’enorme flusso migratorio,

che relativizza tutto ciò che la soggettività singola ha costruito come propria storia. La

soggettività moderna, insomma, ne sembra schiacciata. Marx pensava ancora di mettere

innanzi la grandezza della specie umana per governare la storia. I contemporanei si sono

arresi, quando anche questa variante consolatoria è fallita. Le voci che fanno dell’umanità

un giocattolo in balia di mani più forti, come sono quelle della tecnologia o quelle delle

forze naturali, sono sempre più ascoltate.

14. ������������������������������������������������������������������������������������� Personalmente, resto scettico di fronte ai tentativi di oltrepassamento dell’orizzon-

te della soggettività in una neutra oggettività. Neutra, poi, non proprio, perché si colora

subito di irrazionalità, arbitrarietà, crudeltà e cinismo. Nietzsche ancora una volta ha già

predetto l’essenziale, cioè ha visto in anticipo la deriva di ciò che segue alla “morte di Dio”.

Egli voleva reagire a questa deriva, con un rinnovato umanesimo. E noi siamo forse ancora

al punto in cui egli si era fermato; dobbiamo, cioè, capire che fare quanto al nostro destino

di umani, ora che cominciamo a nutrire seri dubbi sulla capacità nostra di governare la

terra.

15. Chiedersi da che parte andare è lo stesso che chiedersi qual è il nostro bene, il bene

per noi post-moderni. S’intende: trattandosi del nostro bene, si tratta del bene non solo

di un singolo, ma anche dei molti e in una società pluralistica. Si tratta del bene comune

dell’intera umanità. A guardare le cose un po’ dall’alto, vien da dire che oggi bisognerebbe

decidere quale delle tre grandi parole della metafisica prima citate può interessare una so-

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Carmelo Vigna

cietà pluralistica come riferimento di senso. Dico “può interessare”. Faccio, in altri termini,

un discorso di “persuasività”, non un discorso di stretta “verità”. Se dovessi fare un discor-

so di stretta verità, dovrei molto semplicemente affermare che il primo e, in certo senso,

l’unico oggetto degno dell’attenzione originaria di un essere umano è l’Assoluto. Cioè,

solo Dio è degno, in ultima istanza, dei nostri desideri e dei nostri pensieri. Nessun altro

e nient’altro. La stragrande parte degli uomini, in modo più o meno rozzo o più o meno

sofisticato, pensa spontaneamente così e in qualche modo cerca di onorare questo modo di

pensare. L’enorme impatto sulla faccia della terra delle convinzioni religiose è lì a testimo-

niarlo. Solo una sparuta minoranza, in realtà, per lo più abitante dell’Occidente opulento

e post-industriale, si permette, a questo riguardo, forme insistite o incistate di scetticismo

a trecentosessanta gradi. Se si vuol fare, tuttavia, un discorso di persuasività etico-politica,

cioè un discorso che si fonda su una serie di evidenze abbastanza facili da percepire per

i più, allora il discorso sul bene in una società pluralistica non può che essere centrato sugli

esseri umani. Non certo sulla natura, la quale deve essere, sì, oggetto di cura, perché è il no-

stro “grande corpo organico”, ma, appunto, di una cura subordinata alla cura degli umani;

non, purtroppo, su un Dio trascendente, perché non tutti lo riconoscono, perché di Lui,

comunque, nulla possiamo sapere in linea puri intellectus, eccetto l’esistenza sua, e quel che

ne diciamo quanto alla sua essenza, ci divide più di qualsiasi altra cosa. Insomma, resta

l’uomo come fine. In termini etico-politici, cioè di pragmatica possibilità di stringere accordi

potenzialmente universali, una impostazione come quella ad es. di Hans Jonas potrebbe

essere accettabile. Ma studiosi come Rawls o Habermas propongono strategie simili. Del

resto, se questo primato antropologico venisse perseguito a fondo, sarebbe più facile per

molti sentire in cuor proprio il bisogno di volgersi all’origine ontologico-metafisica della buo-

na qualità dei rapporti tra noi, anche perché una parte, almeno, dell’umanità sicuramente

continuerà a testimoniare il nesso tra la pratica della fraternità e il rimando inevitabile ad

una suprema e universale Paternità. Lì abita in ultima istanza il sacro-santo della vita. Ma

qui devo lasciare in sospeso il tema, perché andrebbe nel senso della teologia politica, su

cui è bene che sia altri a dire.

16. �������������������������������������������������������������������������������������� Ora andiamo al tema della giustizia. Come è noto, l’etica pubblica si divide tra i so-

stenitori del primato della giustizia come elemento procedurale e formale dell’architettura

della convivenza umana e i sostenitori del primato del bene o dei beni come acquisizione

“sostantiva”. Lo abbiamo accennato prima. Io credo, invece, che si tratti di due “cifre”, la

giustizia e il bene, per nulla alternative, anche perché entrambe “originarie”.

17. Se ben si riflette, appare sufficientemente chiaro che il giusto è un certo rapporto, men-

tre il bene è il termine di un rapporto. Giusto, poi è il rapporto buono, mentre il bene non si

risolve semplicemente nel rapporto giusto. Il rapporto giusto è solo uno dei beni possibili.

I due significati, dunque, non sono propriamente equivalenti (il bene, ad evidentiam, ha una

estensione maggiore), anche se l’uso linguistico tende a trattarli quasi in modo sinonimico2

.

È vero, piuttosto, che essi in qualche modo si determinano a vicenda, perché il bene non

2 È anche evidente che l’oggetto cui ci si rapporta è più importante del rapporto. Il rapporto è una realtà inten-

zionale, mentre il bene è una realtà ontologica. Naturalmente, anche la realtà intenzionale è in qualche modo

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Per una metafisica del bene comune

può prescindere da un certo rapporto e il giusto non può fare a meno del riferimento al

bene. E tuttavia, se è vero che il bene non può fare a meno d’essere un rapporto, ciò che

nel determinare il bene importa è, in primo luogo, la natura dell’oggetto cui ci si rapporta;

parimenti, se il giusto non può fare a meno di una relazione ai beni (questo è specialmente

evidente nella giustizia di tipo distributivo, ma poi appare anche in quella di tipo commu-

tativo), la natura del bene è per il giusto relativamente indifferente. Si può stare nel giusto

con beni piccoli o con grandi beni. Conta, appunto la natura del rapporto, cioè che si tratti

di un rapporto in cui non manchi l’uguaglianza (commutativa o distributiva che sia).

18. Che ne è della giustizia in una società veramente civile? La domanda importa che

si trovi un rapporto giusto per tutti, indipendentemente da una certa identità culturale. Ora,

che cosa è anzitutto giusto per qualsiasi essere umano? Ossia: quale rapporto un essere

umano giudica come tale che non viola le proprie attese originarie di giustizia? La risposta

obbligata mi par questa: per un essere umano è anzitutto giusto o ingiusto ciò che concerne

l’immediato rapporto suo con gli altri esseri umani. E il rapporto giusto è il rapporto che

rispetta, anzi onora e quindi si prende cura della soggettività nella sua trascendentalità; è

il rapporto che lascia essere gli esseri umani come tali, cioè non li riduce a oggetti manipo-

labili; è il rapporto, per dirla kantianamente, che tratta un essere umano sempre anche come

fine e mai come semplice mezzo. Abbiamo già detto che questo, universalmente praticato, è

proprio solo del rapporto di riconoscimento reciproco, perché solo nel riconoscimento reci-

proco le due (o più) soggettività si lasciano essere come tali. Bene e giustizia, dunque, qui

convengono. Soltanto qui. E questo per il fatto che l’essenza di un essere umano è d’essere

un rapporto. Egli è, dunque il bene del rapporto e, nel contempo, il rapporto del bene, se

si rapporta riconoscendo. S’intende, secondo le forme della finitudine. Non ho inteso, con

ciò, dimenticare la complessità e la difficoltà di trovare criteri appropriati per la giusta di-

stribuzione dei beni della terra. Non v’è dubbio che il concetto di giustizia passa, innanzi

tutto e per lo più, per questa pratica quotidiana. Ma la giusta distribuzione dei beni non è

che l’effetto, in parte, e in parte l’individuazione simbolica del giusto rapporto tra noi, che è,

appunto, il rapporto di riconoscimento reciproco.

19. Giustizia dunque come riconoscimento della dignità di un essere umano, delle sue

opportunità d’ingresso alla vita e del suo onesto disegno di fioritura. È a questo punto che

può cominciare l’istruzione del tema della libertà. La libertà non può che essere l’ultima

delle tre parole, e non la prima. Questo non significa che essa non sia altrettanto originaria

delle altre due. Significa solo che è ordinata alle altre due, mentre non è vera l’affermazione

reciproca. Lo smarrimento di quest’ordine, che direi onto-etico, è forse una delle più grandi

sciagura della modernità. E noi viviamo ancora sull’onda di quella deriva. I moderni han-

no fatto della libertà una magica parola, cui tutto dovrebbe essere sottomesso; ma la libertà,

come prima ho ricordato, fa la dignità del gesto di un essere umano, non ne fa, da sola, la

bontà, anche per il fatto incontestabile che esistono, e come!, gesti di libertà cattivi.

qualcosa e quindi ha una valenza ontologica, ma l’ha di seconda battuta. Un po’ come accade alla verità rispetto

all’essere.

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Carmelo Vigna

20. Una società veramente civile è possibile pensarla, solo se si oltrepassa la convinzione

moderna del primato assoluto e incondizionato della libertà e si accede al primato assoluto

e incondizionato del bene di e per ogni essere umano (che comprende di certo anche la sua

condizione di libero, ma non si riduce a quella). Né basta dire che la mia libertà finisce,

quando comincia la libertà dell’altro, che è lo slogan più noto della tradizione liberale.

Non basta, anzitutto, perché questo slogan confligge teoricamente con l’idea del primato

incondizionato della libertà. La libertà dell’altro invocata come limitante è, infatti, un bene

dell’altro; quindi la libertà è limitata, come dev’essere, dal bene e non è affatto incondizio-

nata. Solo il bene lo è. Non basta poi perché, riducendo il bene dell’altro alla libertà dell’al-

tro, si tace di tanti altri beni dell’altro che devono costituire, anch’essi, un limite alla mia

libertà. Non è sufficiente, infatti, che l’altro sia libero. Se l’altro è libero di morire di fame, e

io sono libero di mangiare a crepapelle, la mia libertà è la maschera penosa e vigliacca di un

delitto. Io mi approprio in esclusiva dei beni della terra che sono comuni e di fatto escludo

l’altro che ne ha gli stessi diritti. Così lo lascio morire.

21. ������������������������������������������������������������������������������������� C’è un senso, tuttavia, secondo cui la libertà può esser concepita come incondiziona-

ta, ma non è il senso difeso dalla tradizione teorica liberale: io la chiamo: la libertà del bene,

cioè la libertà di fare il bene3. Qui la libertà è incondizionata, perché gode, per una sorta di

simbiosi, dell’incondizionatezza del bene. Poiché in una società veramente civile, la libertà

come arbitrio non può avere solo l’altrui libertà come limite, ma deve avere come limite

tutti i diritti dell’altro, compreso certo anche quello della sua libertà, per questo l’umana

libertà deve farsi carico di tutto ciò che la giustizia invoca per l’altro. È questa la ragione

per cui le società liberali sono incapaci di essere veramente civili, nonostante l’abbondanza

delle dichiarazioni in contrario. Esse dimenticano facilmente, o meglio, occultano il lato

della cura e della giusta promozione dell’altro e così proteggono di fatto le situazioni di-

scriminanti, che sono poi la radice permanente della conflittualità endemica. La situazione

nordamericana è un esempio per molti versi eclatante. Sotto il manto della libertà, mes-

sicani, asiatici e neri praticano in massa gli umili mestieri che consentono ai bianchi una

vita agiata. Sono liberi d’esser poveri… Più o meno come accade in Italia per la fascia degli

immigrati extracomunitari.

22. Se la libertà del bene guida l’azione, allora la mira è il bene dell’altro, cioè l’altro come

bene. È anche il mio bene, ma di me come l’altro di un altro. Solo così io posso conseguire,

storicamente parlando, il massimo bene. Sulle prime, questa affermazione può parere per-

sino patetica: l’invocazione del “buon cuore” come regola di condotta in un mondo che il

pluralismo tende piuttosto ad indurire. Una riflessione accorta però è in grado di far vede-

re che il mio bene, cioè poi la mia fioritura di vita, può avere senso solo se il movimento del

desiderio verso l’oggetto a lui conveniente, il bene, appunto, compie il giro della referenza

immediata all’alterità e di quella all’identità in modo mediato. Mediato, appunto dall’alterità.

3 Rimando di nuovo al vol. La libertà del bene, cit., e stavolta spec. alla mia Introduzione, pp. 3-18.

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Per una metafisica del bene comune

23. Provo a tirare in breve le fila del mio discorso. Posso anche far presto, perché tutte

le fila conducono, come si è di certo inteso, allo stesso punto: alla cifra del riconoscimento

come forma regolativa dell’esistenza degli esseri umani. Una società veramente civile infatti

è possibile, se i molti si onorano reciprocamente, cioè appunto, reciprocamente si riconoscono. È

questo il senso primo (primo per noi) del bene comune. Nel reciproco riconoscimento, ognuno è

signore dell’altro (in quanto riconosciuto nella propria trascendentalità, quindi come oriz-

zonte inoltrepassabile di senso) e ognuno è servo dell’altro (in quanto riconosce nell’altro

la signoria del senso). Le forme democratiche di vita politica tendono ad approssimarsi a

queste dinamiche più d’ogni altra forma. Nella democrazia infatti l’autorità del cittadi-

no su un altro cittadino è o dovrebbe essere semplicemente di tipo funzionale. Tutti sono

eguali, cioè tutti sono signori, ma fatti signori gli uni dagli altri, mai da se stessi.

24. All’interno della cifra del riconoscimento, come regola universale, prendono un sen-

so determinato, come si è detto, tanto il bene, quanto la giustizia e la libertà come realiz-

zazione e, insieme, protezione del bene comune. Bene significa voler ciò che consente la

mia fioritura di vita; bene è dunque volermi bene, volendo bene altri come quegli che tale

fioritura in me rende possibile. Altri, naturalmente, solo che lo si voglia o, meglio, solo che lo si

creda, può essere scritto – dovrebbe anche essere scritto – con la maiuscola (la dinamica relazionale è

la stessa). Il bene comune in una società veramente civile è questo, essenzialmente. Giustizia

significa rendere ad ognuno ciò che gli spetta (unicuique suum). Ma ciò che spetta ad ognu-

no è anzitutto d’essere trattato come una soggettività (trascendentale). Cioè come un essere

umano in totalità. La reciprocità riconoscente è dunque il luogo della massima giustizia per

ognuno di noi. Libertà significa non arbitrio incondizionato, bensì libertà di fare il bene. E

poiché il primo bene, storicamente parlando, è l’esserci d’altri per me, libertà del bene vuol

dire di nuovo libertà di riconoscere l’altro come il mio bene. Come il bene che tutti accomuna

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